FILIPPO FRANZONI
1857- 1911


HANS HUBER E OTTO HEGNER
NEL 'FREUNDESKREIS' DI FILIPPO FRANZONI


LAURETO RODONI
Filippo Franzoni pittore europeo
A Casa Rusca di Locarno aspetti inediti o poco
noti riguardanti il grande pittore locarnese


BIOGRAFIA

Già nel 1968 Virgilio Gilardoni nel magnifico volume su Franzoni («a distanza di oltre quarant’anni rimane l’opera di referenza per ogni serio lavoro di ricerca sull’artista», scrive Edgardo Cattori nel catalogo della mostra) denunciava, con indignazione e sconforto, «l’ingordigia dei raccoglitori e dei trafficanti di provincia» che, subdolamente, riuscirono a nascondere il trafugamento di centinaia di opere, schizzi e documenti dall’atelier del pittore subito dopo il ricovero nel manicomio di Mendrisio, avvenuto nel 1909, due anni prima della morte. Per questo motivo, ogni tentativo monografico su Franzoni (che comprenda biografia, cronologia, bibliografia e catalogazione) non poteva che essere rinviato al giorno in cui vi sarebbero stati «più civili condizioni di documentazione e di studio».
Nonostante le incresciose lacune imputabili alla grettezza umana, Gilardoni, in pagine di vibrante tensione etica ed esegetica, riconosce nell’opera franzoniana «l'esito forse più alto della pittura dell’Ottocento italiano nel paesaggio e nel ritratto» e colloca l’artista locarnese in una posizione «preminente nella storia della pittura europea, tra il momento di
Daumier e di Corot e quello di Bonnard e di Vuillard».
Piero Bianconi in un sapido saggio del 1984 lo definì come uomo: «di intrepido coraggio morale, inflessibile nella sua rettitudine» e come pittore: «instancabile e insaziabile nel travaglio creativo» a motivo della sua «natura incontentabile e interrogativa, ossessionata dal mistero». Ma mise in rilievo anche gli aspetti dolorosi della sua figura (nel testamento redatto nel 1896, Franzoni augurava a tutti la pace che non aveva mai potuto conseguire): una figura che nutriva sentimenti contrastanti di amore-odio nei confronti della città che dal 1893 aveva scelto come sua dimora: «J’ai le dégoût de Locarno et je crois que si je restais encore longtemps je deviendrais complètement crétin.»
Oggi i tempi sembrano maturi, grazie alla Fondazione Franzoni costituita nel 1987 (che ha impedito lo smembramento e la dispersione di opere e documenti) e all’acribìa metodologica e investigativa di Edgardo Cattori e dei suoi collaboratori, per una rivalutazione critica che comprenda anche un solido, documentato studio biografico e una catalogazione ragionata dell’opera del pittore. Il percorso che permetterà di illustrarne «la fulminante unicità poetica» (Testori) è ancora lungo e impervio ma lo studio approfondito dei taccuini (pubblicati in volume proprio quest’anno) e la superba mostra allestita a Casa Rusca, denso preludio alla mostra antologica prevista nel 2012, lasciano ben sperare.
La pittura di Franzoni, scrisse Gilardoni, «precede di una generazione gli esperimenti della pittura mitteleuropea». Basti pensare all’autoritratto allucinato esposto nella sala d'esordio della mostra, definito da Testori «un capolavoro assoluto, uno dei quadri più squassati, brucianti e profetici» del primo Novecento. Un autoritratto che sembra drammaticamente anticipare gli esiti più tormentati dell’espressionismo tedesco. Ancor più sconvolgente da questo punto di vista, l’autoritratto ‘gemello’ (probabilmente di poco posteriore e pubblicato, a mia conoscenza, soltanto nella monografia di Bianconi) «d’un grigio allusivo alla cenere degli anni» con lo sguardo «di un uomo abitato da oscuri démoni, senza più pace, sulla soglia della follia».
Non è dato sapere se Franzoni avesse conoscenza della coeva produzione pittorica nordica, di Ensor, Gerstl e Munch, in particolare. Probabilmente no, illeso com’era dalle mode del tempo («Non pensare ad altri pittori mentre dipingi, confronta quello che fai tu col vero», annota nel 1879 nel taccuino milanese) e fedele soltanto al suo linguaggio più personale. Ciò renderebbe ancora più straordinario il suo itinerario artistico caparbiamente solitario.
E come non pensare, a questo proposito, alla Stimmung visionaria che sembra accomunare, senza che si conoscessero, Boccioni e Franzoni. Come Boccioni, Franzoni era alla ricerca di un modus pingendi che privilegiasse il carattere per l’appunto visionario, onirico ed emotivo della pittura. Ma per raggiungere questo obiettivo era necessario allontanarsi dal ‘vero’: «Sacrifica il dettaglio all’insieme», scrisse nel citato taccuino milanese e, tra appunti sconnessi vergati molti anni dopo in manicomio: «L'astratto mi fascina. Il concreto mi annoia.» Forse Franzoni avrebbe sottoscritto l’affermazione boccioniana: «L'opera d'arte deve vivere di vita propria e indipendente dagli episodi infiniti che ci passano innanzi.» Come Boccioni, era alla ricerca di un linguaggio sinestetico, acutamente intuito in alcuni dipinti da Piero Bianconi come «brusìo di colori e di forme» e «variopinto e odoroso formicolìo». Scriveva Boccioni nei primi anni Dieci del Novecento: «L'occhio umano percepirà il colore come emozione in sé… Le opere pittoriche saranno forse vorticose architetture sonore…» Come non ricordare a questo punto l’intuizione di Gilardoni? Franzoni e lo scultore Medardo Rosso nella Milano degli anni Ottanta «sono le prime voci nuove che spiegano italianamente le future esplosioni formali - e morali - di Sant’Elia e di Boccioni.»
Oltre all’autoritratto nella sala d’esordio sono esposti altri capolavori: il ritratto di una ragazza erroneamente identificata come Margherita Massera, la domestica del pittore, una tela di sublime schiettezza stilistica, i ritratti infantili di Bruno Beretta e quello della madre: un dipinto di una perizia pittorica e di una intensità poetica che trova spiegazione soltanto nel profondo sodalizio etico e spirituale che univa Emilia a Filippo, documentato dalle folgoranti pagine del quaderno della madre: pagine che a Gilardoni apparivano composte come un testamento spirituale al figlio e in cui «spira il profumo del clima morale che ha animato tutta la vita del pittore».
Nelle altre sale sono esposti tre grandi dipinti della giovinezza franzoniana, insieme agli schizzi preparatori e ai documenti rilevanti per la loro interpretazione: La processione, Riva di Muralto e Reti. Con un attento esame del paesaggio condotto sulle fotografie, molte delle quali scattate dal pittore stesso, Cattori corregge madornali errori di datazione, gettando le basi per un’imprescindibile revisione della cronologia franzoniana: una revisione che permetta di determinare, per esempio, il periodo in cui il pittore si libera dai condizionamenti della sua formazione lombarda per approdare a un linguaggio più personale e lirico.
La processione, che non ha mai suscitato grande interesse negli studiosi del pittore locarnese, poiché considerato soltanto come un generico omaggio a una manifestazione di religiosità popolare, è stata sicuramente dipinta in tempi di poco successivi al 14 agosto del 1880: solo quel giorno, infatti, la statua della Madonna fu portata fuori del Santuario. L’opera risale quindi al periodo in cui Franzoni era studente all'Accademia di Brera (1876-1884) e non a metà degli anni Ottanta come si credeva finora. L’analisi tematica, con la spavalda figura di popolana in primo piano che suscita reazioni di sconcerto nel chierico che apre la processione, evidenzia poi le implicazioni anti-clericali presenti nel dipinto e mai finora rilevate.
L’esame stilistico, il confronto con fotografie d’epoca e l’analisi di documenti coevi permette ai curatori di retrodatare Riva di Muralto alla metà degli anni Ottanta e di identificarlo con la tela esposta alla Permanente del 1893, nonostante le riserve di Gilardoni.
Infine i curatori dimostrano come il soggetto della tela Lungo il lago, andata dispersa, coincida con quello di Reti esposto nella mostra.
Tutto ciò illustra «una maturazione, per quel che concerne lo studio del paesaggio, che va anticipata di almeno tre anni rispetto a quanto proposto finora», con conseguenze non trascurabili sulla cronologia complessiva del pittore.
Nelle altre sale della mostra sono esposti documenti che riguardano i rapporti complessi e conflittuali di Franzoni con Locarno, la sua passione per la musica, l’amicizia con intellettuali e artisti (tra cui Leoncavallo), il suo apporto (decisivo) alla costruzione del Teatro di Locarno che ebbe un notevole impatto sulla vita culturale della città. Spassosi infine gli schizzi dei taccuini che documentano il suo acceso anti-clericalismo.
Questa mostra rappresenta un preziosissimo contributo per approfondire la conoscenza di un pittore che, trent’anni prima di Modigliani e dei futuristi, «portò la pittura italiana a un approdo europeo» (Gilardoni).



ERRATUM - CORRIGE: Franzoni è morto il 27 febbraio 1911


LAURETO RODONI
Due musicisti svizzeri
nel 'Freundeskreis' di Filippo Franzoni

Il commediografo locarnese Alberto Pedrazzini (1852-1930) nel commosso necrologio dedicato a Filippo Franzoni e pubblicato alcuni giorni dopo la morte del pittore (avvenuta il 27 marzo 1911) scrisse: «L'arte ebbe in lui un appassionato cultore anche in altro dei suoi campi sterminati: la musica. .. Tutta la scuola classica gli era famigliare; notti intiere vegliava a conversare ne le delizie di quei sommi, in compagnia di interpreti famosi, quali un Otto Echner (in realtà Hegner) e un Hans Huber.»
Huber fu il massimo compositore svizzero tra Ottocento e Novecento. Oltre alla scarna testimonianza di Pedrazzini, nulla si sa sui suoi rapporti con Franzoni. Sono state purtroppo infruttuose le mie recenti ricerche alla Biblioteca Universitaria di Basilea (UBB), dove è custodito l’ampio Archivio Huber. Sull’amicizia tra Hegner e Franzoni (che il pittore ritrasse in alcune pagine di taccuino, in un pastello e in un dipinto a olio) Virgilio Gilardoni si sofferma brevemente nella monografia dedicata al pittore locarnese, senza fornire notizie biografiche.
aSecondo Gilardoni la prima testimonianza dell’amicizia tra Hegner (erroneamente definito ‘pianista berlinese’) e Franzoni risale al 1897, anno in cui il musicista (ventunenne) annuncia al pittore di tornare a Locarno «pieno di nuove idee sull’arte». E lo storico ticinese ipotizza ragionevolmente che si tratti «delle prime avvisaglie della secessione viennese di Klimt o della fondazione dello Jugendstil a Monaco».
Otto Hegner fu fanciullo prodigio. Nato il 18 novembre 1876 a Basilea, esordì all’età di 11 anni nella sua città. Tra il 1888 e l’89 compì, accompagnato dal padre, alcune acclamatissime tournée in Gran Bretagna, Germania, Canada e Stati Uniti, queste ultime documentate da alcuni articoli del New York Times (che lo definì ‘a musical prodigy’, ‘wonder boy’, ‘extraordinarily gifted’) e da cromolitografie che lo ritraggono al pianoforte (in una di queste accompagna la soprano Adelina Patti). Una sua esibizione alla St. James Hall suscitò l’ammirazione di William Steinway, figlio del fondatore della storica ditta costruttrice di pianoforti Steinway & Son. Lo nomina spesso nel suo Diario su cui il 17 maggio 1888 scrisse: «Hegner suonò splendidamente suscitando molti applausi». In occasione della chiusura della Steinway Hall (1890), il New York Times accostò il pianista quattordicenne a interpreti leggendari come Teresa Carreño, Moritz Rosenthal e Eugen d’Albert. Di quest’ultimo, dal 1893, divenne allievo (ne parla in una lunga lettera a Huber conservata alla UBB).
Fu tra il 1904 e il 1905 insegnante al Conservatorio di Francoforte (dove tenne alcuni concerti) e successivamente in quello di Amburgo. Sposò Marie Günthert di Vevey (che poi divenne moglie del compositore russo di famiglia svizzera Paul Juon).
Secondo Piero Rattalino da adulto Hegner ‘non mantenne le promesse’ ed è forse per questo motivo che è difficile trovare informazioni sull’attività di concertista dopo il 1890.
Tra il 1889 e il 1903 fu molto impegnato a Basilea (dove nel 1900 incontrò Ferruccio Busoni [cfr. Lettere alla moglie 25 e 27 febbraio 1900]) come interprete di prime esecuzioni di musiche da camera di Hans Huber, spesso accompagnato dalla sorella Anna (1881-1963), violinista di fama che fu nel 1907 insegnante di Paul Hindemith.
Finora sconosciute le cause della morte prematura (aveva poco più di trent’anni) ad Amburgo il 22 febbraio 1907.
Ma in che modo Franzoni poté entrare in contatto con Hegner? Probabilmente proprio attraverso Hans Huber che soleva trascorrere i periodi di vacanza in alberghi a Locarno e a Villa Ginia a Minusio.
Personalità eminente della vita musicale svizzera, basilese in particolare,
Hans Huber nacque a Eppenberg (Canton Soletta) nel 1852. Studiò composizione con Carl Reinecke a Lipsia. Fu notevole pianista e direttore d’orchestra, attività che interruppe all’inizio del Novecento per dedicarsi all’insegnamento, alla composizione e all’organizzazione di eventi musicali. Diresse la Società Corale (1899-1902) e il Conservatorio di Basilea (1905-1918). Fu musicista e intellettuale di alto profilo morale, umile, tollerante, aperto al nuovo, pur essendo intrinsecamente conservatore, incisivo e tenace nel promovimento delle attività musicali della sua città. Di rinomanza mondiale le due Masterclass di pianoforte che fece dirigere a Ferruccio Busoni nel 1910 e nel 1916 nel suo Conservatorio. Di Busoni divenne, durante l’esilio zurighese (1915-1920), uno dei più preziosi amici e confidenti.
Huber conobbe personalmente Wagner, Brahms, Clara Schumann, Max Reger, Richard Strauss. Fu amico, tra gli altri, di Hermann Hesse e Romain Rolland.
Su segnalazione di Camille Saint-Saëns, venne insignito nel 1920 della Légion d’Honneur.
Fu compositore prolifico versato in ogni genere musicale (dall’opera, all’oratorio, alla musica sacra, alla sinfonia, alla musica da camera). Di recente la casa discografica Sterling ha pubblicato tutte le sue otto sinfonie (tra cui la Tell-Symphonie e la Böcklin-Symphonie, che nel 1902 fu diretta da Felix Weingartner) e due dei quattro Concerti per pianoforte (il nº 1 e il nº 3). Huber dedicò il secondo proprio a Otto Hegner, che lo tenne a battesimo nel 1893 (il pianista aveva appena 17 anni). Si tratta di composizioni di solida fattura e felice invenzione melodica in cui è palese l’influsso dei Maestri dell’Ottocento che venerava: Mendelssohn («un modello, un esempio, per me pane quotidiano»), Schumann e Brahms. Composizioni più all’insegna del sentimento che dell’intelletto, come scrisse in una lettera a un amico musicista: «La creazione di un’opera d’arte richiede più ‘sentimento’ che intelletto. La vita è pure un’opera d’arte. Se per  questo motivo il ‘sentimento’ fosse più rilevante dell’intelletto nella mia vita, mi amereste meno?»
Nel 1920 compose una Missa festiva in honorem Beatae Mariae Virginis per coro maschile a tre voci e organo, dedicata alla Madonna del Sasso, nel cui Santuario si recava spesso a pregare.
Non stupisce di certo che Filippo Franzoni abbia potuto inastaurare rapporti di amicizia con un Kulturmensch di tale spessore. Anche per il pittore locarnese, come scrisse Romain Rolland a Huber: «L’art et l’amitié sont des terres inaccessibles aux troubles du dehors, des îles sacrées» (UBB).



ALCUNI DIPINTI


ISOLINO IN AUTUNNO
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LOCARNO SOTTO LA NEVE
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ALLA SBIANCA
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COMPOSIZIONE II
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INTRODUZIONE ALLA MOSTRA SUI TACCUINI


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