GIORGIO PESTELLI

"Carmen" il capolavoro inaspettato

Con quest’opera Bizet trovò se stesso
ma la morte gli impedì di godersi
il trionfo mondiale




Nessuno dei primi lavori teatrali di Georges Bizet, per quanto attraenti e rifiniti, poteva far supporre l’esplosione del suo genio con l’assolutezza di Carmen; aveva girovagato nell’India dei Pescatori di perle e nell’Egitto di Djamileh ma, come disse una volta Giorgio Vigolo, «non aveva ancora imbroccato il suo mare»; aveva fatto il giro del mondo in un Oceano indiano da Salgari, mentre la sua meta era più vicina, quel Mediterraneo fra la Spagna e l’Africa in cui si muove la novella di Mérimée che accese la miccia dell’opera.

 

È vero: prima ci sono le splendide musiche di scena per l’Arlesienne di Daudet (1873), quasi prova generale di Carmen per la vicenda di un uomo legato a una fanciulla onesta tratto a rovina dal fascino di un’altra donna; ma qui alla freschezza dell’invenzione musicale e alla perfezione degli ambienti non corrispondeva ancora un’azione drammatica in cui identificarsi; in Carmen invece un solo atto della fantasia crea di colpo l’ambiente, il carattere e il destino della protagonista come elementi tutti annodati in un centro. L’autore stesso sembrò non sopportare il peso della folgorazione, morendo pochi mesi dopo la storica prima del 3 marzo 1875, senza sospettare il trionfo mondiale della sua creatura.

 

Con audacia temeraria Bizet aveva portato la storia di amore e morte di Mérimée (ambientata fra zingari, contrabbandieri, sigaraie che fumano in scena; e finita a coltellate) all’Opéra-Comique di Parigi, teatro sacro alla più edificante tradizione borghese, dove addirittura c’era l’usanza di imbastire i matrimoni della buona società; come prevedibile, l’effetto della «prima» fu talmente sconcertante che si risolse in un disastro. Ma l’opera rinasce due anni dopo a Vienna, anche se pesantemente trasformata nella forma esteriore all’italiana con recitativi al posto dei parlati originali; ma tant’è: Brahms la vide venti volte, il cancelliere Bismarck ventisette, Ciaikovskij se ne innamorò, come Saint-Saëns; Wagner, mai tenero verso i colleghi, esclamò: «Grazie a Dio, qui c’è finalmente qualcuno con idee in testa»; poi, più di tutti, c’è l’ammirazione di Nietzsche, che ci fondò sopra il suo mito mediterraneo, quello di un’arte vigorosa, rettilinea e di crudele rapidità; e davvero sembra incredibile che quella conturbante creazione abbia messo d’accordo un drappello di persone dai gusti tanto eterogenei. E la ragione è forse questa: che, proprio come Don Giovanni o Don Chisciotte, Carmen è un mito, è il simbolo di forze che ciascuno di noi porta dentro con sé, sempre rinascenti dal profondo senza mai raggiungere la compiutezza di una realizzazione definitiva.

 

Di qui l’avvicendarsi di varie versioni e la ricerca dell’originale: l’ormai vecchia edizione con i recitativi di Ernest Guiraud tradotti in italiano ha fatto viaggiare Carmen per il mondo, ma le ha tolto molto dell’agilità dello spirito di Merimée-Bizet; mentre la sedicente «edizione critica» di Fritz Oeser (1964) nel suo zelo di tornare alle fonti aveva ripristinato, con conseguenze grottesche, anche le sezioni che il genio critico di Bizet aveva soppresso. L’edizione attuale della Scala sembra essere la più attendibile oggi possibile, a cominciare dalla ripresa dei parlati originali; e questo punto è fondamentale, perché solo a partire dal livello comune del parlato il passaggio al canto raggiunge quell’effetto di fascinazione in cui consiste il fulcro di magìa e seduzione della protagonista.

 

Da qui dipende anche la natura ambivalente di un’opera che incomincia come un’operetta (alla «prima» si pensò addirittura di affidare la parte a Zulma Bouffar, la stella delle operette di Offenbach) e dalla quale poi scatta improvvisa la tragedia, ma sempre nel segno di rigore e rapidità. Qualcuno, ancora oggi, arriccia il naso di fronte alla musica zuccherina di Micaëla, alla spavalderia gallica di Escamillo, ai languori di Don José quando non è nella sfera di Carmen. Ma, come Wagner aveva subito capito, quella base di placidezza «francese» serve proprio a definire la contrapposizione con il vortice incendiario di Carmen.

 

La perfezione drammaturgica dell’opera sta nelle fulminee intersezioni fra quei due mondi morali opposti, quello demoniaco di Carmen risultando irrangiungibile alla «normalità» degli altri personaggi.Il teatro non ha fretta. Carmen apre una stagione che non poteva nascere prima d’ora. Erano necessari quattro anni di lavoro, dal mio arrivo alla Scala, affinché i molti tasselli di cui è fatto il teatro musicale potessero trovare una sistemazione equilibrata fra loro. La stagione 2009-2010 è quella che assomiglia di più alla mia idea di teatro, in cui la regia cerca una fusione con la musica alla pari, senza accontentarsi di ruoli decorativi e secondari. Abbiamo una galleria di direttori importanti: Abbado, Barenboim, Boulez, Chung, Conlon, Dudamel, Gatti, Harding, Luisotti, Mehta, Pappano, Salonen. Alla quale corrisponde una proposta di registi che entrano organicamente in ogni progetto musicale: Emma Dante, che firma questa nuova Carmen, Chéreau, Tiezzi, La Fura dels Baus, Nekrosius, Stein, Cassiers, Pelly.

 

Anche sul fronte del canto mi sembra confermato un altrettanto alto livello: Placido Domingo festeggia il 9 dicembre i suoi quarant’anni alla Scala con una serata di grande peso musicale; abbiamo Jonas Kaufmann ed Erwin Schrott in Bizet, poi Leo Nucci, Peter Mattei, Carmela Remigio, Alex Esposito, Nicola Ulivieri, Carlos Alvarez, Juan Diego Florez, Anja Harteros, RolandoVillazon. Li cito in ordine sparso e senza ricordarli tutti. Il Corpo di Ballo si rafforza sotto la guida di Makhar Vaziev, potendo contare su étoiles come Roberto Bolle, Massimo Murru, Svetlana Zakharova.

 

Gli artisti, insomma, mostrano di credere nel progetto musicale che è ormai delineato fino all’anno verdiano e wagneriano del 2013. Da che cosa nasce questa fiducia? Dalle cose fatte, naturalmente, e dal tempo che il teatro si prende per esprimersi. Un tempo che è in accordo con l’elogio della lentezza.

 © LA STAMPA TORINO