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Alla Scala una Carmen da leggenda

L'allestimento della Carmen di Bizet che ha inaugurato la stagione lirica 2009/2010 della Scala è, a mio parere, tra i migliori mai visti in questo Teatro negli ultimi decenni. Le contestazioni alla superba regia di Emma Dante riguardavano soltanto uno sparuto gruppo di persone probabilmente imprigionate nei soliti clichés scenografico-registici museali che ai giorni nostri non solo non valorizzano il libretto e la musica, ma spesso li appiattiscono e li mortificano. Sono infatti convinto che anche la regia d'opera deve essere figlia del tempo in cui è stata concepita, a condizione però che la cifra stilistica e drammaturgica dell'allestimento sia sempre, sul piano concettuale, coerente e pertinente, soprattutto quando le vicende narrate sono attualizzate o spostate nel tempo
Non ha più senso oggi allestire, per dirla con Barenboim, «un'espagnolade bon marché che non rende giustizia a un capolavoro come Carmen».
La scenografia (di Richard Peduzzi) è infatti sobria, priva degli orpelli che richiamano l'ambientazione originale. La vicenda si svolge in uno spazio delimitato da muri nudi, scuri, incombenti oppure in uno spazio completamente vuoto, abitato soltanto dai personaggi: «un Sud dell'anima», come lo definisce la regista, «immerso nella religiosità e nella superstizione, affollato di arredi sacri che tentano di ghermire la laica e libera Carmen».
Anche i costumi non evocano un'epoca precisa, ma sono funzionali dal punto di vista teatrale. Si pensi per esempio a Michaela, personaggio fortemente connotato in senso cattolico (è sempre seguita da un prete e due chierichetti che costituiscono una sorta di immaginario visibile): il suo costume nero nel momento in cui lei entra in una dimensione onirica, vagheggiando il matrimonio con Don José, si trasforma in un bianco abito da sposa («gli abiti nascondono un inganno: si aprono al desiderio, al sogno» afferma sempre la regista).
L'immaginario di Carmen è invece uno stuolo di guizzanti ragazzine che simboleggiano il suo desiderio di libertà. Significativo il fatto che non è Carmen a lanciare il fiore a Don José, ma una di queste ragazzine.
La netta contrapposizione Michaela-Carmen rende Don José un personaggio isolato, emarginato. Lo interpreta Jonas Kaufmann, tenore dal vastissimo repertorio e dalla solida preparazione musicale. La sua bellissima voce scura, baritonale, contribuisce a rafforzare l'idea registica di un personaggio come detto emarginato, insicuro, introverso, la cui violenza finale nasce soprattutto dalla sua fragilità. Il suo fraseggio è ricco di sfumature, di splendidi rallentandi e diminuendi, di emozionanti ripiegamenti melanconici o estatici, di marcati contrasti dinamici. Ricorda molto Placido Domingo, presente in sala...
Anita Rachvelishvili, 25 anni, appena diplomata all'Accademia della Scala, è stata la graditissima rivelazione della serata: grazie alla sua voce sontuosa, morbida, straordinariamente espressiva, il mezzosoprano georgiano delinea una Carmen prorompente, aggressiva, con tratti ancora adolescenziali che lasciano trapelare anche in lei fuggevoli momenti di insicurezza e fragilità.
Presenza scenica e vocale imponente quella di Erwin Schrott, nel ruolo di Escamillo. Pure notevole Adriana Damato nel ruolo di Michaela.
Barenboim trae dall'orchestra sonorità tese, asciutte, deprivate degli elementi espressivi più plateali, superficiali e stucchevoli. L'equilibrio tra golfo mistico e palcoscenico, estremamente arduo in quest'opera, è perfetto. Le geniali stratificazioni presenti nella partitura (l'esotismo, peraltro di pura invenzione, i registri drammatico e comico, i temi ricorrenti) emergono dall'orchestra, mirabilmente plasmata da Barenboim, senza mai ledere o compromettere la coesione musicale complessiva, di alta valenza esegetica.
Molto ben scelti i comprimari, ottimo il coro preparato da Bruno Casoni.
"Una Carmen da leggenda." Barenboim dixit. E come dargli torto?

Repliche fino al 23 dicembre.