Negli anni attorno al novanta il Franzoni si invischia in elucubrazioni teoriche, attrattovi dalla sua stessa profonda cultura musicale e matematica, che lo porteranno a escogitare la riduzione della pittura in un'esoterica religione del numero e della musica; tenta anche di tradurre le dottrine scientifiche dell'ottica e dell'acustica in quella sua chiave, senza peraltro accettare le contemporanee soluzioni esteriori, divisioniste o puntiniste. Rimane fino all'ultimo profondamente pittore, affidato all'istinto, pur con la radicata fede nel valore e nel significato morale e umano della pittura quale forma suprema di messaggio lirico. Gli bastano piccole tavolette, frammenti di tela, superficie di materiali qualsiasi per cogliere quello che di infinito sente vibrare nell'anima delle cose, delle figure, del paesaggio; per confessare il suo stupore umano di fronte allo spettacolo della natura e della figura sentiti, d'un tratto, immobili, fuori del tempo, in un arcano silenzio che si scioglie nell'immensità del colore estatico, libero, trionfante. In questo sentimento del colore che diventa sostanza delle cose è un senso antico di meraviglia che il pittore è andato lombardamente scoprendo nelle tavole del Luini e soprattutto del Bramantino precedendo di quasi vent'anni, su questa via gelosamente nostrana, alcuni risultati che sono di Vuillard e di Bonnard. Sarebbe forse potuto nascere un simbolismo italiano, col Franzoni, se l'ambiente intellettuale milanese dell' ultimo ventennio del secolo fosse stato meno provinciale.
N
ell'atroce solitudine dell'asilo dei pazzi, nei momenti di lucidità, il pittore pensa ancora agli uomini, alla vita, alla sua Milano. Schizza figure per un «piccolo trattato di prospettiva elementare»; sogna «forme di pura matematica» per le lezioni all'Umanitaria. «Michelangelo, Leonardo, Dürer, Galileo, Archimede, Dante, Palestrina, Piero della Francesca - scrive - sono sempre stati i miei soli maestri. Ho dimenticato Beethoven» - aggiunge; e, più sotto - «credo che scrivere sia molto più conveniente che urlare». Ma nessuna mano pietosa ha raccolto i suoi scritti.
Un altro foglio sciolto reca, in grafia medianica: «giustizia innanzi tutto». Seguono i nomi dei grandi già ricordati sopra, cui aggiunge: «Rembrandt, Bacone, Shakespeare, Saffo, Cristo - tutti coloro che hai interrogato non ti dimenticheranno-sii superiore». La tragedia della follia nell'estrema lucidità, che aveva sfiorato, il Ranzoni a un capo del più aperto e sereno dei laghi lombardi, spegne il canto del Franzoni all'altro capo. I due pittori si erano incontrati, nell'ottantasei, sulle isole di Brissago, attorno a una donna di prestigiosa bellezza, a ragionare della 'consolazione della pittura' nell'immensa luce che esplode, si rifrange e si discioglie sul lago rovesciando ogni prospettiva in un'illusione atmosferica che fa si che nulla più è «lontano», nulla più è «vicino», ma tutto è solo colore luminoso, palpitante, surreale.
È là che Filippo diceva di voler
piegare la pittura alla condizione della musica in un concerto di toni e di valori e che si proponeva di raccogliere nel polittico lirico di infinite tavolette di colori, vibrazioni e toni diversi: figure, ritratti, nature morte, visioni, paesaggi, interni: la pittura «astrale» di cui il Pioda, nel novantacinque, diceva dover essere pieno lo studio che gli aveva fatto costruire in mezzo ai prati. [Gilardoni, pp. 61-62]

Il Franzoni, infatti, era uomo nato per la gioia di vivere, per la serenità, per il canto aperto: per adorare la donna, la natura, la società: non era affatto un misantropo né un maniaco come il pettegolezzo locale tentò di farlo apparire sfregiandone la figura. Un acquerello di Daniele Ranzoni lo ritrae, trentenne immerso nella lettura, accanto a una delle piu brillanti donne d'Europa, la baronessa di Saint-Léger, seduta al pianoforte.
I suoi abbozzi e gli studi giovanili accarezzano la grazia delle modelle; sono nudi pieni di vita in interni che paiono toccati dal Corot maturo delle tavolette segrete: una grande fede nell' uomo sorregge tutto il suo programma di pittore: anche la sua dottrina del valore q uasi musicale della pittura come numero, inteso con antico senso pitagorico, gli è suggerita dal profondo bisogno di comunicazione umana, universale.
Sarebbe importante, a questo punto, poter ricostruire le tappe dei suoi viaggi di studio a Monaco, a Venezia, a Parigi nell'ottocentottantotto e nell' ottantanove; ma non è possibile per ora; le note di un taccuino di quegli anni sono troppo scarne. Parrebbe di vederlo controllare solo i risultati dei pittori ufficiali inglesi e francesi del tempo, come per saggiare i limiti della propria audacia o, fors' anche, del proprio mestiere che continua a curare quando già ha inventato un proprio linguaggio lirico. Ammira «l'onda di Courbet al Louvre» ma non ha certamente notizie dell'ottava mostra collettiva degli impressionisti, di tre anni prima, né del «cloisonnisme» o del «synthétisme», né di Seurat, né di Ensor. Nell'ottantanove, ammira la «Galerie des machines» di cui annota le misure e la Tour Eiffel, che misura a passi, ma quasi certamente non s'imbatte nella mostra del gruppo impressionista e sintetista al Caffè Volpini e neppure nella mostra di Monet e di Rodin da Petit. Scopre un «Luini meraviglioso» al Louvre, gli «ex voto degli studenti per esami passati», il «modello della testa di Robespierre appena ghigliottinata» e una «tavola cabalistica repubblicana» all'Esposizione storica. Si direbbe quasi che la sua cultura pittorica si fermi al museo, ai grandi del passato di cui coglie le piu sottili vibrazioni dell'emozione pittorica. Ma si ritrae disgustato dalla pittura ufficiale dei contemporanei, italiani francesi e tedeschi. [pp. 45-47]

Purtroppo, la mostra postuma che da anni si sollecita a Milano e che avrebbe dovuto rivelare il Franzoni nel cinquantesimo della morte non poté aver luogo per la dolorosa scomparsa di Fernanda Wittgens che era pronta a turbare le acque stagnanti dell'omertà ufficiale per proporre alla cultura italiana il recupero del grande lirico della pittura lombarda.
Se soltanto ricerche nuove e più fortunate potranno condurre alla rivalutazione critica del Franzoni sul piano europeo, il suo inserimento nel panorama della pittura lombarda dell'ottocento è però più agevole: qui,il confronto con la pittura contemporanea non richiede il rigoroso regesto cronologico dei quadri, oggi ancora prematuro.
La pittura del Franzoni strappa infatti d'impeto l'arte lombarda al gusto dell'aneddoto piccolo borghese: la materia del Piccio, del Fontanesi del Ranzoni del Gignous del Gola assurge nella concezione franzoniana a un'intensità lirica ed etica che mai piu s'era vista forse, in Italia, dal tempo del Tiepolo. Questo solitario, singolare signore della pittura aveva raccolto, senza saperlo, un po' dell'eredità spirituale del Manet diventando il solo vero contemporaneo italiano del Degas, del Monet, del Renoir che si spengono tutti dopo di lui.
Dipinse persino lune ossessionanti come quelle di Van Gogh, di cui ignorava l'esistenza, in tavolette vibranti di toni bruni che non sarebbero dispiaciute a Daumier. Ma non seppe certamente nulla degli impressionisti anche se chiamò «impressioni» alcuni suoi quadri. Nell'ottantanove, dopo essere stato a Monaco e a Venezia, si recò a Parigi per visitare il Louvre. Già attorno all'ottanta aveva confidato a un foglio il significato delle proprie ricerche: «l'astratto mi fascina, il concreto mi annoia », dove è tutto il suo singolare programma di vita. «Isole-toi - scriverà poi su un taccuino -l'abstrait te parlera». Non lasciamoci tuttavia fuorviare dal francese: il meneghino Franzoni che ama recitare interi canti del Porta, quasi col gusto sottile di calpestare l'ambiente aristocratico milanese da cui in realtà non esce mai completamente neppure abbandonando Milano e assaporando il fascino di nuove rivoluzioni liberatrici, scrive talvolta in francese, con una certa punta quasi polemica, ma dipinge con la coscienza di risvegliare l'arte lombarda dal suo lungo torpore. [pp. 55-56]