Mark Twain

IL PRINCIPE E IL POVERO

Due volte benedetta

è la dote della misericordia...

colui che dà e colui che prende benedice;

nei più potenti è suprema; si addice

al monarca sul trono più della corona.

(da Il mercante di Venezia)

Premessa

Scriverò un racconto come mi fu narrato da un tizio al quale era stato raccontato dal padre, che a sua volta lo aveva udito narrare dal proprio padre, cui, analogamente, era stato narrato dal suo e così via, più indietro e sempre più indietro nel tempo, per trecento anni e oltre, mentre i padri lo trasmettevano ai figli tramandandolo. Può fare parte della storia, può essere soltanto leggenda, una tradizione. Può essere accaduto davvero, può non essere accaduto, ma potrebbe essere accaduto. Può darsi che i savi e i dotti lo credessero vero nei tempi antichi; può darsi che soltanto gli ignoranti e i semplici lo amassero e vi credessero.

 

HUGH LATIMER, Vescovo di Worcester,

a LORD CROMWELL, in occasione della nascita

del PRINCIPE DI GALLES

(successivamente EDOARDO VI)

DAI MANOSCRITTI DELLA NAZIONE

 

CONSERVATI DAL GOVERNO BRITANNICO

 

Salutem in Christo Jesu, onoratissimo; mio Signore, minore felicitate ed esultanza non trovansi in questo reame, perché nato è il Principe nostro da noi così a lungo agognato, di quante ve ne furono (opino), inter vicinos, per la nascita di S.I. Battista, come testimoniarti potrà il latore della presente missiva. Concedaci Iddio la grazia di debitamente poter essere grati al Signore, Dio dell’Inghilterra, poiché, invero, egli manifestato si è quale Dio degli Inglesi, se ponderiamo e ben cogitiamo su tutte le grazie da Lui, nel volgere degli anni, concesseci. Con la carità Sua infinita, Egli sanato ha tutte le infermità nostre, ragion per cui come non mai è da parte nostra doveroso servirlo, cantarne la gloria, adempire la volontade Sua, purché non alberghi in noi il demonio. Giunto è il termine delle vane speranze e delle vane aspettative nostre; preghiamo adunque per la salvezza del Principe. Per parte mia il Signore implorerò affinché Sua Grazia sin dall’inizio giovarsi possa di maestri e consiglieri e funzionari di retto giudizio, ne optimum ingenium non optimâ educatione depravetur.

 

Ma quale folle insensato son io! Do prova invero, non di rado, di grande devozione, ma di scarsa discrezione! Sia dunque con Voi, sempre, il Dio d’Inghilterra, in tutte le azioni Vostre.

 

Il 19 di ottobre

 

dal Vostro H.L.B. di Wurcestere, ora a Hartlebury

 

Se rendere voleste questo scritto più sentito, o correggerne l’abuso di immagini, o in modo fare da promuoverne la sincerità, ciò esser potrebbe di giovamento. Come se non da me venisse, ma da voi stesso, et cetera.

(Indirizzata) Al Molto Onorevole Lord P. Sealle, suo particulare buon Lord.


1


La nascita del principe e del povero

Nell’antica città di Londra, in un certo giorno d’autunno nel secondo quarto del secolo sedicesimo, nacque un figlio maschio e indesiderato a una famiglia povera a nome Canty. Quello stesso giorno, un altro bambino inglese nacque, desiderato, a una famiglia ricca a nome Tudor. Anche l’intera Inghilterra lo desiderava. L’Inghilterra aveva per così lungo tempo anelato a lui, e sperato in lui, e pregato Dio per lui, che ora, essendo egli venuto per davvero, il popolo quasi impazzì di gioia. Persone, che si conoscevano appena, si abbracciarono e si baciarono e piansero. Tutti si concessero una vacanza, nobili e plebei, ricchi e poveri, banchettarono e danzarono e cantarono, e divennero molto espansivi; e in questo modo continuarono, per giorni e notti, tutti insieme.

Durante il giorno Londra era uno spettacolo a vedersi, con allegre bandiere sventolanti da ogni balcone e sui tetti delle case, e cortei fastosi lungo le strade.

Durante la notte, la città era ugualmente uno spettacolo, con i grandi falò a ogni angolo di strada e le turbe dei festeggianti intente a fare baldoria intorno a essi. Non si parlava d’altro, in tutta l’Inghilterra, che del bambino appena venuto al mondo, Edoardo Tudor, Principe di Galles, che, lambito da sete e rasi, dormiva ignaro di tutto questo trambusto, senza sapere, inoltre, di essere curato e sorvegliato da grandi signori e dame altolocate: e infischiandosene, per giunta. Ma non si parlava affatto dell’altro bambino, Tom Canty, avvolto nei suoi poveri stracci, se non nella famiglia povera che egli era appena venuto ad affliggere con la sua presenza.


2


La fanciullezza di Tom

Saltiamo un certo numero di anni.

Londra era una città antica di quindici secoli, e una grande città per quei tempi. Contava centomila abitanti, taluni ritengono il doppio. Le vie erano molto strette, e tortuose, e sudicie, specie nella parte ove abitava Tom Canty, una zona che non distava molto dal Ponte di Londra. Le case, fatte di legno, avevano il primo piano sporgente rispetto al pianterreno e il secondo che mostrava i gomiti più in là del primo. Insomma, quanto più arrivavano in alto, tanto più si allargavano. Consistevano in una struttura di robuste travi intersecate, con materiale solido nel mezzo, rivestito di intonaco. Le travi venivano verniciate di rosso, di blu o di nero, a seconda dei gusti del proprietario, e questo faceva assumere alle abitazioni un aspetto assai pittoresco. Le finestre erano piccole, chiuse da minuscoli vetri a forma di diamante, e si aprivano verso l’esterno su cardini simili a quelli delle porte.

La casa ove abitava il padre di Tom era situata in fondo a un lurido e angusto slargo, nel Vicolo Pudding, chiamato “Cortile dei Rifiuti”. Si trattava di una casa piccola, in rovina e traballante, ma era gremita di famiglie miseramente povere. La tribù di Canty occupava una stanza al secondo piano. Madre e padre riposavano in una sorta di giaciglio nell’angolo; ma Tom, sua nonna e le due sorelle, Bet e Nan, non erano confinati in un letto: disponevano dell’intero pavimento e potevano dormire dove volevano. Esistevano nella stanza i resti di una o due coperte e alcuni fagotti contenenti vecchia e sudicia paglia, ma non li si poteva a buon diritto chiamare letti, poiché non erano disposti in bell’ordine; venivano spostati a calci, così da formare un solo mucchio, ogni mattina, e poi, la sera, ognuno sceglieva a caso dalla catasta il suo.

Bet e Nan avevano quindici anni ed erano gemelle. Si trattava di ragazze di buon cuore, sporche, vestite di stracci e profondamente ignoranti. La madre somigliava a loro due. Ma il padre e la nonna erano diabolici. Si ubriacavano ogni volta che potevano; poi si azzuffavano tra loro, o con chiunque venissero a trovarsi tra i piedi; imprecavano e bestemmiavano continuamente, anche quando non avevano bevuto. John Canty rubava e sua madre mendicava. Erano riusciti a fare delle ragazze e del bambino degli accattoni, ma non a insegnar loro a rubare. Tra l’orribile canaglia che abitava nella casa, ma non facente parte di essa, si trovava un anziano e buon prete, che il re aveva privato di un tetto e di un focolare, conferendogli una pensione di pochi soldi; egli soleva appartarsi con Bet, Nan e Tom, e insegnare loro, di nascosto, la rettitudine. Padre Andrew aveva inoltre insegnato a Tom a leggere e scrivere nonché un po’ di latino, e si sarebbe regolato nello stesso modo con le ragazze, ma esse temevano gli scherni delle amiche, che non avrebbero sopportato in loro talenti così bizzarri.

L’intero Cortile dei Rifiuti era un alveare simile all’alloggio di Canty. Ubriachezza, risse e urli vi regnavano ogni sera e ogni notte, sin quasi all’alba. Le teste rotte costituivano la norma, come la fame, in quel luogo. Ma Tom non si sentiva infelice. Viveva miseramente, però non se ne rendeva conto. La sua esistenza era identica a quella di tutti gli altri ragazzi nel Cortile dei Rifiuti; per conseguenza lui supponeva che questo fosse il modo giusto e piacevole di vivere. Quando, la sera, tornava a casa a mani vuote, sapeva che suo padre avrebbe imprecato con lui per poi picchiarlo, anzitutto, dopodiché l’orribile nonna si sarebbe affrettata a fare altrettanto e di più. Quindi, durante la notte, la mamma, sebbene affamata, si sarebbe avvicinata di nascosto con qualche misero avanzo o qualche crosta di pane messi da parte per il figlioletto, a costo di soffrire la fame ella stessa; sebbene spesso venisse colta sul fatto mentre commetteva questa sorta di tradimento, e picchiata per punizione dal marito.

No, Tom tirava avanti abbastanza bene, specie in estate. Mendicava appena quanto bastava per sopravvivere, in quanto le leggi contro l’accattonaggio erano severe, e le pene gravi; pertanto il bambino trascorreva gran parte del tempo ascoltando le incantevoli antiche storie e leggende del buon Padre Andrew, a proposito di giganti e fate, nani e genietti, castelli incantati e splendidi re e principi.

La mente di lui finì con il colmarsi di queste cose meravigliose; e molte volte, la notte, Tom – mentre giaceva al buio sulla poca e scomoda paglia, stanco, affamato e dolorante per essere stato percosso – sguinzagliava l’immaginazione e dimenticava ben presto lo sconforto e le sofferenze raffigurandosi in modo delizioso la vita incantevole di qualche principe coccolato in un palazzo regale. Dopo un po’ di tempo, un desiderio finì con l’ossessionarlo giorno e notte: voleva vedere un vero principe, con i propri occhi. A volte ne parlava con alcuni compagni del Cortile dei Rifiuti, ma loro lo schernivano e lo deridevano tanto crudelmente che, in ultimo, Tom preferì tenere il sogno per sé.

Leggeva spesso i vecchi libri del prete, e se li faceva spiegare e commentare. A poco a poco, sogni e letture causavano in lui certi cambiamenti. Le persone che sognava erano così belle da indurlo a deplorare i propri stracci e la propria sporcizia, e a desiderare di essere pulito e meglio vestito. Continuava ugualmente a giocare nel fango e a divertirsi; ma, invece di sguazzare qua e là nel Tamigi soltanto per lo spasso, cominciò a trovare nella cosa un’attrattiva in più, in quanto gli consentiva di lavarsi e ripulirsi.

Tom riusciva sempre a trovare qualcosa di nuovo in corso intorno all’Albero di Maggio, a Cheapside, o alle fiere; e, di quando in quando, lui e gli altri abitanti di Londra, avevano modo di assistere a una parata militare allorché qualche celebre sfortunato veniva condotto prigioniero nella Torre, per via di terra o in battello.

In una giornata estiva, vide la povera Anna Askew e tre uomini bruciati vivi sul rogo a Smithfield e udì un ex vescovo tener loro una predica che non lo interessò. Sì, in complesso la vita di Tom era abbastanza variata e piacevole.

Alla lunga, le letture e i sogni di Tom concernenti l’esistenza dei principi esercitarono su di lui un effetto così forte che egli cominciò a comportarsi come un principe, inconsapevolmente. La sua maniera di esprimersi e i suoi modi divennero curiosamente cerimoniosi e cortigianeschi, causando grande ammirazione e divertimento negli amici intimi. L’ascendente di Tom su quei ragazzi finì comunque con il crescere di giorno in giorno, e, in ultimo, essi cominciarono a guardarlo con una sorta di stupito timore reverenziale, quasi egli fosse un essere superiore. Sembrava così istruito! E sapeva fare e dire cose tanto meravigliose! Le frasi di Tom e le prodezze di Tom vennero riferite dai ragazzi ai genitori e anche questi ultimi cominciarono a parlare di Tom Canty e a considerarlo una creatura estremamente dotata e straordinaria. Persone adulte prospettavano a Tom le loro perplessità affinché egli le risolvesse e rimanevano spesso stupite dall’ingegnosità e dalla saggezza dei suoi giudizi. In effetti, il ragazzo era diventato un eroe per tutti coloro che lo conoscevano, tranne i suoi familiari: soltanto questi ultimi non vedevano niente di straordinario in lui.

Privatamente, dopo qualche tempo, Tom organizzò una corte reale! Lui era il principe; i suoi intimi amici recitavano la parte di guardie, ciambellani, scudieri, gentiluomini e dame di compagnia, nonché della stessa famiglia del sovrano. Ogni giorno il falso principe veniva accolto con un complesso cerimoniale che Tom aveva preso in prestito dalle sue letture romantiche; ogni giorno, gli affari importanti del finto regno venivano discussi dal Consiglio reale; e ogni giorno l’immaginaria Sua Altezza emanava decreti concernenti gli inesistenti eserciti, la fantasticata marina e i sognati appartenenti alla famiglia del sovrano.

Dopodiché Tom andava in giro vestito di stracci, mendicava qualche soldino, mangiava una misera crosta di pane, subiva i soliti scapaccioni e rimbrotti, per poi coricarsi sulla sudicia manciata di paglia e ricominciare con le vuote grandezze nei sogni.

Ma il desiderio di vedere, sia pure una sola volta, un vero principe in carne e ossa continuava a crescere in lui, un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra, finché, in ultimo, assorbì ogni sua altra aspirazione e divenne l’unica passione della sua vita.

Un giorno di gennaio, durante il solito giro per mendicare, Tom arrancò scoraggiato avanti e indietro nella zona di Mincing Lane e di Little East Cheap, per ore e ore, a piedi nudi e gelato, contemplando le vetrine di una trattoria e anelando ai favolosi pasticci di maiale e ad altri fantastici manicaretti lì esposti; per lui, infatti, si trattava di leccornie adatte agli angeli; lo sembravano, cioè, a giudicare dal profumo, poiché non era mai stato così fortunato da averne e gustarne una. Stava venendo giù una pioggerella gelida; la luce era melmosa; una giornata malinconica. Quella sera, Tom tornò a casa talmente bagnato, e sfinito, e affamato che persino a suo padre e a sua nonna riuscì impossibile notare lo stato pietoso in cui si trovava senza commuoversi... a modo loro; infatti, lo scapaccionarono subito e lo mandarono a letto. Per molto tempo, la sofferenza, la fame, e le imprecazioni e le risse che continuavano nella catapecchia lo tennero desto; ma infine i pensieri di lui fuggirono verso remote e romantiche contrade ed egli si addormentò in compagnia di principini ingioiellati e coperti d’oro che abitavano in vasti palazzi e disponevano di servi, i quali si prosternavano dinanzi a essi, o si precipitavano a eseguire i loro ordini. E poi, come sempre, sognò di essere un principino egli stesso.

Per tutta la notte lo sfarzo della sua condizione regale splendette su di lui: egli si aggirò tra grandi signori e dame, in una vampata di luce, aspirando profumi, ascoltando musica meravigliosa e rispondendo ai rispettosi inchini della folla splendente che si apriva al suo passaggio, ora con un sorriso, ora con un cenno del capo principesco.

E quando si destò, al mattino, e contemplò lo squallore intorno a sé, il sogno ebbe l’effetto consueto: era riuscito a intensificare di mille volte il sordido aspetto di tutto ciò che lo circondava. Vennero allora l’amarezza, e lo strazio, e le lacrime.


3


L’incontro di Tom con il principe

Tom si alzò affamato, e affamato uscì di casa, ma con i pensieri ancora assorti negli splendori illusori dei sogni di quella notte. Vagabondò qua e là per la città, senza quasi accorgersi di dove stava andando né di quel che accadeva intorno a lui. La gente lo urtava e qualcuno lo apostrofò in tono aspro, ma tutto veniva ignorato dal ragazzo calato nelle sue riflessioni. A un certo momento, egli venne a trovarsi a Temple Bar, il punto più lontano da casa che avesse mai raggiunto in quella direzione. Si fermò e rientrò in sé per un momento, poi si abbandonò di nuovo alle fantasticherie e proseguì fuori delle mura di Londra. Lo Strand aveva smesso allora di essere un viottolo di campagna e si considerava una strada, ma si trattava soltanto di una forzatura; infatti, sebbene lungo uno dei suoi lati esistesse una fila di case discretamente compatta, sull’altro sorgevano soltanto pochi e sparsi grandi edifici, e questi ultimi erano palazzi di ricchi nobili, con vasti e splendidi giardini che arrivavano fino al fiume: giardini ormai fittamente occupati da tetre distese di mattoni e pietre.

Tom scoprì, di lì a non molto, Charing Village, e si riposò accanto alla bellissima croce erettavi da un re in lutto dei tempi andati; poi proseguì pigramente lungo una tranquilla e bella strada, accanto al palazzo maestoso del grande cardinale, nella direzione di un palazzo di gran lunga più formidabile e maestoso più avanti: Westminster. Tom contemplò con lieto stupore l’immensa mole in muratura, le estese ali, i minacciosi bastioni e le torrette, l’enorme ingresso in pietra, con il cancello dalle sbarre dorate e il magnifico schieramento di colossali leoni scolpiti nel granito, e tutti gli altri segni e simboli della regalità inglese. Il desiderio dell’anima sua stava forse per essere appagato, finalmente? Quello era davvero il palazzo di un re. Non poteva sperare di vedere un principe, adesso, un principe in carne e ossa, se il cielo lo avesse voluto?

A ciascun lato del cancello dalle sbarre dorate, si trovava una statua vivente, vale a dire un armigero impettito e maestoso e immobile, rinchiuso da capo a piedi in una luccicante corazza d’acciaio. A rispettosa distanza, v’erano molti villici e molti abitanti della città, in attesa di una qualche possibilità di intravedere personaggi regali. Splendide carrozze, con splendide persone all’interno e splendidi servi all’esterno, arrivavano o partivano, infatti, passando per numerosi altri varchi aperti nella cinta regale.

Il povero, piccolo Tom, con i suoi stracci, si avvicinò e stava passando adagio e timidamente davanti alle sentinelle, con il cuore in tumulto e una crescente speranza quando, tutto a un tratto, scorse attraverso le sbarre dorate uno spettacolo che per poco non lo fece gridare di gioia. Là dentro si trovava un avvenente ragazzo, abbronzato dagli sport gagliardi e dal moto all’aria aperta, le cui vesti erano tutte di splendide sete e rasi, scintillanti di pietre preziose; portava al fianco una piccola spada e un pugnale costellati di gemme, calzava eleganti stivali dai tacchi rossi e aveva sul capo uno spavaldo berretto cremisi al quale si incurvavano piume fermate da una grossa gemma splendente. Accanto a lui rimanevano in piedi vari sfarzosi gentiluomini: i suoi servi, certamente. Oh! Si trattava di un principe... di un principe, un principe vivo, un vero principe senza ombra di dubbio, e la preghiera che scaturiva dal cuore del povero ragazzo era stata esaudita, finalmente!

Il respiro di Tom divenne rapido e corto per l’eccitazione ed egli spalancò gli occhi, colmi di stupore e di felicità. Nella sua mente tutto cedette il posto, all’istante, a un unico desiderio: avvicinarsi al principe per potergli rivolgere un lungo e divorante sguardo. Prima ancora di essersi reso conto di quel che faceva, egli venne a trovarsi con la faccia contro le sbarre del cancello. Un attimo dopo, uno dei soldati lo strappò via rudemente e lo scaraventò, piroettante, tra la folla dei villici a bocca aperta e degli oziosi di Londra.

Il soldato disse: «Comportati a modo, piccolo accattone!».

La folla schernì e rise, ma il giovane principe balzò verso il cancello con il viso acceso e gli occhi balenanti di indignazione e gridò: «Come osi maltrattare in quel modo un povero ragazzo? Come osi maltrattare anche il più umile tra i sudditi del Re mio padre? Apri il cancello e fallo entrare!».

Avreste dovuto vedere, allora, la volubile folla scappellarsi! Avreste dovuto udirla applaudire e gridare: «Lunga vita al Principe di Galles!».

I soldati presentarono le armi, vale a dire le alabarde, aprirono il cancello e di nuovo fecero il presentat’arm, mentre il piccolo Principe della Miseria passava, con gli stracci al vento, e andava a stringere la mano del Principe della Sconfinata Abbondanza.

Edoardo Tudor disse: «Hai un’aria stanca e affamata: sei stato maltrattato. Vieni con me».

Una mezza dozzina di gentiluomini del seguito balzò avanti per fare... non so cosa; per intromettersi, senza dubbio. Ma vennero invitati a tenersi in disparte con un gesto molto regale, e si fermarono di colpo ove si trovavano, simili a tante statue. Edoardo condusse Tom in un fastosissimo salone del palazzo che disse essere il suo studio. Per ordine suo venne servito un pasto quale Tom non aveva mai conosciuto prima, tranne che nei libri. Il principe, con principesca delicatezza e sensibilità, congedò i servi affinché l’umile ospite non dovesse essere imbarazzato dalla loro critica presenza; poi sedette lì accanto e pose domande mentre Tom mangiava.

«Qual è il tuo nome, ragazzo?»

«Tom Canty, se a te non spiace, Signore.»

«È un nome strano. Dove abiti?»

«In città, se a te non spiace, Signore. Nel Cortile dei Rifiuti. Vicolo Pudding.»

«Il Cortile dei Rifiuti! Questo è davvero un altro strano nome. Hai i genitori?»

«I genitori li ho, Signore, e ho anche una nonna che non mi è per nulla cara – Dio mi perdoni se commetto un peccato dicendolo – e ho inoltre due sorelle gemelle, Nan e Bet.»

«Allora devo dedurre che tua nonna non è buona con te.»

«Non lo è nemmeno con nessun altro, se non dispiace a Tua Signoria. Ha un cuore malvagio e commette perfidie in ognuno dei suoi giorni.»

«Ti maltratta?»

«Vi sono momenti in cui tiene le mani a posto, quando dorme o ha bevuto troppo; ma, non appena rientra in sé e riesce a pensare di nuovo con chiarezza, si rifà pestandomi ben bene.»

Un’espressione furente apparve negli occhi del piccolo principe, che gridò: «Cosa? Percosse?».

«Oh, sicuro, sì, se non ti dispiace, Signore.»

«Percosse! E tu così debole e piccino! Ascoltami bene, prima che la notte scenda la faremo portare nella Torre. Il Re mio padre...»

«In verità, tu dimentichi, Signore, la sua umile condizione. La Torre è soltanto per i grandi.»

«Vero, infatti. Non ci avevo pensato. Rifletterò sul suo castigo. Tuo padre è buono con te?»

«Non più di nonna Canty, Signore.»

«I padri sono tutti uguali, forse. Il mio non ha l’indole di una pupattola. Colpisce con mano pesante, ma risparmia me; non sempre mi risparmia con la lingua, tuttavia, a dire il vero. E come ti tratta tua madre?»

«È buona, Signore, e non mi causa sofferenze né dolori di sorta. E Nan e Bet le somigliano in questo.»

«Quanti anni hanno?»

«Quindici, se non ti dispiace, Signore.»

«La dama Elisabetta, mia sorella, ne ha quattordici, e la dama Jane Grey, mia cugina, ha la stessa età che ho io, ed è inoltre bella e gentile; ma mia sorella la dama Mary, con la sua aria lugubre e... Senti, tu: le tue sorelle proibiscono forse alle loro cameriere di sorridere, affinché il peccato non distrugga l’anima loro?»

«Le mie sorelle? Oh, credi tu, mio Signore, che abbiano cameriere?»

Il piccolo principe contemplò per un momento, con aria grave, il piccolo povero, poi disse: «E, di grazia, perché no? Chi le aiuta a spogliarsi, la sera? Chi le veste quando si alzano?»

«Nessuno, Signore. Vorresti forse che si togliessero la veste e dormissero senza... come bestie?»

«La veste! Ne hanno una soltanto?»

«Ah, e bravo Signoria, che cosa potrebbero farsene di altre? Davvero non hanno due corpi per ciascuna!»

«Ecco un bizzarro e meraviglioso pensiero! Ti chiedo perdono, non avevo avuto l’intenzione di ridere. Ma la tua buona Nan e la tua Bet avranno indumenti e lacchè a sufficienza, e presto, per giunta; provvederà a questo il mio tesoriere. No, non mi ringraziare; è una bazzecola. Tu ti esprimi bene; parli con una grazia disinvolta. Sei erudito?»

«Non so se lo sono o no, Signore. Il buon prete, che ha nome Padre Andrew, mi ha impartito insegnamenti, per bontà sua, con i libri che possiede.

«Conosci tu il latino?»

«Ma soltanto a malapena, Signore, temo.»

«Imparalo, ragazzo; è difficile solamente all’inizio. Il greco è più difficile ancora; ma né queste due lingue né alcun’altra, credo, sono difficili per la dama Elisabetta e per mia cugina. Dovresti udire quelle damigelle parlarle! Ma dimmi del Cortile dei Rifiuti. Vivi piacevolmente laggiù?»

«In verità sì, se non ti dispiace, Signore, tranne quando sono affamato. Vi sono spettacoli di marionette, e di scimmie – oh, creature così buffe, e così stranamente vestite! – e poi commedie nelle quali quelli che recitano urlano e si battono fino a essere tutti uccisi, ed è così divertente vederli, e costa soltanto un soldino, sebbene sia immensamente difficile procurarsi il soldino, se non dispiace a Tua Signoria.»

«Racconta ancora.»

«Be’, noi ragazzi del Cortile dei Rifiuti ci battiamo gli uni contro gli altri con il randello, alla maniera degli apprendisti, talora.»

Gli occhi del principe splendettero. Egli disse: «Nespole! Questo non mi dispiacerebbe. Racconta ancora».

«Gareggiamo nella corsa, Signore, per stabilire chi di noi è il più veloce.»

«Anche questo mi piacerebbe. Continua.»

«In estate, Signore, ci gettiamo e nuotiamo nei canali e nel fiume, e ognuno spinge sott’acqua chi gli sta vicino, e lo spruzza, e si tuffa, e schiamazza e fa le capriole e...»

«Varrebbe il regno di mio padre potersi divertire così, sia pure una sola volta! Continua, te ne prego.»

«Balliamo e cantiamo intorno all’Albero di Maggio, a Cheapside; giochiamo nella sabbia, ognuno coprendo chi gli sta vicino; e a volte facciamo pasticcini di fango – oh, quel bel fango, non esiste niente di così delizioso in tutto il mondo! – ci sguazziamo davvero, nel fango, Signore, fatta salva la presenza di Tua Signoria.»

«Oh, te ne prego, non dire di più; è meraviglioso! Se soltanto potessi indossare panni come i tuoi, e denudarmi i piedi e divertirmi nel fango una volta, una sola volta, senza nessuno che mi rimproveri o mi imponga divieti, mi sembra che riuscirei a dimenticare la corona!»

«Quanto a questo, se potessi una volta indossare le vesti, mio dolce Signore, che indossi tu, una volta soltanto...»

«Oh oh, ti piacerebbe? Così sarà, allora. Togliti di dosso gli stracci e mettiti questi splendori, ragazzo! Sarà una felicità breve, ma non per questo sarà meno intensa. Ce la godremo finché sarà possibile, e ci cambieremo di nuovo prima che qualcuno venga a molestarci.»

Pochi minuti dopo, il piccolo Principe di Galles era festonato con i fluttuanti scampoli di Tom, e il piccolo Principe del Regno della Miseria si trovava a essere agghindato con lo sfarzoso piumaggio della regalità. I due andarono a mettersi a fianco a fianco davanti a un grande specchio e, oh bella, ecco un miracolo: sembrava che non vi fosse stato alcun cambiamento! Si guardarono a vicenda, poi fissarono lo specchio, poi tornarono a contemplarsi. Infine il principino, interdetto, domandò: «Che cosa ne pensi di questo?».

«Ah, buon Signore, non chiedermi di rispondere. Non si addice a uno della mia umile condizione dirlo.»

«In tal caso, sarò io a parlare. Tu hai gli stessi capelli, gli stessi occhi, la stessa voce e gli stessi modi, la stessa corporatura e statura, lo stesso volto e la stessa espressione che ho io. Se dovessimo andare in giro nudi, nessuno sarebbe in grado di dire quale di noi due sei tu e quale il Principe di Galles. E ora che io vesto come vestivi tu, mi sembra di poter provare molto di più quello che provasti quando il brutale soldato... Ehi, tu, non è un livido questo che hai sulla mano?»

«Sì, ma è soltanto un’inezia, e Tua Signoria sa che il povero armigero...»

«Taci! È stata una cosa vergognosa e crudele!» gridò il piccolo principe, battendo il piede nudo sul pavimento. «Se il Re... Non muoverti di un passo finché non tornerò! È un ordine!»

In un lampo aveva afferrato e messo via un oggetto di importanza nazionale che si trovava sul tavolo. Poi, precipitatosi fuori della porta, attraversò di corsa i gradini del palazzo con gli stracci sventolanti come una bandiera, il viso acceso e gli occhi splendenti. Non appena giunto davanti al grande cancello, afferrò le sbarre e tentò di scuoterle, gridando: «Aprite! Spalancate il cancello!».

Il soldato che aveva maltrattato Tom ubbidì prontamente; e, mentre il principe balzava fuori, quasi soffocato da un’ira regale, l’uomo gli rifilò un sonoro scapaccione sull’orecchio, che lo fece stramazzare, dopo aver girato su se stesso, sulla strada, e disse: «Prendi questo, figlio di accattoni, per la ramanzina che mi hai fatto avere da Sua Altezza!».

La folla scoppiò in una risata. Il principe si rialzò dal fango e corse inferocito verso la sentinella, gridando: «Sono il Principe di Galles, la mia persona è sacra; e tu penzolerai impiccato per avermi messo le mani addosso!».

Il soldato fece il presentat’arm con l’alabarda e disse, in tono di scherno: «Saluto Sua Graziosa Altezza.» Poi, irosamente: «Vattene, pazzo moccioso!».

A questo punto la folla beffarda circondò il povero, piccolo principe e lo trascinò lontano lungo la strada, fischiando e urlando: «Fate largo a Sua Altezza Reale! Fate largo al Principe di Galles!».


4


Incominciano i guai del principe

Dopo ore di ostinato inseguimento e di persecuzione, il piccolo principe venne infine abbandonato dalla canaglia e lasciato a se stesso. Fino a quando era stato in grado di infuriarsi contro il popolaccio, di minacciarlo regalmente, e di impartire imperiosi ordini regali che strappavano grasse risate, aveva divertito moltissimo tutti; ma, non appena lo sfinimento lo costrinse a tacere, non fu più di alcuna utilità per i suoi aguzzini, che andarono altrove in cerca di spassi. Egli si guardò attorno, a questo punto, ma non riuscì a riconoscere il posto. Si trovava entro la città di Londra: sapeva soltanto questo. Proseguì senza meta e, di lì a non molto, le case si diradarono e i passanti divennero meno numerosi. Il principe immerse i piedi sanguinanti nel ruscello che scorreva allora ove si trova adesso Farrington Street, si riposò per qualche momento, poi proseguì e, di lì a non molto, giunse in un vasto spiazzo intorno al quale si trovavano soltanto alcune case sparse e un’enorme chiesa. Riconobbe quella chiesa. V’erano dappertutto impalcature e sciami di operai, in quanto si stava procedendo a complessi lavori di riparazione. Il principe riprese subito coraggio; sentì che le sue disavventure erano ormai finite. Disse a se stesso: “Questa è l’antica chiesa dei Frati Francescani che il Re mio padre ha tolto a essi per farne in eterno un ospizio, destinato ai fanciulli poveri e abbandonati, e che ha ora il nuovo nome di Ospizio del Cristo. Ben volentieri saranno disposti a servire il figlio di colui che, così generosamente, si è adoprato per loro: tanto più in quanto suo figlio è povero e derelitto come lo sono, o potranno mai esserlo, tutti i fanciulli ospitati qui”.

Ben presto venne a trovarsi fra una turba di ragazzi che correvano, spiccavano balzi, giocavano a palla o a saltamontone, e altrimenti si divertivano, molto rumorosamente. Erano vestiti tutti nello stesso modo, vale a dire come si usava a quei tempi tra i servi e gli apprendisti, ovvero ognuno di essi portava sul cocuzzolo del capo un piatto berretto nero, grande all’incirca come un piattino che, avendo dimensioni così ridotte, non serviva a niente ai fini della protezione; e nemmeno era ornamentale; sotto a esso i capelli spiovevano, senza scriminatura, fino a metà fronte, ed erano tagliati corti e pareggiati tutto attorno alla testa; un colletto clericale intorno al collo; una sorta di casacca blu, aderente, che arrivava fino alle ginocchia e più giù; maniche ampie; una larga cintola rossa; calze giallo canarino, con giarrettiera sopra le ginocchia; scarpe basse con grandi fibbie di metallo. Era un’uniforme piuttosto brutta.

I ragazzi smisero di giocare e circondarono il principe, il quale disse, con innata dignità: «Bravi figlioli, dite al vostro maestro che Edoardo, Principe di Galles, desidera parlargli».

Un urlo poderoso si levò a queste parole, e un tipo dal fare villano disse: «Accidenti! Sei tu il messaggero di Sua Grazia, mendicante?».

Il viso del principe si imporporò per l’ira, e la sua pronta mano volò al fianco, ma lì non c’era un bel niente. Seguì una tempesta di risate e uno dei ragazzi disse: «Avete notato? Immaginava di cingere la spada... come se lui fosse il principe in persona».

Questa facezia causò altre risate. Il povero Edoardo si erse fieramente in tutta la sua statura e disse: «Sono il principe, e non è bello da parte vostra, nutriti come siete grazie alla generosità di mio padre, trattarmi in questo modo».

Tali parole divertirono moltissimo, come testimoniò la risata. Il ragazzotto che aveva parlato per primo, gridò ai compagni: «Ehilà, porci, schiavi, pensionati del generoso padre di Sua Grazia, dove sono le vostre buone maniere? Giù sugli stinchi, tutti quanti, prosternatevi dinanzi al maestoso portamento e agli stracci regali di costui!».

Con chiassosa ilarità, caddero tutti insieme sulle ginocchia e resero burlesco omaggio alla loro preda. Il principe respinse il ragazzo più vicino con un piede e disse fieramente: «Puoi star certo che entro domani farò erigere una forca per te!».

Ah, ma questo non era uno scherzo; questo superava i limiti dello spasso. Le risate cessarono all’istante, e vennero sostituite dalla furia. Una dozzina di ragazzi gridò: «Trasciniamolo via di qui! Alla pozza per abbeverare i cavalli! Alla pozza per abbeverare i cavalli! Dove sono i cani? Vieni qui, Leone! Vieni qui, Zanne!».

Seguì allora qualcosa cui l’Inghilterra non aveva mai assistito: la sacra persona dell’erede al trono rudemente percossa da mani plebee e attaccata e morsicata da cani.

Quando, al termine di quella giornata, la notte discese, il principe venne a trovarsi molto avanti nella parte più fittamente costruita della città. Aveva il corpo coperto di lividi, le mani sanguinanti e gli stracci tutti imbrattati di fango. Continuò a vagare e a vagare e si sentì sempre e sempre più sconcertato, e talmente stanco e debole da non riuscire quasi più a trascinarsi, un passo dopo l’altro. Aveva smesso di porre domande alla gente, in quanto gli fruttavano solamente insulti invece di informazioni. Seguitava a mormorare tra sé e sé: “Cortile dei Rifiuti... il nome è questo; se riuscirò a trovarlo prima che le mie forze si esauriscano del tutto e che stramazzi a terra, sarò salvo, poiché quella gente mi condurrà a palazzo e dimostrerà che io non sono uno di loro ma il vero principe, e riavrò allora quanto mi spetta”. Poi, di quando in quando, i suoi pensieri tornavano ai maltrattamenti inflittigli dai villani ragazzi nell’Ospizio del Cristo, ed egli si diceva: “Quando sarò re, non avranno soltanto pane e un tetto ma anche insegnamenti impartiti mediante i libri, poiché la pancia piena conta poco se la mente e il cuore non sono nutriti. Mi ricorderò diligentemente di questo, affinché la lezione d’oggi non vada sprecata, e il mio popolo non debba soffrirne; l’erudizione, infatti, intenerisce il cuore e genera bontà e carità”.

Luci cominciarono a baluginare, si mise a piovere, il vento si alzò, ed ebbe inizio una notte rigida, spazzata da gelide raffiche. Il principe senza un tetto, l’erede al trono d’Inghilterra privo di una casa, proseguì addentrandosi sempre più nel labirinto di squallidi vicoli in cui si assiepavano gli sciamanti alveari della miseria e dell’infelicità.

All’improvviso, un tipaccio grande e grosso e ubriaco lo afferrò per una spalla e disse: «Ancora fuori di nuovo, a quest’ora della notte, e senza aver portato a casa un soldo bucato, scommetto! Se davvero è così e non ti rompo tutte le ossa di questo gracile corpo, non sono John Canty ma qualcun altro».

Il principe si liberò contorcendosi, senza accorgersene passò una mano, come per pulirla, sulla spalla profanata e disse ansiosamente: «Oh, sei tu suo padre, veramente? Voglia il Cielo che sia così; potrai allora condurre via lui e reintegrare me nei miei diritti!».

«Suo padre? Non capisco che cosa vuoi dire; ma so di essere tuo padre, come tra poco avrai modo di...»

«Oh, non scherzare, non tergiversare, non indugiare! Sono sfinito, sono ferito, non posso sopportare di più. Conducimi dal Re mio padre, ed egli ti farà ricco al di là dei tuoi sogni più audaci. Credimi, amico, credimi! Non sto mentendo, dico soltanto la verità! Tendimi la mano e salvami! Sono davvero il Principe di Galles!»

L’uomo abbassò gli occhi, stupefatto, sul ragazzo, poi scosse la testa e mormorò: «È diventato pazzo da legare!» poi lo afferrò di nuovo e disse, con una risataccia e una bestemmia: «Ma, pazzo o no, io e tua nonna Canty, scopriremo presto dove li hai i punti deboli nelle ossa, o non sono un vero uomo!».

Dopodiché, trascinò via il principe, che si dibatteva frenetico, ed entrò in un cortile, seguito da uno sciame esultante e vociante di feccia umana.


5


Tom divenuto patrizio

Tom, lasciato solo nello studio del principe, fece buon uso dell’occasione. Si voltò da una parte e dall’altra davanti al grande specchio, ammirando la propria eleganza; poi si allontanò, imitando il nobile portamento del principe, sempre senza tralasciare di osservare i risultati nello specchio. Subito dopo sguainò la splendida spada, fece un inchino, ne baciò la lama e se l’appoggiò al petto, come aveva veduto fare da un nobile cavaliere, a mo’ di saluto al tenente della Torre, cinque o sei settimane prima, nell’affidargli, affinché venissero imprigionati, i grandi signori del Norfolk e del Surrey. Tom si trastullò quindi con il pugnale tempestato di gemme che gli pendeva sulla coscia; esaminò i costosi e squisiti mobili della sala; provò ognuna delle sontuose sedie e pensò quanto sarebbe stato fiero se il branco del Cortile dei Rifiuti avesse potuto anche soltanto far capolino e vederlo nella sua magnificenza. Si domandò se sarebbero stati disposti a credere al racconto meraviglioso che avrebbe narrato una volta tornato a casa, o se si sarebbero limitati a scuotere la testa dicendo che la sua immaginazione, posta a troppo dura prova, gli aveva in ultimo sconvolto la mente.

Al termine di mezz’ora gli accadde a un tratto di pensare che il principe era ormai uscito da un pezzo; subito dopo cominciò a sentirsi solo; ben presto cominciò a tendere l’orecchio ansiosamente e smise di trastullarsi con le belle cose intorno a sé; si sentì dapprima a disagio, poi irrequieto, infine sgomento. E se qualcuno fosse entrato e lo avesse sorpreso con il vestito del principe, senza che il principe si trovasse lì a dare spiegazioni? Non avrebbero potuto impiccarlo immediatamente, per indagare soltanto in seguito sul suo conto? Aveva sentito dire che i grandi erano solerti nelle piccole cose. Le paure si intensificarono in lui sempre e sempre più e infine, tremando, aprì silenziosamente la porta dell’anticamera, deciso a correre in cerca del principe e a ottenere, per il suo tramite, protezione e sollievo. Sei sfarzosi gentiluomini di camera e due giovani paggi di alto rango, vestiti come farfalle, balzarono in piedi e si inchinarono profondamente dinanzi a lui. Tom indietreggiò rapidamente e chiuse la porta. Disse: «Oh, si burlano di me! Ora andranno ad avvertire gli altri. Oh! Perché sono venuto qui a gettare via la mia vita?».

Andò avanti e indietro nella sala, colmo di paure senza nome, tendendo gli orecchi, trasalendo a ogni minimo suono. Di lì a non molto la porta si spalancò e un paggio dai modi soavi disse: «La dama Jane Grey».

La porta venne chiusa e una leggiadra fanciulla, riccamente vestita, corse verso di lui. Ma poi si fermò all’improvviso e disse, in tono sgomento: «Oh, che cosa ti affligge, mio signore?».

A Tom stava venendo meno il respiro, ma, ciò nonostante, egli si ingegnò a balbettare: «Oh, sii misericordiosa! In verità non sono il tuo signore, ma soltanto il povero Tom Canty del Cortile dei Rifiuti, in città. Consentimi, te ne prego, di parlare con il Principe, ed egli sarà così generoso da restituirmi i miei stracci, permettendomi di andarmene illeso via di qui. Oh, sii clemente e salvami!».

Nel frattempo il ragazzo si era gettato in ginocchio e supplicava con gli occhi e con le mani alzate, oltre che con la lingua. La fanciulla parve paralizzata dall’orrore. Gridò: «Ah, mio signore, tu inginocchiato? E dinanzi a me!».

Poi fuggì atterrita; e Tom, pervaso dalla disperazione, si abbandonò sul pavimento, mormorando: «Non c’è scampo, non c’è speranza. Ora verranno e mi prenderanno».

Mentre giaceva lì stordito dal terrore, notizie spaventose andavano diffondendosi rapidamente nel palazzo. Il bisbiglio, poiché sempre esse vennero bisbigliate, volò da servo a servo, da signore a dama, lungo tutti gli interminabili corridoi, di piano in piano, da un salone all’altro: «Il principe è impazzito! Il principe è impazzito!».

Ben presto, ogni sala, ogni vestibolo di marmo ospitarono un gruppo di signori e dame splendenti e altri gruppi di persone meno abbacinanti che conversavano seri in viso, a bisbigli, e su ogni volto si dipingeva lo sgomento. Di lì a poco un maestoso funzionario passò accanto a questi gruppi, pronunciando un solenne proclama: «In nome del Re! Che nessuno dia ascolto a questa falsa e stolta notizia, sotto pena di morte, e che nessuno ne parli, o la diffonda. In nome del Re!».

I bisbigli cessarono all’improvviso, come se coloro che bisbigliavano fossero stati fulminati.

Ben presto, nei corridoi, dilagò un mormorio generale: «Principe! Guardate, viene il Principe!».

Il povero Tom passò adagio accanto ai gruppi che si inchinavano profondamente, cercando di inchinarsi a sua volta, e mestamente contemplando lo strano ambiente dal quale era circondato, con occhi smarriti e patetici. Grandi nobili incedevano a ciascun lato di lui, consentendogli di appoggiarsi e rendendo, così, fermi i suoi passi. Lo seguivano i medici di corte e alcuni servi.

Tom venne poi a trovarsi in una fastosa sala del palazzo e udì la porta chiudersi alle sue spalle. Intorno a lui si trovavano coloro che lo avevano accompagnato. Davanti a lui, a breve distanza, se ne stava adagiato un uomo molto grosso e molto grasso, dalla larga faccia paffuta e dall’espressione severa. Aveva l’enorme testa molto grigia, e anche i favoriti, che portava soltanto intorno alla faccia, come una cornice, erano brizzolati. Indossava vesti di ricche stoffe, ma vecchie e lievemente lise in certi punti. Una delle gonfie gambe appoggiava su un cuscino ed era avvolta con bende. Regnava ora il silenzio, e non esisteva una sola testa, lì attorno, che non fosse abbassata in segno di rispetto, tranne quella dell’uomo. L’invalido dall’espressione severa era il temuto Enrico VIII. Disse, e il viso gli si raddolcì mentre cominciava a parlare: «Ebbene, mio signore Edoardo, mio Principe? Hai deciso di trarre in inganno me, il buon Re tuo padre, che ti ama ed è buono nei tuoi riguardi, con una deplorevole burla?».

Il povero Tom ascoltò, per quanto glielo consentirono le sue facoltà obnubilate, l’inizio di questa domanda; ma quando le parole “me, il buon Re” gli giunsero all’orecchio, si sbiancò in viso e all’istante cadde in ginocchio come se una mazzata improvvisa lo avesse costretto ad assumere quella posizione. Alzando entrambe le mani, esclamò: «Tu il Re? Allora sono davvero finito!».

La frase di lui parve lasciare allibito il monarca, il cui sguardo passò incerto da un volto all’altro, per fermarsi poi, perplesso, sul ragazzo che egli aveva dinanzi. Quindi il re disse, in un tono di profonda delusione: «Ahimè, avevo ritenuto che la diceria fosse lontana dalla verità, ma temo non sia così». Emise un lungo sospiro e soggiunse con dolcezza: «Avvicinati al padre tuo, figliolo. Tu non stai bene».

Tom venne aiutato a rialzarsi, poi si avvicinò, umile e tremante, a Sua Maestà il Re d’Inghilterra. Il re prese tra le mani il viso atterrito e per qualche tempo lo contemplò, serio ma con affetto, quasi vi stesse cercando un qualche indizio gradito del ritorno della ragione, poi premette il capo ricciuto del ragazzo contro il proprio petto e lo accarezzò con tenerezza. Infine disse: «Non riconosci tuo padre, figliolo? Non spezzarmi il vecchio cuore; di’ che mi conosci. Tu mi conosci, non è forse vero?».

«Sì, tu sei il mio temuto signore e Re, che Dio ti conservi!»

«Vero, vero... così va bene... rassicurati, non tremare in questo modo; non c’è nessuno, qui, che voglia farti del male; non c’è nessuno, qui, che non ti ami. Ora ti senti meglio, l’incubo si sta dileguando, non è così? E ora riconosci anche te stesso, non è forse vero? Non chiamerai più impropriamente te stesso, come dicono che tu abbia fatto or non è molto?»

«Imploro tua Grazia di credermi, ho detto soltanto la verità, temutissimo signore, poiché sono il più miserabile dei tuoi sudditi, essendo nato povero, e soltanto per una deplorevole disavventura e per un puro caso mi trovo qui, senza avere per questo colpa alcuna. Sono troppo giovane per morire, e tu puoi salvarmi con una breve parola. Oh, pronunciala, signore!»

«Morire? Non parlare così, dolce Principe; si rassereni, si rassereni il tuo cuore turbato; tu non morirai!»

Tom cadde in ginocchio con un grido di letizia.

«Dio ricompensi la tua misericordia, o mio Re, e ti preservi a lungo per benedire questo paese!» Poi, balzando in piedi, voltò il viso gioioso verso i due gentiluomini di corte ed esclamò: «Avete udito! Non devo morire, lo ha detto il Re!».

Non vi fu reazione alcuna, a parte il fatto che tutti si inchinarono con grave rispetto; ma nessuno parlò.

Tom esitò, un po’ confuso, poi tornò a voltarsi timidamente verso il re dicendo: «Posso andare, adesso?».

«Andare? Certo, se lo desideri. Ma perché non trattenerti ancora un poco? Dove vorresti andare?»

Tom abbassò gli occhi e rispose umilmente: «Si dà il caso che abbia frainteso; ma mi credevo libero e perciò ho pensato di fare ritorno nel canile ove sono nato e cresciuto poveramente, ma ove si trovano mia madre e le mie sorelle, e che è pertanto la casa per me; mentre questa pompa e questi splendori, cui non sono assuefatto... Oh, te ne prego, signore, consentimi di andarmene subito!».

Il re tacque, cogitabondo, per qualche momento, e il suo volto tradì uno sgomento e un’inquietudine crescenti. Infine disse, con un barlume di speranza nella voce: «Forse sragiona soltanto sotto questo aspetto, ma il suo senno è rimasto intatto per altri versi. Voglia Iddio che sia così! Lo metteremo alla prova».

Pose quindi a Tom una domanda in latino, e Tom rispose, sia pure in modo zoppicante, nella stessa lingua. Il re ne fu deliziato, e lo dimostrò. Anche i signori e i medici di corte palesarono la loro contentezza. Il re disse: «Non ha risposto in modo adeguato ai suoi studi e alle sue capacità, ma ha dimostrato di avere la mente soltanto malata, e non colpita fatalmente. Che cosa ne dici tu, signore?».

Il medico di corte al quale si era rivolto fece un profondo inchino e rispose: «Sono assolutamente persuaso, signore, che tu abbia giustamente divinato».

Il re parve soddisfatto di questo incoraggiamento, tanto più in quanto veniva da una persona così autorevole, e continuò di buon animo: «Ora ascoltate bene, voi tutti: lo porremo ulteriormente alla prova».

Fece una domanda a Tom in francese. Tom tacque per un momento, in preda all’imbarazzo a causa di tutti quegli sguardi fissi su di lui, poi disse, in tono diffidente: «Non conosco affatto questa lingua, se non dispiace a Tua Maestà».

Il re ricadde sul giaciglio. I gentiluomini di corte volarono in suo soccorso, ma egli li respinse con un gesto e disse: «Non mi infastidite... è soltanto una spregevole debolezza. Sollevatemi! Ecco, basta così. Vieni qui, fanciullo; qui, appoggia il povero capo turbato sul cuore di tuo padre e tranquillizzati. Sarai presto guarito; questa è soltanto una fuggevole fantasticheria. Non temere, tra non molto ti ristabilirai». Poi si rivolse ai presenti; i suoi modi affabili mutarono, e lampi minacciosi cominciarono a balenargli negli occhi. Disse: «Ascoltate, voi tutti! Questo mio figliolo è pazzo ma non definitivamente. Lo studio eccessivo ha causato il male, e forse, inoltre, lo stare troppo al chiuso. Basta con i libri e i maestri! Provvedete al riguardo. Divertitelo con gli sport, distraetelo in modi salubri, affinché ricuperi la salute». Si sollevò ulteriormente dal giaciglio e continuò con energia: «Ha perduto il senno, ma è figlio mio e l’erede al trono d’Inghilterra e, pazzo o sano di mente, regnerà comunque! Ascoltate inoltre quanto segue e proclamatelo: chi parlerà del suo malessere agirà contro la pace e l’ordine di questo nostro regno e finirà sulla forca! Datemi da bere... ardo! Un così grande dolore mina le mie forze. Qua, via la coppa. Sostenetemi. Ecco, così va bene. Pazzo, eh? Fosse pure egli mille volte più pazzo, continuerebbe a essere il Principe di Galles, e io, il Re, lo confermerò. Domani stesso verrà confermato nella sua dignità di Principe, secondo le debite e antiche forme. Prendete nota all’istante di quest’ordine, mio signore Hertford».

Uno dei nobili si inginocchiò dinanzi al giaciglio regale e disse: «Sua Maestà il Re sa che il Gran Maresciallo Ereditario d’Inghilterra trovasi disonorato nella Torre. Non si addice che un uomo privato dei diritti civili...».

«Silenzio! Non offendere le mie orecchie con il nome odiato di quell’uomo. Deve vivere in eterno, costui? Dovrà, la mia volontà, essere ostacolata? Dovrà, il Principe, aspettare non insediato perché, invero, il regno è privo di un conte maresciallo, esente dalla macchia del tradimento, che possa investirlo degli onori spettantigli? No, per lo splendore di Dio! Avverti il Parlamento di darmi la condanna di Norfolk prima che il sole sorga ancora, o ne risponderanno tutti in modo atroce!»

Lord Hertford disse: «La volontà del Re è legge» e, alzatosi, andò a riprendere il suo posto.

A poco a poco l’ira si dileguò dal volto dell’anziano monarca, ed egli disse: «Baciami, mio Principe. Suvvia. Che cosa temi? Non sono io il tuo padre affettuoso?».

«Tu sei buono con me che non lo merito, o potente e benevolo signore; questo, invero, lo so. Ma... ma... mi affligge pensare a colui che deve morire, e...»

«Ah, questo è da te, questo è da te! So che il tuo cuore è sempre uguale, sebbene la mente abbia sofferto, poiché sempre tu sei stato di spirito gentile. Ma questo duca si frappone tra te e gli onori che ti aspettano; ne nominerò un altro in sua vece che non disonori con una macchia l’alta carica. Sii sereno, mio Principe; non turbare la tua povera mente con tale questione.»

«Ma non sono io ad affrettarne la fine, mio sovrano? Quanto a lungo ancora potrebbe vivere, se non fosse per me?»

«Non pensare a lui, mio Principe; egli non lo merita. Baciami una volta ancora e va’ a dedicarti alle tue inezie e ai tuoi divertimenti, poiché la malattia mi tormenta. Sono stanco e desidero riposare. Va’ con tuo zio Hertford e con il tuo seguito, e torna ancora quando il mio corpo si sarà rinvigorito.»

Tom venne allontanato dalla presenza del sovrano con il cuore greve, poiché quell’ultima frase aveva inferto un colpo mortale alla presenza da lui accarezzata di poter essere lasciato libero. Una volta di più udì il brusio di voci sommesse che esclamavano: «Il Principe, il Principe viene!».

Si scoraggiò sempre più, mentre passava tra le splendenti file dei cortigiani che si inchinavano, in quanto si rese conto di essere davvero prigioniero, ormai, destinato forse a rimanere chiuso per sempre in quella gabbia dorata, un principe sconsolato e senza amici, a meno che Dio non avesse avuto pietà di lui, liberandolo. E, ovunque volgesse lo sguardo, gli parve di veder galleggiare nell’aria la testa mozzata e il volto che ben ricordava del grande Duca di Norfolk, con gli occhi, colmi di rimprovero, fissi su di lui.


6


Tom riceve istruzioni

Tom venne condotto nella sala principale di un fastoso appartamento e fu fatto sedere, la qual cosa gli dispiacque in quanto lo circondavano uomini anziani e personaggi di grande nobiltà. Li esortò ad accomodarsi a loro volta, ma si limitarono a esprimere ringraziamenti con un inchino, o a mormorarli, e rimasero in piedi. Egli avrebbe insistito, ma suo “zio”, il Conte di Hertford, gli bisbigliò all’orecchio: «Te ne prego, non insistere, mio Signore; non è opportuno che siedano alla tua presenza».

Lord St John venne annunciato e, dopo aver salutato Tom con un inchino, disse: «Vengo incaricato dal Re, per una questione che richiede segretezza. Dispiacerebbe a tua Altezza Reale congedare tutto il seguito qui, tranne il mio Signore il Conte di Hertford?».

Avendo notato che Tom non sapeva come regolarsi, Hertford gli bisbigliò di fare un cenno con la mano e di non darsi la pena di parlare, se non lo desiderava. Quando i gentiluomini della Casa Reale si furono ritirati, Lord St John disse: «Sua Maestà ordina che, per doverose e gravi ragioni di Stato, sua grazia il Principe nasconda la propria infermità in tutti i modi in suo potere, fino a quando il suo malessere non sia passato ed egli torni a essere quello di prima. Vale a dire che non neghi con chicchessia di essere il vero Principe ed erede della grandezza inglese; che faccia valere la sua dignità principesca e accolga, senza una parola né un cenno di protesta, quel rispetto e quel cerimoniale cui ha diritto per antica usanza; che smetta di parlare con chiunque di quell’umile nascita e della misera esistenza evocate, in seguito alla malattia, dalle morbose fantasticherie di una immaginazione sovraeccitata; che si sforzi con diligenza di far riaffiorare nella memoria quei volti che non vuole riconoscere e, qualora non vi riuscisse, di tacere, senza tradire, con espressioni di stupore, o con altri indizi, di aver dimenticato; che, nelle occasioni di Stato, ogni qual volta una qualsiasi situazione lo lasci perplesso riguardo a ciò che dovrebbe fare o alle parole che dovrebbe pronunciare, egli non tradisca alcuna agitazione con i curiosi dai quali viene osservato, ma segua al riguardo i consigli di Lord Hertford o della mia umile persona che ha avuto dal Re l’ordine di prestare questo servizio e di tenersi sempre a disposizione, finché l’ordine stesso non sarà revocato. Così si è espressa la Maestà del Re, che invia saluti a Tua Altezza reale e prega Dio affinché, con la sua misericordia, rapidamente ti guarisca ed estenda ora e sempre su di te la sua santa protezione».

Lord St John si inchinò e indietreggiò di un passo. Tom rispose con rassegnazione: «Il Re lo ha detto. Nessuno può cavillare con gli ordini del Re, o adattarli al suo piacere, se lo spazientiscono, con scaltri sotterfugi. Il Re sarà ubbidito».

Lord Hertford disse: «A proposito delle disposizioni di Sua Maestà il Re concernenti i libri e altre serie occupazioni, potrà forse fare piacere a Tua Altezza ingannare il tempo con frivoli divertimenti, per non prendere parte stanco al banchetto e subirne di conseguenza qualche nocumento».

Il viso di Tom tradì un interrogativo stupore, e venne seguito dal rossore quando egli scorse lo sguardo di Lord St John dolorosamente fisso su di lui. Sua signoria disse: «La memoria continua a venirti meno e tu hai tradito meraviglia; ma non consentire a te stesso di essere turbato, poiché trattasi di cosa che non favorirà il tuo male, ma ti aiuterà a guarirne. Mylord Hertford parla del banchetto municipale al quale Sua Maestà il Re promise, due mesi or sono, la presenza di Tua Altezza. Te ne rammenti, adesso?».

«Mi affligge dover confessare che, in effetti, la cosa mi era sfuggita» disse Tom, in tono esitante, e di nuovo arrossì.

In quel momento Lady Elizabeth e Lady Jane Grey vennero annunciate. I due lord si scambiarono sguardi significativi, e Hertford si diresse rapidamente verso la porta. Mentre le fanciulle gli passavano accanto, disse a voce bassa: «Ve ne prego, damigelle, fingete di non notare i suoi umori e non tradite stupore quando la memoria gli viene meno, anche se vi addolorerà constatare come resti inceppata a ogni inezia».

Nel frattempo Lord St John stava dicendo all’orecchio di Tom: «Te ne prego, signore, tieni diligentemente presenti i desideri di Sua Maestà. Ricorda tutto quel che potrai, e fingi di ricordare ogni altra cosa. Non consentire che si accorgano di quanto sei cambiato rispetto a com’eri un tempo, poiché ben sai quale grande tenerezza le tue compagne di giochi da sempre abbiano nel cuore per te, e quanto ciò le affliggerebbe. Vuoi, signore, che io rimanga? E così tuo zio?».

Tom espresse il suo assenso con un gesto e con una parola appena mormorata, poiché già stava imparando e, nel suo semplice cuore era deciso a comportarsi come meglio avrebbe potuto, secondo gli ordini del re.

Ma, nonostante tutte le precauzioni, la conversazione tra quelle giovani creature divenne, in certi momenti, un po’ imbarazzante. Più di una volta, invero, Tom fu quasi sul punto di cedere e di confessarsi impari alla parte tremenda che doveva sostenere; ma il tatto della principessa Elizabeth lo salvò, oppure qualche parola dell’uno o dell’altro dei due vigili lord, pronunciata, apparentemente, come per caso, ebbe lo stesso felice effetto. A un certo momento la piccola Lady Jane si rivolse a Tom e lo sgomentò con questa domanda: «Ti sei recato a rendere il doveroso omaggio a Sua Maestà la Regina, oggi, mio signore?».

Tom esitò, parve smarrito, e stava per balbettare qualcosa a casaccio, quando Lord St John si sostituì a lui e rispose in sua vece con la grazia disinvolta del cortigiano assuefatto a imbattersi in delicate difficoltà e a essere pronto a risolverle.

«Lo ha fatto, invero, signora, ed ella grandemente lo ha incoraggiato, per quanto concerne le condizioni di Sua Maestà; non è forse vero, Altezza?».

Tom farfugliò qualcosa che equivaleva a un assenso, ma sentì che cominciava a trovarsi su un terreno pericoloso. Qualche tempo dopo si accennò al fatto che Tom non doveva più studiare, per il momento, dopodiché la piccola sua signoria esclamò: «È un peccato, è un tale peccato! Stavi facendo grandi progetti. Ma inganna il tempo con pazienza, non sarà per molto. Verrai adornato dalla cultura come tuo padre, e riuscirai a padroneggiare tante lingue straniere quante ne padroneggia lui, buon Principe».

«Mio padre!» esclamò Tom, abbassando la guardia per un momento. «Credo che non sappia parlare nemmeno la sua in modo da farsi capire dal maiale voltolantesi nel porcile; e, quanto a impararne qualsiasi altra...»

Alzò gli occhi e lesse un avvertimento solenne nello sguardo di Lord St John.

Si interruppe, arrossì, poi continuò, sommessamente e malinconicamente: «Ah, la malattia è tornata a perseguitarmi e la mia mente ha vaneggiato. Non intendevo dire alcunché di irriverente nei riguardi del Re».

«Lo sappiamo, signore» disse la principessa Elizabeth prendendo tra i due palmi la mano del fratello, rispettosamente ma carezzevolmente. «Non stare a turbarti per questo. Non è tua la colpa ma della tua indisposizione.»

«Tu sei una dolce consolatrice, soave dama,» disse Tom, con gratitudine «e il cuore mi induce a ringraziarti per questo, se mi è consentito essere tanto audace.»

A un certo momento la sbadata piccola dama Jane bruscamente si rivolse a Tom con una semplice frase in greco. Gli occhi pronti della principessa Elizabeth arguirono, dalla serena inespressività del volto di lui, che la freccia aveva di gran lunga mancato il bersaglio, per cui, tranquillamente, ella rispose con una raffica di sonore parole greche, in luogo di Tom, poi, subito, cambiò discorso parlando di altri argomenti.

Il tempo trascorse piacevolmente, e inoltre senza intoppi, in complesso. Insidie nascoste e banchi di sabbia divennero sempre e sempre meno frequenti, e Tom finì con il sentirsi sempre più a suo agio, constatando come tutti fossero così amorevolmente intenti ad aiutarlo e a passar sopra ai suoi errori. Quando risultò che le piccole dame lo avrebbero accompagnato al banchetto offerto dal Sindaco di Londra quella sera, il cuore gli diede un balzo di sollievo e di gioia; egli seppe infatti, a questo punto, che non sarebbe stato privo di amici tra la moltitudine di sconosciuti, mentre, appena un’ora prima, l’idea di andarvi in compagnia delle due fanciulle lo avrebbe terrorizzato in modo insopportabile.

Gli angeli custodi di Tom, i due lord, si erano sentiti meno a loro agio degli altri durante la conversazione. Avevano l’impressione di pilotare una grande nave lungo un canale pericoloso; dovevano restare costantemente all’erta e constatavano che quell’incarico non era un gioco da bambini. Per cui, infine, quando la visita delle dame si stava avvicinando al termine e allorché venne annunciato Lord Guilford Dudley, non soltanto ritennero che il loro protetto era stato sufficientemente affaticato per il momento, ma pensarono altresì di non trovarsi essi stessi nelle condizioni migliori per riportare indietro la nave e compiere daccapo l’ansiosa traversata. Pertanto, rispettosamente consigliarono a Tom di scusarsi, la qual cosa egli fu lietissimo di fare, anche se sarebbe stato possibile osservare un’ombra lievissima di delusione sul viso di Lady Jane quando allo splendido adolescente venne negato il permesso di entrare.

Seguì un silenzio, a questo punto, una sorta di tacita attesa che Tom non riuscì a capire. Sbirciò Lord Hertford, che gli fece un segno, ma non riuscì a interpretare nemmeno quello. La pronta Elizabeth venne in suo soccorso con la consueta grazia disinvolta. Ella fece una riverenza e domandò: «Ci consente, Sua Grazia il Principe mio fratello, di andare?».

Tom rispose: «Invero le vostre signorie possono ottenere da me qualsiasi cosa mi chiedano. Eppure preferirei concedere ogni altro favore consentito dai miei poveri poteri piuttosto che privarmi della luce e della benedizione della vostra presenza qui. Ritiratevi, comunque, e che Dio vi accompagni!». Poi sorrise dentro di sé, pensando: “Non per nulla ho vissuto tra i principi nelle mie letture, imparando al contempo qualche piccolo trucco del loro fiorito e leggiadro modo di esprimersi!”.

Quando le illustri fanciulle furono uscite, Tom si voltò stancamente verso i suoi protettori e disse: «Non dispiacerebbe alle vostre signorie concedermi il permesso di rifugiarmi in qualche angolo e di riposare?».

Lord Hertford rispose: «Come piace a Tua Altezza, poiché spetta a te comandare, e a noi ubbidire. Che tu riposi è necessario, invero, poiché tra non molto dovrai recarti in città».

Fece tintinnare un campanello e apparve un paggio al quale venne ordinato di richiedere cortesemente la presenza di Sir Williams Herber. Questo gentiluomo entrò subito, e condusse Tom in una stanza interna. Il primo gesto di Tom fu quello di prendere una coppa colma d’acqua, ma un servitore in seta e velluto la ghermì prima di lui, poi si piegò su un ginocchio e gliela porse sopra un vassoio d’oro.

Subito dopo lo stanco prigioniero sedette e stava per sfilarsi gli stivali, timidamente chiedendo venia con lo sguardo, ma un altro seccatore in seta e velluto gli si inginocchiò dinanzi e provvide in vece sua. Tom fece due o tre altri tentativi di provvedere a se stesso ma, essendo stato ogni volta prontamente prevenuto, rinunciò infine con un sospiro di rassegnazione, mormorando: «Mal m’incolga, ma mi stupisce che non vogliano anche respirare in vece mia!». Con un paio di pantofole e avvolto in una veste da camera sontuosa, si coricò infine per riposare, ma non per dormire, in quanto la sua mente era troppo traboccante di pensieri e la camera troppo piena di gente. Non poteva scacciare i primi, che pertanto rimasero; non era abbastanza esperto per congedare gli altri, che si trattennero anch’essi, con grande rincrescimento suo... e loro.

Andandosene, Tom aveva lasciato soli i suoi due nobili protettori. Rifletterono entrambi per qualche tempo, con molti scuotimenti di testa e camminate avanti e indietro; poi Lord St John domandò: «Sinceramente, che cosa pensi?».

«Sinceramente, allora, penso questo. Il Re è vicino alla fine, mio nipote è pazzo, un pazzo salirà sul trono, e pazzo rimarrà. Dio protegga l’Inghilterra, poiché ne avrà bisogno!»

«La situazione così si prospetta, invero. Ma... non hai tu alcun sospetto riguardo a... riguardo a...?»

Lord St John esitò e infine si interruppe. Evidentemente, riteneva che l’argomento fosse delicato. Lord Hertford si fermò dinanzi a lui, lo scrutò in viso con occhi limpidi e sinceri, e disse: «Continua; non v’è nessuno qui ad ascoltarti tranne me. Sospetti riguardo che cosa?».

«Sono quanto mai riluttante a rivelare ciò che ho in mente a te che sei così imparentato per sangue con lui, mio Signore. Ma, chiedendoti perdono se posso offenderti, non ti sembra strano che la follia abbia potuto cambiare a tal punto il suo portamento e i suoi modi? Non che portamento e modo di esprimersi non continuino a essere quelli di un principe, ma differiscono nell’una o nell’altra piccola cosa priva di importanza da quelle che erano in precedenza le sue abitudini. Non ti sembra strano che la pazzia abbia cancellato dalla memoria di lui i lineamenti stessi di suo padre, le costumanze e i modi dovutigli da chi lo circonda e, lasciandogli il latino, lo abbia privato del greco e del francese? Mio signore, non offenderti, ma libera la mia mente dall’inquietudine e accogli i miei grati ringraziamenti. Mi assilla il fatto che egli abbia detto di non essere il Principe, e pertanto...»

«Taci, mio signore, quanto tu dici è tradimento! Hai dimenticato l’ordine del Re? Rammenta che io sono complice del tuo crimine anche soltanto ascoltandoti.»

St John impallidì e si affrettò a dire: «Ho sbagliato, lo confesso. Non tradirmi, concedimi questa grazia, cortese come sei, e io non penserò più a questa faccenda e non ne parlerò. Non essere duro con me, mio signore, altrimenti sono rovinato».

«Sono soddisfatto, Mylord. Purché tu non offenda ancora, qui o all’orecchio di altri, sarà come se non avessi mai parlato. Ma puoi fare a meno di nutrire sospetti. È il figlio di mia sorella; non mi sono forse, la voce, il volto, il corpo di lui, familiari sin dalla culla? La follia può causare tutte le cose bizzarre e contrastanti che tu scorgi nel Principe, e di più. Non rammenti che l’anziano barone Marley, essendo pazzo, dimenticò il proprio bell’aspetto, che conosceva da sessant’anni, sostenendone l’appartenenza a qualcun altro; anzi, asserì addirittura di essere il figlio di Maria Maddalena e disse di avere la testa fatta di vetro spagnolo; e, invero, non tollerava che qualcuno la toccasse, essendo per disavventura possibile a una mano maldestra frantumarla. Placa i tuoi sospetti, mio buon signore. Questi è il Principe stesso, io lo conosco bene... e sarà presto il tuo Re; potrebbe essere di vantaggio per te tener presente nei pensieri questa idea, e indugiare su di essa più che sull’altra.»

Dopo un’ulteriore conversazione, nel corso della quale Lord St John rimediò al proprio errore come meglio poteva, mediante reiterate proteste che la sua fiducia era ormai solidamente radicata e non sarebbe potuta essere nuovamente assalita da dubbi di sorta, Lord Hertford sostituì il compagno e sedette per montare di guardia e vigilare solo. Ben presto si calò in profonde meditazioni. E, evidentemente, quanto più rifletteva, tanto più si sentiva turbato. Di lì a non molto iniziò un andirivieni, mormorando tra sé e sé: “Oh, via, deve essere il Principe! Chi mai, in tutto il paese, riuscirebbe a sostenere che possono esistere due creature, non nate dallo stesso sangue, così mirabilmente identiche? E, anche se potessero esistere, sarebbe un miracolo ancor più strano se il caso dovesse porre l’una al posto dell’altra. No, questa è follia, follia, follia!”.

Dopo un poco Lord Hertford si disse: “Se egli fosse un impostore e sostenesse di essere il Principe, in tal caso il suo comportamento sarebbe logico, sarebbe ragionevole. Ma è mai esistito al mondo un impostore che, chiamato principe dal Re, principe dalla corte, principe da tutti, abbia smentito la sua dignità e perorato contro chi voleva esaltarlo? No! Per l’anima di San Swithin, no! Costui è il vero Principe, impazzito!”.


7


Il primo banchetto regale di Tom

Qualche tempo dopo l’una del pomeriggio, Tom, con rassegnazione, si sottopose al cimento di essere vestito per il pranzo. Si ritrovò mirabilmente in ghingheri come prima, ma tutto era diverso, tutto era cambiato, dalla gorgiera alle calze. Di lì a non molto venne accompagnato, con grande pompa, in una sala spaziosa e riccamente ornata, ove un tavolo era già apparecchiato per una sola persona. Le stoviglie risultarono essere tutte d’oro massiccio, e abbellite da decorazioni che senz’altro le rendevano inestimabili, essendo state eseguite da Benvenuto. La sala era già piena a metà di nobili servitori. Un cappellano recitò il benedicite, e Tom stava per gettarsi sul cibo, la fame essendo per lui costituzionale da lunga pezza, ma ne venne impedito da Mylord il Conte di Berkeley, che gli annodò un tovagliolo intorno al collo, essendo ereditaria nella famiglia di quel nobiluomo l’importante carica di Incaricati dei tovaglioli dei Principi di Galles. Il Coppiere di Tom era presente e prevenne tutti i tentativi del ragazzo di versarsi il vino. Si trovava lì anche l’Assaggiatore di Sua Altezza il Principe di Galles, pronto a gustare, talora gli venisse richiesto, qualsiasi cibo sospetto e a correre il pericolo di essere avvelenato. In quel periodo la sua era soltanto una carica onorifica e di rado egli veniva invitato a esercitare le sue funzioni; ma vi erano stati tempi, non molte generazioni prima, in cui la carica di assaggiatore esponeva a grandi pericoli e non era molto ambita. Sembra strano che non si servissero di un cane o di un idraulico, ma tutti gli aspetti della regalità sono strani. Lord d’Arcy, Primo Valletto di Camera, era presente, Dio solo sa a quale scopo: ma si trovava lì, e questo basta. Il Lord Primo Cameriere era a sua volta presente e si teneva in piedi dietro la sedia di Tom, sorvegliando lo svolgimento del solenne pasto, agli ordini del Lord Gran Cerimoniere e del Lord Capo Cuoco, poco discosti da lui. Oltre a costoro, Tom disponeva di altri trecentottantaquattro servitori, ma naturalmente non si trovavano tutti in quella sala, nemmeno un quarto di essi era presente e Tom non sapeva neppure ancora che esistessero.

Tutti i presenti erano stati preparati ben bene, da un’ora a quella parte, affinché ricordassero che il principe aveva temporaneamente perduto il senno e stessero bene attenti a non tradire stupore a causa delle sue eccentricità. Tali “eccentricità” divennero ben presto manifeste dinanzi ai loro occhi, ma si limitarono a causare compassione e dispiacere, e non ilarità. Fu per tutti una gran sofferenza vedere il diletto principe così colpito dal presunto male.

Il povero Tom mangiò soprattutto cacciandosi il cibo in bocca con le dita, ma nessuno sorrise o parve anche soltanto notarlo. Egli esaminò il tovagliolo con curiosità e profondo interesse, poiché era di splendido e delicato tessuto; poi disse, ingenuamente: «Ve ne prego, toglietemelo, affinché, a causa della mia sbadataggine, non debba sporcarsi».

L’Incaricato Ereditario del Tovagliolo glielo tolse con gesti reverenti e senza una qualsiasi parola di protesta.

Tom osservò interessato le barbabietole e la lattuga, e domandò che cosa fossero e se si dovesse mangiarle; soltanto di recente, infatti, si era cominciato a coltivarle in Inghilterra, invece di importarle come prodotti di lusso dall’Olanda. Gli fu risposto con gravità e rispetto, senza che venisse manifestato stupore alcuno. Dopo aver terminato il dessert, il principe si riempì le tasche di noci; ma nessuno parve accorgersene, o esserne turbato. Tuttavia, un momento dopo, egli stesso si preoccupò, poiché quella era la sola cosa che gli fosse stato consentito di compiere con le sue stesse mani durante il pasto, e perciò non dubitò affatto che si trattasse di un gesto quanto mai indecoroso e per nulla principesco. In quell’attimo i muscoli del naso cominciarono a contrarsi e la punta dello stesso organo prese ad andare su e giù e a raggrinzirsi. La cosa continuò e Tom non poté fare a meno di manifestare un grande sgomento. Guardò, supplichevole, prima l’uno poi l’altro dei lord dai quali era circondato, e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Tutti balzarono avanti con lo sgomento sul viso, esortandolo a rivelare la causa della sua afflizione. Tom disse, con autentica angoscia: «Anelo alla vostra indulgenza, ma il naso mi prude in modo intollerabile. Quali sono le costumanze e gli usi in una situazione del genere? Affrettatevi, ve ne prego, poiché non potrò sopportare per molto il tormento».

Nessuno sorrise; tutti rimasero perplessi e si sbirciarono a vicenda, profondamente afflitti, in cerca di un parere. Ma, ahimè, si trovavano di fronte a un muro cieco poiché nulla, nella storia inglese, poteva dir loro come regolarsi. Il Maestro delle Cerimonie non era presente; non si trovava nessuno, lì, che potesse sentirsi sicuro avventurandosi su quel mare ignoto o che fosse disposto a correre il rischio di risolvere un così solenne problema. Ahimè! Non esisteva alcun Incaricato Ereditario dei Grattamenti. Nel frattempo le lacrime, avendo superato gli argini, cominciarono a scorrere sulle gote di Tom. Il suo naso contratto richiedeva, urgentemente come non mai, un sollievo. Infine la natura abbatté le barriere dell’etichetta: Tom recitò silenziosamente una preghiera, chiedendo perdono nell’eventualità che avesse fatto qualcosa di male, poi portò il sollievo nel cuore greve dei suoi cortigiani grattandosi il naso egli stesso.

Terminato il pasto, un lord si avvicinò e tenne dinanzi a lui una grande e poco profonda bacinella d’oro, contenente fragrante acqua di rose, affinché egli potesse lavarsi la bocca e le dita, e il Lord Incaricato Ereditario del Tovagliolo rimase lì accanto con una salvietta, perché egli se ne servisse. Tom contemplò la bacinella, interdetto per un momento o due, quindi se la portò alle labbra e, con gravità, bevve un sorso. Infine la restituì a colui che gliel’aveva offerta, dicendo: «No, non è di mio gusto, Mylord, ha un sapore gradevole, ma manca di forza».

Questa nuova eccentricità della mente malata del principe rattristò il cuore di tutti coloro dai quali era circondato, poiché il malinconico spettacolo fu tale da non indurre alcuno al sorriso.

Il successivo, inconsapevole e grossolano errore di Tom consistette nell’alzarsi e nell’allontanarsi da tavola proprio mentre il cappellano si era avvicinato dietro la sedia di lui e, con le mani alzate e giunte, e gli occhi rivolti al cielo, stava per iniziare la benedizione. Ma, anche questa volta, nessuno parve accorgersi che il principe aveva fatto qualcosa di insolito.

Dietro sua richiesta, il nostro piccolo amico venne accompagnato, a questo punto, nello studio privato e lasciato là solo, a fare quel che gli fosse piaciuto. Appese ad appositi ganci, infissi nel rivestimento a pannelli di quercia, si trovavano le varie parti di una corazza di lucente acciaio, abbellita dappertutto con mirabili decorazioni squisitamente intarsiate in oro. Questa marziale corazza apparteneva al vero principe, e gli era stata donata di recente da Madame Parr, la regina. Tom si mise gli schinieri, i guanti d’armatura, l’elmo piumato e quelle altre parti che riuscì a indossare senza alcun aiuto e, per qualche momento, pensò di chiamare qualcuno affinché gli mettesse addosso le parti mancanti, ma poi pensò alle noci che si era messo in tasca al termine del pranzo e a quanto sarebbe stato piacevole gustarle senza un’intera turba intenta a osservarlo e senza Grandi Lord Ereditari a infastidirlo con servigi indesiderati; per cui rimise i graziosi pezzi dell’armatura ai loro vari posti e ben presto cominciò a rompere noci con i denti e a sentirsi quasi normalmente felice per la prima volta da quando Dio, a causa dei suoi peccati, aveva fatto di lui un principe. Allorché non gli rimasero altre noci, trovò in un armadio alcuni libri invitanti, tra i quali uno concernente l’etichetta alla Corte inglese. Era una manna. Si distese su un divano lussuoso e si accinse a imparare con vero zelo. Lasciamolo lì, per il momento.


8


La questione del Sigillo

Verso le cinque, Enrico VIII si destò da un breve sonno non riposante e mormorò, tra sé e sé: “Sogni luttuosi, sogni luttuosi! La mia fine è imminente, ormai; così dicono questi avvertimenti, e il polso sempre più debole lo conferma”. Di lì a poco, una luce di perfidia gli balenò negli occhi, ed egli borbottò: «Pure, non morirò prima che se ne sia andato lui».

Essendosi, coloro che lo assistevano, resisi conto che era desto, uno di essi domandò al re se gradisse la presenza del Lord Cancelliere, in attesa fuori della camera.

«Fatelo entrare, fatelo entrare!» esclamò il re, avidamente.

Il Lord Cancelliere entrò e si inginocchiò accanto al giaciglio del sovrano, dicendo: «Ho impartito l’ordine e, secondo la volontà del Re, i pari del regno, con le vesti della loro carica, si trovano ora riuniti nella Camera Alta, ove, avendo confermato la condanna del Duca di Norfolk, umilmente aspettano di conoscere gli ulteriori ordini di Sua Maestà al riguardo».

Una gioia feroce illuminò il volto del re, ed egli disse: «Sollevatemi! Mi recherò personalmente di fronte al Parlamento e, con la mia stessa mano, suggellerò l’atto che mi libera da...».

La voce gli venne meno, un pallore cinereo allontanò il colorito dalle gote di lui e i gentiluomini di corte lo riadagiarono contro i guanciali e si affrettarono a fargli riprendere le forze con cordiali. Di lì a non molto egli disse, in tono afflitto: «Ahimè, quanto ho anelato a quest’ora soave! Ed ecco, essa giunge troppo tardi, e vengo defraudato di un’occasione così ambita. Ma affrettatevi, voi, affrettatevi! Provvedano altri a questo lieto compito, poiché è negato a me. Affido il Grande Sigillo a una commissione; scegli tu i lord che la comporranno e mettiti all’opera. Affrettati, amico! Prima che il sole sorga e tramonti ancora, portami la sua testa, che possa vederla».

«Come il Re ordina, così sarà fatto. Vuole Tua Maestà disporre affinché il Grande Sigillo mi venga restituito, per consentirmi di portare a termine il compito?»

«Il Sigillo? Chi custodisce il Sigillo, se non tu?»

«Chiedo venia, Maestà, ma Tua Maestà me lo ha tolto or sono due giorni dicendo che il Sigillo non sarebbe dovuto essere impiegato fino a quando la mano stessa regale non lo avesse apposto sul decreto di condanna del Duca di Norfolk.»

«Già, così, in verità, ho fatto; me ne rammento. Dove l’ho messo? Sono molto debole. Per cui in questi giorni la memoria mi tradisce. È strano...»

Il re prese a farfugliare frasi sconnesse, scuotendo debolmente, di quando in quando, la testa grigia, e vanamente sforzandosi di ricordare che cosa avesse fatto del Grande Sigillo.

Infine Lord Hertford si azzardò a inginocchiarsi e a dare spontaneamente un suggerimento: «Sire, se mi è consentito essere così audace, numerosi altri, qui, ricordano, come me, che tu ponesti il Grande Sigillo nelle mani di Sua Altezza il Principe di Galles, affinché lo conservasse per il giorno in cui...».

«Vero, verissimo!» lo interruppe il re. «Va’ a prenderlo! Va’; il tempo vola!»

Lord Hertford corse da Tom, ma tornò, di lì a non molto, al cospetto del re, turbato e a mani vuote. Pronunciò le seguenti parole: «Mi affligge, mio signore il Re, essere latore di così gravi e sgradite notizie; ma Dio vuole che il malessere del Principe permanga, ed egli non riesce a riportarsi alla mente il fatto di avere avuto il Sigillo. Mi sono pertanto affrettato a tornare qui e a riferire, ritenendo che sarebbe stata una perdita di tempo prezioso – e per giunta inutile – il tentativo, da parte di chicchessia, di cercare il Sigillo nella lunga serie di camere e saloni appartenenti a Sua Altezza reale...».

Un gemito del re interruppe a questo punto Lord Hertford. Dopo qualche momento, Sua Maestà disse, con una tristezza profonda nel tono della voce: «Non lo si infastidisca più, povero fanciullo. La mano di Dio preme grave su di lui, e a lui va il mio cuore con compassione affettuosa, e io soffro non potendo prendermi sulle spalle, appesantite dalle afflizioni, il suo fardello e ridargli così la serenità».

Chiuse gli occhi, mormorò altre parole, incomprensibili, e infine tacque. Dopo qualche tempo, riaprì gli occhi e li volse spenti, intorno a sé, finché lo sguardo di lui non andò a posarsi sul Lord Cancelliere inginocchiato. All’istante, l’ira gli accese il viso di rossore: «Cosa! Sei qui ancora! Per la gloria di Dio, se non ti accingerai a risolvere la questione del traditore, la tua mitra sarà in vacanza, domani, non avendo più una testa da abbellire!».

Il Cancelliere, tremando, rispose: «Buona Maestà, imploro misericordia, ma aspettavo il Sigillo».

«Amico, ti ha dato di volta il cervello? Il piccolo Sigillo che in passato tenevo sempre con me trovasi nel mio tesoro. E poiché il Grande Sigillo è scomparso, non può esso bastare? Hai perduto il senno? Va’! E ascoltami bene: non ripresentarti a me finché non porterai la testa di quell’uomo».

Il povero Cancelliere non esitò ad allontanarsi da quella pericolosa vicinanza, né la commissione perdette tempo prima di dare l’assenso regale all’opera dell’asservito Parlamento e di fissare l’indomani per la decapitazione del primo Pari d’Inghilterra, lo sventurato Duca di Norfolk.


9


Il corteo sul fiume

Alle nove di sera, l’intera e imponente facciata del palazzo sul lato del fiume splendeva di luce. Il fiume stesso, sin dove poteva giungere lo sguardo nella direzione della città, era così fittamente coperto da imbarcazioni di traghettatori e da battelli di piacere, tutti festonati da lampioncini colorati e tutti fatti così dolcemente dondolare dalla corrente, da somigliare a uno splendente e sconfinato giardino fiorito, smosso appena dalle brezze estive. La grande terrazza che, mediante gradini di pietra, conduceva all’acqua ed era spaziosa abbastanza perché potesse radunarvisi l’esercito di un principato tedesco, costituiva uno spettacolo a vedersi con le file degli alabardieri del re nelle loro splendide corazze e con i gruppi di servi dalle vivide livree che correvano su e giù e avanti e indietro, nella fretta dei preparativi.

Di lì a poco venne impartito un ordine e, all’istante, ogni creatura vivente scomparve dai gradini. A questo punto, l’aria stessa parve divenire greve, satura com’era del silenzio, dell’ansia e dell’aspettativa. Sin dove giungeva lo sguardo di un osservatore, fu possibile scorgere la miriade di persone sulle imbarcazioni alzarsi in piedi e farsi schermo agli occhi dal bagliore delle torce e delle lanterne, mentre tutti guardavano nella direzione del palazzo.

Una fila di quaranta o cinquanta barconi di rappresentanza accostò ai gradini. Erano riccamente dorati e avevano le prue e le poppe maestose, scolpite in modo elaborato. Se ne vedevano alcuni decorati con bandiere e pennoni; alcuni con stoffe d’oro e arazzi sui quali figuravano, ricamati, stemmi; alcuni con bandiere di seta irte di minuscoli campanelli d’argento, per cui, ogni qual volta la brezza le faceva sventolare, se ne riversavano cascate di musica gioiosa. Altre imbarcazioni avevano pretese ancora maggiori, in quanto appartenevano a nobili al servizio diretto del sovrano, ragione per la quale i loro lati erano rivestiti da scudi che ostentavano stemmi sfarzosi. Ogni imbarcazione ufficiale veniva rimorchiata da una lancia. Oltre ai rematori, su ognuna di queste lance si trovava un certo numero di armigeri dagli elmi e dalle corazze lucenti, nonché un gruppo di musicanti.

L’avanguardia dell’atteso corteo apparve, a questo punto, nel varco del grande cancello: un reparto di alabardieri. Indossavano calzoni al ginocchio a strisce nere e gialle, berretti di velluto adornati sui lati da rose d’argento e farsetti di tessuto color viola scuro e blu, ricamati davanti e dietro con le tre piume – lo stemma del principe – a fili d’oro. Avevano le aste delle alabarde rivestite con velluto cremisi, applicato mediante chiodi dorati e ornato da fiocchetti d’oro. Sfilando da destra a sinistra, formavano due lunghe file che andavano dal cancello del palazzo alla riva del fiume. Uno spesso tessuto spigato, o tappeto, venne poi srotolato e disteso tra essi dai servi con le livree dorate e cremisi del principe. Ciò fatto, uno squillo di trombe risuonò all’interno del palazzo. Un animato preludio scaturì dai musicanti sul fiume, e due cerimonieri dalle mazze bianche marciarono a passi lenti e maestosamente cadenzati uscendo dal cancello. Li seguiva un funzionario con il bastone (emblema del potere civico) e, dopo di lui, ne veniva un altro con la spada della città; seguivano poi numerosi sergenti della guardia cittadina, in alta uniforme e con distintivi sulle maniche; quindi ecco il Gran Maestro dell’Ordine della Giarrettiera, con la cotta d’armi; poi numerosi cavalieri dell’Ordine del Bagno, ognuno con un pizzo bianco sulla manica; poi i loro scudieri; poi i giudici, con le vesti scarlatte e le cuffie; poi il Lord Gran Cancelliere d’Inghilterra, in veste scarlatta, aperta sul davanti e orlata con pelliccia di vaio; poi una delegazione di consiglieri municipali, con i loro mantelli scarlatti; poi i capi delle varie compagnie civiche, tutti in pompa magna. Vennero quindi dodici gentiluomini francesi, dallo splendido abbigliamento, consistente in farsetti imbottiti di damasco bianco a strisce d’oro, in corti mantelli di velluto cremisi foderati con taffetà viola e in hauts-de-chausses color garofano. Il gruppo prese a scendere i gradini. Trattavasi del seguito dell’ambasciatore francese e precedette i dodici cavalieri del seguito dell’ambasciatore spagnolo, tutti in velluto nero senza ornamento alcuno. Dopo questi ultimi vennero numerosi grandi nobili inglesi con i loro servi.

Una volta di più, si udì all’interno del palazzo uno squillo di trombe; e lo zio del principe, il futuro e grande Duca di Somerset, uscì dal cancello con un farsetto di tessuto nero, ricamato in oro, e con un mantello di seta cremisi a fiori d’oro, orlato con rete d’argento. Egli si voltò, si tolse il berretto piumato, piegò il corpo in un inchino profondo e cominciò a indietreggiare, di nuovo inchinandosi a ogni passo. Seguirono un prolungato squillo di trombe e un proclama: «Fate largo all’alto e potente signore Edoardo, il Principe di Galles!».

In alto sulle mura del palazzo, una lunga fila di rosse lingue di fiamma sprizzò con un colpo di tuono; la moltitudine ammassata sul fiume proruppe in un formidabile grido di benvenuto; e Tom Canty, la causa e l’eroe di tutto ciò, apparve alla vista e lievemente chinò il capo principesco.

Era magnificamente vestito con un farsetto di seta bianca, un giustacuore di tessuto viola, tempestato di diamanti e orlato con ermellino, e un mantello di tessuto bianco sul quale faceva spicco, ricamato in oro, lo stemma delle tre piume; il mantello era foderato con seta azzurra, ornato con perle e pietre preziose e fermato da una fibbia di brillanti. Intorno al collo egli aveva l’Ordine della Giarrettiera, nonché numerosi altri ordini principeschi stranieri; e, in qualsiasi punto la luce cadesse su di lui, pietre preziose brillavano con fulgori abbacinanti. Oh, Tom Canty, nato in una catapecchia, cresciuto nei rigagnoli di Londra, assuefatto agli stracci, alla sporcizia e alla miseria, quale spettacolo è mai questo!


10


Il principe in trappola

Abbiamo lasciato John Canty, mentre trascinava il vero principe nel Cortile dei Rifiuti, con un rumoroso e deliziato codazzo alle calcagna. Vi fu, in quest’ultimo, una sola persona che pronunciò qualche parola di supplica a favore del prigioniero; e nessuno l’ascoltò; difficilmente, d’altro canto, sarebbe stato possibile udirla, tanto forte era il baccano. Il principe continuò a dibattersi per essere libero e a infuriare a causa del trattamento che stava subendo, finché John Canty, perduto quel briciolo di pazienza che esisteva in lui, sollevò con furia improvvisa il randello di quercia sopra il capo del ragazzo. Il solo a perorare per quest’ultimo balzò avanti allo scopo di fermare il braccio dell’uomo, e il colpo gli finì sul polso. Canty tuonò: «Hai voluto metterti di mezzo tu, eh? Eccoti allora la ricompensa!».

Il randello piombò sul capo dell’intruso; si udì un gemito, una forma vaga si afflosciò sul terreno, tra i piedi della calca e, un momento dopo, giacque là sola, al buio. La plebaglia proseguì il suo spasso per nulla turbato dall’episodio.

Di lì a poco il principe venne a trovarsi nell’alloggio di John Canty, con la porta chiusa contro gli estranei. Alla luce vaga di una candela di sego, conficcata nel collo di una bottiglia, intravide le caratteristiche principali della laida tana e inoltre le persone che la occupavano. Due sciatte ragazze e una donna di mezza età si facevano piccole contro la parete, in un angolo, con l’aspetto di bestie abituate a trattamenti crudeli. Da un altro angolo si fece avanti furtivamente una megera raggrinzita, dai grigi capelli scarmigliati e dagli occhi maligni. John Canty disse a costei: «Sta’ bene attenta! Sentirai che buffonate. Non le interrompere finché non te le sarai godute; poi fa pure pesare la mano finché vorrai. Fatti avanti, ragazzo. Ora ripeti la tua pagliacciata, e non dimenticare niente. Di’ come ti chiami. Chi sei tu?».

Il sangue offeso affluì una volta di più alle gote del piccolo principe, che alzò lo sguardo fermo e indignato verso la faccia dell’uomo e disse: «Soltanto la villania di un marrano par tuo può ordinarmi di parlare. Ma te lo dirò ora come te l’ho detto prima: io sono Edoardo, Principe di Galles, e nessun altro».

Lo sbalordito stupore causato da tale risposta inchiodò i piedi della megera al pavimento, là ove ella si trovava, e per poco non le mozzò il respiro. La vecchia fissò il principe stupidamente meravigliata, e questo divertì a tal punto il figlio ruffiano di lei che l’uomo scoppiò in uno scroscio di risate. Ma l’effetto sulla madre e sulle sorelle di Tom Canty fu diverso. Il loro terrore di lesioni fisiche cedette subito il posto a uno sgomento d’altro genere. Tutte e tre corsero avanti con l’afflizione e la tristezza sul volto, esclamando: «Oh, povero Tom, povero ragazzo!».

La madre cadde in ginocchio dinanzi al principe, gli mise le mani sulle spalle e lo contemplò, ansiosa in viso, attraverso le lacrime che stavano sgorgando. Poi disse: «Oh, povero figliolo mio! Le tue stupide letture hanno causato, in ultimo, il loro effetto nefasto, togliendoti il senno. Ah! Perché hai continuato a leggere quei libri, mentre io ti avevo tante volte avvertito di restarne lontano? Ora tu spezzi il cuore di tua madre».

Il principe la scrutò in viso e disse, con dolcezza: «Tuo figlio sta bene e non ha perduto il senno, buona donna. Consolati; conducimi al palazzo ove egli si trova, e immantinente il Re mio padre te lo restituirà».

«Il Re tuo padre! Oh, bambino mio! Rimangiati queste parole che sono cariche di morte per te e di rovina per chiunque ti stia accanto. Scrollati di dosso questo sogno terribile. Richiama indietro la tua povera memoria vagante. Guardami. Non sono io tua madre che ti ha generato e che ti ama?»

Il principe scosse la testa e disse, con riluttanza: «Dio sa se non sopporto di affliggere il tuo cuore, ma invero io non ti ho mai veduta in faccia prima d’ora».

La donna ricadde in posizione seduta sul pavimento e, coprendosi gli occhi con le mani, lasciò sfogo a singhiozzi e gemiti che spezzavano il cuore.

«Che lo spettacolo continui!» gridò Canty. «Cosa, Nan! Cosa, Bet! Ragazzacce maleducate! Osate restare in piedi alla presenza del Principe! In ginocchio, feccia della miseria, e fategli una riverenza!»

A queste parole, fece seguire una risata equina. Le ragazze cominciarono timidamente a perorare per il fratello, e Nan disse: «Lascia che si corichi, padre; il riposo e il sonno guariranno la sua follia; lascialo dormire, te ne prego».

«Sì, padre,» disse Bet «è più stanco del solito. Domani sarà di nuovo se stesso, mendicherà con diligenza, e non tornerà ancora a mani vuote.»

Queste parole fecero cessare bruscamente la giovialità del padre, riportando i pensieri di lui alle cose serie. Egli si rivolse irosamente al principe e disse: «Domani dobbiamo pagare due penny al proprietario di questa tana; due penny, hai capito?... tutto questo denaro per sei mesi di pigione, altrimenti ci scaccerà di qui. Suvvia, mostrami quello che hai raccolto con il tuo pigro mendicare».

Il principe rispose: «Non offendermi con le tue sordide difficoltà. Torno a ripeterti che sono il figlio del Re».

Un colpo tremendo del largo palmo di Canty sulla spalla lo scaraventò barcollante tra le braccia della moglie di quell’energumeno; lei lo strinse al petto e lo protesse, interponendo se stessa, da una pioggia di scappellotti e di manrovesci. Le ragazze si rifugiarono spaventate nel loro angolo, ma la nonna venne avanti avidamente per dare manforte al figlio. Il principe si allontanò con un balzo dalla signora Canty, esclamando: «Non soffrirai per me, signora. Lascia che questi porci facciano come vogliono con la mia persona».

Queste parole infuriarono i due porci a tal punto che entrambi si accinsero a completare l’opera senza perdere tempo. Tra tutti e due percossero ben bene il ragazzo, e poi picchiarono anche le ragazze e la loro madre per avere compassionato la vittima.

«E adesso» disse Canty «a letto tutti quanti. Lo spasso mi ha stancato.»

La candela venne spenta e la famiglia si coricò. Non appena il sonoro russare del capofamiglia e di sua madre dimostrò che si erano addormentati, le ragazze strisciarono furtive verso il punto in cui giaceva il principe e teneramente lo protessero dal freddo con paglia e stracci; anche la loro madre si avvicinò, e gli accarezzò i capelli, e pianse accanto a lui, bisbigliandogli inoltre all’orecchio rotte parole di consolazione e compassione. Aveva anche messo da parte per lui un boccone, ma le sofferenze del ragazzo erano riuscite a fargli dileguare completamente l’appetito, per quanto concerneva, almeno, scure e insipide croste di pane. Egli era commosso, in ogni modo, dal coraggio e dal sacrificio con cui la donna lo aveva difeso, e la ringraziò con parole assai nobili e principesche, e la esortò ad andare a dormire e a tentar di dimenticare le proprie pene. Soggiunse poi che il re suo padre non avrebbe lasciato senza compenso tanta leale bontà e tanta dedizione. Questo ritorno alla “pazzia” spezzò di nuovo il cuore della donna che, una volta di più, si strinse al petto il ragazzo, ripetutamente, e infine, piangente e striata di lacrime, tornò al suo giaciglio.

Mentre giaceva desta, riflettendo e affliggendosi, cominciò a insinuarsi nella sua mente l’idea della presenza di un indefinibile qualcosa, in quel ragazzo, che mancava in Tom Canty, pazzo o sano di mente. Non riusciva a dare un contorno al “qualcosa”, non riusciva a descriverlo e a dire che cosa fosse precisamente, eppure il suo acuto istinto materno sembrava individuare e percepire la diversità. E se, davvero, il ragazzo non fosse stato suo figlio, tutto sommato? Oh, assurdo! Quasi sorrise di una simile idea, nonostante i suoi crucci e i suoi guai. Eppure, constatò che l’idea non voleva saperne di “sparire”, ma si ostinava ad assillarla. La perseguitava, la ossessionava, le si avvinghiava rifiutandosi di essere accantonata o ignorata. Infine, ella si rese conto che non vi sarebbe stata pace per lei finché non fosse riuscita a escogitare una prova mediante la quale si potesse dimostrare, chiaramente e senza ombra di dubbio, se il ragazzo era suo figlio o meno, bandendo così quei dubbi logoranti e sconvolgenti. Ah, sì, questo era palesemente il modo giusto di risolvere la questione; pertanto ella ricorse subito a tutte le sue risorse mentali per escogitare tale prova. Ma risultò essere più facile fare un proponimento che attuarlo. Ella prese mentalmente in considerazione una prova promettente dopo l’altra, ma fu costretta a scartarle tutte: non una di esse, infatti, era assolutamente certa, assolutamente perfetta; e una prova imperfetta non sarebbe bastata a persuaderla. Evidentemente, si stava spremendo invano le meningi; sembrava ovvio che avrebbe dovuto rinunciare. Mentre questa riflessione sconfortante le si affacciava nella mente, le giunse all’orecchio il respiro regolare del ragazzo, ed ella si rese conto allora che Tom si era addormentato. Poi, mentre ascoltava, il respiro ritmato venne interrotto da un grido sommesso di paura, come quelli che ci si lascia sfuggire facendo un brutto sogno. Questo evento fortuito le suggerì all’istante un piano che valeva più di tutte le prove escogitate fino ad allora e messe insieme. Subito ella si accinse, febbrilmente ma silenziosamente, a riaccedere la candela, mormorando tra sé e sé: “Se mi fosse stato possibile vederlo in quel momento, avrei saputo! Sin dal lontano giorno in cui – quando era bimbetto – la polvere da sparo gli scoppiò in faccia, non si è mai strappato all’improvviso ai propri sogni, o ai propri pensieri, senza portarsi una mano davanti agli occhi, proprio come fece quel giorno; e non come farebbe chiunque altro, con il palmo verso la faccia, ma, sempre, con il palmo voltato verso l’esterno. Cento volte gli ho veduto compiere questo gesto, e non ha mai mancato di compierlo, ed è sempre stato uguale. Sì, lo saprò presto, ora!”.

Nel frattempo, era strisciata accanto al ragazzo addormentato, con la candela, schermata, nella mano. Si chinò vigile e circospetta su di lui, evitando quasi di respirare mentre reprimeva l’agitazione, e all’improvviso gli fece balenare la luce sulla faccia e batté con le nocche sul pavimento, accanto all’orecchio di lui. Il ragazzo addormentato spalancò gli occhi e volse, spaventato, lo sguardo intorno a sé, ma non fece alcun particolare gesto con le mani.

La povera donna venne quasi travolta dallo stupore e dalla sofferenza, ma riuscì a nascondere il turbamento e a calmare il ragazzo, facendolo riaddormentare; poi si allontanò strisciando e, malinconicamente, rifletté sul risultato disastroso dell’esperimento. Cercò di credere che la pazzia di Tom potesse aver bandito quel gesto abituale, ma non vi riuscì. «No» mormorò «le mani di lui non sono pazze; non avrebbero potuto disimparare in così breve tempo un gesto tanto abituale. Oh, è una notte dolorosa, questa, per me!»

Eppure, la speranza divenne ora in lei ostinata come lo era stato prima il dubbio; non riusciva a indursi ad accettare il verdetto della prova; bisognava che ritentasse; il fallimento poteva essere stato soltanto un caso; pertanto strappò al sonno il ragazzo, spaventandolo, una seconda e una terza volta, a intervalli, ottenendo lo stesso risultato della prima prova; poi si trascinò sul proprio giaciglio e dolorosamente si addormentò, dicendo a se stessa: “Ma non posso rinunciare a lui. Oh, no, non posso, non posso; deve essere il mio figliolo!”.

Cessate le interruzioni a opera della povera madre e attenuatesi a poco a poco le sofferenze del principe causate dalle botte, così da non disturbarlo più, l’estremo sfinimento gli sigillò infine gli occhi con un sonno profondo e riposante. Le ore trascorsero, una dopo l’altra, ed egli continuò a dormire come se fosse stato in letargo. Di ore ne passarono, così, quattro o cinque. Poi il sonno di lui divenne più leggero. Di lì a non molto, mentre era mezzo addormentato e mezzo desto, il ragazzo mormorò: «Sir William!».

Quindi, dopo un momento: «Ehilà, Sir William Herbert! Avvicinati e ascolta il sogno più strano che mai sia stato fatto. Sir William! Mi senti? Amico, credevo di essere diventato povero, e... Ehi, voi! Guardate! Sir William! Cosa? Non v’è alcun gentiluomo di camera a vigilare su di me? Oh, sarà dura per...».

«Che cosa ti tormenta?» domandò una voce bisbigliante accanto a lui. «Chi stai chiamando?»

«Sir William Herbert. Tu chi sei?»

«Io? Chi dovrei essere, se non tua sorella Nan? Oh, Tom, avevo dimenticato! Sei ancora pazzo. Povero figliolo, continui a essere pazzo; ah, potessi non essermi mai destata, per saperlo di nuovo! Ma te ne prego, tieni a freno la lingua, se non vuoi che veniamo tutti percossi a morte!»

Il principe, spaventato, si drizzò in parte a sedere, ma una fitta lancinante dei lividi e dei muscoli indolenziti lo riportò a sé, ed egli ricadde giù, sulla paglia sudicia e puzzolente, con un gemito e con l’esclamazione: «Ahimè, non era un sogno, allora!».

In un attimo, tutta la greve sofferenza e l’infelicità bandite dal sonno tornarono ad assalirlo; si rese conto allora di non essere più il principe coccolato in un palazzo, con gli occhi adoranti dell’intera nazione fissi su di lui, ma un miserabile, un fuoricasta, vestito di stracci, prigioniero in una tana adatta soltanto alle bestie, e in compagnia di mendicanti e ladri.

Nel pieno di tanto dolore, cominciò a divenire consapevole di suoni di ilarità e di urti, lontani, si sarebbe detto, un isolato o due. Un momento dopo si udirono parecchi colpi forti alla porta; John Canty smise di russare e domandò: «Chi bussa? Che cosa vuoi?».

Una voce domandò: «Sai tu su chi hai abbattuto il randello?».

«No. Non lo so e me ne infischio.»

«Forse cambierai presto tono. E se vuoi salvare la pelle, soltanto la fuga potrà consentirtelo. L’uomo sta rendendo in questo momento l’anima sua. È il prete, Padre Andrew.»

«Dio abbia pietà di me!» esclamò Canty. Destò la famiglia e con voce rauca ordinò: «In piedi, tutti quanti e fuggite, oppure restate dove siete e creperete!».

Meno, quasi, di cinque minuti dopo, la famiglia Canty si trovava in strada e fuggiva per sottrarsi alla morte. John Canty tenne ben stretto il principe per il polso e frettolosamente lo trascinò lungo il buio vicolo, ammonendolo a voce bassa: «Tieni a freno la lingua, stupido pazzo, e non pronunciare il nostro nome. Sceglierò subito per me un altro nome, allo scopo di sviare dalle tracce i segugi della legge. Tieni la lingua a freno, ti dico!». Poi ringhiò al resto della famiglia queste parole: «Se per caso dovessimo essere separati, dirigiamoci verso il Ponte di Londra. Chi per primo verrà a trovarsi davanti all’ultima bottega di tela di lino, sul ponte, indugi là finché anche gli altri saranno arrivati; poi fuggiremo insieme verso sud».

In quel momento, il gruppo passò all’improvviso dal buio alla luce, e non soltanto alla luce, ma nel bel mezzo di una moltitudine di persone che cantavano, danzavano e urlavano, ammassate lungo la riva del fiume. V’era una fila di falò che arrivava sin dove poteva giungere lo sguardo, da un lato e dall’altro lungo il Tamigi; il Ponte di Londra risaltava illuminato; e così il Ponte Southwark. L’intero fiume veniva reso splendente dai lampi e dai riflessi di luci colorate; e incessanti esplosioni di fuochi artificiali colmavano il cielo con un complicato intersecarsi di saettanti splendori e con una fitta pioggia di scintille abbacinanti che quasi tramutavano in giorno la notte; ovunque si trovavano turbe di gente che faceva baldoria; l’intera popolazione di Londra sembrava essere uscita in strada.

John Canty lanciò una furente bestemmia e ordinò la ritirata; ma era troppo tardi. Lui e la sua tribù vennero inghiottiti da quello sciamante alveare di umanità e separati in un attimo, senza speranza, l’uno dall’altro. Non stiamo includendo il principe nella tribù; Canty, infatti, non aveva mollato la presa su di lui. Il cuore del principe stava martellando, adesso, colmo della speranza di poter fuggire. Un tarchiato traghettatore, notevolmente eccitato dai liquori, si sentì spingere rudemente da Canty, che tentava di aprirsi un varco attraverso la ressa; l’uomo piazzò la grossa mano su una spalla del prepotente e disse: «Ehi, dove te ne vai con tanta fretta, amico? Come puoi incancrenire l’anima tua con sordide occupazioni, mentre tutti questi uomini leali e sinceri festeggiano?».

«Le mie occupazioni riguardano me, e non te» rispose Canty, villanamente. «Ora, toglimi la mano di dosso e lasciami passare.»

«Poiché sei di questo umore, non passerai finché non avrai bevuto alla salute del Principe di Galles, te lo dico io» replicò il traghettatore, sbarrandogli risolutamente la strada.

«Dammi la coppa, allora, e affrettati, affrettati!»

Nel frattempo, altri di coloro che festeggiavano si erano interessati al battibecco. Gridarono: «La coppa dell’amicizia, la coppa dell’amicizia! Che il bisbetico gaglioffo beva dalla coppa dell’amicizia, altrimenti lo daremo in pasto ai pesci».

Così, venne portata un’enorme coppa dell’amicizia; il traghettatore, afferratala per uno dei manici, e tenendo con l’altra mano un tovagliolo immaginario, la porse, secondo le debite e antiche forme, a Canty, che dovette afferrare il manico opposto con una delle mani e togliere il coperchio con l’altra, come voleva l’antica costumanza. Questo, naturalmente, liberò per un secondo il principe dalla stretta. Egli non perdette tempo, ma si gettò tra la foresta di gambe intorno a sé. Dopo un altro attimo, non sarebbe stato più difficile a ritrovarsi, sotto quell’ondulato mare di vita, se si fosse trattato dei flutti dell’Atlantico e di una monetina lasciata cadere in essi.

Ben presto egli si rese conto di ciò e immediatamente pensò soltanto agli affari suoi, dimenticando John Canty. Rapidamente, si rese conto anche di un’altra cosa. Vale a dire che la città stava festeggiando, in sua vece, un falso Principe di Galles. Non gli fu difficile pervenire alla conclusione che il ragazzo povero, Tom Canty, aveva deliberatamente approfittato della stupenda occasione, diventando un usurpatore.

Per conseguenza, non rimaneva che una cosa da fare... trovare la strada fino al Palazzo Municipale, farsi riconoscere e denunciare l’impostore. Egli decise inoltre che a Tom sarebbe dovuto essere concesso un periodo di tempo ragionevole per prepararsi spiritualmente, dopodiché lo avrebbero impiccato e squartato, secondo le leggi e le usanze dell’epoca nei casi di alto tradimento.


11


Nel Palazzo Municipale

L’imbarcazione regale, seguita dalla sua splendida flotta, discese maestosamente il Tamigi tra le innumerevoli barche illuminate. L’aria era satura di musica; sulle rive del fiume guizzavano fiammate di esultanza; la lontana città era avvolta da un morbido e intenso bagliore, causato dagli innumerevoli e invisibili falò; sullo sfondo del cielo si profilavano, alte, non poche esili guglie, costellate di luci scintillanti, per cui, lontane com’erano, sembravano lance ingioiellate e scagliate verso il firmamento; proseguendo, la flotta veniva accolta, lungo le rive, dall’urlio incessante e rauco delle acclamazioni, e dai lampi e dai tuoni ininterrotti delle artiglierie.

Per Tom Canty, semi affondato su cuscini di seta, questi suoni e questo spettacolo costituivano una meraviglia indicibilmente sublime e tale da lasciarlo allibito. Per le sue piccole amiche ai fianchi di lui, la principessa Elizabeth e la dama Jane Gray, tutto ciò era una quisquilia.

Una volta giunta alla Dowgate, la flotta venne rimorchiata su per il limpido Walbrook (un canale che, ormai da due secoli, giace sepolto e invisibile sotto una distesa di edifici) fino a Bucklesbury, passando accanto a case e sotto ponti brulicanti di gente che faceva baldoria e vividamente illuminati, e fermandosi infine in un bacino ove si trova adesso il Barge Yard, nel centro dell’antica città di Londra. Tom sbarcò e lui e il suo sfarzoso corteo attraversarono Cheapside e percorsero il breve tratto lungo Old Jewry e Basinghall Strett, fino al Palazzo Municipale.

Tom e le sue piccole dame di compagnia vennero colti con il debito cerimoniale dal Sindaco di Londra e dai Padri della città, con le catene d’oro e le vesti scarlatte di gala, per essere poi accompagnati sotto un ricco baldacchino in fondo al grande salone, preceduti da araldi che ne proclamavano l’arrivo nonché da coloro che portavano la mazza e la spada della città. I signori e le dame che dovevano servire Tom e le sue due piccole amiche presero posto dietro le loro sedie.

A un tavolo situato più in basso, sedevano i personaggi importanti della Corte e altri nobili signori insieme ai magnati della città; i cittadini comuni presero posto a una moltitudine di tavoli collocati sul pavimento del salone. Dalla loro maestosa ed elevata posizione, i giganti Gog e Magog, gli antichi guardiani della città, contemplavano lo spettacolo sotto di loro con occhi ormai familiarizzatisi a esso da dimenticate generazioni. Vi furono uno squillo di trombe e un proclama, poi un maggiordomo obeso apparve su un alto trespolo contro la parete di sinistra, seguito dai suoi servi che reggevano, con impressionante solennità, due lombi di bue, fumanti, caldi, e pronti per il coltello.

Dopo il benedicite, Tom (essendo stato così istruito) si alzò in piedi – imitato da tutti i presenti – e bevve da una maestosa coppa d’oro dell’amicizia, insieme alla principessa Elizabeth; da quest’ultima la coppa venne passata a Lady Jane, e successivamente agli altri lì riuniti. Così ebbe inizio il banchetto. A mezzanotte, la baldoria era al culmine. Cominciò, a questo punto, uno degli spettacoli pittoreschi tanto ammirati in quegli antichi tempi. Ne esiste ancora una descrizione nello stile bizzarro di un cronista che vi assistette.

“Spazio essendo stato fatto, entrarono a questo punto un barone e un conte abbigliati alla maniera turca, con lunghe vesti di preziosa seta cosparse con polvere d’oro, avendo sul capo berretti di velluto cremisi ornati da grosse trecce d’oro, e portando allacciate alla vita spade denominate scimitarre, sospese mediante voluminosi cordoni anch’essi d’oro. Subito dopo si fecero avanti un altro barone e un altro conte, con lunghe vesti di seta gialla dalle bande trasversali di seta bianca, e su ogni banda bianca trovavasi sovrapposta una banda cremisi, anch’essa di seta, alla maniera russa; avevano, questi altri due, sul capo, berretti di pelliccia grigi ed entrambi reggevano una scure e calzavano stivali con picche (punte trenta centimetri lunghe) rivolte all’insù. E dopo di loro venne un cavaliere, quindi il Lord Grande Ammiraglio, e con lui cinque nobili, con farsetti di velluto cremisi, bassi sul dietro e fino allo sterno davanti, fermati sul petto mediante catene d’argento; e sopra i farsetti, corti mantelli di seta cremisi, e sul capo berretti nella foggia di quelli dei danzatori, con penne di fagiano. Costoro vestivano secondo la voga della Prussia. I portatori di torce, all’incirca un centinaio, indossavano un costume di seta cremisi e verde e avevano, come Mori, nera la faccia. Subito dopo entrò un mommarye. Poi i menestrelli, che erano mascherati, danzarono; e i signori e le dame danzarono selvaggiamente a loro volta, al punto che fu un godimento vederli.”

E mentre Tom, dal suo alto seggio, contemplava queste danze “selvagge”, perduto nell’ammirazione dell’abbacinante frammischiarsi di caleidoscopici colori, presentato dal turbinoso piroettare delle figure vistose più in basso, il lacero ma vero piccolo Principe di Galles stava proclamando i propri diritti e i torti fattigli, denunciava l’impostore e, alle porte del Palazzo Municipale, pretendeva a gran voce di essere fatto entrare! La folla si godeva prodigiosamente questo episodio e premeva per portarsi avanti e tutti allungavano il collo, desiderosi di vedere il piccolo ribelle. Di lì a poco cominciarono a schernirlo e a burlarlo, spronandolo volutamente a una furia ancor più grande e divertente. Lacrime di mortificazione riempirono gli occhi del ragazzo, che tuttavia non indietreggiò e, regalmente, sfidò la plebaglia. Seguirono altri lazzi, nuove prese in giro lo trafissero, ed egli esclamò: «Vi ripeto, branco di villani screanzati, che sono il Principe di Galles. E, per quanto abbandonato e privo di amici, senza che alcuno dica una parola buona a mio favore o mi aiuti nel bisogno, non mi lascerò tacitare, ma continuerò a sostenere quanto affermo!».

«Che tu sia principe o non lo sia, fa lo stesso; sei un prode ragazzo, e non privo di amici! Io son qui al tuo fianco per dimostrarlo; e ascoltami bene, ti dico che, se pure tu avessi un amico peggiore di Miles Hendon, potresti fare a meno di stancarti le gambe per cercarne altri. Fa riposare la piccola mascella, bambino mio; parlo la lingua di questi vili topi di chiavica come se fossi uno di loro.»

Colui che parlò era una sorta di Don Cesare de Bazan per l’abito, l’aspetto e il portamento. Un uomo alto di statura, snello, muscoloso. Il giustacuore e i calzoni a sbuffo che indossava erano di bel tessuto ma stinto e liso; la gorgiera era spiegazzata e malconcia; la piuma sul berretto, portato di sghembo, pendeva spezzata e faceva sì che egli avesse un’aria trascurata e indecorosa; al fianco portava un lungo spadone entro un arrugginito fodero di ferro; il portamento burbanzoso lo caratterizzava subito come uno spaccone e un fanfarone attaccabrighe. Il discorsetto di questo personaggio fantastico venne accolto con un’esplosione di lazzi e di risate. Qualcuno gridò: «Ecco un altro principe travestito!... Bada a come parli, amico; può essere pericoloso!... Nespole, ne ha tutta l’aria; guardate che occhi!... Togliamogli il ragazzo; allo stagno per l’abbeverata dei cavalli, con il cucciolo!».

All’istante una mano venne posta sul principe, per attuare questa felice pensata; ma altrettanto all’istante, il lungo spadone dello sconosciuto uscì dal fodero e l’impiccione finì a terra, colpito sonoramente di piatto. Un attimo dopo, una ventina di voci urlò: «Ammazzate il cane! Uccidetelo! Uccidetelo!» e la plebaglia si fece avanti contro il guerriero, che si addossò al muro e cominciò a vibrar colpi con la lunga arma, come un pazzo. Le sue vittime giacevano riverse qua e là, ma la marea della folla continuava a riversarsi sopra i loro corpi prostrati e a gettarsi contro il campione con non sminuito furore. I momenti che gli restavano da vivere parevano contati, e la sua distruzione certa, quando, all’improvviso, risuonò uno squillo di tromba e una voce gridò: «Fate largo al messaggero del Re» e un reparto di cavalleggeri soppraggiunse lanciandosi alla carica contro la plebaglia, che fuggì con tutta la rapidità di cui era capace. L’audace sconosciuto afferrò il principe tra le braccia e ben presto venne a trovarsi lontano dal pericolo e dalla moltitudine.

Ma torniamo all’interno del Palazzo Municipale. All’improvviso, più forte del giubilante vocio e dello strepito della festa, echeggiò il limpido squillo della nota emessa da una tromba. Seguì all’istante il silenzio, un silenzio assoluto e profondo; poi una singola voce si levò – quella del messaggero giunto dal palazzo reale –, e la voce cominciò a gridare un annuncio, mentre l’intera moltitudine, in piedi, ascoltava. Le parole conclusive, pronunciate con solennità, furono: «Il Re è morto!».

Tutti coloro che facevano parte della grande accolta chinarono il capo sul petto all’unisono; serbarono un silenzio profondo per qualche momento, poi si inginocchiarono contemporaneamente, tesero le mani verso Tom, e un grido possente proruppe, che parve scuotere l’edificio: «Lunga vita al Re!».

Gli occhi smarriti del povero Tom vagarono sullo spettacolo stupefacente, per andare a posarsi in ultimo fuggevolmente, sognanti, sulle principesse inginocchiate al suo fianco, e infine sul Conte di Hertford. Una decisione improvvisa gli trasparve sul volto. A voce bassa egli disse, all’orecchio di Lord Hertford: «Rispondimi veridicamente, sulla tua fede e sul tuo onore! Se impartissi qui un ordine – che soltanto un re potrebbe avere il privilegio e la prerogativa di impartire – verrebbe tale ordine eseguito, e nessuno balzerebbe in piedi per oppormi un no?».

«Nessuno, mio sovrano, in tutto il tuo regno. Nella tua persona è la maestà dell’Inghilterra. Sei tu il Re; la tua parola è legge.»

Tom si fece sentire, a questo punto, con una voce forte e seria, e con somma decisione.

«Allora, incominciando da oggi, la legge del Re sarà una legge di misericordia, e mai più la legge del sangue! Alzati e va’! Recati alla Torre e di’ che il Re ha decretato: il Duca di Norfolk non morirà!».

Le parole vennero udite e trasmesse avidamente di bocca in bocca, in lungo e in largo nel salone, e mentre Hertford si affrettava ad allontanarsi dalla presenza del sovrano, un nuovo grido prodigioso proruppe dalla folla: «Il regno del sangue è finito! Lunga vita a Edoardo, Re d’Inghilterra!».


12


Il principe e il suo liberatore

Non appena Miles Hendon e il piccolo principe furono lontani dalla plebaglia si gettarono nelle viuzze trasversali e nei vicoli che conducevano al fiume. Non incontrarono ostacoli sul loro cammino finché non si avvicinarono al Ponte di Londra; là, dovettero fendere nuovamente la moltitudine, e Hendon mantenne una salda presa sul polso del principe... anzi no, del re. La straordinaria notizia stava già circolando, e il ragazzo l’apprese gridata da un migliaio di voci contemporaneamente... «Il Re è morto!» Questa nuova mise un gelo nel cuore della povera, giovane creatura, e gli irradiò un brivido in tutto il corpo. Edoardo si rese conto dell’enormità della perdita e venne colmato da un intenso dolore, poiché il torvo tiranno che tanto aveva terrorizzato ogni altro era sempre stato buono e dolce con lui. Lacrime gli riempirono gli occhi, offuscando ogni cosa. Per un attimo egli si sentì la più sperduta, la più fuoricasta, la più derelitta delle creature di Dio; poi un altro grido fece vibrare la notte con il suo tuono che giungeva lontano: «Lunga vita a Re Edoardo Sesto!» e questo gli fece risplendere gli occhi, mentre un fremito di orgoglio lo percorreva fino alle punte delle dita. “Ah,” pensò “quanto sembra favoloso e strano... SONO RE!”

I nostri due amici si insinuarono adagio tra la folla sul ponte. Questa struttura, che esisteva da seicento anni e per tutto questo periodo era sempre stata un passaggio rumoroso e movimentato, costituiva una curiosità, in quanto file serrate di negozi e botteghe, sovrastate dalle abitazioni delle famiglie dei proprietari, si stendevano a entrambi i lati del ponte, da una riva del fiume a quella opposta. Il ponte era una sorta di cittadina di per sé; aveva le proprie locande, le proprie birrerie, i forni per il pane, le mercerie, i mercati di prodotti alimentari, le industrie manifatturiere, e persino una chiesa. Dominava dall’alto i due centri che collegava – Londra e Southwark – quasi fossero suoi sobborghi, e non particolarmente importanti sotto ogni altro aspetto. Si trattava di una chiusa corporazione, per così dire; di una angusta cittadina o di una singola strada lunga un quinto di miglio; la sua popolazione non era altro che la popolazione di un villaggio e ognuno conosceva intimamente tutti i suoi compaesani e ne aveva conosciuti i padri e le madri prima di loro... nonché, per giunta, tutte le piccole vicende di ogni famiglia. Il ponte vantava la sua aristocrazia, naturalmente: le belle e antiche famiglie di macellai e panettieri, e di non so che altro, le quali occupavano le stesse antiche abitazioni da cinquecento o seicento anni e conoscevano la grande storia del ponte dal principio alla fine, e tutte le sue strane leggende; e sempre parlavano del ponte, e pensavano pensieri improntati al ponte, e mentivano a non finire, con una faccia tosta e una pervicacia anch’esse improntate al ponte. Si trattava di una popolazione che non poteva non essere di mentalità ristretta, e ignorante, e boriosa. I bambini nascevano e crescevano sul ponte, invecchiavano e in ultimo morivano sul ponte, senza aver mai posto piede su una qualsiasi parte del mondo tranne il Ponte di Londra. Queste persone immaginavano, naturalmente, che la formidabile e interminabile processione di passaggio sulla strada del ponte giorno e notte, con il suo strepito confuso di urla e grida, con i suoi nitriti e muggiti e belati, e con il suo scalpiccio sordo, fosse l’unica grande cosa esistente a questo mondo, e pensavano, in qualche modo, di esserne essi stessi i proprietari. E tali erano, in effetti: o almeno potevano mostrarla dalle loro finestre, e così facevano – contro un compenso – ogni qual volta un re o un eroe di ritorno conferivano al ponte un fuggevole splendore, poiché non esisteva alcun altro luogo che, come quello, consentisse una lunga, rettilinea e non ostacolata veduta delle colonne in marcia.

Gli uomini nati e cresciuti sul ponte trovavano la vita altrove insopportabilmente noiosa e vuota. La storia narra di uno di costoro che lasciò il ponte all’età di settantun anni per andare a trascorrere la vecchiaia in campagna. Ma poté soltanto innervosirsi e girarsi e rigirarsi nel letto; non riusciva a dormire tanto il profondo silenzio era tormentoso, spaventoso, opprimente. Quando infine non ne poté più, tornò all’antica dimora, uno spettro scarno e sparuto, e serenamente si addormentò, facendo piacevoli sogni, alla musica cullante dell’acqua che sciabordava e dei tonfi, schianti e tuoni del Ponte di Londra.

Nei tempi dei quali stiamo scrivendo, il ponte impartiva “lezioni concrete” di storia inglese ai propri figli, vale a dire, le livide e imputridite teste di uomini rinomati, impalate su punte di ferro alla sommità degli archi di accesso... Ma stiamo facendo una digressione.

Hendon alloggiava nella piccola locanda sul ponte. Mentre si avvicinava alla porta insieme al suo piccolo amico, una voce villana disse: «Sicché sei tornato, finalmente! Non fuggirai di nuovo, te lo garantisco; e se macinarti le ossa e ricavarne un pudding può insegnarti qualcosa, forse non ci farai aspettare così a lungo, un’altra volta». E John Canty allungò la mano per afferrare Edoardo.

Miles Hendon si mise di mezzo e disse: «Non troppo in fretta, amico. Secondo me, sei inutilmente rude. Che cos’è il ragazzo per te?».

«Ammesso che sia cosa che ti riguardi immischiarti nelle faccende altrui, è mio figlio.»

«Sta mentendo!» gridò in tono accalorato il piccolo re.

«Audacemente detto, e io ti credo, sia che la tua piccola zucca sia sana o matta, ragazzo mio. Ma anche se questo abietto ruffiano è tuo padre, fa lo stesso; non ti avrà per percuoterti e maltrattarti come ha minacciato, se tu preferisci restare con me.»

«È così, è così... non lo conosco, lo odio, e preferisco morire piuttosto che andare con lui.»

«Allora è deciso e non rimane altro da dire.»

«Questo lo vedremo!» esclamò John Canty, passando davanti a Hendon per ghermire il ragazzo. «Con la forza dovrà...»

«Se tu anche soltanto lo tocchi, immondizia animata, ti infilzo come un’oca!» esclamò Hendon, sbarrandogli la strada e portando la mano sull’impugnatura dello spadone. Canty indietreggiò. «E ora ascoltami bene,» continuò Hendon «ho preso questo ragazzo sotto la mia protezione mentre una plebaglia di individui come te avrebbe voluto picchiarlo, forse ucciderlo; immagini forse che possa abbandonarlo, adesso, a una sorte peggiore? Infatti, che tu sia o no suo padre – e a dire il vero credo che tu abbia mentito – una decente e rapida morte sarebbe preferibile, per un ragazzo come lui, alla vita tra mani brutali quanto le tue. Perciò, vattene per la tua strada, e affrettati, poiché non mi piace sprecare troppe parole, non essendo eccessivamente paziente per indole.

John Canty si allontanò, mormorando minacce e bestemmie, e scomparve alla vista inghiottito dalla folla. Hendon salì, insieme al suo protetto, le tre rampe di scale fino alla camera da lui occupata, dopo aver ordinato che gli venisse servito un pasto. La stanza era un misero alloggio, con un letto mal fatto e pochi mobili, fiocamente illuminata da un paio di smorte candele. Il piccolo re si trascinò verso il letto e vi si distese, quasi spossato dalla fame e dalla stanchezza. Era rimasto in piedi per gran parte di un giorno e di una notte, essendo ormai le due o le tre del mattino, e nel frattempo non aveva mai toccato cibo. Mormorò sonnacchiosamente: «Te ne prego, chiamami quando la tavola sarà apparecchiata» e immediatamente scivolò in un sonno profondo.

Un sorriso balenò negli occhi di Hendon, che disse a se stesso: “Per la Santa Messa, questo piccolo accattone invade l’alloggio altrui e usurpa il letto altrui con la stessa grazia naturale e disinvolta che se ne fosse lui il proprietario, senza un solo con-il-tuo-permesso o un se-non-ti-dispiace, o qualcos’altro del genere. Nelle sue malate farneticazioni ha detto di essere il Principe di Galles, e coraggiosamente si comporta come il personaggio. Povero topolino senza amici, indubbiamente ha perduto il senno a causa dei maltrattamenti. Bene, sarò io il suo amico; l’ho salvato, e mi sento fortemente attratto da lui; già gli voglio bene, al bricconcello dalla lingua audace. Con quale coraggio militaresco ha tenuto testa alla sudicia canaglia, scagliandole contro la sua nobile sfida! E che bel viso ha, soave e dolce, ora che il sonno ha posto in fuga i crucci e le sofferenze! Gli farò da maestro, curerò il suo malessere; sì, sarò un fratello maggiore per lui, e gli vorrò bene, e vigilerò. E chi volesse prenderlo in giro, o fargli del male, può ordinare il sudario; possa io bruciare all’inferno, infatti, se non ne avrà bisogno!”.

Si chinò sul ragazzo e lo contemplò con affettuoso e compassionevole interessamento, accarezzandogli con tenerezza la giovane gota e ravviandogli all’indietro i riccioli arruffati con la grossa mano abbronzata. Un lieve fremito passò sul corpo di Edoardo.

Hendon mormorò: «Ecco, vedi quale idiozia è stata consentirgli di sdraiarsi qui senza una coperta, riempiendosi le membra di reumatismi micidiali. E ora che cosa farò? Si desterà se lo sollevo per infilarlo sotto le coperte, e ha una necessità estrema di dormire».

Si guardò attorno cercando qualche coperta in più, ma, poiché non ve n’era alcuna, si tolse il giustacuore e coprì con esso il ragazzo, mormorando: «Io sono abituato all’aria frizzante e a coprirmi poco; il freddo non mi infastidirà troppo». Poi iniziò un andirivieni nella stanza, per far circolare il sangue, continuando il soliloquio: «La mente malata gli fa credere di essere il Principe di Galles; sarà strano avere con noi un Principe di Galles, adesso che colui che era il vero principe non è più principe ma re... poiché la povera mente di questo ragazzo si è fissata su una fantasticheria e non riuscirà a ragionare e a convincersi che ormai dovrebbe rinunciare al titolo di principe per adottare quello di re. Se mio padre vive ancora, dopo questi sette anni durante i quali non ho avuto alcuna notizia da casa nella prigione straniera, egli accoglierà bene il povero figliolo e gli accorderà generosa ospitalità per amor mio; e altrettanto farà il mio buon fratello maggiore, Arthur; quanto all’altro mio fratello, Hugh... Ma gli romperei la testa se dovesse intromettersi, quell’animale dal cuore di una volpe, quell’essere maligno! Sì, ci recheremo laggiù... e subito, per giunta».

Un servo entrò con il pasto fumante, lo dispose sul tavolino, accostò le sedie e uscì, lasciando che avventori di poco conto come quelli si servissero da soli. Sbatté la porta dietro di sé, e il tonfo destò il ragazzo, che si drizzò di scatto in posizione seduta e si guardò attorno rapidamente; poi un’espressione afflitta gli apparve sul viso ed egli mormorò tra sé e sé, con un profondo sospiro: “Ahimè, era soltanto un sogno, purtroppo”. Subito dopo notò il giustacuore di Miles Hendon, volse lo sguardo dall’indumento al suo proprietario, si rese conto del sacrificio compiuto per lui, e disse, con dolcezza: «Tu sei buono con me; sì, sei molto buono con me. Prendi, rimettitelo; non mi occorre più».

Poi discese dal letto, si avvicinò al catino in un angolo della stanza e rimase lì in piedi, in attesa. Hendon disse, in tono allegro: «Ora ci godremo una buona zuppa bollente e qualcosa di più solido da mettere sotto i denti, poiché tutto è gustoso e fumante; il sonnellino e il cibo faranno di te nuovamente un ometto, non temere!».

Il ragazzo non rispose, ma rivolse uno sguardo fermo, colmo di grave stupore, e non privo di una certa impazienza, all’alto cavaliere con lo spadone. Hendon rimase interdetto e domandò: «C’è qualcosa che non va?».

«Buon signore, vorrei lavarmi.»

«Oh, è tutto qui? Non chiedere il permesso di Miles Hendon, qualsiasi cosa tu possa desiderare. Considerati completamente libero, qui, e approfitta pure di tutto ciò che mi appartiene.»

Ma il ragazzo continuò a restare là in piedi, senza muoversi; non solo, ma batté una o due volte il piccolo piede spazientito sul pavimento. Hendon era in preda alla più grande perplessità. Disse: «Dio ci benedica, che cosa c’è?».

«Versa l’acqua, te ne prego, senza tante chiacchiere.»

Hendon, reprimendo una risata fragorosa e dicendo a se stesso: “Per tutti i santi, questa situazione è fantastica!” si fece avanti rapidamente ed eseguì l’insolente ordine; poi rimase immobile, in preda a una sorta di sbalordimento, finché un nuovo ordine perentorio: «Suvvia, l’asciugamano!» non lo fece rientrare in sé bruscamente. Prese l’asciugamano, che si trovava sotto il naso del ragazzo, e glielo porse senza fare commenti. Si accinse poi a rinfrescarsi egli stesso la faccia e mentre si lavava, il suo figliolo adottivo sedette a tavola, accingendosi a cenare. Hendon terminò con alacrità le abluzioni, poi scostò l’altra sedia e stava per mettersi a tavola egli stesso quando il ragazzo disse, in tono indignato: «Fermo! Vorresti sedere alla presenza del Re?».

Queste parole scossero Hendon fino alle fondamenta. Egli disse a se stesso: “Ehilà, la pazzia della povera creatura riesce ad aggiornarsi con i tempi. È cambiata con il grande cambiamento intervenuto nel regno, e ora, nelle sue fantasticherie, egli è il Re! Non fa niente, dovrò assecondarlo anche in questo... null’altro è possibile... altrimenti, in fede mia, mi farebbe rinchiudere nella Torre!”.

E, rallegrato da questa battuta di spirito, portò via la sedia dalla tavola, prese posto dietro il re e si accinse a servirlo nel modo più cortigianesco di cui era capace.

Mentre il re mangiava, il rigore della sua dignità regale si rilassò un poco e, insieme al crescente contento, nacque in lui il desiderio di conversare. Disse: «Credo che tu abbia nome Miles Hendon, se ben ti ho udito?».

«Sì, Sire» rispose Miles. E poi pensò: “Se devo assecondare la follia del povero ragazzo, è necessario che lo chiami Sire, è necessario che lo chiami Maestà, le vie di mezzo non sono consigliabili, non devo omettere nulla di quanto si addice alla parte che sto recitando, altrimenti la reciterò male e non renderò un buon servigio a questa buona e caritatevole causa”.

Il re si riscaldò il cuore con un secondo bicchiere di vino e disse: «Gradirei conoscerti meglio... raccontami la tua storia. Tu hai modi raffinati, e una certa nobiltà di... sei nobile di nascita?».

«Veniamo in coda alla nobiltà, o buon sovrano. Mio padre è baronetto: uno dei Lord meno importanti, in seguito ai servizi resi come cavaliere. Egli è Sir Richard Hendon, di Hendon Hall, vicino a Monk’s Holm, nel Kent.»

«Il tuo nome è sfuggito alla mia memoria. Continua... raccontami la tua storia.»

«Non è un granché interessante, Maestà, ma, in mancanza di meglio, riuscirà forse a farti ingannare il tempo per una breve mezz’ora. Mio padre, Sir Richard, è molto ricco, e di indole generosissima. Mia madre morì quando io ero ancora un ragazzo. Ho due fratelli: Arthur, il primogenito, il cui spirito è simile a quello di nostro padre: e Hugh, più giovane di me, un essere perfido, avido, traditore, perverso, subdolo... un rettile. Così era sin dalla culla; così era dieci anni or sono, l’ultima volta che lo vidi... un perfetto furfante a diciannove anni, quando io ne contavo venti e Arthur ventidue. Non v’è alcun altro nella famiglia tranne Lady Edith, mia cugina – aveva allora sedici anni – bella, dolce, buona, figlia di un conte, ultimo della sua stirpe, erede di un ingente patrimonio e di un titolo decaduto. Mio padre era il suo tutore. Io l’amavo e lei amava me; ma ella era stata fidanzata ad Arthur sin dalla culla, e Sir Richard non sopportava che il contratto non venisse rispettato. Arthur amava un’altra fanciulla e ci esortava a non avvilirci e ad aggrapparci alla speranza che sia gli indugi sia la fortuna potessero un giorno far trionfare le nostre diverse cause. Hugh era innamorato del patrimonio di Lady Edith, sebbene in realtà affermasse di amare lei; ma, d’altro canto, aveva l’abitudine, sempre, di dire una cosa e intendere l’altra. Tuttavia, le arti sue non giovavano con la fanciulla; egli poteva trarre in inganno nostro padre ma nessun altro. Nostro padre lo amava più di noi tutti, e riponeva fiducia in lui e gli credeva, perché egli era il minore dei suoi figli e gli altri lo odiavano, essendo tali circostanze sempre state, in ogni epoca, sufficienti per assicurarsi il più tenero affetto di un genitore; inoltre Hugh aveva una lingua melliflua e persuasiva, e una mirabile capacità di mentire, e queste son doti che potentemente aiutano un cieco affetto a ingannare se stesso. Io ero furente... in verità, potrei spingermi oltre a dire che ero furente all’estremo, sebbene la mia fosse una furia innocente, in quanto non nuoceva ad alcuno tranne a me stesso, non era causa di vergogna né di perdite per nessuno, né esisteva in essa la benché minima traccia di malvagità o di bassezza che potesse essere non confacente alla mia onorabilità.

«Ciò nonostante, mio fratello Hugh mise a buon frutto questa pecca, in quanto si rendeva conto che la salute di mio fratello Arthur non era buona, e sperava che il peggio potesse avvantaggiarlo, una volta tolto di mezzo me... Ma la storia sarebbe troppo lunga, mio buon sovrano, e non vale la pena di raccontarla. Per farla corta, dunque, questo fratello esagerò abilmente la mia pecca, dipingendola come un qualcosa di criminoso, e concluse tale vile azione scoprendo nelle mie stanze una scaletta di seta – portatavi da lui stesso – e persuadendo nostro padre, mediante tale prova e le testimonianze di servi corrotti e di altri furfanti mentitori, del fatto ch’io mi ero proposto di rapire Edith e di sposarla, sfrontatamente sfidando la sua volontà.

«Tre anni di lontananza dalla famiglia e dall’Inghilterra avrebbero potuto fare di me un soldato e un uomo, disse mio padre, e insegnarmi in una certa misura la saggezza. Durante quel lungo tirocinio mi battei nelle guerre sul continente, sperimentando abbondantemente duri colpi, privazioni e avventure; ma, nel corso dell’ultima battaglia, fui fatto prigioniero e, durante i sette anni trascorsi dopo di allora, una prigione straniera mi ha ospitato. Con l’astuzia e il coraggio sono tornato all’aria libera, finalmente, fuggendo subito qui. Ho appena fatto ritorno in Inghilterra, con la borsa vuota e povere vesti, ma più povero ancora nel senso che ignoro che cosa sia accaduto durante questi anni terribili a Hendon Hall, per quanto concerne le persone e le cose. E con ciò, se non ti dispiace, mio signore, il mio povero racconto è finito.»

«Tu sei stato vergognosamente maltrattato!» esclamò il piccolo re, con lampi d’ira negli occhi. «Ma riparerò io... lo farò, per la Croce! Il Re ha detto.»

Poi, spronato dal racconto dei torti subiti da Miles, lasciò libero sfogo alla lingua e riversò la storia delle sue recenti disgrazie nelle orecchie dell’attonito ascoltatore.

Quando ebbe terminato, Miles disse a se stesso: “Ma guarda quanta immaginazione! Davvero la sua non è un’intelligenza comune, altrimenti, sia egli pazzo o sano di mente, non riuscirebbe a ordire dal nulla una storia così logica e pittoresca, un romanzo così curioso. Povera, piccola testolina malata, non le mancheranno né un amico né un rifugio finché io rimarrò tra i vivi. Non si allontanerà mai dal mio fianco; sarà il mio beniamino, il mio piccolo camerata. E verrà guarito! Sì, reso integro e sano; dopodiché si farà un nome; e io sarò fiero di poter dire: ‘Sì, è mio... lo accolsi che era un piccolo pezzente senza casa, ma mi resi conto delle sue capacità, e dissi che il suo nome sarebbe divenuto noto un giorno... vedetelo, osservatelo... non avevo ragione?’”.

Il re si espresse in tono pensieroso e misurato: «Tu mi hai salvato dalle percosse e dalla vergogna, forse hai salvato la mia vita stessa e pertanto la corona. Un tale servigio merita una ricca ricompensa. Di’ che cosa desideri e, se rientrerà nei limiti dei miei poteri regali, sarà tuo».

Questa straordinaria offerta strappò Hendon alla sua fantasticheria. Egli stava per ringraziare il re e per accantonare la cosa dicendo di essersi limitato a fare il proprio dovere e di non desiderare alcuna ricompensa, ma poi gli venne in mente un’idea più assennata e chiese il permesso di tacere per qualche momento allo scopo di riflettere sulla generosa proposta... un’intenzione che il re approvò con aria grave, facendo rilevare quanto fosse preferibile non essere troppo precipitosi in una questione di così grande importanza.

Miles rifletté per qualche momento, poi disse a se stesso: “Sì, questa è la cosa da fare; in qualsiasi altro modo sarebbe impossibile ottenere quello che voglio e, senza alcun dubbio, l’esperienza fatta da un’ora a questa parte mi ha insegnato che sarebbe quanto mai logorante e scomodo continuare così. Sì, farò la proposta; per un caso fortunato non ho gettato via la possibilità offertasi”. Si piegò poi su un ginocchio e disse: «I miei poveri servigi non sono andati al di là dei limiti del semplice dovere di un suddito e per conseguenza, non hanno merito alcuno, ma poiché Tua Maestà si compiace di considerarli degni di una qualche ricompensa trovo in me il coraggio di chiederla. Quasi quattrocento anni or sono, come Tua Grazia ben sa, essendovi cattivo sangue tra Giovanni, Re d’Inghilterra, e il Re di Francia, venne decretato che due campioni dovessero battersi in campo e così dirimere la disputa mediante quello che viene denominato il giudizio di Dio. Dopo che questi due re e il Re di Spagna si furono riuniti per assistere al duello e per giudicarne l’esito, il campione francese apparve; ma era talmente temibile che i nostri campioni inglesi rifiutarono di misurarsi in armi con lui. Era pertanto probabile che la questione, di grande importanza, venisse decisa, per abbandono, a sfavore del monarca inglese. Orbene, nella Torre trovavasi Lord De Courcy, il braccio più formidabile d’Inghilterra, privato dell’onore e delle sue ricchezze, e languente in una lunga prigionia. Ci si appellò a lui; egli accettò e si presentò armato per la battaglia; ma il francese, non appena ne ebbe udito il nome famoso fuggì, e la causa del Re di Francia fu così perduta. Re Giovanni restituì a De Courcy il titolo nobiliare e i possedimenti, quindi disse: “Esprimi un desiderio e otterrai quel che vuoi, anche se dovesse costarmi la metà del regno”. Al che De Courcy, inginocchiatosi, come mi inginocchio io adesso, rispose: “Questo, allora, ti chiedo, mio sovrano: che io e i miei successori possiamo avere e conservare il privilegio di restare con il capo coperto alla presenza dei Re d’Inghilterra, da oggi e sino a quando il trono durerà”. Il privilegio venne accordato, come Tua Maestà sa bene; non un solo momento, nel corso di questi quattrocento anni, è mancato a quella stirpe un erede; per cui, ancor oggi, il capo dell’antica famiglia continua a portare il berretto, o l’elmo, alla presenza di Sua Maestà il Re, senza che ciò gli sia impedito, cosa che a nessun altro è consentita. Orbene, invocando tale precedente in soccorso della mia preghiera, io supplico il Re di concedermi la seguente grazia e il seguente privilegio, e nessun altro, quale più che sufficiente ricompensa. Vale a dire: che io e i miei eredi possiamo restare seduti alla presenza di Sua Maestà il Re d’Inghilterra!».

«Alzati, Sir Miles Hendon, cavaliere,» disse il re, con gravità, dando l’accollata con lo spadone di Hendon «alzati e siedi. Quanto chiedi ti è concesso. Finché l’Inghilterra esisterà, e la corona continuerà, questo privilegio non sarà revocato.»

Sua Maestà si appartò, cogitando, e Hendon si lasciò cadere sulla sedia, a tavola, dicendo a se stesso: “È stata un’idea meravigliosa, e mi apporta un gran sollievo; avevo le gambe dolorosamente stanche. E, se non avessi pensato a questo, sarei dovuto restare in piedi per settimane, fino a quando la mente del mio povero ragazzo non fosse guarita”. Dopo un poco, continuò a dirsi: “E così, sono diventato un cavaliere del Regno dei Sogni e delle Ombre! Onore quanto mai bizzarro e strano per un uomo pratico come me! Ma non riderò... no, Dio me ne scampi, poiché tutto ciò che ritengo privo di sostanza è reale per lui. Ma, in un certo senso, anche per me non si tratta di una falsità, in quanto rispecchia veridicamente lo spirito buono e generoso che esiste nel ragazzo”. Poi, dopo un momento: “Ah, e se dovesse rivolgersi a me con il mio bel titolo, davanti alla gente? Vi sarebbe un bel contrasto tra tanta gloria e l’abito che indosso! Ma non importa, mi chiami pure come vuole, se gli farà piacere; io ne sarò contento”.


13


La scomparsa del principe

Una greve sonnolenza calò a questo punto sui due compagni. Il re disse: «Togli questi stracci» riferendosi a ciò che indossava.

Hendon spogliò il ragazzo senza dissensi né commenti, lo mise a letto, gli rimboccò le coperte, poi si guardò attorno nella stanza, dicendo a se stesso, mestamente: “Ha di nuovo occupato il mio letto, come prima. Accidenti, che cosa faccio io, adesso?”.

Il piccolo re notò la perplessità di lui e la fece dileguare con poche parole. Disse sonnacchiosamente: «Tu dormirai davanti alla porta, per sorvegliarla». Un attimo dopo, si trovava ormai lontano dalle sue afflizioni, immerso in un sonno profondo.

«Caro fanciullo, sarebbe dovuto nascere re!» mormorò Hendon, in tono ammirato. «Recita la parte alla perfezione.»

Poi si sdraiò davanti alla porta, sul pavimento, dicendosi, soddisfatto: “Ho dormito peggio per sette anni; sarei soltanto ingrato con Colui che dimora in Cielo se trovassi da dire su questa sistemazione”.

Si addormentò, mentre spuntava l’alba. Verso mezzogiorno si alzò, scoprì il suo protetto ancora addormentato – una parte alla volta – e gli prese le misure con una cordicella. Il re si destò proprio quando aveva terminato, lagnandosi del freddo, e gli domandò che cosa stesse facendo.

«È fatto, ormai, mio sovrano» rispose Hendon. «Ho qualcosa da sbrigare fuori di qui, ma tornerò tra poco; dormi ancora... ne hai bisogno. Qua... lascia che ti copra anche il capo... ti riscalderai prima.»

Il re era già tornato nel paese dei sogni prima ancora che questa frase fosse stata completata. Miles sgattaiolò fuori silenziosamente e, altrettanto silenziosamente, rientrò trenta o quaranta minuti dopo, con il vestiario completo di seconda mano per un ragazzo, indumenti a buon mercato e con i segni di un lungo uso, ma puliti e adatti a quella stagione. Egli sedette e cominciò a esaminare gli acquisti, mormorando tra sé e sé: “Una borsa più pesante avrebbe potuto procurare qualcosa di meglio ma, disponendo di una leggera, bisogna accontentarsi di quanto può pagare”:

 

«C’era una donna di Dio timorata

Che a meraviglia se la cavava

“Mi sembra che si sia mosso. Devo cantare a mezza voce; non è una buona cosa disturbargli il sonno, con il lungo viaggio che lo aspetta, e stanco com’è, povero ometto. Questo indumento... va abbastanza bene... un punto qua e uno là lo metteranno a posto. Quest’altro è in migliori condizioni, anche se uno o due punti lo miglioreranno nello stesso modo. Questi calzini sono perfetti e senza un buco, e gli terranno caldi e asciutti i piccoli piedi... una cosa strana e nuova per lui, di certo, dato che, senza dubbio, è abituato ad andare a piedi nudi, estate e inverno. Vorrei che il filo fosse pane, dato che con un soldino se ne ottiene a sufficienza per un anno, e con l’aggiunta di un bell’ago gratis, a titolo di omaggio. Ma ora infilarlo mi costerà le pene dell’inferno!”.

E così fu. Fece come gli uomini hanno sempre fatto, e probabilmente faranno sempre, fino alla fine dei tempi... tenne immobile l’ago e cercò di infilare il filo nella cruna, che è l’opposto di come fanno le donne. Più e più volte il filo mancò il bersaglio, finendo a volte a un lato dell’ago e a volte a quell’altro, o talora piegandosi in due contro l’ago stesso; ma egli era paziente, essendo già passato per questa esperienza un tempo, quando faceva il soldato. Riuscì infine nell’impresa e, afferrato l’indumento rimasto nel frattempo sul suo grembo, cominciò a rammendare.

“La locanda è pagata... compresa la colazione che sta per essere servita... e mi rimane quanto basta per acquistare un paio di somari e provvedere alle nostre piccole spese nei due o tre giorni tra qui e l’abbondanza che ci aspetta a Hendon Hall...”

 

«Teneramente il mar...»

“Accidenti a me! Mi sono conficcato l’ago sotto l’unghia! Be’, poco importa... non è una novità... ma non è neppure piacevole. Saremo felici laggiù, piccolo mio, non dubitare! Le tue afflizioni avranno termine, là, e così la tua dolorosa malattia...”

 

«Teneramente il marito essa amava,

ma di un altro...»

“Questi lunghi punti sono perfetti!” tenendo in alto l’indumento e osservandolo ammirato. “Hanno una grandiosità e una maestosità che fanno sembrare enormemente miseri e plebei i punti minuscoli del sarto...”

 

«Teneramente il marito essa amava,

ma di un altro si era incapricciata...»

“Perdinci, ho finito... un buon lavoro, per giunta, ed eseguito celermente. Ora sveglio il ragazzo, lo vesto, gli verso l’acqua per lavarsi, gli do da mangiare; e poi andremo al mercato vicino alla locanda Tabard di Southwark e...” «Non ti dispiaccia destarti, mio sovrano!...» “Non si muove...” «Ehilà, mio sovrano!...» “Dovrò proprio profanare la sua sacra persona scrollandolo, dato che il suo sonno è così profondo da impedirgli di udire.” «Cosa?!»

Gettò indietro le coperte; il ragazzo era scomparso!

Si guardò attorno con muto stupore per un momento, notò per la prima volta che mancavano anche gli stracci del suo protetto, poi cominciò a infuriarsi, e a tempestare e a chiamare, urlando, l’oste. In quel momento entrò un servo con la colazione.

«Spiega, figlio di Satana, o il tuo momento è venuto!» tuonò l’uomo d’armi, e balzò così selvaggiamente verso il servo che quest’ultimo non riuscì a servirsi della lingua, per un momento, tanto era impaurito e sorpreso. «Dov’è il ragazzo?»

Con sillabe sconnesse e tremanti l’uomo diede l’informazione desiderata: «Tua signoria era appena uscita di qui quando un giovane è giunto di corsa dicendo essere tua volontà che il ragazzo ti raggiungesse immantinente all’estremità del ponte sul lato di Southwark. L’ho accompagnato qui e il ragazzo, dopo essere stato destato e avere ascoltato il messaggio, ha borbottato un po’ perché lo si disturbava “così di buon’ora”, come si è espresso, ma subito ha indossato i suoi stracci e seguito il giovane, limitandosi a dire che sarebbe stato più corretto, da parte di tua signoria, venire di persona, e non mandare un estraneo; e così...».

«E così sei uno scimunito; uno scimunito che si lascia gabbare facilmente! Possa finire impiccata tutta la tua genia! Pure, forse, niente di grave è accaduto. Può darsi che non si volesse fare del male al ragazzo. Andrò a prenderlo. Tu apparecchia la tavola. Un momento! Le coperte del letto erano disposte come se qualcuno vi giacesse sotto; è accaduto per caso, questo?»

«Non lo so, mia buona signoria. Ho veduto il giovane toccarle... il giovane venuto a chiamare il ragazzo.»

«Mille volte il morto ti colga! È stato fatto per trarmi in inganno... è stato fatto, ovviamente, per guadagnare tempo. Ascoltami bene! Era solo, il giovane?»

«Completamente solo, signoria.»

«Ne sei sicuro?»

«Sicuro, signoria.»

«Chiama a raccolta il tuo senno disperso... Pensaci bene!... Prenditi tempo, amico!»

Dopo aver riflettutto un momento, il servo disse: «Quando è arrivato, nessuno lo accompagnava; ma rammento, adesso, che non appena lui e il ragazzo sono usciti tra la folla sul ponte, un uomo con l’aspetto di una canaglia è balzato fuori da qualche punto nei pressi; e, proprio mentre si univa a loro...».

«Che cosa è accaduto allora? Avanti, parla!» tuonò l’impaziente Hendon, interrompendolo.

«Proprio in quel momento la folla li ha circondati e chiusi, e io non ho veduto più niente, essendo stato chiamato inoltre dal mio padrone, su tutte le furie perché un arrosto ordinato dallo scrivano era stato dimenticato, sebbene possa invocare, a testimonianza, tutti i santi del Paradiso che incolpare me della dimenticanza era come giudicare il bambino non ancora nato di colpe com...»

«Scompari, non voglio più vederti, idiota! Le tue ciance mi fanno impazzire! Aspetta! Dove stai correndo? Non riesci a star fermo un istante? Sono andati verso Southwark?»

«Proprio così, signoria; ma, come dicevo prima, a proposito del detestabile arrosto, il bambino non ancora nato non è più colpevole di...»

«Sei ancora qui? E stai di nuovo cianciando? Svanisci, se non vuoi che ti strozzi!» Il servo scomparve. Hendon lo seguì, lo oltrepassò e si gettò giù per le scale, due gradini alla volta, borbottando: «È stato l’abietto manigoldo che sosteneva di essere suo padre. Ti ho perduto, mio povero, piccolo, pazzo padrone... è un pensiero amaro... e avevo finito con l’amarti tanto! No. Per la Bibbia e le campane, non ti ho perduto! Non ti ho perduto, poiché frugherò il paese intero finché non sarò riuscito a ritrovarti. Povero bambino, là c’è la tua colazione e la mia, ma non ho più appetito, ormai. Se la godano i topi, allora. Rapidità, rapidità! Questa è la parola d’ordine!».

Mentre si insinuava rapidamente tra le chiassose moltitudini sul ponte, varie volte ripeté a se stesso, avvinghiandosi alla riflessione come se fosse particolarmente piacevole: “Ha borbottato ma è uscito... è uscito, sì, perché credeva che fosse Miles Hendon a chiederlo, caro ragazzo... non avrebbe mai fatto questo per qualcun altro, lo so bene”.


14


“Le Roi est mort. Vive le Roi!”

Verso le prime luci del giorno di quel mattino, Tom Canty emerse da un sonno profondo e aprì gli occhi nell’oscurità. Giacque silenzioso per qualche momento, sforzandosi di analizzare i suoi confusi pensieri e le sue impressioni e di ricavarne una qualche sorta di significato; poi, all’improvviso, esclamò, con una voce rapita ma controllata: «Capisco tutto, capisco tutto! Ah, Dio sia ringraziato, sono davvero desto, adesso, finalmente! Vieni, felicità! Scompari, sofferenza! Ehi, Nan, Bet! Scalciate via la paglia e venite qui al mio fianco, affinché possa bisbigliarvi nelle orecchie incredule il sogno più sbalorditivo e pazzesco mai evocato dagli spiriti della notte per stupire l’anima dell’uomo! Ehi, Nan, dico! Bet!».

Una vaga sagoma apparve al suo fianco e una voce disse: «Vuoi degnarti di impartire ordini?».

«Ordini? Oh, povero me, conosco la tua voce! Parla... chi sono io?»

«Chi sei tu? In verità, tu eri ieri il Principe di Galles; oggi sei il mio graziosissimo sovrano, Edoardo, Re d’Inghilterra.»

Tom affondò la testa tra i guanciali, mormorando, lamentosamente: «Ahimè, non è stato un sogno! Va’ a riposarti, dolce Signore; lasciami alla mia sofferenza».

Tom si riaddormentò e, dopo qualche tempo, fece un sogno piacevole. Gli parve che fosse estate. Stava giocando tutto solo nei bei prati che avevano nome Campi di Goodman, quando un nano alto appena una trentina di centimetri, con lunghi baffi rossi e la schiena gobba, gli apparve all’improvviso e disse: “Scava accanto a quel ceppo”. Lui così fece e trovò dodici monete da un penny, nuove di zecca e lucenti... un meraviglioso tesoro! Pure, non era questo il meglio, poiché il nano soggiunse: “Io ti conosco, sei un ragazzo buono e meritevole; le tue disgrazie stanno per finire, poiché il giorno della ricompensa è giunto. Scava qui ogni sette giorni e troverai sempre lo stesso tesoro, dodici luccicanti e nuove monete da un penny. Non dirlo a nessuno... mantieni il segreto”. Poi il nano svanì e Tom volò verso il Cortile dei Rifiuti con il suo peculio, dicendo a se stesso: “Ogni sera darò al babbo un penny; lui crederà che lo abbia avuto in elemosina, questo gli allieterà il cuore, e io non sarò più percosso. Un penny ogni settimana lo avrà il buon prete che mi ha fatto da maestro; gli altri quattro spetteranno alla mamma, a Nan e a Bet. È finita con la fame e gli stracci, ormai, è finita con le paure, i crucci e i maltrattamenti”.

Nel sogno irrompeva entro la sua sordida casa trafelato ma, con gli occhi danzanti di grato entusiasmo, gettava quattro delle monete in grembo alla madre, e gridava: «Sono per te! Tutte, dalla prima all’ultima! Per te e per Nan e Bet... e onestamente avute, non dimenticate né rubate!».

Sua madre, lieta e attonita, lo abbracciava, stringendoselo al petto, e diceva: «Va facendosi tardi. Vuole, Sua Maestà, compiacersi di alzarsi?».

Ah, non era questa la risposta che si aspettava! Il sogno aveva finito con il lacerarsi... era desto.

Aprì gli occhi; il riccamente vestito Primo Lord della Camera da Letto si trovava in ginocchio accanto al giaciglio. La letizia del sogno menzognero si dileguò; il povero ragazzo si rese conto di essere ancora prigioniero e re. La stanza era gremita di cortigiani dai mantelli viola – il colore del lutto – e di nobili servitori del monarca. Tom si drizzò a sedere sul letto e contemplò, da dietro le cortine di pesante seta, la bella compagnia.

Cominciò il rito faticoso della vestizione, e i cortigiani, uno dopo l’altro, vennero a genuflettersi, a rendere omaggio e a porgere al piccolo re le loro condoglianze per la grave perdita da lui subita, mentre si continuava a vestirlo. A tutta prima, una camicia venne presa dal Primo Scudiero d’Onore, che la passò al Primo Lord dei Levrieri per la caccia al cervo, che la passò al Secondo Gentiluomo della Camera da Letto, che la passò al Capo Guardaboschi della Foresta di Windsor, che la passò al Terzo Valletto della Stola, che la passò al Cancelliere Reale del Ducato di Lancaster, che la passò al Terzo Araldo, che la passò al Conestabile della Torre, che la passò al Grande Incaricato Ereditario del Tovagliolo, che la passò al Lord Grande Ammiraglio d’Inghilterrra, che la passò all’Arcivescovo di Canterbury, che la passò al Primo Lord della Camera da Letto, il quale ultimo prese quel che ne restava e la mise a Tom. Al povero, piccolo vagabondo la cosa rammentò i secchi che passavano da una mano all’altra durante gli incendi.

Ogni indumento, di volta in volta, dovette passare per questo lento e solenne processo; per conseguenza, Tom finì con l’essere molto stanco della cerimonia, talmente stanco che si sentì pervadere da una quasi zampillante gratitudine, quando infine vide la lunga calzamaglia di seta iniziare il viaggio lungo la fila e poté rendersi conto che la fine del supplizio si stava avvicinando. Ma aveva esultato troppo presto. Il Primo Lord della Camera da Letto ricevette la calzamaglia e stava per infilare in essa le gambe di Tom, quando un rossore improvviso gli affluì al volto e, frettolosamente, egli rimise l’indumento nelle mani dell’Arcivescovo di Canterbury, con un’espressione attonita e un bisbigliato: «Guarda, mio signore!». L’Ammiraglio passò la calzamaglia all’Incaricato Ereditario del Tovagliolo e trovò nel proprio corpo appena quel tanto di fiato per bisbigliare: «Guarda, mio signore!» la calzamaglia tornò indietro lungo la fila, al Primo Cerimoniere della Casa Reale, al Conestabile della Torre, al Terzo Araldo, al Maestro del Guardaroba, al Cancelliere Reale del Ducato di Lancaster, al Terzo Valletto della Stola, al Capo Guardaboschi della Foresta di Windsor, al Secondo Gentiluomo della Camera da Letto, al Primo Lord dei Levrieri per la caccia al cervo, sempre con l’accompagnamento di quello sbalordito e sbigottito «Guarda! Guarda!». Finché giunse nelle mani del Primo Scudiero d’Onore, il quale la contemplò per un momento, poi bisbigliò con voce rauca: «Per la mia vita! Un laccio staccato! Alla Torre il Primo Custode della calzamaglia del Re!» dopodiché si appoggiò alla spalla del Primo Lord dei Levrieri per ricuperare le forze perdute, mentre veniva portata una nuova calzamaglia senza alcun laccio mancante.

Ma ogni cosa deve avere termine e così, dopo qualche tempo, Tom Canty fu in grado di alzarsi dal letto. Il funzionario incaricato versò l’acqua, il funzionario incaricato procedette ai lavori, il funzionario incaricato aspettò lì accanto con l’asciugamano e, a poco a poco, Tom superò sano e salvo lo stadio della purificazione e fu pronto per i servigi del Parrucchiere Reale. Quando infine uscì di sotto le mani di questo maestro, era una figuretta bella e graziosa quanto una fanciulla, con il mantello e la calzamaglia di seta purpurea e il berretto piumato, anche le piume color porpora. A questo punto si diresse in pompa magna verso la sala della colazione, tra tutti i cortigiani riuniti; e, al suo passaggio, i cortigiani indietreggiarono, aprendogli un varco, e si inginocchiarono.

Dopo la colazione, venne accompagnato, con regale cerimoniosità, scortato dai più alti funzionari e dalla sua guardia personale di cinquanta Gentiluomini Pensionari, con le asce dorate da battaglia, nella sala del trono, ove si accinse a occuparsi degli affari di Stato. Lo “zio” di lui, Lord Hertford, prese posto accanto al trono per dare savi consigli al giovane re.

Il gruppo di uomini illustri, nominati dal defunto sovrano quali suoi esecutori testamentari, si fece avanti per chiedere a Tom l’approvazione di certi provvedimenti: in teoria una formalità, ma non proprio, in quanto non esisteva ancora un Protettore. L’Arcivescovo di Canterbury fece un rapporto sul decreto del Consiglio degli Esecutori concernente le esequie della defunta Sua Illustrissima Maestà e concluse leggendo, a conferma, le firme degli esecutori testamentari, vale a dire lo stesso Arcivescovo di Canterbury, il Lord Cancelliere d’Inghilterra, William Lord St John, John Lord Russell, Edward Conte di Hertford, John Visconte Lisle, Cuthbert Vescovo di Durham...

Tom non stava ascoltando: una delle prime clausole del documento lo aveva lasciato interdetto. Si voltò, a questo punto, e bisbigliò a Lord Hertford: «Per quale giorno ha detto che è stata fissata la sepoltura?».

«Per il sedici del mese prossimo, mio sovrano.»

«Ma questa è una bizzarra follia. Si conserverà la salma?»

Povero ragazzo, era ancora nuovo alle costumanze della regalità e abituato a vedere i miseri morti del Cortile dei Rifiuti, portati via con ben altra fretta. Lord Hertford lo tranquillizzò.

Un segretario di Stato presentò un ordine del consiglio che fissava per l’indomani alle undici l’udienza agli ambasciatori stranieri, e chiese l’assenso del re.

Tom rivolse uno sguardo interrogativo a Hertford, che bisbigliò: «Tua Maestà deve acconsentire. Vengono per esprimere le condoglianze dei loro sovrani a causa della grande calamità che ha colpito Tua Grazia e il Regno d’Inghilterra».

Tom fece come gli era stato consigliato. Un altro segretario cominciò a leggere un preambolo concernente le spese della casa reale del defunto sovrano, spese ammontate a ventottomila sterline nei sei mesi precedenti: una somma così strabiliante da mozzare il fiato a Tom Canty; egli tornò ad ansimare quando risultò che, di tale somma, ventimila sterline erano ancora dovute, non essendo state pagate, e di nuovo gli mancò il respiro allorché risultò che i forzieri del re erano quasi vuoti e i suoi milleduecento servitori in grave imbarazzo non avendo percepito gli stipendi. Tom si espresse con viva apprensione: «Stiamo andando a rotoli, è chiaro. Si renderà necessario trasferirsi in una casa più piccola, e licenziare i servi, i quali non hanno alcun’altra utilità all’infuori di quella di causare indugi, e disturbarmi con servigi che turbano lo spirito e colmano l’anima di vergogna, in quanto si addicono soltanto a un pupazzo privo di cervello o di mani per provvedere a se stesso. Mi sovviene una casetta che trovasi di fronte al mercato del pesce, vicino a Billingsgate...».

Una forte pressione esercitata sul braccio di Tom fermò la sua stupida lingua e gli fece affluire rossore al viso; ma le espressioni di tutti i presenti non lasciarono capire in alcun modo che quelle frasi bizzarre fossero state udite o avessero causato qualche viva preoccupazione.

Un segretario lesse un rapporto dicendo che, poiché il defunto re aveva stabilito nel suo testamento di conferire il titolo di duca al Conte di Hertford, e di nominare pari il fratello di lui, Sir Thomas Seymour, nonché conte il figlio di Hertford, oltre a concedere analoghi onori ad altri grandi servitori della Corona, era stata presa dal Consiglio la decisione di riunirsi il sedici di febbraio per il conferimento e la conferma di tali onori; e inoltre, il re defunto non avendo concesso per iscritto possedimenti terrieri tali da consentire di provvedere alle spese attinenti a tali alte nomine, il consiglio, conoscendo i desideri del defunto sovrano al riguardo, aveva ritenuto opportuno concedere a Seymour “terre per cinquecento sterline” e al figlio di Hertford “terre per ottocento sterline nonché trecento sterline delle vicine terre del vescovo che sarebbero dovute rimanere libere”, sempre che l’attuale sovrano fosse stato consenziente.

Tom stava per dire qualcosa a proposito del fatto che sarebbe stato più opportuno pagare i debiti del re prima di sperperare tutto quel denaro, ma una tempestiva toccatina sul braccio da parte del sollecito Hertford evitò tale indiscrezione, per cui egli diede il proprio regale consenso, senza fare commenti ma con grande intimo turbamento. Mentre dedicava un momento di riflessione alla disinvoltura con la quale stava compiendo quegli strani e splendenti miracoli, gli venne in mente una meravigliosa idea: perché non nominare sua madre Duchessa del Cortile dei Rifiuti e assegnarle una tenuta? Ma una riflessione dolorosa spazzò via all’istante tale proposito: egli era re soltanto di nome e aveva come padroni quei compunti veterani e quei grandi nobili; per loro sua madre non era altro che il parto di una mente malata. Si sarebbero limitati ad ascoltare la sua proposta con orecchie incredule, per mandar poi a chiamare il medico.

L’uggiosa fatica continuò tediosamente. Vennero lette petizioni, nonché proclami, decreti e ogni sorta di noiosi documenti relativi ad affari pubblici; infine Tom emise un patetico sospiro e mormorò a se stesso: “In che cosa ho peccato perché il buon Dio mi abbia tolto dai prati e dall’aria aperta e dal sole, rinchiudendomi qui e facendo di me un re e affliggendomi fino a questo punto?”. Poi la sua povera testa confusa ciondolò per qualche tempo, e infine gli si reclinò su una spalla, e gli affari dell’impero rimasero bloccati in mancanza di quell’augusto fattore: il potere che li ratificava. Seguì il silenzio intorno al fanciullo addormentato, e i savi del regno interruppero le loro deliberazioni.

Nel corso della mattinata Tom ebbe un’ora piacevole, concessagli dai suoi tutori, Hertford e St John, in compagnia di Lady Elizabeth e la piccola Lady Jane Grey, anche se lo stato d’animo delle principesse era alquanto malinconico a causa del gravissimo colpo toccato alla famiglia reale; e, al termine della visita, la “sorella maggiore” del re – destinata a divenire Maria la Sanguinaria della storia – lo raggelò con un solenne colloquio che, agli occhi di lui, ebbe un solo merito: la brevità. Poi gli furono concessi pochi momenti di solitudine e, in seguito, un esile ragazzo sui dodici anni venne introdotto alla sua presenza, un ragazzo i cui abiti, eccezion fatta per la nivea gorgiera e i pizzi intorno ai polsi, erano neri: farsetto, calzamaglia e tutto. Non portava alcun segno di lutto, tranne un nodo di nastro viola sulla spalla. Si fece avanti esitante, a capo scoperto e chino, poi si piegò su un ginocchio di fronte a Tom. Rimanendo seduto e immobile, Tom lo contemplò serio per un momento. Poi disse: «Alzati, ragazzo. Chi sei tu? Che cosa vuoi?».

Il ragazzo si rialzò e rimase graziosamente rilassato, ma con un’espressione preoccupata sul viso. Disse: «Senza dubbio devi rammentarti di me, mio signore. Sono colui che viene castigato in tua vece».

«Colui che viene castigato in mia vece?»

«Per l’appunto, Tua Grazia. Sono Humphrey... Humphrey Marlow.»

Tom si disse che era questa una cosa della quale i suoi tutori avrebbero dovuto informarlo. La situazione sembrava delicata. Che cosa avrebbe dovuto fare? Fingere di conoscere il ragazzo, per poi lasciar capire, con ogni sua frase, di averne sempre ignorato l’esistenza? No, questo non poteva andare. Poi un’idea venne in suo soccorso: era probabile che situazioni di quel genere si presentassero spesso, ormai, dovendo Hertford e St John allontanarsi dal suo fianco non poche volte, in quanto facevano parte del consiglio degli esecutori testamentari; pertanto sarebbe stato opportuno da parte sua architettare un piano per affrontare tali situazioni. Sì, questo era il modo più assennato di agire; si sarebbe esercitato con quel ragazzo, accertando fino a qual punto gli fosse possibile riuscire nell’intento. Pertanto si passò la mano sulla fronte, con un’aria piuttosto perplessa, per un momento o due, e infine disse: «Mi sembra ora di ricordarti, in qualche modo, ma la mia mente è ingombra e offuscata dalla sofferenza...».

«Ahimè, mio povero padrone!» esclamò il ragazzo castigato in sua vece, con molto sentimento, aggiungendo tra sé e sé: “È davvero come hanno detto... ha perduto il senno, meschino! Ma la sventura mi perseguiti, poiché sto dimenticando! Hanno detto che nessuno deve dare a vedere di accorgersi delle sue condizioni!”.

«È strano fino a qual punto mi vien meno la memoria in questi giorni» disse Tom. «Tuttavia, non badarci... miglioro rapidamente... una piccola imbeccata è sufficiente, il più delle volte, per riportarmi alla mente fatti e nomi sfuggiti.» “E non soltanto questi, invero, ma persino fatti e nomi da me sempre ignorati... come questo ragazzo potrà constatare.” «Parla e dimmi che cosa desideri.»

«Trattasi di cosa di poco conto, mio sovrano, ciò nonostante ne parlerò, con il beneplacito di tua Grazia. Due giorni or sono, quando tua Maestà commise tre errori durante la lezione mattutina di greco... te ne rammenti?»

«S-s-ì... mi sembra di rammentare.» “Non è una gran bugia... poiché se davvero fossi stato alle prese con il greco non avrei sbagliato soltanto tre volte, ma almeno quaranta volte.” «Sì, ora rammento. Continua.»

«Il maestro, essendo adirato da quello che definì un compito così sciatto e ottuso, promise che mi avrebbe frustato ben bene per punizione, e...»

«Frustato esclamò Tom, sbalordito fino a perdere la propria presenza di spirito. «Perché mai avrebbe dovuto frustare te se la colpa era mia?»

«Ah, tua Grazia dimentica una volta di più. Frusta sempre me quando tu commetti errori nei compiti.»

«Vero, vero... dimenticavo. Tu mi dai lezioni private; poi, se sbaglio, egli ne deduce che non hai fatto come si deve il tuo dovere, e...»

«Oh, mio sovrano, che parole sono mai queste? Io, il più umile dei tuoi servi, avere la presunzione di insegnare a te?»

«Ma allora in che cosa consiste la tua colpa? Quale enigma è mai questo? Sono davvero diventato pazzo, o sei tu a essere impazzito? Spiegati... parla.»

«Ma, mia buona Maestà, non vi è nulla che richieda spiegazioni. Nessuno può infliggere colpi alla sacra persona del Principe di Galles e, di conseguenza, quando tu sbagli, tocca a me essere punito; ed è opportuno e giusto, essendo questo il mio incarico e il mio mezzo di sussistenza.»

Tom fissò il tranquillo ragazzo, dicendo a se stesso: “Ve’, è una cosa mirabile... un mestiere stranissimo e curioso; mi meraviglio che non abbiano assunto un ragazzo per farsi pettinare e vestire in vece mia, volesse il cielo che lo assumessero! In tal caso, accetterei volentieri le frustate sulla mia persona, ringraziando Dio per il cambiamento”. Poi, a voce alta, soggiunse: «E sei stato percosso, mio povero amico, secondo la promessa?».

«No, buona Maestà, la punizione doveva essermi inflitta oggi, ma non è escluso che possa essere annullata, in quanto non si addice al periodo di lutto iniziato per noi; non lo so, e così ho trovato l’audacia di venire qui a rammentare a tua Grazia la cortese promessa di intercedere a mio favore...»

«Presso il maestro? Per evitarti le frustate?»

«Ah, tu rammenti, dunque!»

«La mia memoria va migliorando, come vedi. Tranquillizzati; la tua schiena rimarrà illesa; penserò io a questo.»

«Oh, grazie, mio buon signore!» esclamò il ragazzo, piegando di nuovo il ginocchio. «Ho forse già troppo osato; eppure...»

Accortosi dell’esitazione di Maestro Humphrey, Tom lo incoraggiò a continuare, dicendo di essere “in vena di concessioni.”

«Parlerò, allora, poiché la cosa mi affligge il cuore. Dato che tu non sei più il Principe di Galles, ma il Re, puoi disporre ogni cosa a piacer tuo, senza che nessuno possa dirti no; per conseguenza, non v’è motivo per cui tu debba continuare ad affliggerti con aridi studi; brucerai invece i libri e volgerai la mente verso cose meno seccanti. Dopodiché io sarò rovinato e, come me, le mie sorelle orfane!»

«Rovinato? In qual modo, di grazia?»

«La schiena è il pane per me, mio grazioso sovrano! Se rimane in ozio, io soffro la fame. E se tu interromperai gli studi il mio incarico finirà, non saprai più che farti di qualcuno da castigare in tua vece. Non mi scacciare!»

Tom venne commosso da un così patetico sgomento. Disse, con un impeto di generosità davvero regale: «Non disperarti oltre, ragazzo. Questo incarico diverrà permanente in te e nei tuoi eredi, per sempre». Poi Tom Canty toccò appena la spalla dell’adolescente con la spada di piatto, esclamando: «Alzati, Humphrey Marlow, Grande Sostituto Ereditario dei Castighi per la Casa Reale d’Inghilterra! Bandisci le preoccupazioni, tornerò a dedicarmi ai libri e studierò così poco che dovranno, per essere giusti, triplicarti la paga, tanto formidabilmente aumenteranno le tue incombenze».

Il grato Humphrey rispose con fervore: «Grazie, o nobilissimo padrone; la tua principesca generosità supera anche i miei più avventati sogni di fortuna. Ora sarò felice ogni giorno della mia vita, e così tutta la stirpe dei Marlow dopo di me».

Tom possedeva senno a sufficienza per rendersi conto che quel ragazzo sarebbe potuto essergli utile. Incoraggiò Humphrey a parlare, ed egli non si mostrò affatto restio. Esultò convincendosi di aiutare Tom a “guarire”; infatti, sempre, subito dopo aver riportato alla mente malata di Tom questo o quell’altro particolare delle esperienze e delle avventure di lui nell’aula reale e altrove a palazzo, poté constatare come Tom riuscisse allora a “ricordare” ogni circostanza con estrema chiarezza. Al termine di un’ora, Tom constatò di essere ben munito di informazioni assai preziose sul conto di personaggi e situazioni relative alla corte, e decise pertanto di attingere quotidianamente a quella fonte; a tale scopo avrebbe impartito l’ordine di far passare Humphrey nello studio privato del re ogni qual volta il ragazzo vi fosse venuto, purché sua Maestà il Re d’Inghilterra non fosse impegnato con altre persone. Humphrey era stato appena congedato, che Lord Hertford sopraggiunse con altre complicazioni per Tom.

Hertford disse che i Lord del consiglio, temendo il possibile diffondersi di notizie esagerate sulla cagionevole salute del re fuori del palazzo, ritenevano saggio e opportuno da parte di Sua Maestà cominciare a pranzare in pubblico, di lì a un giorno o due... in quanto il sano colorito e il passo vigoroso, accompagnandosi a un’attentamente sorvegliata serenità di modi e alla disinvoltura e alla grazia del portamento, avrebbero, senza ombra di dubbio, placato i timori del popolo, qualora voci nefaste fossero già in circolazione, più di qualsiasi altro provvedimento che potesse essere escogitato.

Il conte si accinse poi, con grande delicatezza, a istruire Tom sul comportamento opportuno in tali pubbliche occasioni, con il pretesto, piuttosto malcelato, di “rammentargli” cose a lui già note; ma, con sua enorme contentezza, risultò che Tom aveva ben poco bisogno di aiuto al riguardo; egli si era infatti servito di Humphrey, per questo, essendogli stato detto dal ragazzo che di lì a pochi giorni avrebbe cominciato a pranzare in pubblico, una notizia dedotta dai pettegolezzi della corte, le cui ali erano veloci. Tom, tuttavia, tenne la cosa per sé.

Constatando che la memoria del re era così migliorata, il conte si azzardò a sottoporla ad alcune prove, in modo apparentemente casuale, allo scopo di accertare fino a qual punto avesse progredito. I risultati furono soddisfacenti, qua e là, riguardo a certi punti... i punti nei quali rimanevano impresse le orme di Humphrey; e, in complesso, Lord Hertford ne fu grandemente soddisfatto e incoraggiato. A tal punto incoraggiato, invero, da indursi a parlare e a dire, con un tono di voce molto speranzoso: «Sono ormai persuaso che, se la Tua Maestà si sforzerà ancora un poco di ricordare, riuscirà a risolvere l’enigma del Grande Sigillo... una perdita di grande momento ieri, anche se oggi non è più così, in quanto l’utilità del Sigillo stesso ha avuto termine con la morte del defunto sovrano. Spiacerebbe a Tua Grazia compiere il tentativo?».

Tom era in alto mare... essendo il Grande Sigillo un qualcosa che egli ignorava totalmente. Dopo un attimo di esitazione, alzò gli occhi con aria innocente e domandò: «Com’era fatto, mio signore?».

Il conte trasalì, quasi impercettibilmente, dicendo a se stesso: “Ahimè, il suo intelletto è andato di nuovo a farsi benedire! È stato sconsiderato metterlo a troppo dura prova”. Poi, abilmente, cambiò discorso, allo scopo di cancellare il malaugurato Sigillo dai pensieri di Tom... uno scopo nel quale riuscì facilmente.


15


Tom Re

Il giorno dopo vennero gli ambasciatori stranieri, con i loro seguiti sfarzosi, e Tom, assiso in trono e spaventosamente in pompa, li ricevette. A tutta prima, gli splendori della scena gli deliziarono la vista e incendiarono la sua immaginazione, ma l’udienza risultò essere lunga e noiosa, come la maggior parte dei discorsi; dopodiché, quello che era cominciato come un piacere finì con il tramutarsi a poco a poco in stanchezza e nostalgia. Tom pronunciava ciò che Hertford gli metteva di quando in quando in bocca, e faceva del suo meglio per cavarsela in modo soddisfacente, ma era troppo nuovo a queste cose e si sentiva eccessivamente a disagio per poter ottenere qualcosa di più di un successo tollerabile. Aveva a sufficienza l’aspetto di un re, ma non riusciva a sentirsi tale. Fu cordialmente lieto quando la cerimonia ebbe termine.

La maggior parte di quel giorno andò “sprecata” – così egli pensò in cuor suo – in occupazioni faticose ma doverose da parte di un sovrano. Persino le due ore dedicate a certi passatempi e a certe ricreazioni principesche risultarono essere per lui più un fardello che altro, perché troppo gravate da restrizioni e dalla necessità di rispettare il cerimoniale. Tuttavia egli trascorse un’ora in privato con il ragazzo che veniva castigato in sua vece, e questa la considerò senz’altro piacevole poiché, oltre a divertirlo, gli fruttò utili informazioni.

Il terzo giorno del regno di Tom Canty incominciò e terminò press’a poco come gli altri, ma la nube che gravava su di lui parve sollevarsi, sotto un certo aspetto: egli cominciava a sentirsi meno a disagio che all’inizio, cominciava ad abituarsi un poco alle circostanze e all’ambiente; le catene gli pesavano ancora ma non continuamente; constatò che la presenza e l’omaggio dei grandi lo affliggevano e lo imbarazzavano sempre e sempre meno a ogni ora trascorsa.

Se non fosse stato per un singolo timore, avrebbe veduto avvicinarsi il quarto giorno senza sgomentarsi seriamente; il pranzo in pubblico cominciava quel giorno.

V’erano cose più importanti in programma, poiché, lo stesso giorno, avrebbe dovuto presiedere un Consiglio i cui componenti si sarebbero attenuti ai suoi punti di vista e ai suoi ordini per quanto concerneva la politica da seguire nei confronti di varie nazioni straniere, sparse lontano e vicino sul grande globo terrestre; sempre nello stesso giorno, Hertford sarebbe stato ufficialmente scelto per la grande carica di Lord Protettore; e altre questioni di rilievo ancora dovevano essere risolte in quel quarto giorno, ma a Tom sembravano tutte insignificanti in confronto al cimento di dover pranzare tutto solo, con una moltitudine di occhi curiosi fissi su di lui e con una moltitudine di bocche che avrebbero bisbigliato commenti sul suo comportamento... e sui suoi errori, qualora fosse stato così sfortunato da commetterne.

Eppure, niente avrebbe potuto fermare quel quarto giorno, e pertanto esso venne. Trovò il povero Tom demoralizzato e distratto, e questo stato d’animo continuò; egli non riuscì a scrollarselo di dosso. I consueti doveri della mattinata si trascinarono interminabili e lo stancarono. Una volta di più, provò la sensazione della prigionia che pesava greve su di lui.

A una certa ora del mattino, si trovava nella vasta sala delle udienze, intento a conversare con il Conte di Hertford, aspettando annoiato che giungesse l’ora stabilita per la visita cerimoniale di un numero considerevole di alti funzionari e di cortigiani.

Dopo qualche tempo Tom, che si era avvicinato a una finestra, interessandosi alla vita e al movimento sulla grande strada maestra al di là dei cancelli del palazzo – e non soltanto interessandosene pigramente, ma anelando con tutto il cuore a partecipare di persona a tanta animazione e libertà – vide venire avanti lungo la strada una turba disordinata di uomini, donne e ragazzi della più umile e misera condizione che fischiavano e urlavano.

«Come vorrei sapere che cosa sta succedendo!» esclamò, con tutta la curiosità di un fanciullo per gli eventi di quel genere.

«Tu sei il Re!» rispose solennemente il conte, facendo una riverenza. «Ho da Tua Grazia il consenso di agire?»

«Oh, che bellezza, sì! Oh, volentieri, sì!» esclamò Tom, eccitato, e soggiunse tra sé e sé, con un vivo senso di soddisfazione: “In verità, essere re non è soltanto squallore; vi sono anche compensi e comodità”.

Il conte chiamò un paggio e lo mandò dal capitano della guardia con l’ordine: «Che la folla venga fermata e ci si informi sul motivo di tanta agitazione. Per ordine del Re!».

Pochi secondi dopo, una lunga fila di guardie reali, protette da acciaio scintillante, corse ai cancelli e si schierò di traverso sulla strada maestra, di fronte alla moltitudine. Un messaggero giunse per riferire che la folla stava seguendo un uomo, una donna e una fanciulla condannati a essere giustiziati per reati commessi contro la pace e la dignità del regno.

La morte – e una morte violenta – per quei poveri disgraziati! Il pensarvi turbò Tom nei suoi sentimenti più profondi. La compassione lo dominò, escludendo ogni altra considerazione: egli non pensò nemmeno alle leggi violate, né alle sofferenze o ai lutti che i tre criminali potevano aver causato alle loro vittime. Riuscì a pensare soltanto al patibolo e al macabro fato sospeso sul capo dei condannati. Il turbamento gli fece dimenticare persino – momentaneamente – che era soltanto la falsa ombra, non la sostanza, di un re; e, prima di rendersene conto, ecco che si era lasciato uscire di bocca l’ordine: «Portateli qui!».

Poi si fece scarlatto in volto e parole di scusa gli salirono alle labbra; ma, notando che quell’ordine non aveva causato stupore alcuno nel conte e nel paggio in attesa, represse le parole che era stato sul punto di pronunciare. Il paggio, con la maggior naturalezza di questo mondo, fece un profondo inchino e uscì camminando all’indietro dalla sala per andare a riferire l’ordine. Tom provò una calda sensazione d’orgoglio e, una volta di più, si rese conto che la sovranità poteva offrire come compenso vantaggi. Disse a se stesso: “Davvero è come quel che provavo leggendo i racconti del vecchio prete e immaginando me stesso, divenuto principe, amministrare la giustizia e impartire ordini a tutti, dicendo: ‘Fate questo! Fate quest’altro!’ senza che nessuno osasse opporsi alla mia volontà”.

A questo punto le porte vennero spalancate, un titolo risonante dopo l’altro fu annunciato, seguirono i possessori dei titoli e la sala venne rapidamente riempita da nobiluomini elegantemente vestiti. Ma Tom quasi non si rese conto della presenza di queste persone, tanto era eccitato e intensamente assorbito dall’altro e più interessante evento. Sedeva distratto sul trono e volgeva lo sguardo verso la porta, manifestando una impaziente aspettativa; essendosene resi conto, i presenti evitarono di disturbarlo e cominciarono a conversare gli uni con gli altri a proposito dei pettegolezi di corte o degli affari di Stato.

Di lì a poco fu possibile udire il passo cadenzato dei militari che si avvicinavano, poi i colpevoli entrarono alla presenza del sovrano, affidati a un vicesceriffo e scortati da un reparto di guardie del re. Il vice-sceriffo si inginocchiò dinanzi a Tom, poi si scostò; i tre condannati si inginocchiarono a loro volta e rimasero in quella posizione; le guardie si schierarono dietro il trono di Tom. Il re fanciullo scrutò incuriosito i prigionieri. Un qualcosa nel modo di vestire e nell’aspetto dell’uomo aveva destato in lui un vago ricordo. “Se non erro, ho già veduto costui, ma il dove e il quando mi sfuggono...” Così pensò Tom. Proprio in quel momento l’uomo alzò la testa scoccandogli una rapida occhiata, poi si affrettò a riabbassare il capo, non riuscendo a sopportare l’enorme ascendente della sovranità; ma l’averne veduto completamente la faccia fu sufficiente per Tom. Egli si disse: “Ora ricordo con chiarezza: costui è lo sconosciuto che trasse in salvo Giles Witt dal Tamigi evitandogli la morte in quel ventoso, gelido primo giorno del nuovo anno... un’azione davvero coraggiosa; peccato che egli ne abbia commesse anche di infami e si sia cacciato in questa triste situazione. Non ho dimenticato né il giorno né il momento, a causa del fatto che un’ora dopo, alle undici in punto, mi presi un fracco di botte per mano di nonna Canty, la quale fu tanto violenta, quella volta, da far sembrare tutte le percosse subite da me, prima e dopo di allora, qualcosa di simile a tenerezze e carezze, in confronto”.

Tom ordinò, a questo punto, che la donna e la fanciulla venissero allontanate dalla sua presenza, per breve tempo, poi si rivolse al vicesceriffo domandandogli: «Buon signore, qual è il reato commesso da quest’uomo?».

Il rappresentante della legge si inginocchiò e rispose: «Ha tolto la vita a un suddito di Sua Maestà mediante il veleno».

La compassione che provava Tom per il prigioniero, nonché l’ammirazione perché egli aveva audacemente salvato un ragazzo sul punto di affogare subirono un grave colpo.

«Il delitto è stato provato?» domandò.

«Con la massima chiarezza, Sire.»

Tom sospirò e disse: «Portatelo via... ha meritato la morte. È un peccato, poiché trattasi di un uomo coraggioso... cioè... ha l’aria di esserlo, voglio dire».

Il prigioniero unì le mani con improvvisa energia, torcendole disperatamente, e al contempo supplicò implorante il “re” con frasi rotte e terrorizzate. «Oh mio signore il Re, se anche non puoi avere pietà di chi si è perduto, abbi pietà di me! Sono innocente... e il delitto del quale mi accusano non è neppure stato provato in modo convincente... comunque questo non importa; il giudizio mi è stato avverso e non può più essere modificato; ciò nonostante, nella mia estrema disgrazia, chiedo una concessione, poiché la condanna inflittami è più di quanto possa sopportare. Una grazia, una grazia, mio signore il Re! Nella tua sovrana compassione esaudisci la mia preghiera: ordina che io venga impiccato!»

Tom rimase sbalordito; non era questa la conclusione che si aspettava.

«Per la mia vita! Chiedi una strana concessione! Non è già questo il tuo fato?»

«Oh, mio buon sovrano, non è così! Mi hanno condannato a essere bollito vivo!»

L’orrendo stupore causato da queste parole per poco non fece sì che Tom balzasse su dal trono. Non appena fu riuscito a dominarsi, egli gridò: «Sia come tu desideri, povera anima! Anche se tu avessi avvelenato cento uomini, non meriteresti di subire una morte così tremenda!».

Il prigioniero si prosternò con la faccia contro il pavimento e proruppe in appassionate frasi di gratitudine, concludendo con: «Se mai la fortuna dovesse esserti avversa – che Dio non voglia! – possa la bontà da te dimostratami oggi essere ricordata e ricompensata!».

Tom si rivolse al Conte di Hertford e disse: «Mio signore, è credibile che la legge consenta la feroce condanna di quest’uomo?».

«Sì, questa è la legge, Tua Grazia... per gli avvelenatori. In Germania i falsari possono essere uccisi facendoli bollire nell’olio... e non già gettandoveli di colpo, ma calandoveli mediante una corda a poco a poco e lentamente; dapprima i piedi, poi le gambe, poi...»

«Oh, te ne prego, non dire di più, mio signore; non posso sopportarlo!» gridò Tom, coprendosi gli occhi con le mani, come per non vedere quel che immaginava. «Esorto tua signoria a impartire disposizioni affinché questa legge venga modificata. Oh, che una tortura simile non tocchi più ad altre creature!»

Il viso del conte tradì una profonda soddisfazione, poiché egli era un uomo dagli impulsi misericordiosi e generosi: cosa non molto frequente nella sua classe sociale, in quell’epoca feroce. Hertford disse: «Queste nobili parole di Tua Grazia hanno suggellato la fine della legge. La storia lo ricorderà a onore del tuo casato».

Il vicesceriffo stava per condurre via il prigioniero; Tom gli fece cenno di aspettare, poi disse: «Buon signore, vorrei approfondire ulteriormente la questione. L’uomo ha asserito che il suo delitto non è stato provato in modo convincente. Dimmi quello che ne sai».

«Con il consenso del Re, è risultato, nel corso del processo, che quest’uomo entrò, nel villaggio di Islington, in una casa ove giaceva un malato: tre testimoni affermano che fu alle dieci del mattino, e altri due qualche minuto dopo. Il malato era solo, in quel momento, e dormiva; poco dopo, l’uomo uscì dalla casa e riprese il suo cammino. Il malato morì entro un’ora, in preda a convulsioni e vomito.»

«Vide qualcuno somministrare il veleno? Venne trovato il veleno?» chiese Tom.

«Perdiana, no, mio sovrano!»

«Come si sa, allora, che l’uomo fu avvelenato?»

«Con il consenso di Tua Maestà, i medici testimoniarono che nessuno muore con quei sintomi se non essendo stato avvelenato.»

Una prova quasi inconfutabile, questa... in un’epoca così ingenua. Tom si rese conto del peso formidabile che essa aveva e disse: «I medici sanno il fatto loro; è probabile che avessero ragione. La situazione si prospetta male per questo pover’uomo».

«Ma non è tutto, Maestà. C’è di più e di peggio. Molti testimoniarono che una strega, da tempo scomparsa dal villaggio, e a tutti sconosciuta laggiù, aveva profetato, parlando confidenzialmente alle loro orecchie, la morte per avvelenamento del malato, e non solo, ma anche che un forestiero l’avrebbe causata... un forestiero dai capelli castani, e vestito miseramente; orbene, senza dubbio costui corrisponde decisamente alla descrizione. Esorto Tua Maestà ad attribuire alla circostanza il peso che merita, tenuto conto del fatto che tutto era stato predetto.»

Era questo un ragionamento quasi irresistibile, in quei tempi superstiziosi. Tom sentì che la questione poteva ormai considerarsi decisa; se le prove avevano un peso, la colpa del pover’uomo era stata dimostrata. Ciò nonostante, egli offrì al prigioniero ancora una possibilità, dicendo: «Se puoi aggiungere qualcosa a tua discolpa, parla».

«Niente che possa servire, mio Re. Sono innocente, ma non mi è possibile provarlo. Non ho amici, altrimenti potrei dimostrare che non mi trovavo a Islington quel giorno; parimenti potrei dimostrare che, all’ora da essi indicata, mi trovato più di un miglio lontano di là, in quanto ero a Wapping Old Stairs; e c’è di più, mio Re, poiché potrei dimostrare che mentre, stando a ciò che essi affermano, spegnevo una vita, la salvavo, invece. La vita di un ragazzo sul punto di affogare...»

«Taci! Sceriffo, precisa a Sua Maestà il Re il giorno in cui fu commesso il delitto!»

«Alle dieci del mattino, o pochi minuti dopo, il primo giorno del nuovo anno, illustrissimo...»

«Libera il prigioniero; questa e la volontà del Re!»

Un nuovo rossore seguì a questa frase impulsiva e poco regale, e Tom ne mascherò l’indecorosità come meglio poteva, soggiungendo: «Mi infuria il fatto che un uomo possa essere impiccato in seguito a prove così inconsistenti e scervellate!».

Un sommesso mormorio di ammirazione si levò dai nobili lì riuniti. Non trattavasi di ammirazione per la sentenza pronunciata da Tom, poiché l’opportunità o la legittimità di concedere il perdono a un avvelenatore riconosciuto colpevole costituivano un qualcosa che ben pochi dei presenti avrebbero ritenuto lecito ammettere o ammirare... No, l’ammirazione andava all’intelligenza e al coraggio dimostrati da Tom. Ecco alcuni dei commenti pronunciati a voce bassa: «Costui non è un re pazzo; è perfettamente sano di mente... Con quanto senno ha posto le domande; e come si è palesata la sua personalità di un tempo attraverso una decisione così brusca e imperiosa!... Dio sia ringraziato, l’infermità di lui è guarita! Non abbiamo più, qui, un fanciullo malaticcio ma un re. Egli si è comportato come il padre suo!».

L’aria stessa venne resa vibrante dalle approvazioni che le orecchie di Tom non poterono non percepire. L’effetto che ebbero su di lui fu quello di metterlo del tutto a suo agio e di fargli provare, inoltre, sensazioni piacevolissime.

Tuttavia, la curiosità giovanile prevalse ben presto su questi gradevoli pensieri e stati d’animo; lo afferrò il desiderio di sapere che cosa avessero potuto commettere di tanto grave la donna e la bambina; di conseguenza, per ordine suo, le due creature, terrorizzate e singhiozzanti, gli furono portate dinanzi.

«Qual è la loro colpa?» domandò allo sceriffo.

«Con il consenso di Tua Maestà, si sono rese colpevoli di un crimine tremendo, chiaramente provato; ragion per cui i giudici hanno stabilito, come prescrive la legge, che siano impiccate. Si sono vendute al demonio, ecco qual è il loro crimine.»

Tom rabbrividì. Gli era stato insegnato ad aborrire le persone che facevano una cosa tanto orribile. Ciò nonostante non intendeva negare a se stesso il piacere di soddisfare la curiosità, e pertanto domandò: «Dove è avvenuto? E quando?».

«A mezzanotte, nel mese di dicembre, in una chiesa in rovina, Maestà.»

Tom rabbrividì di nuovo.

«Chi era presente?»

«Soltanto queste due, Tua Grazia... e quell’altro.»

«Hanno confessato?»

«No, non è così, sire. Negano.»

«Allora, di grazia, come lo si sa?»

«Certi testimoni le videro recarsi là, buona Maestà; ciò fece nascere sospetti, in seguito confermati e giustificati da spaventose conseguenze. In particolare risulta che, grazie al diabolico potere così assicuratosi, esse invocarono e causarono un nubifragio dal quale venne devastata l’intera regione circostante. Circa quaranta testimoni hanno confermato che il nubifragio vi fu; e sarebbero potuti essere un migliaio, in quanto tutti coloro che ne subirono le conseguenze avevano validi motivi per ricordarlo.»

«Senza alcun dubbio questa è una cosa seria.» Tom rifletté per qualche momento sul tenebroso esempio di scelleratezza, poi domandò: «Subì anche la donna le conseguenze del nubifragio?».

Numerose teste canute tra i nobili lì riuniti riconobbero, con cenni di approvazione, la saggezza di tale domanda. Lo sceriffo, tuttavia, non scorse in essa alcunché di logico; si limitò a rispondere con ingenua franchezza: «Sì, invero, Maestà; e quanto mai giustamente, come tutti riconoscono. La sua casa venne spazzata via e lei e la bambina rimasero senza un tetto».

«Mi sembra che la capacità di rendere a se stessa un così cattivo servigio venne pagata ben cara. Sarebbe già stata frodata se le fosse costata anche soltanto un soldo; il fatto che l’abbia pagata con l’anima sua e con quella della figlioletta dimostra la sua pazzia; se è pazza, non sa quel che fa, e pertanto non ha commesso crimine alcuno.»

Le teste canute riconobbero una volta di più, con cenni di assenso, la saggezza di Tom, e uno dei presenti mormorò: «Se davvero il Re fosse pazzo, come corre voce, allora la sua sarebbe una pazzia capace di far rinsavire certuni che io conosco, qualora, per grazia di Dio, riuscissero a capirlo».

«Che età ha la bambina?»

«Nove anni, Maestà.»

«In base alla legge inglese può una bambina concludere un patto e vendere se stessa, mio signore?» domandò Tom, rivolgendosi a un dotto giudice.

«La legge non consente a un minore di concludere un qualsiasi importante accordo o di avervi parte, mio buon sovrano, sostenendo che la sua intelligenza immatura non è in grado di tener testa al maturo senno e alle perfide astuzie degli adulti. Il demonio può comprare un fanciullo, se così vuole, e se il fanciullo è consenziente ma non inglese; in quest’ultimo caso il contratto sarebbe nullo e inefficace.»

«Sembra a me scortese, non cristiano e mal concepito il fatto che la legge inglese neghi agli Inglesi il privilegio di vendersi al demonio e di finire all’inferno!» gridò Tom, con sincera foga.

Tale modo originale di prospettare la questione causò numerosi sorrisi e rimase impresso in non poche menti, per essere poi riferito ad altri nella corte, a riprova dell’originalità di Tom, nonché dei progressi da lui compiuti verso la guarigione dalla malattia mentale.

La donna ritenuta colpevole aveva smesso di singhiozzare e pendeva dalle labbra di Tom con vivo interessamento e con crescente speranza. Tom se ne accorse e la cosa orientò nettamente le sue simpatie verso la povera creatura venuta a trovarsi in una situazione così pericolosa e priva di amici. Dopo un momento egli domandò: «In qual modo causarono il nubifragio?».

«Sfilandosi le calze, Signore.»

Questa risposta sbalordì Tom e incendiò inoltre la sua curiosità, portandola a una temperatura febbrile. Egli disse con vivacità: «Ma è meraviglioso! La cosa ha sempre un tale spaventoso effetto?».

«Sempre, mio sovrano, per lo meno se la donna così desidera e pronuncia la necessaria formula magica, o mentalmente, o con la lingua.»

Tom si rivolse alla donna e disse, con impetuoso entusiasmo: «Esercita i tuoi poteri; desidero assistere a un nubifragio».

Vi fu un pallore improvviso sulle gote della superstiziosa accolta, e non mancò un generale, anche se inespresso, desiderio di uscire di lì; ma tutto ciò sfuggì a Tom, insensibile a ogni cosa eccezion fatta per il bramato cataclisma. Scorgendo un’espressione interdetta e attonita sul viso dell’accusata, soggiunse, eccitato: «Non temere, non te ne sarà fatta alcuna colpa. Non solo, ma sarai libera e nessuno ti toccherà. Esercita i tuoi poteri».

«Oh, mio signore il Re, non li posseggo. Sono stata accusata falsamente.»

«Placa i tuoi timori. Rasserenati; non te ne verrà alcun male. Causa un nubifragio, non importa anche se piccolo... non ti chiedo nulla di enorme o di disastroso, e anzi preferirei proprio l’opposto; fa questo e la vita ti sarà risparmiata; uscirai di qui libera, con la tua figlioletta, avendo ottenuto la grazia dal Re, protetta dalla malevolenza di chiunque nel regno, e nessuno ti farà del male.»

La donna si prostrò e, versando lacrime, si ostinò nel dire che non possedeva alcun potere di compiere il miracolo, altrimenti ben volentieri avrebbe salvato la vita della sola sua figlioletta, rassegnandosi a perdere la propria se, ubbidendo all’ordine del Re, le fosse stato possibile assicurarsi una grazia così preziosa.

Tom insistette; la donna non poté fare altro che quanto già aveva dichiarato. Infine Tom disse: «Credo che costei sia sincera. Se mia madre si fosse trovata al posto suo, possedendo poteri demoniaci, non avrebbe esitato un solo attimo a evocare tempeste e a distruggere l’intero paese qualora, in cambio, avesse potuto salvarmi la vita in pericolo! È da chiunque riconosciuto che le madri sono tutte uguali. Sei libera, buona donna... tu e la tua figlioletta... poiché io ti ritengo innocente. Ma ora che non hai più nulla da temere, essendo stata graziata, sfilati le calze! E, se riuscirai a evocare per me un nubifragio, sarai ricca!».

La creatura così liberata espresse a gran voce la propria gratitudine e si accinse a ubbidire, mentre Tom stava a guardare con avida aspettativa, lievemente turbata dall’apprensione, e i cortigiani, al contempo, manifestavano un evidente timore e disagio. La donna denudò i propri piedi, nonché quelli della bambina e fece inoltre ovviamente del suo meglio per ricompensare la generosità del re con un cataclisma, ma si trattò soltanto di un insuccesso e di una gran delusione.

Tom sospirò e disse: «Sta bene, anima buona, non scomodarti più, i tuoi poteri, se mai li hai avuti, ti hanno abbandonata. Vattene in pace e, se ti tornassero, non dimenticarti di me, ma portami un nubifragio».


16


Il pranzo di gala

L’ora del pranzo andava avvicinandosi, eppure il pensarvi causava a Tom soltanto una lieve sensazione di disagio e non lo terrorizzava più. Le esperienze di quel mattino lo avevano reso mirabilmente fiducioso; dopo quattro giorni appena, il povero gattino randagio si era già abituato al nuovo ambiente più di quanto avrebbe potuto riuscirvi una persona matura in un intero mese. La facilità con la quale un fanciullo si adatta a nuove circostanze non è mai stata dimostrata in modo più sorprendente.

Affrettiamoci, noi privilegiati, a entrare nella grande sala dei banchetti e vediamo come stanno là le cose, mentre Tom viene preparato per l’importantissima occasione. Si tratta di un ambiente spazioso, con colonne e pilastri dorati, con pareti e soffitti affrescati. Ai due lati della porta si trovano alte guardie, rigide come statue, che indossano costumi ricchi e pittoreschi e reggono alabarde. Sull’alta galleria che corre tutto intorno alla sala trovansi un’orchestra di musici e una numerosa compagnia di cittadini di entrambi i sessi, sfarzosamente vestiti. Al centro della sala, su una sorta di pedana, v’è il tavolo di Tom. E ora lasciamo parlare l’antico cronista:

“Un gentiluomo entra nella sala impugnando una bacchetta e lo accompagna un altro gentiluomo munito di una tovaglia che, quando entrambi si sono inginocchiati per tre volte con la massima venerazione, viene stesa sul tavolo; dopodiché i due si inginocchiano una volta ancora e si ritirano; entrano poi altri due gentiluomini, l’uno di nuovo con la bacchetta, l’altro con la saliera, un vassoio e il pane; dopo essersi inginocchiati come già gli altri hanno fatto, dispongono sul tavolo ciò che hanno portato e si ritirano a loro volta, cerimoniosamente, come i primi; vengono infine due nobili, riccamente vestiti, l’uno dei quali portando un coltello per degustazioni; dopo essersi prosternati per tre volte nel modo più aggraziato, si avvicinano e strofinano il tavolo con il pane e con il sale, reverenzialmente come se si trovassero alla presenza del Re.”

Così si concludono i solenni preliminari. Ora, lontano nei corridoi echeggianti, udiamo uno squillo di tromba e il grido indistinto: «Fate posto al Re! Lasciate passare la Sua Eccellentissima Maestà!». Queste parole vengono portentosamente ripetute – si fanno sempre e sempre più vicine – e infine la nota marziale squilla quasi dinanzi a noi così come, vicinissimo, echeggia il grido: «Fate posto al Re!». In quest’attimo, lo splendido corteo appare e sfila fuori della porta a passo misurato. Lasciamo parlare di nuovo il cronista:

“Vengono dapprima i gentiluomini, baroni, conti, cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera, tutti riccamente vestiti e a testa nuda; ecco poi il Cancelliere, tra due uomini, uno dei quali porta lo scettro reale, l’altro la Spada delle Cerimonie, in un fodero rosso costellato di fleur-de-lis d’oro, tenuto con la punta in alto. Segue il re stesso e, al suo apparire, dodici trombe e numerosi tamburi salutano con un’esplosione di suoni di benvenvuto mentre tutti, nelle gallerie, balzano in piedi gridando: ‘Dio salvi il Re!’. Dopo di lui vengono i nobili assegnati alla sua persona mentre, sulla destra e sulla sinistra, marcia la guardia d’onore, i cinquanta gentiluomini pensionatari con le azze di guerra.”

Tutto ciò era bello e piacevole. Il polso di Tom batteva rapidamente ed egli aveva negli occhi una luce di letizia. Manteneva con grazia il giusto portamento, tanto più in quanto non si stava domandando se vi riuscisse a dovere, tutti i suoi pensieri essendo affascinati e assorbiti dalla scena e dai suoni gioiosi intorno a lui; e a parte questo, nessuno può essere molto sgraziato indossando vesti splendide e ben fatte, dopo esservisi un poco abituato, specie se è momentaneamente ignaro di indossarle. Tom rammentò le istruzioni impartitegli e rispose al saluto chinando appena il capo piumato e pronunciando un cortese: «Ti ringrazio, mio buon popolo».

Sedette a tavola senza togliersi il berretto, e lo fece con la massima disinvoltura, poiché mangiare con il copricapo era l’unica e sola costumanza reale condivisa dai sovrani e dai Canty e nella quale né gli uni né gli altri risultavano avvantaggiati in fatto di antica tradizione. Il corteo si sciolse e tutti si raggrupparono in modo pittoresco a testa nuda.

A questo punto, mentre risonavano gli accordi di una allegra musica, entrarono le guardie del corpo del re:

“... gli uomini più alti e più robusti d’Inghilterra, essendo attentamente prescelti sotto questo aspetto.”

Ma di nuovo lasceremo che sia il cronista a parlare:

“Le guardie del corpo del re entrarono, a testa nuda, vestite in scarlatto, con ricami di rose d’oro; cominciarono ad andare e venire, ogni volta con una serie di portate servite su vassoi. I vassoi venivano ritratti da un gentiluomo, nello stesso ordine con il quale giungevano, e posti sul tavolo, mentre l’assaggiatore faceva mangiare a ciascuna guardia un boccone, tolto dal particolare vassoio che essa aveva portato, per tema di un qualsiasi veleno.”

Tom pranzò con disinvoltura, pur essendo consapevole del fatto che centinaia di occhi seguivano ogni boccone da lui portato alla bocca e lo scrutavano mentre masticava, con un interessamento che non sarebbe potuto essere più intenso se il cibo fosse stato un medicinale esplosivo e se ci si aspettasse che avrebbe potuto farlo saltare in aria, spargendolo a pezzi tutto attorno. Stette bene attento a non affrettarsi, e altrettanto attento a non fare assolutamente nulla di sua iniziativa, ma ad aspettare che il funzionario incaricato si inginocchiasse e provvedesse a fare ogni cosa in sua vece. Consumò il pasto senza commettere un solo errore... impeccabile e prezioso trionfo.

Quando il pranzo ebbe termine, finalmente, ed egli si allontanò tra il suo pittoresco seguito, avendo nelle orecchie i suoni allegri delle trombe squillanti, dei tamburi rullanti, e delle tonanti acclamazioni, si disse che, se aveva sperimentato il peggio in fatto di pasti consumati in pubblico, era quello un cimento facilmente sopportabile più volte al giorno, purché grazie a esso, fosse riuscito a esonerarsi da alcuni dei più formidabili doveri della sua sovranità.


17


Fufù primo

Miles Hendon si affrettò verso l’estremità di Southwark del ponte, cercando attentamente con lo sguardo le persone che inseguiva e sperando e aspettandosi di raggiungerle di lì a non molto. Ma rimase deluso per quanto concerneva questa sua aspettativa. Ponendo domande a destra e a manca, riuscì a non perderne le tracce per un certo tratto attraverso Southwark, ma poi nessuno fu più in grado di dirgli qualcosa ed egli divenne perplesso per quanto concerneva la direzione da prendere. Ciò nonostante, insistette come meglio poteva nel tentativo per tutto il resto della giornata. Il cader della notte lo trovò con le gambe stanche, mezzo affamato, e lontano come non mai dall’aver ottenuto il risultato che desiderava. Pertanto, cenò nella locanda Tabard e andò a coricarsi, deciso a riprendere le ricerche sin dalle prime ore della mattina dopo e a frugare a fondo la cittadina. Mentre giaceva riflettendo e architettando piani, cominciò, di lì a non molto, a ragionare in questo modo: il ragazzo avrebbe tentato di sfuggire, se possibile, al furfante, il suo presunto padre; sarebbe forse tornato a Londra, negli stessi luoghi ove aveva vissuto un tempo? No, non si sarebbe regolato in questo modo, per evitare di essere nuovamente catturato. Ma che cosa avrebbe fatto, allora? Non avendo mai avuto un amico o un protettore al mondo fino all’incontro con Miles Hendon, sembrava logico che egli tentasse di ritrovare quell’amico, purché il tentativo non lo costringesse a tornare nella direzione di Londra e del pericolo. Avrebbe preso la strada per Hendon Hall, questo era ciò che si sarebbe deciso a fare, poiché sapeva che Hendon era diretto a casa, e che là poteva aspettarsi di trovarlo. Sì, la situazione parve chiara a Miles... non doveva perdere altro tempo a Southwark, ma incamminarsi subito, attraverso il Kent, nella direzione di Monk’s Holm, cercando nel bosco e informandosi mentre proseguiva. Ma torniamo ora al piccolo re scomparso.

Il briccone che il cameriere della locanda sul ponte aveva veduto “mentre si univa” al giovinastro e al re, non si unì a essi, a dire il vero, ma rimase alle loro calcagna, seguendone i passi. Non disse nulla. Aveva il braccio sinistro sorretto da una benda e si era messo una grande pezza verde sull’occhio sinistro; zoppicava un poco e si serviva di un bastone di quercia per sostenersi. Il giovinastro condusse il re, seguendo un itinerario tortuoso, attraverso Southwark, poi si incamminò lungo la strada maestra più oltre. Il re era ormai irritato e disse che non sarebbe andato oltre... spettava a Hendon raggiungere lui, e non a lui raggiungere Hendon. Non intendeva subire una simile insolenza; più in là non voleva andare. Il giovane disse: «Vuoi indugiare qui mentre il tuo amico giace ferito nel bosco più avanti? Sia come tu vuoi, allora».

L’atteggiamento del re mutò all’istante. Egli gridò: «Ferito? E chi ha osato far questo? Ma a ciò provvederemo dopo. Prosegui, prosegui! Più in fretta, signor mio! Hai forse calzature di piombo? Ferito, eh? Fosse stato anche il figlio di un duca a ferirlo, dovrà pentirsene!».

Il bosco distava alquanto, ma il tratto di strada venne percorso rapidamente. Il giovinastro si guardò attorno, trovò un ramo conficcato nel terreno, con un pezzetto di straccio legato a esso, poi precedette il re nella foresta, cercando altri rami simili e trovandoli a intervalli; trattavasi, evidentemente, di indicazioni per guidarlo nel punto verso il quale era diretto. Giunsero infine in una radura ove si trovavano le rovine bruciate di una fattoria e, accanto a esse, una stalla cadente. Non si scorgeva, lì attorno, alcun segno di vita, e regnava un silenzio assoluto. Il giovane entrò nella stalla, seguito ansiosamente alle calcagna dal re. Nessuno nemmeno lì! Il re lanciò un’occhiata sorpresa e insospettita al suo accompagnatore e domandò: «Dov’è?».

Una risata beffarda fu la sola risposta che ottenne. Il re si infuriò in un lampo; afferrò un pezzo di legno e stava per lanciarsi contro il giovane, quando gli giunse alle orecchie un’altra beffarda risata. Era quella del briccone zoppo che li aveva seguiti tenendosi a una certa distanza. Il re girò sui tacchi e disse irosamente: «Chi sei tu? Che cosa ci fai qui?».

«Basta con le scempiaggini» disse l’uomo «e calmati. Il mio mascheramento non è così efficace da consentirti di fingere di non aver riconosciuto tuo padre attraverso di esso.»

«Tu non sei mio padre. Non ti conosco. Io sono il Re. Se hai nascosto il mio servitore, trovamelo, o soffrirai amaramente per quello che hai fatto.»

John Canty rispose in tono severo ma con calma: «È chiaro che tu sei pazzo, e sono contrario a punirti; ma se mi provochi dovrò farlo. Le tue ciance non nuocciono, qui, ove non vi sono orecchie che possano ascoltare simili follie; ciò nonostante è bene che tu eserciti la lingua a parlare con circospezione, per non nuocermi quando andremo altrove. Ho assassinato un uomo e non posso restare a casa; né ci rimarrai tu, in quanto ho bisogno dei tuoi servigi. Ho cambiato nome, per ragioni pratiche; mi chiamo Hobbs... John Hobbs; e tu sei Jack. Modifica, di conseguenza la tua memoria. E ora parla. Dov’è tua madre? Dove sono le tue sorelle? Non sono venute nel luogo stabilito; sai dove stanno?»

Il re rispose astiosamente: «Non infastidirmi con questi enigmi. Mia madre è morta; le mie sorelle si trovano a palazzo».

Il giovinastro lì accanto scoppiò in una risata sarcastica, e il re gli si sarebbe scagliato contro se Canty – o Hobbs, come si faceva adesso chiamare – non glielo avesse impedito, dicendo poi: «Buono, Hugo, non lo irritare; la sua mente vaneggia, e il tuo comportamento lo esaspera. Siedi, Jack, e calmati; adesso avrai qualcosa da mangiare».

Hobbs e Hugo si misero a parlare a bassa voce, e il re si allontanò il più possibile dalla loro sgradevole compagnia. Si ritirò nella penombra al lato opposto della stalla, ove constatò che il pavimento di terra battuta era coperto da una trentina di centimetri di strame. Lì si distese, si coprì con lo strame in luogo di coperte e ben presto si calò nei propri pensieri. Molte cose lo affliggevano, ma le meno importanti vennero spazzate via e trascinate quasi nell’oblio da quella suprema, la perdita di suo padre. Nel mondo intero, il nome di Enrico VIII causava un brivido ed evocava un orco le cui narici soffiavano fuori distruzione e la cui mano distribuiva tormenti e morte; ma nel ragazzo quel nome causava soltanto sensazioni di piacere e la persona che esso evocava aveva un volto tutto dolcezza e affetto. Egli ricordò tutta una serie di colloqui affettuosi tra lui e suo padre, e indugiò teneramente su di essi e le sue copiose lacrime attestarono quanto profonda e sincera fosse la sofferenza che gli attanagliava il cuore. Man mano che il pomeriggio trascorreva, il ragazzo, sfibrato dalla sofferenza, finì per scivolare a poco a poco in un sonno tranquillo e risanatore.

Dopo parecchio tempo – non avrebbe saputo dire quanto lungo – i suoi sensi riemersero faticosamente a una semiconsapevolezza e, mentre giaceva a occhi chiusi domandandosi vagamente dove si trovasse e che cosa stesse accadendo, percepì un suono mormorante, lo scrosciare monotono della pioggia sul tetto della stalla. Si impadronì di lui una piacevole sensazione di sollievo, che però venne rudemente turbata, un momento dopo, da un corso di striduli schiamazzi e di rozze risate. Questi suoni lo fecero trasalire sgradevolmente, ed egli si tolse lo strame dalla faccia per vedere da dove provenissero. Scorse una scena laida e sinistra. Un vivido fuoco ardeva nel bel mezzo del pavimento, al lato opposto della stalla; e intorno a esso, lugubremente illuminata dai rossi bagliori, oziava, sdraiata, la più eterogenea compagnia di lacera feccia di straccioni e di furfanti, di entrambi i sessi, della quale egli avesse mai letto, o che avesse mai potuto sognare. V’erano uomini enormi e nerboruti, abbronzati dalla vita all’aperto, con lunghi capelli e coperti da bizzarri stracci; v’erano giovinastri di statura media, dall’aria truce, vestiti nello stesso modo; v’erano mendicanti ciechi, con pezze o bende sugli occhi, e storpi con gambe di legno o grucce; v’era un merciaiuolo ambulante, dall’aspetto di una canaglia, con il suo zaino; poi un arrotino, uno stagnino, e un barbiere chirurgo, con gli strumenti del mestiere; alcune delle femmine erano ragazze a malapena cresciute, nella prima adolescenza; altre, vecchie megere rugose; e tutte parlavano sfacciatamente a voce alta con estrema volgarità; tutte sudicie e sciatte; si trovavano, tra gli altri, tre bimbetti dalle faccine tristi; e non mancava un paio di famelici cani bastardi, con cordicelle intorno al collo, il cui compito consisteva nel guidare i ciechi.

La notte era discesa, la comitiva aveva appena terminato di banchettare, un’orgia stava cominciando, un vaso contenente liquore passava di bocca in bocca. Si levò un grido generale: «Una canzone! Una canzone del Pipistrello e dello Storpio!».

Uno dei ciechi si alzò e si preparò gettando via le bende che gli coprivano gli occhi sanissimi, nonché il cartello che spiegava la causa della sua calamità. Lo Storpio si liberò della gamba di legno e prese posto, reggendosi sulle gambe intatte, accanto all’altro briccone; poi intonarono a gran voce un’arietta allegra, e a essi si unì l’intera compagnia, al termine di ogni strofa, formando un coro sempre più chiassoso. Una volta cantata l’ultima strofa, il quasi ebbro entusiasmo giunse a un culmine tale che tutti parteciparono, ricominciando a intonare con chiarezza dall’inizio la canzone e dando luogo a un volume di orribile suono tale da far vibrare le travi del tetto.

Queste erano le ispirate parole:

 

Gente delle tenebre, ehilà!

Peste e morte per chi non ci sta

A fregare malloppi e a far crepare

Chi val la pena di eliminare.

 

Morte arrecate, uccidete i signori

Andate qua e là con armi bastanti

Per farli fuori tutti quanti

Quelli che hanno ben più di noi

Eliminateli per ripulirli poi.

Seguì una conversazione nel corso della quale risultò che “John Hobbs” non era affatto una nuova recluta, ma aveva fatto parte della banda qualche tempo addietro, imparandovi il mestiere. Tutti vollero sapere che cosa avesse combinato in seguito, e allorché egli disse di avere “accidentalmente” ucciso un uomo, gli altri espressero una considerevole soddisfazione; quando aggiunse che la vittima era un prete, venne chiassosamente applaudito e dovette brindare con tutti. I conoscenti di un tempo gli diedero gioiosamente il benvenuto e coloro che non lo conoscevano furono fieri di stringergli la mano. Gli venne domandato come mai non si fosse “fatto vivo per tanti mesi”. Egli rispose: «Londra è meglio delle campagne e più sicura da alcuni anni a questa parte, da quando le leggi vengono applicate con tanta crudeltà e diligenza. E, se non mi fosse capitato questo incidente, là sarei rimasto. Avevo deciso di non allontanarmene e di non avventurarmi mai più nelle aperte campagne, ma l’incidente me lo ha impedito».

Domandò da quanti individui fosse composta adesso la banda. L’Attaccabrighe, il capo, rispose: «Venticinque gagliardi “veloci”, “macigni”, “lime”, “fracassaporte”, “girovaghi”, comprese le “bambole”, le “bambolone” e altri amici. Si trovano quasi tutti qui; gli altri stanno vagabondando a est, lungo gli itinerari invernali. Li seguiremo all’alba».

«Non vedo Gozzo tra queste altre oneste persone. Dove può mai essere?»

«Povero figliolo, la sua dieta è lo zolfo, adesso, e troppo ardente per chi è di gusti raffinati e delicati. Lo hanno ammazzato in una rissa, in un giorno di mezza estate.»

«Sono dolente di saperlo. Gozzo era un uomo veramente capace e coraggioso.»

«Ah, sì, davvero. Bess la Nera, la sua ganza, si trova ancora con noi, ma è assente in questo momento, sulla pista est. Una gran brava figliola, di belle maniere e di buon comportamento. Non l’ho mai vista ubriaca più di quattro giorni su sette.»

«Sicuro, è sempre stata di grande moralità... la ricordo bene... una pia sgualdrinella, meritevole di ogni lode. Sua madre era più sfrenata e meno schizzinosa, una megera molesta e dal pessimo carattere ma più intelligente della media.»

«L’abbiamo perduta proprio per questo. La sua capacità di leggere la mano e di predire in altri modi il futuro le diede in ultimo la nomea e la fama di strega. La legge la condannò a morire arrostita a fuoco lento. Destò in me una sorta di tenerezza vedere con quale coraggio affrontò la sua sorte... imprecando e insultando la folla che stava a guardare a bocca aperta tutto intorno, mentre le fiamme salivano guizzando verso la sua faccia, attecchivano sui suoi radi capelli e crepitavano intorno alla testa grigia. Imprecando, ho detto? Imprecando! Per tutti i diavoli, anche se tu dovessi vivere mille anni, non sentiresti mai bestemmie magistrali come le sue! Ahimè, l’arte di quella donna è morta con lei. Potranno esservi mediocri e scialbe imitazioni ma non più vere bestemmie!»

Attaccabrighe sospirò; i suoi ascoltatori sospirarono a loro volta; una tristezza generale calò per un momento sulla compagnia, poiché anche fuoricasta incalliti come quegli individui non sono del tutto privi di sentimento, ma possono provare fuggevoli sensazioni di perdita e di afflizione a lunghi intervalli e in situazioni particolarmente propizie: come in casi simili a questo, ad esempio, quando la genialità e la cultura scompaiono senza lasciare eredi. Tuttavia, una lunga bevuta generale fece dileguare ben presto la tristezza.

«Vi sono stati altri amici nostri a passarsela male!» domandò Hobbs.

«Alcuni... sì. In particolare i nuovi arrivati, come i piccoli coltivatori sguinzagliati senza arte né parte e affamati nel mondo, essendo stati privati delle loro fattorie per tramutarle in pascoli. Supplicarono, ma vennero fustigati, nudi dalla cintola in su, fino a fare scorrere il sangue, poi messi in ceppi per essere lapidati; supplicarono ancora, furono frustati di nuovo e venne mozzato loro un orecchio; tornarono a supplicare per la terza volta – poveri diavoli, che altro avrebbero potuto fare? – e li si marchiò allora sulla gota con un ferro incandescente e li si vendette schiavi; fuggirono, ma venne data loro la caccia e furono impiccati. È una storia breve, rapidamente raccontata. Altri di noi se la sono cavata meno peggio. Alzatevi, Zotico, Ustione e Bifolco... mostrate i vostri ornamenti!»

I tre uomini si alzarono e si tolsero di dosso alcuni dei loro stracci, mostrando la schiena segnata da lunghe cicatrici in rilievo lasciate dalla frusta; uno di essi sollevò i capelli e mostrò il punto in cui una volta c’era un orecchio; un altro mostrò il marchio a fuoco sulla spalla – la lettera V – e la mutilazione dell’orecchio. Il terzo disse: «Io sono Zotico, un tempo prospero contadino, con moglie e figli affettuosi, ma ormai alquanto diverso in quanto a mezzi e nome; e ho perduto compagna e progenie. Forse si trovano in paradiso, forse all’... in quell’altro posto; ma, sia ringraziato il buon Dio, non vivono più in Inghilterra! La mia buona e anziana e innocente madre cercava di guadagnarsi il pane curando i malati; uno di essi morì, i medici non riuscirono a capire come, e così lei fu bruciata viva sul rogo come strega, mentre le mie creaturine stavano a guardare e strillavano. La legge inglese! Ma ora levate le coppe! Tutti insieme e plaudendo! Brindiamo in onore della misericordiosa legge inglese che la liberò dall’inferno dell’Inghilterra! Grazie, amici, grazie a tutti! Mendicai, di casa in casa: io con mia moglie... trascinando con noi i nostri figli affamati; ma era un reato soffrire la fame in Inghilterra; e pertanto ci denudarono e ci fustigarono in tre città. Brindate tutti di nuovo alla misericordiosa legge inglese! Poiché la frusta della legge bevve abbondantemente il sangue della mia Mary e la sua benedetta liberazione fu rapida. Ora giace laggiù, nel cimitero dei poveri, al sicuro da ogni male. E i bambini... be’, mentre la legge mi fustigava di città in città, creparono di fame. Bevete, amici... soltanto un goccio... un goccio per i poveri esserini che non avevano mai fatto del male a creatura viva. Tornai a mendicare... mendicai per avere una crosta di pane... e finii alla gogna e ci rimisi un orecchio... ecco qui quello che ne resta a testimoniarlo. Ma continuai a mendicare e venni venduto schiavo... ecco, qui sulla gota, sotto la sporcizia, se la lavassi via, potreste vedere la rossa S del marchio lasciato dal ferro incandescente! Uno schiavo! Lo capite il significato di questa parola? Uno schiavo inglese! Ecco chi avete dinanzi agli occhi. Sono fuggito dal mio padrone... e quando mi troveranno – possa la tremenda maledizione del cielo abbattersi sulla legge del paese che lo ha voluto! – penderò sulla forca».

Una voce squillante giunse fino a loro attraverso l’oscurità: «No, non penderai! Sin da oggi questa legge è abrogata!».

Si voltarono tutti e videro la figuretta bizzarra del piccolo re avvicinarsi rapidamente; mentre egli emergeva nella luce, mostrandosi così con chiarezza, vi fu un’esplosione generale di domande: «Chi è quello? Che cosa succede? Chi sei tu, ometto?».

Il ragazzo rimase in piedi, per nulla confuso, tra tutti quegli occhi stupiti e interrogativi, e rispose, con dignità principesca: «Io sono Edoardo, Re d’Inghilterra».

Seguì uno sfrenato scoppio di risate, in parte beffarde, in parte gioiose, per la spassosità dello scherzo faceto. Il re ne fu punto. Disse, in tono aspro: «Vagabondi screanzati, questa è la riconoscenza per il dono regale che vi ho promesso?».

Continuò ancora, con voce irosa e con gesti irritati, ma le sue parole si perdettero nel turbine di risate e di esclamazioni di scherno. John Hobbs tentò a più riprese di farsi udire, nonostante il baccano, e in ultimo vi riuscì, dicendo: «Compagni, è mio figlio, un sognatore, uno stolto, e per giunta pazzo da legare; non badate a lui... crede di essere il Re».

«Sono il Re,» disse Edoardo, affrontandolo «come saprai a spese tue a tempo debito. Ti sei confessato colpevole di assassinio... e penderai sulla forca per questo.»

«Tu vorresti tradirmi? Tu? Lascia che ti metta le mani addosso e...»

«Là, là» disse il tarchiato Attaccabrighe, mettendosi di mezzo giusto in tempo per salvare il re; poi gli rese un servigio ancor più grande abbattendo Hobbs con un pugno. «Non hai dunque rispetto né per il Re né per gli Attaccabrighe? Se sarai di nuovo così offensivo alla mia presenza, ti impiccherò io stesso.» Quindi, rivolto a Sua Maestà, soggiunse: «Non devi minacciare i tuoi compagni, ragazzo; e devi tenere a freno la lingua impedendole di dir male di loro altrove. Sii re, se questo può far piacere ai tuoi folli ghiribizzi, ma non esserlo perfidamente. Meglio anzi rinunciare al titolo che ti sei attribuito... è tradimento; noi siamo uomini malvagi, sotto taluni aspetti privi di importanza, ma nessuno di noi è così abietto da comportarsi come un traditore nei confronti del suo Re; i nostri cuori sono colmi di lealtà e di affetto per il sovrano. Vedi se dico il vero. Tutti insieme, adesso: Lunga vita a Edoardo, Re d’Inghilterra!».

«Lunga vita a Edoardo, Re d’Inghilterra!»

Il grido venne echeggiato con tanta foga e così simile a un tuono, da quel gruppo eterogeneo, che fece vibrare la cadente stalla. Il viso del piccolo re si illuminò di piacere per un attimo ed egli chinò appena il capo e disse, con grave semplicità: «Vi ringrazio, miei buoni sudditi».

L’inatteso risultato fece spanciare per le risate l’intera compagnia. Quando venne di nuovo a determinarsi qualcosa di simile al silenzio, Attaccabrighe disse con fermezza, ma non senza un tono bonario nella voce: «Lascia perdere ragazzo; quello che fai non è né assennato né bello. Soddisfa la tua fantasia, se non puoi farne a meno, ma scegli qualche altro titolo».

Uno stagnino urlò il suo suggerimento: «Fufù Primo, Re degli Idioti!».

Il titolo attecchì subito, ogni gola reagì, e si levò, tonante, il grido: «Lunga vita a Fufù Primo, Re degli Idioti!» seguito da versi di dileggio, schiamazzi e scoppi di risate.

«Trascinatelo qui e incoronatelo!»

«Mettetegli il manto!»

«Dategli lo scettro!»

«Ponetelo sul trono!»

Questi e altri venti urli risuonarono contemporaneamente; e prima ancora, quasi, che la povera, piccola vittima avesse potuto respirare, venne incoronata con un catino di latta, avvolta in una lacera coperta, posta in trono su un barile e munita dello scettro, consistente del ferro per saldare dello stagnino. Poi tutti si gettarono in ginocchio intorno al ragazzo e iniziarono un coro di ironici gemiti e di suppliche burlesche, asciugandosi nel frattempo gli occhi con le sudicie maniche rattoppate e con i grembiuli: «Sii generoso con noi, o soave Re!... Non calpestare noi vermi che ti supplichiamo, o nobile Maestà!... Abbi compassione degli schiavi e consolali con un calcio regale!... Rallegraci e riscaldaci con i tuoi benevoli raggi, o fiammeggiante sole della sovranità!... Santifica il terreno che tocchi con i piedi, affinché possiamo cibarcene, ed esserne nobilitati!... Degnati di sputarci addosso, o Sire, affinché i nostri figli possano narrare della principesca condiscendenza, ed essere per sempre orgogliosi e felici!».

Ma il maggior successo della serata lo riscosse lo spiritoso stagnino. Inginocchiatosi, egli finse di baciare il piede del re, e venne sdegnosamente respinto; dopodiché andò in giro chiedendo supplichevole una pezzuola da applicare a quel punto della sua faccia che era stato toccato dal piede del sovrano, asserendo di volerlo preservare dal contatto dell’aria volgare e dicendo che avrebbe fatto fortuna percorrendo la strada maestra ed esponendolo contro il compenso di cento scellini alla volta. Riuscì a essere così micidialmente spassoso che venne invidiato e ammirato da tutta quella rognosa canaglia.

Lacrime di vergogna e di indignazione brillavano negli occhi del piccolo monarca; e il pensiero racchiuso nel suo cuore era il seguente: “Se anche avessi fatto loro un gravissimo torto, non sarebbero potuti essere più crudeli; invece ho fatto loro un’offerta generosa, e così mi maltrattano per questo!”.


18


Il principe con i vagabondi

Il gruppo di vagabondi si destò alle prime luci dell’alba e si accinse a rimettersi in cammino. Il cielo era coperto da nuvole basse, il terreno cedeva fangoso sotto i piedi, nell’aria si insinuava un gelo invernale. Ogni gaiezza sembrava essersi spenta nella compagnia; alcuni erano imbronciati e taciturni, altri irritabili e petulanti, nessuno si comportava con benevolenza, e tutti erano assetati.

Attaccabrighe affidò “Jack” a Hugo, con qualche sommaria istruzione, e ordinò a John Canty di tenersi alla larga da lui e di lasciarlo in pace; ammonì inoltre Hugo, invitandolo a non essere troppo duro con il ragazzo.

Dopo qualche tempo, la temperatura divenne più mite e le nubi si sollevarono alquanto. Il gruppo smise di rabbrividire e il morale degli uomini migliorò. Divennero tutti sempre e sempre più allegri e, in ultimo, cominciarono a prendersi in giro gli uni con gli altri e a insultare i viandanti lungo la strada maestra. Questo dimostrò che tornavano a essere in grado di apprezzare la vita e i suoi piaceri. La paura che essi incutevano divenne manifesta, poiché tutti cedevano loro il passo, e si rassegnavano umilmente alle ribalde insolenze, senza azzardarsi a replicare. Di quando in quando essi si impadronivano della biancheria stesa ad asciugare sulle siepi; e questo sotto gli occhi dei legittimi proprietari che non protestavano in alcun modo e sembravano anzi grati non essendo state rubate le siepi stesse.

Di lì a non molto invasero una piccola fattoria, comportandosi come se si fossero trovati a casa loro, mentre il tremebondo contadino e la sua famiglia vuotavano la dispensa per preparare loro la colazione. Solleticarono sotto il mento la massaia e le sue figliole, mentre porgevano loro il cibo, e si consentirono villane facezie sul loro conto, accompagnate da epiteti offensivi e da scoppi di risate simili a nitriti equini. Lanciarono ossi e verdure contro il contadino e i suoi figli, costringendoli a schivare continuamente, e applaudivano clamorosamente quando centravano i bersagli. Terminarono spargendo burro sulla testa di una delle figlie, risentitasi per certe loro confidenze. Andandosene, minacciarono di tornare e di incendiare la casa, con l’intera famiglia rinchiusa in essa, se una qualsiasi notizia delle loro belle imprese fosse giunta all’orecchio delle autorità.

Verso mezzogiorno, dopo una marcia lunga e faticosa, la banda si fermò dietro una siepe nelle vicinanze immediate di un villaggio notevolmente grande. Si riposarono tutti per un’ora, poi si separarono per entrare nel villaggio da punti diversi ed esercitare i loro rispettivi mestieri.

“Jack” venne mandato con Hugo. Si aggirarono qua e là per qualche tempo, mentre Hugo andava in cerca di una possibilità di lavorare facendo un colpo, ma non ne trovava alcuna; così, in ultimo, egli disse: «Non vedo niente da rubare; è un posto miserabile. Ragion per cui mendicheremo».

«Mendicheremo, ma guarda! Fai pure il tuo mestiere... ti si addice... ma io non mendicherò.»

«Non mendicherai!» esclamò Hugo, fissando, stupito, il re. E da quando, di grazia, ti sei emendato?»

«Che cosa vuoi dire?»

«Che cosa voglio dire? Non hai forse mendicato tutta la vita per le vie di Londra?»

«Io? Sei un idiota!»

«Vacci piano con i complimenti... la riserva di cui disponi durerà più a lungo. Tuo padre dice che hai sempre mendicato. Ma forse ha mentito. Magari tu avresti la faccia tosta di dire che ha mentito» lo provocò Hugo.

«Osi considerare quell’individuo mio padre? Sì, ha mentito.»

«Suvvia, non divertirti a fare il pazzo fino a questo punto, amico; fallo per divertirti, ma non a tuo danno. Se io dovessi andare a dirlo a tuo padre, ti scorticherebbe vivo per questo.»

«Risparmiati il fastidio. Glielo dirò io stesso.»

«Mi piace il tuo ardire, sinceramente; ma non ammiro la tua capacità di giudizio. Di ossa rotte e bastonature ne sopportiamo già anche troppe, in questa vita, senza che dobbiamo darci da fare per invitarne altre. Ma lasciamo perdere; io credo a tuo padre. Non dubito affatto che possa mentire; e ancor meno dubito che menta quando gli fa comodo, perché così ci regoliamo tutti, anche i migliori di noi; ma questa volta non sarebbe il caso. Un uomo assennato non spreca una merce tanto utile mentendo senza alcun motivo. In ogni modo, sentiamo: se hai l’intenzione di non mendicare, che altro faremo? Dobbiamo rubar polli?»

Il re disse, spazientito: «Falla finita con queste scempiaggini; mi stai stancando!».

Hugo replicò, stizzito: «Ora stammi bene a sentire, compare: non vuoi mendicare e non vuoi rubare. Sia pure. Però ti dirò io che cosa farai. Mi farai da spalla mentre io mendicherò. Rifiuta, se credi di poter osare!»

Edoardo stava per rispondere sprezzante, quando Hugo esclamò, impedendoglielo: «Zitto! Ecco che viene un tipo dalla faccia benevola. Ora cadrò a terra come se avessi le convulsioni. Quando quello sconosciuto correrà accanto a me, tu comincia a gemere e gettati in ginocchio fingendo di piangere; poi urla come se avessi in corpo tutti i demoni della miseria, e di’: “Oh, signore, è il mio povero fratello malato, e non abbiamo un amico al mondo; in nome di Dio, degnati di volgere con compassione i tuoi occhi misericordiosi su questo infermo, abbandonato e infelicissimo relitto umano; offri una monetina appena delle tue ricchezze a una creatura castigata da Dio e sul punto di perire!”. E bada bene di continuare a gemere, e a non smettere finché non saremo riusciti a scroccargli una moneta, o dovrai pentirtene!».

Poi Hugo cominciò immediatamente a lamentarsi, a emettere lunghi gemiti, a far roteare gli occhi, a vacillare e a barcollare, e, quando lo sconosciuto fu giunto vicino a loro, stramazzò davanti a lui, lanciando un urlo, e prese a torcersi e a rotolare sul fango, apparentemente in preda a un’estrema sofferenza.

«Oh, santo Cielo!» esclamò il benevolo nuovo arrivato. «Oh, povera anima, povera anima, come soffre! Qua, lascia che ti aiuti a rialzarti.»

«Mio nobile signore, perdonami, e che Dio ti ami perché sei un così principesco gentiluomo... ma mi costa sofferenze crudeli essere toccato quando vengo preso da questi attacchi. Mio fratello, qui, potrà dire a tua signoria fino a qual punto vengo devastato da dolori lancinanti durante queste crisi. Una monetina, signore, una monetina per comprare un po’ di cibo; poi lasciami alle mie sofferenze.»

«Una monetina! Ne avrai tre, sventurata creatura» e l’uomo si frugò in tasca con innervosita fretta e ne tolse le monete: «Ecco, povero ragazzo, prendi, te le offro con tutto il cuore. Ora tu avvicinati, figliolo, e aiutami a portare il tuo sofferente fratello a casa vostra, ove...».

«Non sono suo fratello» disse il re, interrompendolo.

«Cosa! Non sei suo fratello?»

«Oh, ma sentitelo!» gemette Hugo, poi, senza darla a vedere, digrignò i denti. «Rinnega il suo stesso fratello... che pure ha già un piede nella fossa!»

«Figliolo, sei davvero duro di cuore, se questo è tuo fratello. Vergogna! E sì che quasi non riesce a muovere mano o piede! Se non è tuo fratello, chi è, allora?»

«Un accattone e un ladro! Spillando il tuo denaro è come se ti avesse borseggiato. Se vuoi ottenere una guarigione miracolosa non devi fare altro che abbattergli il bastone sulle spalle e confidare nella Provvidenza per il resto!»

Ma Hugo non indugiò in attesa del miracolo. In un lampo balzò in piedi e fuggì veloce come il vento, inseguito dal gentiluomo che urlava: «Dalli! Dalli al ladro!».

Il re, con un profondo sospiro di sollievo, grato al Cielo per essere stato così liberato, fuggì nella direzione opposta e non rallentò finché non fu fuori pericolo. Seguì la prima strada che trovò, e ben presto si lasciò il villaggio alle spalle. Per parecchie ore proseguì, il più rapidamente possibile, continuando a guardarsi nervosamente alle spalle per vedere se fosse inseguito; ma infine i timori lo abbandonarono, sostituiti da una grata sensazione di sicurezza. A questo punto si rese conto di essere affamato, e inoltre stanchissimo. Pertanto si avvicinò a una fattoria, ma, quando stava per parlare, venne tacitato bruscamente e scacciato in modo rude. L’abito che indossava deponeva a suo sfavore.

Riprese il cammino, ferito nell’orgoglio e indignato, deciso a non consentire più a se stesso di essere trattato in quel modo. Ma la fame doma l’orgoglio; e pertanto, mentre la sera si avvicinava, egli fece un nuovo tentativo in un’altra fattoria; ma lì gli andò peggio di prima, poiché venne insultato ignobilmente e per giunta lo si minacciò di arresto per vagabondaggio se non se ne fosse andato al più presto.

La notte discese, gelida sotto il cielo nuvoloso, e ancora il monarca dai piedi indolenziti arrancò adagio. Era costretto a continuare il cammino poiché, non appena sedeva per riposare, veniva ben presto penetrato dal gelo fino alle ossa. Tutte le sue sensazioni ed esperienze, mentre proseguiva nelle tenebre solenni e nella deserta vastità della notte, erano nuove e strane per lui. A intervalli udiva voci avvicinarsi, passare oltre, poi perdersi nel silenzio; ma poiché dei corpi cui le voci appartenevano scorgeva soltanto vaghi e offuscati profili in movimento, la cosa aveva un che di spettrale e di misterioso e lo faceva rabbrividire. Di quando in quando vedeva una luce baluginante... ma sempre apparentemente molto lontana e situata quasi in un altro mondo; e, se anche udiva il tintinnio della campanella di una pecora, esso era vago, remoto, indistinto; il muggire soffocato delle mandrie arrivava fluttuando fino a lui sul vento notturno con cadenze che si perdevano nel nulla, un suono luttuoso; di quando in quando giungeva, oltre le invisibili distese di campi e di foreste, l’ululato lamentoso di un cane; tutti i suoni erano remoti; e inducevano il piccolo re a pensare che ogni manifestazione di vita e ogni attività si trovassero infinitamente lontane da lui, lasciandolo, sperduto e privo di ogni compagnia, al centro stesso di una solitudine sconfinata.

Continuò ad arrancare tra i fascini raccapriccianti di quella nuova esperienza, spaventato occasionalmente dal frusciare sommesso delle foglie secche in alto, tanto sembrava simile a bisbigli; poi, di lì a non molto, capitò all’improvviso davanti alla luce screziata di una lanterna di metallo quasi a portata di mano. Indietreggiando allora nell’ombra, aspettò... La lanterna pendeva davanti alla porta aperta di una stalla. Il re continuò ad aspettare per qualche tempo, ma non udì alcun suono né alcun movimento. Si sentì gelare a tal punto, mentre aspettava immobile, e la stalla ospitale gli parve così invitante che, infine, decise di rischiare il tutto per tutto, e di entrare. Si mosse rapido e furtivo, ma, nel momento stesso in cui varcava la soglia, udì voci alle proprie spalle. Sfrecciò dietro un barile, entro la stalla, e si abbassò. Entrarono due braccianti, portando con sé la lanterna, e si misero al lavoro, parlando nel frattempo. Mentre si spostavano qua e là con la lanterna, il re fece buon uso degli occhi e osservò attentamente quello che sembrava essere uno stabbiuolo abbastanza spazioso al lato opposto della stalla, proponendosi di strisciare sin là non appena fosse rimasto solo. Prese nota, inoltre, del punto in cui si trovava una pila di coperte per cavalli, a metà strada, con l’intenzione di requisirle, una sola notte, a favore della Corona d’Inghilterra.

Di lì a poco gli uomini terminarono e uscirono, chiudendosi la porta alle spalle e portando con sé la lanterna. Il re, percorso dai brividi, si diresse verso le coperte con tutta la fretta consentitagli dalle tenebre, ne afferrò una bracciata, poi andò a tastoni dalla parte dello stabbiuolo e lo trovò. Con due delle coperte preparò un giaciglio, poi si avvolse nelle altre due. Era ormai un monarca felice sebbene le coperte fossero vecchie e consumate e non lo riscaldassero abbastanza, oltre a emanare un pungente odore di cavallo, tanto forte che quasi lo soffocava.

Il re, pur essendo affamato e gelato, era altresì talmente stanco e assonnato che, ben presto, sfinimento e sonno cominciarono a prevalere sulla fame e sul freddo e, di lì a non molto, egli si appisolò, scivolando in uno stato di semiconsapevolezza. Poi, proprio mentre stava per addormentarsi del tutto, sentì distintamente qualcosa toccarlo! Fu di nuovo completamente desto in un lampo, e il respiro gli mancò. Il gelido orrore di quel contatto misterioso nelle tenebre per poco non gli fermò il cuore. Giacque immobile, rimanendo in ascolto, quasi senza respirare. Ma più nulla si mosse né si udì alcun suono. Infine, una volta di più, cominciò ad appisolarsi; e poi, di colpo, sentì di nuovo il contatto misterioso. Era un qualcosa di orribile quel tocco leggero da parte della presenza silenziosa e invisibile; sconvolse il ragazzo, in preda a fantomatici terrori. Che cosa avrebbe dovuto fare? Questo era l’interrogativo, ma non sapeva quale risposta dargli. Avrebbe dovuto abbandonare quel rifugio passabilmente comodo, per sottrarsi con la fuga all’orrore imperscrutabile? Ma fuggendo dove? Non gli era più possibile uscire dalla stalla, e l’idea di correre ciecamente qua e là al buio, entro la prigione di quelle quattro pareti, con il fantasma che gli scivolava dietro, facendosi sentire ogni volta con quel tocco soffice e laido su una gota o su una spalla, gli riusciva intollerabile. Ma sarebbe dovuto restare, allora, dove si trovava, subendo tutta la notte quella morte vivente? Era forse preferibile? No. Che cosa gli restava da fare, allora? Ah, esisteva un’unica soluzione possibile, lo sapeva bene! Bisognava che togliesse una mano di sotto le coperte e trovasse la cosa!

Era facile pensarlo, ma difficile trovare il coraggio di tentare. Per tre volte protese un poco la mano nell’oscurità, cautamente, e all’improvviso la tirò indietro, con un ansito... non perché avesse toccato qualcosa, ma perché aveva avuto la certezza di essere sul punto di toccare il mistero. Tuttavia, la quarta volta, brancolò un po’ più oltre, e la mano di lui passò leggera su qualcosa di morbido e di caldo. Questo lo pietrificò, quasi, per la paura; aveva la mente sconvolta a tal punto che riuscì a immaginare una sola cosa: di aver toccato il cadavere di qualcuno appena morto e ancor caldo. E si disse che avrebbe preferito morire piuttosto di toccarlo ancora. Ma fece questa falsa riflessione soltanto perché non conosceva l’immortale potenza della curiosità umana. Di lì a non molto, la mano tremante di lui brancolava di nuovo... contro la sua stessa ragione, e senza il suo consenso; ma, ciò nonostante, si ostinava a brancolare. La mano toccò un ciuffo di lunghi peli; egli rabbrividì, ma seguì i peli e trovò quella che sembrava essere una corda calda; seguì, risalendo, la corda e trovò un innocuo vitello! La corda, infatti, non era per nulla una corda ma la coda di una bestia.

Il re si vergognò profondamente di se stesso per essersi lasciato spaventare fino a quel punto e per avere tanto sofferto a causa di una creatura insignificante come un vitello addormentato; ma non avrebbe dovuto prendersela per questo, poiché non era stato il vitello a spaventarlo, bensì un qualcosa di orribile e di inesistente, evocato dal vitello; e qualsiasi altro ragazzo, in quei tempi superstiziosi, si sarebbe comportato e avrebbe sofferto esattamente come lui.

Edoardo non soltanto esultò nel constatare che la creatura era semplicemente un vitello, ma esultò anche perché poteva averne la compagnia, in quanto si era sentito così solo e privo di amici che anche la vicinanza e il cameratismo di un così umile animale gli riuscivano graditi. E, inoltre, era stato così bistrattato e rudemente maltrattato dai suoi simili che lo consolava davvero, e molto, la consapevolezza di trovarsi infine accanto a un essere il quale possedeva per lo meno un cuore tenero e un’indole mite, se pure potevano fargli difetto attributi più nobili. Pertanto, il piccolo re decise di ignorare il rango e di fare amicizia con il vitello.

Mentre ne accarezzava il liscio e caldo dorso – poiché l’animale giaceva accanto a lui e a portata di mano – gli accadde di pensare che il vitello sarebbe potuto essere utilizzato anche in altri modi. Dopodiché rifece il giaciglio, stendendo le coperte più vicino all’animale, e infine si rannicchiò contro il dorso della bestia, tirò le altre coperte sopra di sé e sopra il nuovo amico e, dopo un minuto o due, fu caldo e comodo come non lo era mai stato nei letti di piumino del palazzo reale di Westminster.

Subito gli vennero in mente pensieri piacevoli; la vita assunse un aspetto più allegro. Egli era ormai libero dai ceppi dell’asservimento e della delinquenza, non doveva più sopportare la compagnia di fuorilegge spregevoli e brutali; si trovava al calduccio e al riparo; in breve, era felice. Il vento notturno si stava alzando; imperversava a raffiche irregolari, che scuotevano e facevano scricchiolare e cigolare la vecchia stalla; poi il suo impeto si placava ed esso si limitava a gemere e a sospirare intorno agli angoli e alle sporgenze; ma tutto ciò era soltanto musica per il re, adesso che giaceva comodamente al coperto: imperversasse pure e infuriasse il vento; percuotesse e abbattesse, ululasse e fischiasse quanto voleva, lui non se ne curava, anzi gioiva. Si limitò a rannicchiarsi ancor più contro il suo amico, nella voluttà di una calda contentezza e, beatamente, scivolò nell’incoscienza di un sonno profondo e senza sogni, colmo di serenità e di pace. I cani ululavano in lontananza, le mucche muggivano malinconicamente e il vento continuava a imperversare, mentre rabbiosi scrosci di pioggia cadevano sul tetto; ma Sua Maestà il Re d’Inghilterra continuava a dormire, indisturbato, e altrettanto faceva il vitello che, essendo una creatura semplice, non si lasciava turbare facilmente dai temporali né si sentiva in preda all’imbarazzo dormendo con un sovrano.


19


Il principe con i contadini

Quando il re si destò, nelle prime ore del mattino, constatò che un topo, bagnato ma intelligente, si era insinuato lì dentro, trovandosi un comodo giaciglio sul suo petto. Venendo ora disturbato, corse via. Il ragazzo sorrise e disse: «Povera creaturina, perché hai tanta paura? Io sono derelitto quanto te. Sarebbe vergognoso da parte mia, così indifeso, fare del male agli indifesi. E inoltre, ti devo gratitudine per un fausto presagio; infatti, quando un re cade così in basso da servire come letto ai topi, questo significa, senza alcun dubbio, che le sue sorti stanno per cambiare, in quanto, ovviamente, non possono peggiorare ancora».

Si mise in piedi, uscì dallo stabbiuolo e, proprio in quel momento, udì un suono di voci fanciullesche. La porta della stalla si aprì lasciando entrare due bimbette. Non appena lo videro, smisero di parlare e di ridere, si fermarono e rimasero immobili, contemplandolo con intensa curiosità; di lì a poco cominciarono a scambiarsi bisbigli, poi si fecero più vicine, e di nuovo si fermarono per contemplare e bisbigliare. Ma, a poco a poco, ritrovarono il coraggio e cominciarono a parlare di lui a voce alta. Una delle due disse: «Ha un bel viso».

L’altra soggiunse: «E bei capelli».

«Però è abbastanza mal vestito.»

«E come sembra affamato!»

Si avvicinarono ancora, girandogli attorno timidamente, e minuziosamente esaminandolo da ogni punto di vista, come se egli fosse stato qualche nuovo e strano animale; ma sempre circospette e guardinghe, quasi temendo che potesse trattarsi di un animale capace, all’occasione, di mordere.

Infine si fermarono dinanzi a lui, tenendosi per mano come per proteggersi a vicenda, e lo contemplarono a lungo fino a soddisfarsi con i loro occhi innocenti; poi una di loro chiamò a raccolta tutto il coraggio che possedeva e domandò con schietta immediatezza: «Chi sei tu, ragazzo?».

«Sono il Re» fu la risposta, pronunciata con serietà.

Le bambine trasalirono lievemente e i loro occhi si spalancarono e spalancati rimasero per un silenzioso mezzo minuto. Poi la curiosità ruppe il silenzio: «Il Re? Quale Re?».

«Il Re d’Inghilterra.»

Le bambine si guardarono a vicenda, dopodiché fissarono lui, per poi tornare a scambiarsi uno sguardo... meravigliate, perplesse. Infine una delle due disse: «Lo hai sentito, Margery? Dice di essere il Re. Può mai darsi che sia vero?».

«Come potrebbe non essere vero, Prissy? Direbbe forse una bugia? Infatti, Prissy, bada bene, se non fosse vero sarebbe una bugia... Lo sarebbe senz’altro. Pensaci su... Tutte le cose al mondo che non sono vere, sono bugie; non si può arrivare ad alcun’altra conclusione.»

Si trattava di un ragionamento incontestabile, senza la benché minima crepa in alcun punto, e non offrì più alcun appoggio ai dubbi di Prissy. La bambina rifletté per un momento, poi restituì l’onore al re con la semplice frase: «Se davvero tu sei il Re, allora ti credo».

«Sono davvero il Re.»

Con ciò la questione venne risolta. Sua Maestà il Re venne accettato senza ulteriori domande né discussioni, e le due bimbette vollero subito sapere come mai si trovasse dov’era, e come mai fosse così poco regalmente vestito, e dove era diretto, e ogni altra cosa che lo concerneva. Fu un sollievo formidabile, per lui, poter parlare di tutte le sue disavventure con chi non lo scherniva e non dubitava di quanto diceva, per cui Edoardo narrò la propria storia con passione, dimenticando – momentaneamente – persino la fame, e ciò che disse venne ascoltato con la più profonda e tenera compassione dalle dolci fanciulline. Ma, quando egli arrivò alle esperienze più recenti e le due bambine vennero a sapere come da un pezzo non toccasse cibo, lo interruppero bruscamente e si affrettarono a tornare alla fattoria per procurargli la colazione.

Il re era ormai allegro e felice e disse a se stesso: “Quando tornerò a essere quello che sono, onorerò in eterno i bambini, rammentando come queste due bimbette abbiano riposto fiducia in me, credendomi quando mi trovavo in difficoltà, mentre persone adulte, che si ritenevano di gran lunga più sagge, si burlavano di me e mi ritenevano un bugiardo”.

La madre delle bambine accolse il re cortesemente, colma di compassione, poiché la misera condizione di abbandono in cui egli si trovava e la sua mente a quanto pareva malata le avevano toccato il cuore. Era vedova e piuttosto povera; per conseguenza aveva conosciuto le sofferenze quanto bastava per essere in grado di compatire gli sfortunati. Immaginò che il ragazzo demente si fosse allontanato dai suoi amici o tutori, e pertanto cercò di accertare di dove fosse, per poter essere in grado di ricondurlo là da dove era venuto; ma tutti i suoi accenni alle cittadine e ai villaggi circostanti e tutte le sue domande al riguardo non approdarono a niente; l’espressione del ragazzo e anche le sue risposte dimostrarono come ciò di cui ella stava parlando non gli fosse familiare. Egli si limitò ad accennare con sincerità e semplicità a particolari relativi alla corte, e scoppiò in lacrime più di una volta parlando del defunto re “suo padre”; ma, ogni qual volta il discorso passava ad argomenti più umili, si disinteressava e diventava taciturno.

La donna rimase molto interdetta, ma non rinunciò. Mentre continuava a cucinare, si mise a escogitare espedienti per cogliere di sorpresa il ragazzo e fare in modo che tradisse il suo vero segreto. Parlò di bestiame... ma lui rimase del tutto indifferente; parlò allora di pecore... con lo stesso risultato, e pertanto la sua supposizione che egli fosse stato un tempo un pastorello parve essere errata; parlò allora di mulini; parlò di tessitori, stagnini, fabbri, di mestieri e artigiani di ogni sorta; e ancora di Bedlam e delle prigioni, e di ospizi caritatevoli, e sempre fu delusa. Non del tutto, però, poiché ritenne di avere ristretto le possibilità ai servizi domestici. Sì, era certa di trovarsi sulla pista giusta, ormai; egli doveva essere stato un servitorello in qualche famiglia. E pertanto portò il discorso su questo, ma il risultato fu scoraggiante. Quando sentì parlare di come si scopa, il ragazzo parve annoiarsi; il modo di accendere il fuoco non lo interessò; le pulizie con la spazzola e lo strofinaccio non lo entusiasmarono. La buona massaia accennò allora, con una ormai moribonda speranza, e più che altro per una questione di forma, all’argomento del modo di cucinare. Non senza stupore e grande gioia da parte sua, il re si illuminò in viso immediatamente. Ah, lo aveva infine messo alle strette, ella pensò; e si sentì molto fiera della propria scaltrezza e del tatto con il quale vi era riuscita.

La sua stanca lingua ebbe modo, a questo punto, di riposare, poiché il re, a ciò indotto dalla fame che lo rodeva e dagli aromi appetitosi emessi dalle pentole gorgoglianti e dai tegami, si scatenò e diede prova di una così grande eloquenza, dissertando di certi gustosi piatti che, dopo tre minuti, la donna disse a se stessa: “In verità avevo ragione... ha dato una mano in qualche cucina!”. Poi ampliò la lista delle vivande, e parlò di ogni piatto con tanto apprezzamento e tanta animazione che la buona massaia disse a se stessa: “Santo cielo! Come può conoscere tanti manicaretti, e così squisiti, per giunta? Poiché pietanze come queste appaiono soltanto sulle mense dei ricchi e dei grandi. Ah, ora capisco! Per quanto sia lacero e mal ridotto, deve aver servito a palazzo prima di perdere il lume della ragione; sì, deve essere stato uno sguattero nella cucina stessa del Re! Lo metterò alla prova”.

Ansiosa di provare la sua sagacia, disse al re di badare per un momento ai fornelli, facendogli capire che poteva cucinare e aggiungere un piatto o due, se lo desiderava; poi uscì dalla cucina e fece cenno alle figliolette di seguirla. Il re mormorò: «Un altro sovrano inglese ebbe un incarico come questo, nei tempi andati; non è di certo contrario alla mia dignità dedicarmi a un compito che Alfredo il Grande si degnò di assumersi. Ma cercherò di compensare la fiducia riposta in me meglio di lui, poiché egli lasciò bruciare i dolci».

L’intenzione era buona, ma i risultati non le corrisposero; poiché questo re, come l’altro, ben presto si calò in profonde riflessioni concernenti le sue vaste responsabilità, e ciò diede luogo alle stesse disastrose conseguenze... i cibi bruciarono. La donna tornò in tempo per salvare la colazione da una distruzione totale e prontamente fece emergere il re dai suoi sogni con una brusca e sentita lavata di capo. Poi, constatando quanto era turbato per essere venuto meno alla fiducia riposta in lui, si raddolcì subito e divenne tutta bontà e gentilezza nei suoi riguardi.

Il ragazzo consumò un abbondante e soddisfacente pasto e ne fu di gran lunga rincuorato e allietato. Il pasto si distinse per questa curiosa caratteristica: il rango venne ignorato da entrambe le parti; e, ciò nonostante, nessuna delle due si rese conto del favore resole. La buona massaia aveva avuto l’intenzione di sfamare il vagabondo con gli avanzi portatigli in un angolo della cucina, come si faceva con qualsiasi altro accattone o con i cani, ma provava un tal rimorso, a causa dei rimproveri inflittigli, che fece quanto poteva per espiare, consentendogli di sedere al desco della famiglia e di mangiare con gente migliore di lui in condizioni di palese parità; e il re, dal canto suo, provava tali rimorsi per essere venuto meno alla fiducia che la famiglia era stata così buona da riporre in lui, da costringere se stesso a espiare, umiliandosi e abbassandosi al loro stesso livello, invece di ordinare alla donna e alle bambine di restare in piedi e di servirlo, mentre lui sarebbe rimasto seduto a tavola nella solitudine che si addiceva alla sua nobile nascita e alla sua dignità. Giova a noi tutti piegarci, a volte. Quella buona donna venne resa felice per tutto il giorno dalle lodi che prodigò a se stessa per la propria magnanima condiscendenza nei riguardi di un vagabondo, e il re provò lo stesso autocompiacimento a causa della propria benevola umiltà nei confronti di una modesta contadina.

Una volta terminata la colazione, la massaia ordinò al re di lavare i piatti. Quest’ordine lo fece trasecolare per un momento, ed egli fu sul punto di ribellarsi; ma poi disse a se stesso: “Alfredo il Grande sorvegliò i dolci; senza alcun dubbio avrebbe lavato anche i piatti; pertanto ci proverò”.

Vi riuscì alquanto male, e non senza stupore da parte sua, poiché pulire i cucchiai di legno e il tagliere era sembrata una cosa alquanto facile a farsi. Fu una fatica tediosa e irta di difficoltà, ma infine egli la portò a termine. Stava cominciando a essere impaziente, ormai, di riprendere il cammino; tuttavia non riuscì a liberarsi tanto facilmente dalla compagnia di quella donna parsimoniosa. Ella gli affidò alcuni lavoretti che lui eseguì abbastanza bene e con un certo merito. Poi incaricò Edoardo e una delle bambine di sbucciare mele invernali, ma il re dimostrò di essere talmente maldestro in questo lavoro che lei glielo tolse e gli diede invece un coltello da macellaio da affilare. In seguito, gli fece cardare lana finché egli cominciò a pensare di aver posto sufficientemente in ombra, per il momento, il buon re Alfredo in fatto di vistosi e umili eroismi, tali da far colpo e da apparire pittoreschi nei libri di storia, e fu quasi propenso a dare le dimissioni. E quando, subito dopo il pranzo di mezzogiorno, la massaia gli consegnò una nidiata di gattini da affogare, si dimise davvero. O almeno stava per dimettersi, ritenendo di dover pure dire basta, a un certo momento, e pensando che era giusto dirlo a proposito dei gattini da annegare... ma vi fu un’interruzione. L’interruzione consistette in John Canty, con uno zaino da merciaiuolo ambulante sulla schiena, e in Hugo!

Il re scorse i due furfanti avvicinarsi al cancello davanti alla casa, prima che loro avessero avuto modo di vedere lui; perciò si guardò bene dal dire basta, prese il cesto con i gattini e uscì silenziosamente dalla porta di servizio, senza pronunciare una parola. Lasciò i gattini sotto una tettoia e si affrettò a percorrere uno stretto sentiero.


20


Il principe e l’eremita

L’alta siepe lo rendeva ora invisibile dalla casa, e così, sospinto dall’impulso di una paura mortale, egli chiamò a raccolta tutte le sue energie e corse verso il bosco lontano. Non voltò mai la testa finché non ebbe quasi raggiunto il rifugio della foresta; si voltò, allora, e scorse due sagome in lontananza. Questo gli bastò; non stette a perdere tempo per scrutarle meglio, ma proseguì in gran fretta e non rallentò mai il passo finché non si fu inoltrato di molto nella luce crepuscolare delle profondità del bosco. Ascoltò attentamente, ma il silenzio era grande e solenne... spaventoso, addirittura, e deprimente.

A lunghi intervalli, tendendo le orecchie, il re udì suoni, ma erano talmente remoti, e cavernosi, e misteriosi, che non parvero suoni reali, ma soltanto i gemiti e i lamenti delle anime di defunti. Per conseguenza quei suoni erano ancora più malinconici del silenzio che interrompevano.

La sua intenzione, all’inizio, era stata quella di rimanere ove si trovava per tutto il resto della giornata; ma ben presto il gelo gli invase il corpo sudato e, in ultimo, egli fu costretto a riprendere il cammino per scaldarsi. Continuò a inoltrarsi nella foresta, sperando di trovare di lì a non molto una strada, ma rimase deluso. Continuò a camminare e a camminare, ma, quanto più proseguiva, tanto più gli alberi sembravano infittirsi. La penombra cominciò a intensificarsi, e il re si rese conto che la notte era imminente. L’idea di poterla trascorrere in un luogo così misterioso lo fece rabbrividire; pertanto cercò di affrettare il passo, ma riuscì soltanto a camminare più adagio, in quanto non ci vedeva abbastanza bene per sapere dove mettesse i piedi. Seguitava, di conseguenza, a inciampare contro radici e a rimanere impigliato tra rampicanti e rovi.

E come fu lieto quando infine scorse il baluginare di una luce! Si avvicinò circospetto, sostando spesso per guardarsi attorno e rimanere in ascolto. La luce proveniva dalla finestra priva di vetri di una misera e piccola capanna. A questo punto, udì una voce e provò l’impulso di correre a nascondersi, ma subito cambiò idea, poiché la voce stava evidentemente pregando. Si avvicinò furtivo all’unica finestra della capanna, si alzò in punta di piedi e lanciò un’occhiata all’interno. La stanza era piccola, il pavimento di terra battuta molto compatta e dura a furia di camminarvi su; in un angolo si trovavano un giaciglio di frasche e una o due lacere coperte; lì accanto un secchio, una scodella e due o tre pentole e tegami; v’erano inoltre una corta panca e uno sgabello a tre gambe; Edoardo notò che sul focolare ardevano ancora adagio i resti di un fuoco di fascine. Davanti a un altarino illuminato da una singola candela si trovava, inginocchiato, un uomo anziano; e, su una vecchia cassa di legno al suo fianco, facevano spicco un libro aperto e un teschio umano. L’uomo era di struttura robusta e ossuta, con capelli e favoriti molto lunghi e bianchi come neve; indossava una lunga veste fatta di pelli di pecora che andava dal collo alle caviglie.

“Un santo eremita!” si disse il re. “Questa volta sono davvero fortunato.”

L’eremita si mise in piedi; il re bussò. Una voce profonda rispose: «Entra! Ma lasciati i peccati alle spalle, poiché il terreno sul quale verrai a trovarti è santo!».

Edoardo entrò e si fermò. L’eremita volse verso di lui due occhi splendenti e mobili e disse: «Chi sei?».

«Sono il Re» fu la risposta, data con placida semplicità.

«Benvenuto, Re!» esclamò l’eremita con entusiasmo. Poi, dandosi da fare qua e là con una frenesia febbrile e dicendo senza posa: «Benvenuto! Benvenuto!» spostò la panca, fece accomodare il sovrano accanto al caminetto, gettò qualche fascina sul fuoco e infine iniziò un andirivieni a passi nervosi.

«Benvenuto! Molti hanno cercato un rifugio qui, ma non ne erano degni e sono stati respinti. Tuttavia, un re che rinuncia alla corona, e disprezza i vani splendori della monarchia e veste il proprio corpo di stracci per dedicare la vita alla santità e alla mortificazione della carne... è degno, è il benvenuto! Qui potrà dimorare fino all’ultimo dei suoi giorni e alla morte.» Edoardo si affrettò a interromperlo e a spiegare, ma l’eremita non gli badò affatto, parve non udirlo nemmeno, e continuò, anzi, a parlare in un tono di voce più alto e con una energia sempre più grande. «Inoltre qui vivrai in pace. Nessuno troverà il tuo rifugio e potrà turbarti con esortazioni a riprendere quella vita vuota e stolta che Dio ti ha indotto ad abbandonare. Qui pregherai; qui studierai la Bibbia. Mediterai sulle follie e le illusioni di questo mondo e su tutti i sublimi aspetti dell’aldilà; ti nutrirai di croste di pane e con erbe e ogni giorno ti flagellerai il corpo con la frusta per purificare l’anima tua. Porterai contro la pelle una camicia di crine; berrai soltanto acqua; e sarai in pace, sì, completamente in pace, poiché chi verrà a cercarti riprenderà il suo cammino, deluso; non ti troverà e non ti potrà molestare.

Il vecchio, sempre andando avanti e indietro, smise di parlare a voce alta e si limitò a borbottare parole incomprensibili. Il re ne approfittò per spiegarsi, e lo fece con una eloquenza ispirata dal disagio e dall’apprensione. Ma l’eremita continuò a mormorare tra sé e sé e non gli prestò ascolto. Poi, sempre mormorando, si avvicinò a Edoardo e disse, con solennità: «Shhhh! Ti rivelerò un segreto!». Si chinò poi per rivelarlo; ma, subito dopo, tacque assumendo l’atteggiamento di chi ascolta. Dopo un momento o due si avvicinò all’apertura della finestra, sporse fuori la testa e guardò intorno a sé nell’oscurità; quindi tornò indietro, sempre in punta di piedi, accostò la faccia a quella del re e bisbigliò: «Sono un arcangelo!».

Edoardo trasalì violentemente e disse a se stesso: “Volesse Iddio che potessi trovarmi ancora con i fuorilegge; poiché, povero me, ora sono prigioniero di un pazzo!”. L’apprensione di lui divenne sempre più grande e si poté leggergliela in faccia molto chiaramente.

A voce bassa e in tono eccitato, l’eremita continuò: «Vedo che senti l’atmosfera di questo rifugio! Hai un’espressione di timore reverenziale sul volto! Nessuno può vivere in questa atmosfera e non esserne influenzato, poiché è quella stessa del Paradiso! Io posso recarmi lassù e tornare indietro in un batter d’occhio. Fui fatto arcangelo proprio qui, cinque anni or sono, da angeli inviati dal Cielo per conferirmi una così enorme dignità La loro presenza colmò questo luogo di uno splendore intollerabile. E gli angeli, o Re, si inginocchiarono dinanzi a me! Infatti, ero più grande di loro. Sì, dinanzi a me si inginocchiarono! Sono entrato nelle dimore celesti e ho parlato con i patriarchi. Toccami la mano... non aver paura... toccamela. Ecco, tu hai toccato, adesso, una mano che è stata stretta da Abramo e Isacco e Giacobbe! Infatti io sono entrato nelle dimore dorate, ho veduto in faccia la Divinità!». Si interruppe per sottolineare la solennità di quanto aveva detto, poi l’espressione di lui cambiò all’improvviso ed egli tornò a raddrizzarsi e a dire, con foga irosa: «Sì, sono un arcangelo, un vero arcangelo! Io che sarei potuto essere Papa! È la pura verità. La cosa mi venne preannunciata dal cielo in un sogno, vent’anni or sono; ah, sì, dovevo diventare Papa! E sarei dovuto esserlo, poiché era stato il Cielo a dirlo, ma il Re sciolse il mio ordine religioso, e io, povero e sconosciuto monaco senza amici, finii ramingo nel mondo, senza un tetto, defraudato dal formidabile destino!». A questo punto ricominciò a farfugliare e a battersi la fronte con il pugno, in preda a una futile furia, ora pronunciando un’imprecazione velenosa, ora limitandosi a una frase patetica: «Ragion per cui non sono altro che un arcangelo... io, destinato a diventare Papa!».

Così continuò per un’ora, mentre il povero, piccolo re rimaneva seduto e sopportava. Poi, tutto a un tratto, la frenesia del vecchio cessò ed egli divenne tutto gentilezza. L’eremita assunse un tono suadente, discese dalle nuvole e prese a ciarlare con tanta semplicità e umanità da conquistare completamente, ben presto, il cuore del re. Il vecchio religioso fece sedere il ragazzo più vicino al fuoco e lo mise in tutti i modi a suo agio, gli medicò i piccoli lividi e i graffi con mani abili e leggere, poi si accinse a preparare e cucinare la cena, chiacchierando piacevolmente di continuo e accarezzando, di quando in quando, la gota o il capo del ragazzo in modo così dolce e tenero che, di lì a poco, tutti i timori e la ripugnanza ispirata dalle farneticazioni sull’arcangelo si tramutarono in rispetto e affetto nei confronti dell’eremita.

Questo lieto stato di cose continuò mentre i due cenavano; poi, dopo che ebbero recitato una preghiera dinanzi all’altare, il vecchio mise a letto il ragazzo in una piccola stanza adiacente, lo rimboccò premurosamente e affettuosamente come avrebbe potuto fare una madre e infine, dopo un’ultima carezza, lo lasciò solo, andò a sedersi davanti al fuoco e prese ad attizzare distrattamente le braci. Di lì a non molto, smise e cominciò a tamburellarsi la fronte con le dita, come se si sforzasse di ricordare un qualcosa sfuggitogli di mente. A quanto parve, non vi riuscì. A questo punto balzò improvvisamente in piedi, entrò nella camera dell’ospite e disse: «Tu sei il Re?».

«Sì» fu la risposta, pronunciata sonnacchiosamente.

«Quale re?»

«Il Re d’Inghilterra.»

«D’Inghilterra! Allora Enrico è morto!»

«Ahimè, infatti, io sono suo figlio.

Un cipiglio minaccioso rabbuiò il viso dell’eremita, che strinse a pugno, con vendicativa energia, le mani ossute. Il vecchio rimase immobile per qualche momento, respirando in fretta e deglutendo rapidamente, poi disse, con voce rauca: «Tu non lo sai che fu lui a mandarci per il mondo senza un tetto e senza una famiglia?».

Non vi fu alcuna risposta. Il vecchio si chinò, scrutò il placido viso del ragazzo e ne ascoltò il respiro tranquillo: «Dorme... dorme profondamente». Il cipiglio svanì, allora, cedendo il posto a una smorfia di perfida soddisfazione.

Un sorriso passò sulle fattezze del ragazzo che sognava.

L’eremita borbottò: «Dunque in cuor suo è felice» e si scostò, aggirandosi poi furtivo nella capanna, mentre cercava questa e quell’altra cosa; di quando in quando si fermava per ascoltare, di quando in quando voltava la testa di scatto per lanciare una rapida occhiata nella direzione del letto, sempre borbottando e sempre farfugliando tra sé e sé.

Infine trovò quello che, a quanto parve, voleva... un vecchio e arrugginito coltello da macellaio e una pietra per affilare. Poi tornò al proprio posto davanti al fuoco, sedette e prese ad affilare dolcemente il coltello sulla pietra, sempre bofonchiando, mormorando, farfugliando. Il vento frusciava intorno alla solitaria capanna, le voci misteriose della notte sembravano sfiorarla giungendo da lontano. Gli occhietti luccicanti di topolini e topi temerari sbirciavano il vecchio dal riparo di crepe e tane, ma egli continuava ad affilare, assorto e mentalmente lontano, e non si accorgeva di alcuna di queste cose.

Di quando in quando passava lievemente il pollice sul filo del coltello e annuiva soddisfatto: «Diventa più tagliente» diceva. «Sì, diventa più tagliente.»

Non badava affatto al trascorrere del tempo, ma continuava a lavorare tranquillo, distraendosi con i propri pensieri che, di quando in quando, rompevano gli argini, assumendo la forma di un discorso articolato: «Suo padre ci rovinò, ci distrusse... e ora è scomparso nel fuoco eterno. Sì, nel profondo degli inferni e nel fuoco eterno! Si è sottratto a noi, ma è stata la volontà di Dio, sì, Dio lo ha voluto, e non dobbiamo protestare. Ma non si è sottratto alle fiamme dell’inferno, le fiamme che consumano senza pietà e senza tregua, e sono eterne!».

E così continuò ad affilare, e ad affilare, borbottando... ridacchiando talora in modo sommesso e rauco, e talora parlando di nuovo: «La colpa fu soltanto di suo padre. Io sono appena un arcangelo; se non fosse stato per lui sarei papa!».

Il re si mosse. L’eremita balzò silenziosamente accanto al letto e si inginocchiò, chinandosi sul fanciullo disteso, con il coltello sollevato.

Edoardo tornò a muoversi; aprì gli occhi per un attimo, ma non vi fu in essi alcuno stupore, poiché non vedevano nulla; un attimo dopo, il suo respiro tranquillo dimostrò che dormiva di nuovo profondamente.

L’eremita lo osservò e lo ascoltò per qualche tempo, mantenendo la stessa posizione, quasi senza respirare; poi abbassò adagio il braccio e, di lì a qualche momento, si allontanò dicendo: «È mezzanotte passata da un pezzo; è preferibile che non gridi, qualcuno potrebbe passare di qui e udirlo».

Si aggirò silenziosamente nella capanna, prendendo qua uno straccio, là una cinghia di cuoio, poi un’altra ancora; infine tornò indietro e, con movimenti lenti e circospetti, riuscì a legare l’una all’altra le caviglie del re senza destarlo. Tentò poi di legargli i polsi; più volte si provò a incrociarli, ma sempre il ragazzo spostava una mano o l’altra proprio mentre il laccio stava per essere applicato; ma infine, quando l’arcangelo era ormai quasi sul punto di disperare, Edoardo incrociò i polsi di sua iniziativa e, un attimo dopo, erano legati. A questo punto, una benda venne passata sotto il mento del dormiente e quindi annodata sul cocuzzolo del capo; tanto dolcemente, gradualmente e destramente furono stretti i nodi che il ragazzo continuò a dormire serenamente, senza muoversi.


21


Hendon giunge in soccorso

Il vecchio sgattaiolò via, curvo, furtivo, simile a un gatto, e accostò la bassa panca. Vi si sedette, con una metà del corpo illuminata dalla luce fioca e baluginante, e l’altra metà nell’ombra; così, in questa posizione, con gli occhi bramosi e fissi sul ragazzo addormentato, continuò la paziente veglia, noncurante del trascorrere del tempo, e silenziosamente affilò ancora il coltello, e borbottò e farfugliò e ridacchiò; sia per l’aspetto sia per l’atteggiamento non ricordava altro che un ragno orrendo e mostruoso, intento a esultare dinanzi a uno sfortunato insetto prigioniero e impotente nella sua tela.

Molto tempo dopo, il vecchio, che stava ancora fissando, ma non vedeva, essendo la sua mente sprofondata in un sogno a occhi aperti, notò all’improvviso che anche gli occhi del ragazzo erano aperti... grandi e fissi, stavano contemplando, il coltello!

Il sorriso di un demone soddisfatto si diffuse sulla faccia dell’eremita che, senza cambiare atteggiamento né occupazione, disse: «Figlio di Enrico Ottavo, hai pregato?».

Il ragazzo si dibatté impotente nei legami e, al contempo, riuscì a emettere, attraverso le mascelle serrate, un suono soffocato; l’eremita decise di interpretarlo come una risposta affermativa alla domanda.

«Allora prega ancora. Recita la preghiera per i moribondi!»

Un fremito scosse il corpo del ragazzo, che sbiancò in volto. Poi egli ricominciò a dibattersi, dimenandosi e torcendosi da un lato e dall’altro e dando strattoni frenetici, violenti, disperati – ma invano – per spezzare quei lacci; nel frattempo, il vecchio orco continuò a sorridergli, a fare di sì con la testa e ad affilare placidamente il coltello, mormorando di tanto in tanto: «I momenti sono preziosi; sono pochi e preziosi; recita la preghiera per i moribondi!».

Il ragazzo emise un gemito disperato, non si dibatté più e ansimò. Sgorgarono, allora, le lacrime e gli striarono, una dopo l’altra, le gote; ma lo spettacolo commovente non ebbe il benché minimo effetto sul selvaggio vecchio. L’alba stava ora spuntando; l’eremita se ne accorse e parlò in tono aspro, con una nota di nervosa apprensione nella voce: «Non posso indulgere più a lungo a questa estasi! La notte è già trascorsa. Sembra non essere stata altro che un momento, soltanto un momento; ah, fosse durata un anno! Seme del distruttore della Chiesa, chiudi gli occhi sul punto di spegnerti, se ti atterrisce guardare il...».

Il resto della frase si perdette in biascicamenti incomprensibili. Il vecchio si inginocchiò, il coltello stretto nel pugno, e si chinò sul ragazzo che gemeva.

Un momento! Si udì un suono di voci nei pressi della capanna. Il coltello cadde dalla mano dell’eremita; egli gettò una pelle di pecora sul ragazzo e si rimise in piedi tremante. Le voci divennero più forti e, subito dopo, rudi e irose; poi vi furono colpi e invocazioni di aiuto; quindi un rumore di rapidi passi che si stavano allontanando.

Immediatamente dopo, tonfi tonanti risuonarono contro la porta della capanna, seguiti da: «Ehilà! Apri! E affrettati, in nome di tutti i demoni!».

Oh, fu questo il suono più benedetto che mai fosse risuonato nelle orecchie del re, in quanto si trattava della voce di Miles Hendon!

L’eremita, digrignando i denti in preda a una furia impotente, uscì frettoloso dalla camera da letto, chiudendosi la porta alle spalle, e subito dopo Edoardo udì, nella “cappella”, il seguente dialogo: «Omaggi e saluti, reverendo signore! Dov’è il ragazzo... il mio ragazzo?».

«Quale ragazzo, amico?»

«Quale ragazzo! Non contarmi frottole, messer prete, non cercare di ingannarmi! Non sono in vena di tollerarlo. Non lontano da qui ho catturato i furfanti che, a mio giudizio, mi avevano rapito il ragazzo e li ho costretti a confessare; mi hanno detto che era fuggito di nuovo e che lo avevano seguito fino alla porta della tua capanna. Mi hanno mostrato le sue stesse orme. E ora basta con gli indugi; dovresti infatti temere per te, mio sant’uomo, se non mi consegnassi... Dov’è il ragazzo?»

«Oh, buon signore, si dà forse il caso che tu ti riferisca al lacero vagabondo regale venuto a trascorrere qui la notte? Se davvero una così miserabile creatura può interessarti, sappi allora che l’ho mandato a fare una commissione. Tornerà tra non molto.»

«Tra quanto tempo? Tra quanto? Suvvia, non stiamo a perdere tempo; non posso raggiungerlo? Quando sarà di ritorno?»

«Puoi fare a meno di muoverti; tornerà subito.»

«E sia, allora. Cercherò di aspettare. Ma un momento! Tu lo hai mandato a fare una commissione? Tu? Questa è senz’altro una menzogna... non sarebbe andato. Ti avrebbe tirato la vecchia barba, qualora tu avessi osato una simile insolenza. Hai mentito, amico; hai senza dubbio mentito! Non sarebbe mai andato a fare una commissione né per te né per chiunque altro.»

«Per chiunque altro, no. Non per un uomo qualsiasi. Ma io non sono un uomo.»

«Cosa? E che mai saresti, in nome di Dio?»

«È un grande segreto; bada bene di non rivelarlo. Sono un arcangelo!»

Vi fu una tremenda esclamazione da parte di Miles Hendon – non del tutto priva di profanità – seguita da: «Ah, questo può spiegare senz’altro la compiacenza di lui! Mai egli avrebbe mosso mano o piede per rendere un comune servigio a qualsiasi mortale; ma, perdiana, anche un re deve ubbidire quando è un arcangelo e impartire ordini! Lascia che... shhhh! Che suono è mai questo?».

Nel corso di tutta questa conversazione, il piccolo re aveva continuato a tremare, ora di terrore e ora di speranza; e sempre, inoltre, aveva immesso tutta l’energia di cui poteva ancora disporre in gemiti strazianti, aspettandosi ogni volta che giungessero alle orecchie di Hendon, e ogni volta rendendosi conto, con sgomento e con amarezza, che non arrivavano fino a lui o, per lo meno, non gli facevano alcuna impressione. Pertanto quest’ultima domanda del suo servitore fu come una vivificatrice boccata d’aria fresca dei campi per il moribondo. Ed egli gemette di nuovo, con tutte le sue energie, proprio mentre l’eremita stava dicendo: «Un suono? Io non odo altro che il vento».

«Può darsi che fosse il vento. Sì, senza dubbio lo era. L’ho udito fiocamente per tutto il... Ecco che ricomincia! Ma non è il vento! Quale strano suono! Vieni, andiamo ad accertare di che si tratta!»

A questo punto la felicità del re divenne quasi intollerabile. I suoi stanchi polmoni fecero tutto quel che potevano – e speranzosamente, per giunta – ma le mascelle serrate e la soffocante pelle di pecora frustrarono, ahimè, lo sforzo. Poi il cuore del poverino si strinse quando egli udì l’eremita dire: «Ah, proviene da fuori... da quel folto laggiù, credo. Vieni, ti precederò».

Il re udì poi i due uscire conversando; udì i loro passi allontanarsi e perdersi rapidamente; rimase, così, solo, circondato da un silenzio cupo, minaccioso, spaventoso.

Sembrò passata un’eternità quando passi e voci tornarono ad avvicinarsi, ma questa volta gli giunse alle orecchie anche un altro suono.. tonfi di zoccoli, si sarebbe detto. Poi Edoardo udì Hendon esclamare: «Non aspetterò oltre. Non posso aspettare ancora. Il ragazzo deve essersi smarrito in questo fitto bosco. Quale direzione aveva preso? Presto... indicamela».

«È andato da... Ma aspetta: verrò anch’io con te.»

«Bene... bene! Ah, devo dire che sei migliore di quanto sembri. Perdiana, non esiste, credo, un altro arcangelo dal cuore buono come il tuo. Vuoi cavalcare? Vuoi servirti del somarello che ho acquistato per il mio ragazzo, o preferisci salire in groppa, con le tue gambe, a questo bisbetico e schiavo mulo destinato a me? E con il quale sarei stato in ogni caso frodato, anche se mi fosse costato soltanto la misera somma equivalente agli interessi di un mese su un quarto di penny, prestato da qualche usuraio a uno stagnino disoccupato!»

«No, no, cavalca pure il tuo mulo e conduci il somaro; io mi sento più sicuro sui miei stessi piedi e camminerò.»

«Allora, di grazia, reggi per un momento le redini del somaro, mentre io porrò a repentaglio la vita cercando di montare il mulo.»

Seguì una gran confusione di calci, pacche, scalpitamenti e frustate, il tutto accompagnato da raffiche tonanti di imprecazioni e, in ultimo, da violenti rimproveri rivolti al mulo, che dovette infine calmarsi, poiché, da quel momento in poi, le ostilità parvero cessare.

In preda a un’indicibile disperazione, il piccolo re immobilizzato udì le voci e i passi allontanarsi e dileguarsi. Per il momento, ogni barlume di speranza lo abbandonò e un cupo sconforto gli colmò il cuore. “Il mio unico amico si è lasciato ingannare e allontanare” disse a se stesso. “L’eremita tornerà e...” Concluse con un ansito e subito ricominciò a tentar di spezzare i legami con una tale frenesia che la soffocante pelle di pecora gli scivolò giù di dosso.

E a questo punto udì la porta spalancarsi! Il suono lo raggelò sino al midollo delle ossa; sentiva già il coltello affondarglisi nella gola. L’orrore fece sì che chiudesse gli occhi; l’orrore lo costrinse a riaprirli... ed ecco dinanzi a lui John Canty e Hugo!

Se gli fosse stato possibile parlare, avrebbe detto: «Sia ringraziato Iddio!».

Uno o due attimi dopo, aveva libere braccia e gambe, e i suoi catturatori, ognuno tenendolo ben stretto per un braccio, lo trascinavano, il più rapidamente possibile, attraverso la foresta.


22


Vittima del tradimento

Una volta di più Re Fufù Primo stava girovagando con i vagabondi e i fuorilegge, fatto oggetto dei loro scherzi villani e delle loro ottuse prese in giro, e talora persino vittima di piccole malvagità per mano di Canty e di Hugo, quando Attaccabrighe voltava le spalle. Soltanto Canty e Hugo lo odiavano davvero. Alcuni degli altri lo avevano in simpatia, e tutti ammiravano il suo ardire e la sua forte tempra morale. Per due o tre giorni, Hugo, al quale il piccolo re era stato affidato, fece, nascostamente, tutto il possibile per tormentare il ragazzo, e di notte, durante le solite orge, divertì la compagnia sottoponendolo a piccole indegnità... ma sempre come per caso. Per due volte pestò i piedi al sovrano – accidentalmente – e il re, poiché così si addiceva alla sua regalità, finse con disprezzo di non accorgersene e simulò indifferenza; ma quando Hugo si divertì in quel modo per la terza volta, Edoardo lo fece stramazzare con un colpo di randello, divertendo enormemente la tribù. Hugo, divorato dall’ira e dalla vergogna, afferrò a sua volta un randello e si scagliò infuriato contro il piccolo avversario. All’istante, una cerchia si formò intorno ai due gladiatori e cominciarono le scommesse e gli applausi. Ma il povero Hugo non aveva la benché minima possibilità di prevalere. I suoi frenetici e goffi colpi da dilettante non potevano essergli di utilità alcuna, contro un braccio addestrato dai primi maestri d’Europa nei duelli con l’azza, con il randello, nonché in ogni arte ed espediente dei combattimenti. Il piccolo re assunse una posizione attenta ma aggraziata e parò e deviò la fitta gragnuola di colpi con una disinvoltura e una precisione che resero frenetici per l’ammirazione i pittoreschi spettatori; e, di tanto in tanto, ogni qual volta il suo sguardo esperto intravedeva un varco, ne conseguiva, come risultato, un colpo fulmineo sulla testa di Hugo, dopodiché la tempesta di applausi e di risate dilaganti lì attorno era qualcosa di meraviglioso a udirsi. Dopo una quindicina di minuti, Hugo, ammaccato dappertutto e coperto di lividi, nonché bersaglio di uno spietato bombardamento di prese in giro, abbandonò il campo; e l’illeso eroe dello scontro venne afferrato, issato sulle spalle di un vagabondo e portato in trionfo, dalla gioiosa canaglia, al posto d’onore accanto ad Attaccabrighe; là, con un cerimoniale complicato, lo incoronarono Re dei Galli da combattimento, e al contempo cancellarono e annullarono il ridicolo titolo precedente, dopodiché decretarono che sarebbe stato scacciato dalla banda chiunque lo avesse pronunciato.

Ogni tentativo di far sì che il re si rendesse utile al gruppo era fallito. Egli aveva ostinatamente rifiutato di lavorare per gli altri; e inoltre tentava con perseveranza di fuggire. Il primo giorno, dopo il rientro nella banda, era stato spinto in una cucina non sorvegliata; non soltanto ne era uscito a mani vuote, ma aveva tentato di destare i padroni di casa. Era stato allora assegnato a uno stagnino perché gli desse una mano nel lavoro, ma aveva rifiutato di aiutarlo, minacciandolo inoltre con lo strumento per saldare; e in ultimo, sia lo stagnino sia Hugo erano stati costretti a non fare altro che sorvegliarlo per impedirgli la fuga. Egli faceva echeggiare i tuoni sdegnati della sua regalità sul capo di chiunque lo ostacolasse o cercasse di costringerlo a lavorare. Lo mandarono allora, affidato a Hugo e in compagnia di una donna sciatta e sudicia e di un bambino malato, a mendicare; ma il risultato non fu incoraggiante; Edoardo rifiutò infatti di supplicare i passanti a nome degli accattoni o di sostenerne in qualsiasi modo la causa.

Trascorsero così parecchi giorni; e gli stenti della vita di vagabondo, la stanchezza, gli aspetti sordidi, lo squallore e la volgarità di quell’esistenza divennero a poco a poco, ma costantemente, a tal punto intollerabili per il prigioniero da indurlo, in ultimo, a pensare che la liberazione dal coltello dell’eremita fosse stata soltanto, nel migliore dei casi, una tregua temporanea dalla morte.

Ma di notte, nei sogni, Edoardo dimenticava tutte queste cose e veniva a trovarsi sul trono, di nuovo padrone di se stesso. Ciò, naturalmente, intensificava le sofferenze al risveglio, per cui le mortificazioni, ogni mattino dei pochi giorni trascorsi tra il suo ritorno in schiavitù e il combattimento con Hugo, divennero sempre e sempre più amare e sempre più difficili a sopportarsi.

La mattina successiva al duello, Hugo si alzò con il cuore colmo di propositi vendicativi contro il re. In particolare aveva in mente due piani. L’uno era quello di infliggere al ragazzo quella che sarebbe stata, per il suo spirito altezzoso e la sua “immaginata” regalità, una singolare umiliazione; e, qualora non fosse riuscito in questo, l’altro piano consisteva nell’attribuire al sedicente sovrano un qualche grave reato, e nel denunciarlo poi, lasciandolo tra le sgrinfie implacabili della legge.

Per attuare il primo dei suoi progetti, Hugo si proponeva di porre una “fasulla” su una gamba del re; egli riteneva infatti, giustamente, che ciò lo avrebbe mortificato all’estremo, come più non sarebbe stato possibile; inoltre, non appena la “fasulla” fosse stata applicata, si proponeva di ottenere l’aiuto di Canty, e di costringere il re a esporre la gamba sulla strada maestra e a chiedere elemosine. “Fasulla” significava, nel gergo di quei vagabondi, una piaga creata artificialmente. Per ottenere il massimo dell’effetto, si preparava un intruglio appiccicoso composto di calce viva, sapone e ruggine di ferro vecchio, e lo si spalmava su un pezzo di cuoio, che veniva poi legato strettamente sulla gamba. L’intruglio a poco a poco penetrava nella pelle e la rendeva ulcerosa e infiammata; si strofinava allora, tutto attorno, sangue raggrumato che, essendo completamente secco, assumeva un colore scuro e ripugnante. Infine veniva applicata una fasciatura di sudici stracci, ma in modo noncurante, così da lasciare intravedere l’orribile ulcerazione e da indurre a compassione i passanti.

Hugo ottenne l’aiuto dello stagnino che aveva intimidito il re con il ferro per saldare; i due condussero il ragazzo a fare uno dei loro giri e, non appena furono lontani dall’accampamento, lo gettarono a terra e lo stagnino lo tenne fermo, mentre Hugo gli legava strettamente e saldamente intorno alla gamba il pezzo di cuoio con la poltiglia.

Il re infuriò e tempestò, e giurò che li avrebbe fatti impiccare entrambi non appena lo scettro fosse stato di nuovo nel suo pugno, ma i due continuarono a immobilizzarlo saldamente, godendosela mentre si dibatteva impotente e schernendone le minacce. Tutto questo continuò finché la poltiglia ebbe cominciato a mordere le carni del ragazzo; e, in men che non si dica, avrebbe portato a termine la propria opera se nessuno fosse intervenuto. Ma qualcuno intervenne poiché, all’incirca in quel momento, lo “schiavo” che aveva pronunciato il discorso scagliandosi contro le leggi inglesi apparve sulla scena e pose termine al tentativo togliendo poltiglia e fasciatura.

Il re chiese in prestito il randello del suo liberatore per spolverare seduta stante il groppone dei due manigoldi; ma l’uomo lo dissuase. Vi sarebbero state complicazioni, disse... era preferibile rimandare fino a quella sera. Quando l’intera tribù fosse stata riunita, il mondo esterno non avrebbe osato intromettersi e ostacolarla. Egli riportò i tre all’accampamento e riferì ad Attaccabrighe quanto era avvenuto; il capo della banda ascoltò, rifletté e infine decise che il re non sarebbe più dovuto essere incaricato di mendicare, essendo ormai chiaro che egli meritava qualcosa di meglio e di più nobile; dopodiché lo promosse, seduta stante, dal rango di accattone a quello di ladro!

Hugo era sopraffatto dalla gioia. Aveva già tentato di indurre il re a rubare, ma senza riuscirvi; ora, però, non vi sarebbero più state difficoltà di questo genere poiché, naturalmente, il re non poteva nemmeno sognarsi di sfidare un ordine esplicito impartitogli personalmente dal capo. Pertanto organizzò un furto per quello stesso pomeriggio, proponendosi, naturalmente, di far finire il ragazzo nelle mani della legge; e di riuscirvi, inoltre, mediante una strategia così ingegnosa da far sì che la cosa sembrasse accidentale e non intenzionale, poiché il Re dei Galli da combattimento era ormai benvoluto e la banda sarebbe potuta non essere clemente con un suo elemento, già odiato, resosi colpevole di un tradimento grave come quello di consegnarlo al comune nemico: la legge.

Ma continuiamo il racconto. A tempo debito, Hugo si diresse verso un vicino villaggio con la sua preda e i due percorsero adagio una strada dopo l’altra, l’uno guardandosi attorno attentamente in cerca di una buona occasione per attuare il malvagio proposito, e l’altro guardandosi attorno altrettanto attentamente in cerca di un’occasione favorevole per fuggire a gambe levate e liberarsi definitivamente dall’odiosa prigionia.

Entrambi scartarono occasioni che sembravano alquanto buone; poiché entrambi, in cuor loro, erano decisi a riuscire, questa volta, e nessuno dei due intendeva consentire al proprio febbrile desiderio di indurlo a un qualcosa di azzardato, con una buona dose di incertezza.

L’occasione si presentò prima a Hugo. Infatti si avvicinò, finalmente, una donna che reggeva, entro un cestino, un grosso pacco. Gli occhi di Hugo brillarono di malvagio piacere ed egli disse a se stesso: “Possa non più respirare se non riuscirò ad appioppare a te questo furto, dopodiché Dio ti protegga, Re dei Galli da combattimento!”. Aspettò e osservò, in apparenza paziente, ma dentro di sé consumato dalla smania di agire, finché la donna non fu passata oltre e il momento divenne maturo per agire. Disse allora, a voce bassa: «Aspettami qui finché non sarò tornato indietro». Quindi sfrecciò furtivo dietro la preda.

Il cuore del re si colmò di gioia; ora, se soltanto Hugo si fosse allontanato abbastanza, sarebbe riuscito a fuggire.

Ma non doveva essere così fortunato. Hugo si portò alle spalle della donna, afferrò il pacco e tornò indietro di corsa, avvolgendolo nei resti di una vecchia coperta che aveva sul braccio. Subito la donna, resasi conto del furto non già perché lo avesse veduto commettere, ma a causa dell’improvvisa leggerezza del cestino, invocò aiuto urlando. Hugo, senza fermarsi, gettò il fagotto tra le mani del re, dicendo: «Ora corrimi dietro insieme agli altri e grida “Fermate il ladro!” ma bada bene di condurli altrove!».

Un attimo dopo voltò a un angolo, fuggendo lungo un vicolo tortuoso e, dopo un attimo o due ancora, riapparve con un’aria innocente e indifferente, fermandosi dietro un lampione per vedere come si sarebbero messe le cose.

Il re così insultato gettò a terra il fagotto e la coperta ne scivolò via proprio mentre la donna arrivava, seguita da una folla che andava man mano ingrossandosi; con una mano ella afferrò il re per il polso, con l’altra riprese il pacco, poi cominciò a subissare il ragazzo di insulti, mentre il poverino si dibatteva per liberarsi dalla stretta.

Hugo aveva ormai veduto abbastanza... il suo amico era stato preso e ora la legge si sarebbe occupata di lui; pertanto sgattaiolò via giubilante, ridacchiando, e si diresse verso i campi, preparando mentalmente, mentre camminava, una versione giudiziosa dell’accaduto da riferire ad Attaccabrighe.

Il re continuò a dibattersi nella salda stretta della donna, gridando di tanto in tanto, esasperato: «Lasciami andare, stupida creatura; non sono stato io a derubarti delle tue misere cose!».

La folla si chiuse intorno a loro, minacciando il re e gridandogli insulti; un muscoloso fabbro ferraio dal grembiule di cuoio e dalle maniche rimboccate fino ai gomiti fece per afferrarlo, dicendo che lo avrebbe bastonato ben bene per dargli una lezione; ma, proprio in quel momento, un lungo spadone balenò in aria e cadde, con persuasiva violenza, sul braccio dell’uomo, di piatto, mentre il fantastico personaggio che maneggiava l’arma diceva al contempo affabilmente: «Nespole, anime buone, andiamoci piano; non con malvagità e con parole poco caritatevoli. Questa è una faccenda che deve essere risolta dalla legge, e non da privati che non ricoprono cariche ufficiali. Molla il ragazzo, avanti, buon uomo».

Il fabbro valutò il robusto soldato con uno sguardo, poi si allontanò borbottando e massaggiandosi il braccio; la donna lasciò andare con riluttanza il polso di Edoardo; la folla fissò torvamente lo sconosciuto, ma tutti ritennero più prudente tenere la bocca chiusa. Il re balzò al fianco del suo liberatore, con le gote accese e gli occhi balenanti, esclamò: «Sei giunto con grande ritardo, ma nel momento più opportuno. Ora, Sir Miles, riduci in pezzi questa canaglia!».


23


Il principe prigioniero

Hendon si costrinse a sorridere, poi si chinò e bisbigliò all’orecchio del re: «Piano, piano, mio Principe; adopera con circospezione la lingua; anzi no, vedi di non adoperarla affatto. Fidati di me... e tutto finirà bene». Poi disse a se stesso: “Sir Miles!, dio mi benedica, avevo completamente dimenticato di essere cavaliere! Santo Cielo, come è straordinaria la memoria di questo ragazzo per quanto concerne i ghiribizzi e le bizzarre fantasticherie della sua follia! Quello che mi ha conferito è un titolo vuoto e pazzesco, eppure non sembra cosa da poco averlo meritato, poiché, secondo me, v’è più onore nell’essere ritenuto degno della nomina di cavaliere fantomatico in questo suo Regno dei Sogni e delle Ombre, che nell’essere giudicato abominevole abbastanza per divenire conte di qualche vero regno di questo mondo!”.

La folla si separò per lasciar passare un conestabile, che si avvicinò e stava per piazzare una mano sulla spalla del re quando Hendon disse: «Piano, buon amico, non lo toccare, ti seguirà senza opporre resistenza. Ne rispondo io. Precedici e noi ti verremo dietro».

Il rappresentante della legge li precedette, con la donna e il suo fagotto; Miles e il re li seguirono, con la folla alle calcagna. Il re era propenso a ribellarsi, ma Hendon gli disse, a voce bassa: «Rifletti, Sire. Le leggi sono l’impalcatura stessa della tua sovranità; se la loro stessa fonte dovesse violarle, come potrebbe pretendere che gli altri le rispettassero? A quanto pare, una di tali leggi è stata violata; quando sarai di nuovo sul trono, potrai forse affliggerti ricordando che, essendo in apparenza un privato cittadino qualsiasi, lealmente ti sottoponesti, in quanto tale, all’autorità del sovrano?».

«Hai ragione; non dire di più. Potrai constatare che, qualsiasi pena il Re d’Inghilterra abbia stabilito di infliggere per questa violazione della legge, egli stesso la subirà fino a quando sarà considerato un comune suddito.»

Allorché la donna venne chiamata a testimoniare dinanzi al giudice conciliatore, giurò che il piccolo prigioniero sul banco degli imputati era il colpevole del furto. Nessuno poteva dimostrare il contrario e pertanto Edoardo venne incriminato. A questo punto il fagotto fu aperto e allorché il contenuto risultò essere un grasso maialino arrostito, il giudice parve turbato e Hendon impallidì, percorso da un elettrico brivido di sgomento; ma il re rimase imperturbato, protetto dallo scudo della sua ignoranza. Vi fu un silenzio minaccioso mentre il giudice meditava, per poi rivolgersi alla donna con la domanda: «Quanto ritieni che valga questo porcellino?».

La donna fece un inchino e rispose: «Tre scellini e otto pence, signoria. Se dovessi togliere anche soltanto un penny, non ne valuterei giustamente il costo».

Il giudice sbirciò a disagio la folla, poi, con un cenno del capo al conestabile, ordinò: «Fa’ sgombrare l’aula e chiudere le porte».

Così fu fatto. Rimasero soltanto i due rappresentanti della legge, l’accusato, l’accusatrice, e Miles Hendon. Quest’ultimo era sbigottito e pallido; grosse gocce di gelido sudore gli si formavano sulla fronte, si univano e gli scorrevano sulla faccia. Il giudice si rivolse di nuovo alla donna e disse, in tono compassionevole: «Colui che tu accusi è un povero ragazzo ignorante, forse in preda ai morsi della fame, poiché questi sono tempi calamitosi per gli sfortunati; guardalo bene, non ha un viso malvagio, ma quando si è tormentati dallo stomaco vuoto... Buona donna: sai tu che chi ruba qualcosa il cui valore supera tredici pence deve, in base alla legge, essere impiccato?».

Il piccolo re trasalì e sbarrò gli occhi in preda alla costernazione, ma si dominò e non aprì bocca. Non così, invece, la donna. Ella balzò in piedi, tremante di sgomento, e gridò: «Oh, povera me, che cosa ho fatto! Dio mi perdoni, nemmeno per tutto l’oro del mondo vorrei che la misera creatura venisse impiccata! Ah, evitami questo, signoria! Che cosa devo fare? Che cosa posso fare?».

Il giudice mantenne la compostezza che si addice a un magistrato e disse: «Senza dubbio è possibile attribuire un diverso valore alla refurtiva, poiché la tua precedente dichiarazione non risulta ancora agli atti».

«Allora, in nome di Dio, diciamo che il maialino vale otto pence, e il Cielo benedica il giorno in cui la mia coscienza è stata liberata da un rimorso così orribile!»

Miles Hendon dimenticò completamente il decoro, tanto era felice, e sorprese il re, e ne ferì la dignità, gettandogli le braccia al collo e abbracciandolo. La donna si congedò con gratitudine e se ne andò con il suo maialino; il conestabile, dopo averle aperto la porta, la seguì nel piccolo ingresso. Il giudice si accinse a scribacchiare nel registro. Hendon, sempre all’erta, disse a se stesso che gli sarebbe piaciuto sapere perché il conestabile aveva seguito la donna; pertanto uscì furtivamente nel buio ingresso e ascoltò. Udì la seguente conversazione.

«È un grasso porcellino di latte e promette di essere gustoso; sono disposto ad acquistarlo. Eccoti gli otto pence.»

«Otto pence, ma guarda! Niente da fare. Mi è costato tre scellini e otto pence, in buona moneta inglese dell’ultimo regno, moneta nuova di zecca! Con il cavolo lo avrai per otto pence!»

«Ah, è così che la metti? Eri sotto giuramento, e pertanto hai giurato il falso dicendo che valeva otto scellini! Torna subito con me davanti a sua signoria a rispondere per il tuo reato! E poi il ragazzo penderà sulla forca.»

«Basta, basta, oh povera me, non dire di più. Mi accontenterò. Dammi gli otto pence, e tieni la bocca chiusa!»

La donna se ne andò piangente; Hendon rientrò furtivamente nell’aula e il conestabile lo segui di lì a poco, dopo aver nascosto il bottino in qualche comodo posto. Il giudice scribacchiò ancora per qualche momento, poi tenne al re un savio e cortese predicozzo e lo condannò a pochi giorni di carcere, seguiti dalla fustigazione in pubblico. Il re, sbalordito, aprì la bocca, probabilmente per ordinare che il buon giudice venisse decapitato seduta stante, ma scorse il cenno di ammonimento di Hendon e riuscì a richiudere la bocca prima di aver pronunciato una sola parola. Hendon lo prese per mano, a questo punto, si inchinò al giudice, poi, entrambi, seguirono il conestabile verso la prigione. Non appena vennero a trovarsi in strada, l’infuriato monarca si fermò, strappò via la mano, ed esclamò: «Idiota, immagini forse che io sia disposto a entrare vivo in una comune prigione?».

Hendon si chinò e disse, in tono alquanto aspro: «Riponi fiducia in me o no? Allora taci! Ed evita di peggiorare la nostra situazione con parole avventate. Quel che Dio vuole accadrà; non puoi affrettare gli eventi né puoi modificarli. Perciò aspetta e sii paziente. Avrai tutto il tempo di deplorare o di esultare quando ciò che deve accadere sarà accaduto.


24


La fuga

La breve giornata invernale era giunta quasi al termine. Le strade rimanevano deserte, tranne pochi passanti ritardatari che camminavano in fretta, con l’espressione concentrata di chi non vede l’ora di portare a termine le commissioni, per poi tornarsene al calduccio in casa sua al riparo dal vento sempre più forte e dall’oscurità man mano più fitta. Nessuno guardava a destra o a sinistra; nessuno prestava attenzione al gruppetto dei tre, come se neppure lo vedesse. Edoardo VI si domandò se lo spettacolo di un re diretto in carcere fosse mai stato accolto, in passato, con una così stupefacente indifferenza.

Di lì a non molto, il conestabile giunse nella deserta piazza del mercato e si accinse ad attraversarla. Quando furono arrivati tutti e tre al centro della piazza, Hendon gli mise una mano sul braccio e disse, a voce bassa: «Fermati un momento, buon signore; nessuno può ascoltarti, qui, e vorrei dirti una parola».

«Il mio dovere lo vieta, messere; non farmi ritardare, te ne prego, la notte sta calando.»

«Fermati ugualmente, poiché la cosa ti riguarda da vicino. Volta le spalle per un momento e fingi di non vedere: consenti a questo povero ragazzo di fuggire.»

«E tu osi dire a me una cosa simile, messere? Ti arresto per...»

«No, no, non avere troppa fretta. Cerca di essere cauto e di non commettere uno stupido errore» poi Hendon abbassò la voce fino a un bisbiglio e continuò parlando all’orecchio dell’uomo: «Il maialino che hai acquistato per otto pence può costarti la testa, amico!».

Il povero conestabile, colto di sorpresa, rimase a tutta prima senza parole, ma poi ritrovò la lingua e cominciò a fare lo spavaldo e a minacciare; ma Miles, placidamente, aspettò con pazienza che egli fosse rimasto a corto di fiato. Poi disse: «Tu mi sei simpatico, amico, e non ti vedrei con soddisfazione finire male. Ascolta bene... ho udito tutto, parola per parola, e te lo proverò». Ripeté quindi, alla lettera, la conversazione avuta dal conestabile con la donna nell’ingresso del tribunale, e concluse dicendo: «Ecco. L’ho riferita esattamente? E credi che, se le circostanze lo richiedessero, non saprei riferirla altrettanto esattamente al giudice?».

La paura e lo sgomento resero muto per qualche attimo il rappresentante della legge; poi egli si riprese e disse, con una forzata noncuranza: «Questo significa prendere troppo sul serio uno scherzo, signore... Mi sono limitato a punzecchiare quella donna per divertirmi».

«E, sempre per divertirti, hai tenuto il porcellino della donna?»

L’uomo rispose, in tono aspro: «Per questo e non per altro, buon messere. Ti dico che è stato soltanto uno scherzo».

«Incomincio a crederti» disse Hendon, con una via di mezzo sconcertante tra lo scherno e la convinzione nel tono della voce. «Ma aspettami qui un momento, mentre io corro a chiedere il parere di sua signoria il giudice, poiché, essendo egli un uomo esperto di legge, di facezie, di...»

Mentre parlava, si stava già allontanando; il conestabile esitò, innervosito, bestemmiò un paio di volte, poi gridò: «Un momento, un momento, buon signore, aspetta un poco, di grazia... il giudice, figurarsi! Non ama gli scherzi, amico, più di quanto possa amarli un cadavere! Torna qui e parleremo ancora. Per tutti i diavoli, a quanto pare mi trovo in un bell’impiccio, e tutto per una innocente e avventata facezia. Sono un padre di famiglia, e mia moglie e i miei figlioletti... Sii ragionevole, mia buona signoria. Che cosa vorresti da me?»

«Soltanto che tu divenga cieco, e muto, e paralitico appena per il tempo che occorre per contare fino a centomila, andandoci adagio» rispose Hendon, con l’aria di chi si limita a chiedere un favore ragionevolissimo, una piccola inezia.

«È la mia rovina!» esclamò il conestabile, disperato. «Ah, sii ragionevole, mio buon signore; vedi di prospettarti la cosa sotto tutti i punti di vista, e potrai renderti conto che trattasi soltanto di un mero scherzo... e capirai inoltre quanto manifestamente e ovviamente lo sia. Ma, anche ammettendo che non si trattasse di uno scherzo, sarebbe soltanto una colpa così insignificante da meritare, tutt’al più, un rimprovero e un ammonimento del giudice.»

Hendon rispose, con una solennità che raggelò l’aria stessa intorno a lui: «Questo tuo scherzo ha un nome, secondo la legge. E sai qual è?».

«No, lo ignoro, signore! Si è dato il caso che abbia commesso un’imprudenza. Mai saputo che la cosa avesse un nome! Come è vero che esiste il Paradiso, non mi sono mai sognato di pensare...»

«Sì, ha un nome! Secondo la legge, questo tuo reato ha la seguente denominazione: Non compos mentis lex talionis sic transit gloria mundi.»

«Ah, mio Dio!»

«E la pena prevista è la morte!»

«Dio abbia pietà di me peccatore!»

«Approfittando di una povera donna in fallo, in grave pericolo, e alla tua mercé, ti sei impossessato di qualcosa che valeva più di tredici pence e mezzo penny, pagandola una inezia; e questo, agli occhi della legge, è baratto costrittivo, connivenza in tradimento, disonestà nell’espletamento del dovere, ad hominem expurgatis in statu quo... e merita la morte mediante il capestro, senza diritto al riscatto, alla commutazione della pena, o ai benefici ecclesiastici.»

«Sorreggimi, sorreggimi, mio dolce signore, mi si piegano le ginocchia! Sii misericordioso; evitami questo fatto tremendo, e io volterò le spalle e non vedrò nulla di ciò che accadrà.»

«Bene! Ora sì che sei assennato e ragionevole. E restituirai il porcellino?»

«Lo restituirò, oh certo, e non ne toccherò mai un altro, anche se dovesse essere il Cielo a mandarmelo per mezzo di un arcangelo. Va’... sono diventato cieco nel tuo interesse... non vedo più niente. Dirò che ti sei intromesso e mi hai strappato il prigioniero dalle mani con la forza. La porta della prigione è malferma e vetusta; l’abbatterò io stesso tra la mezzanotte e il mattino.»

«Sì, fa questo, anima buona; non te ne verrà male alcuno; il giudice ha provato un’affettuosa compassione per questo povero ragazzo e non verserà lacrime né spezzerà le ossa del carceriere a causa della sua fuga.»


25


Hendon Hall

Non appena Hendon e il re ebbero perduto di vista il conestabile, sua Maestà venne invitata a recarsi in tutta fretta in un certo luogo fuori del villaggio e ad aspettare laggiù, mentre il suo protettore sarebbe tornato alla locanda per pagare il conto. Mezz’ora dopo, i due amici stavano beatamente viaggiando verso est sulle misere cavalcature di Hendon. Il re non soffriva più il freddo, ormai, poiché, liberatosi degli stracci, aveva indossato il vestito di seconda mano acquistato dall’ex-militare sul Ponte di Londra.

Hendon intendeva guardarsi bene dallo stancare troppo il ragazzo; riteneva che i viaggi faticosi, i pasti saltuari e la scarsità di sonno non potessero giovare alla sua mente malata, mentre il riposo, gli orari regolari e un po’ di moto fatto con moderazione lo avrebbero, senza alcun dubbio, guarito più rapidamente; anelava a veder tornare alla normalità l’intelletto di lui, affinché le morbose fantasticherie venissero bandite da quella testolina tormentata; pertanto decise di viaggiare a comode tappe verso la casa dalla quale era stato bandito tanto tempo prima, invece di assecondare l’impulso dell’impazienza e di affrettarsi giorno e notte.

Dopo aver percorso circa dieci miglia, lui e il re giunsero in un villaggio notevolmente grande e vi sostarono per trascorrere la notte in una buona locanda. Lì si attennero di nuovo ai rapporti precedenti; Hendon rimase in piedi dietro la sedia del re, mentre egli cenava; e lo servì. Poi lo spogliò quando decise di andare a coricarsi; infine si distese sul pavimento, davanti alla porta e dormì avvolto in una coperta.

Il giorno dopo, e quello successivo, proseguirono pigramente rievocando le avventure vissute da quando erano rimasti separati e godendosi immensamente i rispettivi racconti. Hendon descrisse nei minimi particolari tutti i vagabondaggi alla ricerca del re e raccontò come l’arcangelo lo avesse preso in giro facendogli percorrere l’intera foresta, per ricondurlo, in ultimo, alla capanna dopo avere constatato che non riusciva a sbarazzarsi di lui. Là, continuò, il vecchio era entrato nella camera da letto, uscendone poi barcollante e con il cuore spezzato perché – così aveva detto – si era aspettato che il ragazzo fosse tornato e avesse deciso di coricarsi e dormire, mentre invece non si trovava lì.

Hendon aveva aspettato nella capanna per tutto il giorno, e infine, spentasi la speranza del ritorno del re, era andato di nuovo a cercarlo.

«E il vecchio Sanctum Sanctorum era davvero addolorato a causa del mancato ritorno di Tua Maestà» disse Hendon. «Glielo lessi in faccia.»

«Caspita, non ne dubito affatto!» esclamò il re. Poi narrò la sua storia, dopodiché Hendon si pentì di non aver eliminato l’arcangelo.

Durante l’ultimo giorno del viaggio, la felicità di Hendon salì alle stelle. Non tacque un solo momento. Parlò del vecchio padre, di suo fratello Arthur e narrò numerosi episodi dai quali si poteva dedurre la nobiltà e la generosità del loro carattere; si abbandonò a frenesie amorose concernenti la sua Edith, e aveva il cuore così traboccante di gioia che riuscì persino a dire alcune cose gentili e fraterne sul conto di Hugh. Parlò a lungo dell’imminente riunione a Hendon Hall; disse quale sorpresa sarebbe stata quella per tutti e a quali manifestazioni di felicità e di esultanza avrebbe dato luogo.

La regione era bella, disseminata di casette di campagna e frutteti, e la strada attraversava vasti pascoli, le cui distese – caratterizzate da dolci pendii e da vallette – evocavano le creste e gli avvallamenti delle onde del mare. Nel pomeriggio, il figliol prodigo di ritorno continuò a deviare dal loro cammino allo scopo di accertare se, portandosi sulla cima di questa e di quella collina, sarebbe riuscito a vincere la lontananza e a intravedere casa sua. Infine, uno dei tentativi ebbe successo, ed egli gridò, eccitato: «Laggiù c’è il villaggio, mio principe, ed ecco, non lontana, Hendon Hall! Si possono vedere le torri, da qui... e quel bosco laggiù è il parco di mio padre. Ah, ora potrai constatare quanto sia grandioso! Una dimora con settanta stanze, pensa un po’!, e con ventisette servi! Una dimora che si confà a due personaggi come noi, non ti sembra? Vieni, affrettiamoci; la mia impazienza non tollera ulteriori indugi».

Proseguirono il più rapidamente possibile, ma erano ormai le tre passate quando giunsero nel villaggio. I due viaggiatori lo attraversarono in fretta e Hendon non smise per un solo momento di parlare: «Ecco la chiesa, sempre rivestita d’edera come un tempo, senza una sola foglia in più o in meno... Quella laggiù è la locanda, la vecchia locanda Al Leone Rosso, e più avanti c’è la piazza del mercato... Ecco l’Albero di Maggio, ed ecco la pompa; non è cambiato niente... niente tranne le persone, in ogni modo; dieci anni possono cambiare la gente; alcuni di questi passanti mi sembra di riconoscerli, ma nessuno di loro riconosce me». In questo modo egli continuava a ciarlare e a ciarlare. Ben presto giunsero al termine del villaggio e si incamminarono lungo una strada tortuosa e stretta, delimitata da muri e da alte siepi, percorrendola di buon passo per un ottocento metri, quindi entrarono in un vasto e fiorito giardino, al di là di un cancello imponente sui cui enormi pilastri di pietra figuravano stemmi scolpiti. Dinanzi a loro apparve una nobile dimora.

«Benvenuto a Hendon Hall, mio re!» esclamò Miles. «Ah, questo è un grande giorno! Mio padre e mio fratello e Lady Edith impazziranno a tal punto di gioia da avere occhi e parole soltanto per me nei primi trasporti affettivi dell’incontro; ma non ci badare; subito dopo tutto cambierà, poiché, non appena avrò detto loro che sei il mio pupillo e spiegato quanto bene ti voglio, li vedrai stringerti al petto per amore di Miles Hendon e fare tuoi per sempre i loro cuori e questa dimora!»

Un momento dopo, Hendon balzò a terra e, giù dal mulo davanti alla grande porta, aiutò il re a scendere, poi lo prese per mano e corse dentro. Pochi passi lo portarono in una sala spaziosa; lì egli fece accomodare il sovrano, più frettolosamente che cerimoniosamente, quindi si precipitò verso un giovane che sedeva a uno scrittoio, di fronte a un generoso fuoco di ceppi.

«Abbracciami, Hugh» gridò «e di’ che sei lieto del mio ritorno! E chiama inoltre nostro padre, poiché questa non sarà casa mia finché non avrò toccato la mano di lui e riveduto il suo volto e riudito la sua voce!»

Ma Hugh, dopo aver tradito un momentaneo stupore, si limitò a fare un passo indietro e a fissare, serio, l’intruso... con uno sguardo che a tutta prima parve esprimere, in qualche modo, dignità offesa, ma poi cambiò, come assecondando una qualche riflessione intima, o un qualche scopo segreto, cedendo il posto a un’espressione di meravigliata curiosità commista a una sincera, o simulata, compassione. Di lì a poco egli disse, in tono blando: «La tua mente sembra essere alterata, povero straniero; senza dubbio tu hai sofferto privazioni e duri colpi dalla vita; lo dicono il tuo aspetto e l’abito che indossi. Per chi mi hai scambiato?».

«Per chi ti ho scambiato? Per chi altro, di grazia, se non per quello che sei? Per Hugh Hendon» disse Miles, in tono aspro.

L’altro continuò nello stesso tono di voce blando: «E chi mai immagini di essere?».

«L’immaginazione non c’entra affatto! Sostieni forse di non riconoscere in me tuo fratello Miles Hendon?»

Un’espressione di lieto stupore passò fuggevolmente sul volto di Hugh, ed egli esclamò: «Cosa? Non stai scherzando, per caso? Possono mai, i morti, tornare in vita? Dio sia lodato se è così! Il nostro povero ragazzo perduto riportato tra le nostre braccia dopo tanti anni crudeli! Ah, sembra troppo bello per essere vero, è troppo bello per essere vero! Te ne prego, abbi compassione, non scherzare con me! Presto... vieni qui alla luce, lascia che ti veda bene!».

Afferrò Miles per un braccio, lo trascinò accanto alla finestra e prese a divorarlo con gli occhi da capo a piedi, facendolo voltare di qua e li là e girandogli attorno rapidamente per osservarlo da tutti i punti di vista, mentre il figliol prodigo tornato a casa, illuminato in viso dalla letizia, sorrideva, rideva e continuava a far di sì con la testa, dicendo: «Continua, fratello, continua, e non temere; non troverai membra né fattezze che non possano superare la prova. Scrutami e osservami finché vorrai, mio buon vecchio Hugh. Sono davvero il tuo vecchio Miles, sempre lo stesso vecchio Miles, il tuo perduto fratello, non è forse così? Ah, questo è un grande giorno... lo avevo detto che era un grande giorno! Dammi la mano, offrimi la gota; Dio, potrei morire di felicità!».

Stava per gettarsi tra le braccia del fratello, ma Hugh portò avanti una mano per dissuaderlo, poi abbassò luttuosamente il mento contro il petto, dicendo commosso: «Ah, Dio misericordioso, dammi la forza di sopportare questa amara delusione!».

Miles, allibito, non riuscì a parlare per un momento; poi ritrovò la favella e gridò: «Quale delusione? Non sono forse tuo fratello?».

Hugh scosse malinconicamente la testa e disse: «Prego il Cielo che così possa essere e che altri occhi riescano a scorgere le somiglianze nascoste ai miei. Ahimè, temo che la lettera dicesse anche troppo il vero!».

«Quale lettera?»

«Una lettera pervenutaci di là dal mare sei o sette anni or sono. Diceva che mio fratello era morto in battaglia.»

«Era una menzogna! Chiama tuo padre, egli mi riconoscerà.

«Non si possono chiamare i morti.»

«I morti?» la voce di Miles suonò spenta e gli tremarono le labbra. «Mio padre morto? Oh, questa è una notizia ferale! Metà della mia gioia si spegne. Di grazia, consentimi di vedere mio fratello Arthur; egli mi riconoscerà. Mi riconoscerà e mi consolerà.»

«Anche Arthur è morto.»

«Dio sia misericordioso con me, colpito dal dolore come sono! Morti, entrambi morti! I degni rapiti a questo mondo e gli indegni risparmiati, in me! Ah! Anelo alla tua pietà! Non dirmi che Lady Edith...»

«... è morta? No, ella vive.»

«Allora, Dio sia lodato, la felicità torna nel mio cuore! Affrettati, fratello, conducila qui da me. E se anche lei dirà che io non sono me stesso... ma non lo dirà; no, no, Edith mi riconoscerà; sono uno stolto anche soltanto dubitandone. Conducila qui, conduci qui i vecchi servi, mi riconosceranno tutti.»

«Sono tutti deceduti tranne cinque... Peter, Halsey, David, Bernard e Margaret.»

Così dicendo, Hugh uscì dalla sala. Miles cogitò per qualche momento, poi iniziò un andirivieni, mormorando: «I cinque arciscellerati sono sopravvissuti ai ventidue leali e onesti... è davvero strano».

Continuò ad andare avanti e indietro, borbottando tra sé e sé; aveva completamente dimenticato il re. Di lì a poco, Sua Maestà disse, in tono grave, e con una nota di sincera compassione, anche se le parole di lui sarebbero potute sembrare ironiche: «Non prendertela per la tua disgrazia, buon uomo; vi sono altri, a questo mondo, la cui identità viene negata e i cui diritti vengono derisi. Hai compagnia».

«Ah, mio Re,» gridò Hendon, arrossendo lievemente «non condannarmi; aspetta e vedrai. Non sono un impostore; lei lo dirà; udirai la verità dalle più soavi labbra d’Inghilterra. Io un impostore? Figurarsi, conosco questa antica sala, questi ritratti dei miei antenati e ogni altra cosa che ci circonda così come un bambino conosce la sua stanza dei giochi. Qui io sono nato e cresciuto, mio signore. Dico il vero; non ti ingannerei mai. E, anche se nessun altro dovesse credermi, ti imploro di non dubitare delle mie parole; non potrei sopportarlo.»

«Io non dubito di te» disse il re, con una semplicità e una fiducia fanciullesche.

«Ti ringrazio con tutto il cuore!» esclamò Hendon, con uno slancio che dimostrò quanto era commosso. Il re soggiunse, con la stessa dolce semplicità: «E tu dubiti di me?».

Una colpevole confusione si impadronì di Hendon, che fu lieto vedendo la porta aprirsi proprio in quel momento e Hugh entrare, la qual cosa gli evitò la necessità di rispondere.

Una bellissima dama, riccamente vestita, seguiva Hugh, e dopo di lei venivano numerosi servi in livrea. La dama si fece avanti adagio, a capo chino, gli occhi fissi sul pavimento. Aveva un viso indicibilmente triste. Miles Hendon balzò avanti, gridando: «Oh, mia Edith, mio tesoro...».

Ma Hugh lo invitò a fermarsi gravemente, con un gesto, e disse alla dama: «Guardalo. Lo conosci?».

Al suono della voce di Miles la donna aveva avuto un lieve trasalimento e le gote le si erano soffuse di rossore; ora ella stava tremando. Rimase stranamente immobile per parecchi momenti, poi, adagio, alzò il capo e fissò Hendon negli occhi con uno sguardo atterrito; il sangue le defluì dal volto, goccia a goccia, finché non vi rimase altro che il cinereo pallore della morte; infine ella disse, con una voce spenta quanto il viso: «Non lo conosco!» e si voltò, con un gemito e un singhiozzo, e uscì a passi malfermi dalla sala.

Miles Hendon si lasciò cadere su una sedia e si coprì la faccia con le mani. Dopo un silenzio, suo fratello disse, rivolto ai servi: «Ora lo avete osservato. Lo conoscete?».

Scossero tutti la testa; poi il padrone disse: «I servi non ti riconoscono, signore. Temo che tu ti sbagli. Hai constatato che anche mia moglie non ti ha riconosciuto».

«Tua moglie!» in un lampo Hugh venne a trovarsi inchiodato contro la parete da una presa ferrea intorno alla gola. «Oh tu, schiavo dal cuore di una volpe, ora capisco tutto! Scrivesti tu stesso la lettera menzognera, e la moglie e i beni che mi hai rubato ne sono il frutto. Va’, togliti di davanti a me, che non debba disonorare i miei gloriosi trascorsi di soldato uccidendo un così miserabile omuncolo!»

Hugh, paonazzo in faccia e quasi soffocato, barcollò fino alla sedia più vicina e ordinò ai servi di impadronirsi dello straniero assassino e di legarlo. Essi esitarono e uno di loro disse: «È armato, Sir Hugh, mentre noi siamo inermi».

«Armato? E con questo, poiché siete in molti? Prendetelo, vi dico!»

Ma Miles li ammonì, invitandoli a stare attenti a quel che avrebbero fatto, e soggiunse: «Mi conoscete da un pezzo... né sono cambiato; fatevi sotto, dunque, se così vi piace».

Questo memento non incoraggiò molto i servi, che rimasero dov’erano.

«Allora andate, vili codardi, ad armarvi e sorvegliate le porte mentre uno di voi andrà a chiamare le guardie» disse Hugh. Si voltò quindi sulla soglia e soggiunse, rivolto a Miles: «Constaterai che sarà vantaggioso per te non tentare la fuga».

«La fuga? Puoi fare a meno di affliggerti, se è questo a turbarti. Infatti Miles Hendon è padrone di Hendon Hall e di tutto ciò che vi si trova. Rimarrà, non dubitarne.»


26


Disconosciuto

Il re rifletté per qualche momento, poi disse: «Questo è strano, stranissimo. Non riesco a spiegarlo».

«No, non è strano, mio signore. Io lo conosco bene e il suo comportamento è soltanto naturale. È sempre stato un furfante, sin dalla nascita.»

«Oh, non parlavo di lui, Sir Miles.»

«Non parlavi di lui? Di che altro, allora? Che cos’è a essere strano?»

«Che nessuno si sia accorto dell’assenza del re.»

«Come? Quale re? Temo di non capire.»

«Davvero? Non ti sembra quanto mai strano il fatto che il paese non sia percorso ovunque da corrieri e che non si leggano proclami descrivendo la mia persona e cercandomi? Non è forse causa di agitazione e di sgomento il fatto che il capo dello Stato non si trovi, che io sia scomparso e irreperibile?»

«Verissimo, mio Re, avevo dimenticato.» Poi Hendon sospirò e mormorò tra sé e sé: “Povera mente malata... è ancora alle prese con il suo patetico sogno”.

«Tuttavia ho un piano che salverà le sorti di entrambi. Scriverò un documento in tre lingue – latino, greco e inglese – e tu ti affretterai a portarlo a Londra domattina. Non lo consegnerai a nessuno tranne che a mio zio Lord Hertford; non appena lo avrà letto, saprà e dirà chi lo ha scritto. Dopodiché mi manderà a prendere.»

«Non potrebbe essere preferibile, mio Principe, aspettare qui finché io non avrò dimostrato chi sono, assicurandomi i diritti su ciò che mi appartiene? Potrei essere, allora, maggiormente in grado di...»

Il re lo interruppe imperiosamente: «Taci! Che cosa sono mai i tuoi miseri domini, i tuoi insignificanti interessi, in confronto a questioni che concernono il benessere di un’intera nazione e la sicurezza di un trono?». Poi soggiunse, in tono più dolce, quasi fosse pentito della propria severità: «Ubbidisci e non temere. Io riparerò ai torti che ti sono stati fatti. Riavrai ciò che ti appartiene... e più di ciò che è tuo. Ricorderò e farò restituire».

Così dicendo, prese la penna e si mise all’opera. Hendon lo contemplò affettuosamente per qualche tempo, poi disse a se stesso: “Se regnasse l’oscurità, penserei che è stato un vero re a parlare; non si può negarlo; quando vuole, tuona e fulmina come un monarca autentico. Dove può mai avere imparato tutto questo? Ecco che ora scribacchia soddisfatto i suoi scarabocchi privi di senso, fantasticando che si tratti di latino e greco. E se l’astuzia non mi suggerirà un efficace espediente per dissuaderlo dalle sue intenzioni, sarò costretto a fingere di partire, domani, per il pazzesco incarico che mi ha affidato”.

Un momento dopo, i pensieri di Sir Miles erano tornati al più recente episodio. Egli si calò a tal punto nelle sue riflessioni che quando, di lì a non molto, il re gli porse il documento appena scritto, lui lo prese e se lo mise in tasca senza rendersene conto: «In quale modo straordinariamente bizzarro ha agito Lady Edith» mormorò. «Penso che mi abbia riconosciuto, e al contempo penso che non mi abbia riconosciuto. Queste due impressioni contrastano l’una con l’altra, me ne rendo ben conto; non posso conciliarle e neppure mi è possibile, mediante il ragionamento, scartare l’una o l’altra delle due, o convincere me stesso che l’una prevale sull’altra. Le cose stanno semplicemente in questo modo: ella deve aver riconosciuto il mio volto, l’aspetto della mia persona, la mia voce, poiché come potrebbe essere altrimenti? Eppure ha detto di non conoscermi, e questa è una prova certa, in quanto non sa mentire. Ma un momento... credo di cominciare a vederci chiaro. Probabilmente egli l’ha influenzata... le ha imposto la sua volontà... l’ha costretta a mentire! Questa è la soluzione! L’enigma è stato svelato. Lady Edith sembrava morta di paura; sì, agiva perché costretta. La cercherò; la troverò. Ora che egli non è presente, dirà che cosa pensa in realtà. Ricorderà i bei tempi nei quali giocavamo insieme, e questo le intenerirà il cuore e non potrà più tradirmi, ma confesserà. Nelle sue vene non corre il sangue di una traditrice; no, è sempre stata schietta e sincera. Un tempo mi amava, e questa è la mia salvezza, poiché non si può tradire chi si è amato.»

Si diresse con decisione verso la porta; e, in quel momento, la porta si aprì e Lady Edith entrò. Era pallidissima, ma camminava con un passo fermo e il suo portamento era colmo di grazia e di dolce dignità. Il suo viso sembrava triste come prima.

Miles le corse incontro con lieta fiducia, ma lei lo fermò con un gesto appena percettibile ed egli si fermò ove si trovava. Lady Edith sedette e lo invitò a fare altrettanto. Così, molto semplicemente, lo privò della sensazione del cameratismo di un tempo tramutandolo in un estraneo e in un ospite. Lo stupore causatogli da quel comportamento, inaspettato e sconcertante, lo indusse a domandarsi, per un attimo, se davvero fosse colui che sosteneva di essere, tutto sommato.

Lady Edith disse: «Signore, sono venuta a metterti in guardia. I pazzi non possono forse essere sottratti alle loro illusioni con la persuasione; ma, senza dubbio, si può persuaderli a evitare i pericoli. Io credo che questo tuo sogno abbia assunto per te l’apparenza della sincera verità, e pertanto che non sia criminoso; ma non trattenerti qui con esso, poiché sarebbe pericoloso». Per un momento fissò senza batter ciglio il volto di Miles, poi soggiunse, con solennità: «È tanto più pericoloso in quanto tu sei molto simile a quello che sarebbe diventato il nostro ragazzo se fosse vissuto».

«Santo cielo, signora, ma io sono quel ragazzo!»

«Sono convinta che tu lo pensi, signore. Non pongo in dubbio la tua sincerità, mi limito a metterti in guardia, ecco tutto. Mio marito è il capo, in questa regione; il suo potere non ha quasi limiti. La gente prospera o muore di fame come egli vuole. Se tu non somigliassi all’uomo che sostieni di essere, mio marito potrebbe assecondarti e lasciarti in pace con il tuo sogno; ma credimi, io lo conosco bene, e so che cosa farà; dirà a tutti che tu sei un pazzo e un impostore, e subito tutti faranno eco alle sue parole.» Rivolse a Miles lo stesso sguardo fermo di prima e soggiunse: «Se anche tu fossi davvero Miles Hendon, e lui lo sapesse, e l’intera regione lo sapesse – ascolta bene quanto ti sto dicendo, medita a fondo le mie parole – correresti lo stesso pericolo e il tuo castigo non sarebbe meno certo; egli ti smentirebbe e ti denuncerebbe, e nessuno sarebbe tanto audace per sostenerti».

«Lo credo senz’altro» disse Miles, amareggiato. «Il potere che riesce a farsi ubbidire dall’amica di tutta una vita, e a imporle di tradire e disconoscere, sarà senz’altro ubbidito da altri per i quali sono in gioco il pane e la vita stessa e che, per giunta, non hanno legami di lealtà e di onore.»

Un lieve rossore apparve per un momento sulle gote della dama, ed ella abbassò gli occhi; ma la sua voce rimase fredda quando riprese a parlare: «Ti ho avvertito, e una volta ancora devo invitarti ad andartene subito. Altrimenti egli ti distruggerà. È un tiranno che non conosce la comprensione. Io, che sono la sua schiava, lo so bene. Il povero Miles, e Arthur, e il mio caro tutore, Sir Richard, non lo temono più e riposano in pace; meglio sarebbe se tu ti trovassi con loro, invece di restare qui, tra le sgrinfie di quel miscredente. Le tue pretese minacciano il titolo e i possedimenti di lui; tu lo aggredisci nella sua stessa casa e sarai rovinato se resterai. Vattene... non esitare. Se non hai denaro, accetta questa borsa, te ne supplico, e corrompi i servi affinché ti lascino passare. Oh, ascoltami, povera anima, e fuggi finché puoi».

Miles rifiutò la borsa con un gesto, si alzò e rimase in piedi di fronte a lei.

«Concedimi una grazia» disse. «Fissami negli occhi in modo ch’io possa vedere se il tuo sguardo è fermo. E ora rispondimi: sono io Miles Hendon?»

«No, non ti conosco.»

«Giuralo.»

La risposta fu sommessa, ma chiara: «Lo giuro».

«Oh ma questo va al di là del credibile!»

«Fuggi! Perché vuoi perdere tempo prezioso? Fuggi e salvati.»

In quel momento i rappresentanti della legge irruppero nella sala, ed ebbe inizio una violenta lotta; ma Hendon venne ben presto sopraffatto e trascinato via. Anche il re venne arrestato, ed entrambi, legati, furono portati in prigione.


27


In prigione

Le celle erano tutte gremite, per cui i due amici vennero incatenati in una vasta stanza che ospitava di norma individui accusati di reati di minor conto. Avevano compagnia, poiché si trovavano lì almeno venti detenuti, ammanettati e con i ceppi alle caviglie, di entrambi i sessi e di svariate età... un gruppo osceno e chiassoso. Il re si infuriò, amareggiato a causa dell’enorme indegnità subita dalla sua persona, ma Hendon era immalinconito e taciturno. Si sentiva in preda a uno sconfinato smarrimento. Era tornato a casa come un figliol prodigo, traboccante di giubilo, aspettandosi di vedere tutti impazzire di gioia a causa del suo arrivo, e invece si era trovato di fronte a una gelida ripulsa, finendo in carcere. Le aspettative e i risultati differivano in misura così sconfinata che l’effetto era stato di completo stordimento; egli non riusciva a stabilire se la situazione fosse tragica o grottesca. Si sentiva come un uomo che, uscito beatamente all’aperto per godersi l’arcobaleno, fosse stato colpito dal fulmine.

Ma, a poco a poco, i suoi pensieri confusi e tormentosi riuscirono a disporsi in una sorta di ordine, e si accentrarono in ultimo su Edith. Egli ne esaminò sotto ogni aspetto il comportamento, ma non poté approdare ad alcunché di soddisfacente. Lo aveva riconosciuto? O non lo aveva riconosciuto? Si trattava di un enigma tale da lasciare perplessi e lo tenne impegnato a lungo; ma, in ultimo, pervenne alla conclusione che Edith lo avesse riconosciuto e si fosse decisa a ripudiarlo per motivi di interesse. Avrebbe voluto, a questo punto, coprirla di maledizioni, ma il nome di lei gli era stato per tanto tempo così sacro che constatò di non poter indurre la propria lingua a profanarlo.

Avvolti nelle sudicie e lacere coperte della prigione, Hendon e il re trascorsero una notte agitata. Contro un compenso, il carceriere aveva fornito liquore ad alcuni dei detenuti; la logica conseguenza fu che intonarono canzoni ribalde, si picchiarono, urlarono e fecero baldoria. Infine, poco dopo mezzanotte, un uomo aggredì una donna e quasi la uccise vibrandole colpi alla testa con le manette prima che il carceriere potesse intervenire e soccorrerla. Il carceriere riportò l’ordine manganellando energicamente l’energumeno sul capo e sulle spalle; la baldoria cessò, allora, e in seguito chiunque non si curasse dei gemiti e dei grugniti dei due feriti riuscì a dormire.

Nel corso della settimana che seguì, i giorni furono tutti di una monotona uniformità per quanto concerneva gli eventi; uomini la cui faccia Hendon ricordava più o meno distintamente venivano durante il giorno a contemplare l’“impostore”, a ripudiarlo e a insultarlo; e, durante la notte, i bagordi e le risse continuavano con simmetrica regolarità.

Tuttavia accadde infine qualcosa di diverso. Il carceriere fece entrare un vecchio e gli disse: «Il delinquente si trova qui; guardati attorno e vedi se riesci a dire qual è». Hendon alzò gli occhi e, per la prima volta da quando si trovava in carcere, provò una sensazione piacevole. Disse a se stesso: “Costui è Blake Andrews e ha servito per tutta la vita nella famiglia di mio padre... È un onest’uomo e nel petto gli batte un cuore leale. O almeno così era un tempo. Ma ormai non uno di loro è sincero. Mentono tutti. Egli mi riconoscerà... ma negherà anche lui di riconoscermi, come tutti gli altri”.

Il vecchio si guardò attorno nello stanzone, scrutò le varie facce, una dopo l’altra, e infine disse: «Non vedo altro che furfanti, qui. La feccia delle strade. Quale sarebbe?».

Il carceriere rise.

«Qui,» disse «guarda ben bene questo grosso bestione e dimmi che cosa ne pensi.»

Il vecchio si avvicinò e fissò Hendon a lungo e attentamente, poi scosse la testa e disse: «Nespole, costui non è Hendon... né lo è mai stato!».

«Giusto! I tuoi vecchi occhi ci vedono ancora bene. E se io fossi Sir Hugh prenderei questo miserabile bifolco e...»

Il carceriere concluse sollevandosi in punta di piedi, appeso a un immaginario capestro, emettendo al contempo, dal profondo della gola, suoni gorgoglianti, come uno che stia soffocando. Il vecchio disse, in tono vendicativo: «Può ringraziare Dio se non gli toccherà di peggio. Dovessi decidere io la sorte di questo farabutto, morirebbe arrostito, o non sarei più un vero uomo!».

Il carceriere scoppiò in una piacevole risata da iena e disse: «Cantagli chiaro quello che pensi di lui, vecchio; lo fanno tutti. Constaterai che è una spassosa distrazione».

Poi si diresse verso la porta e uscì. Il vecchio cadde in ginocchio e bisbigliò: «Dio sia ringraziato per il tuo ritorno, padrone! Ti ho creduto morto per tutti questi sette anni, e invece, eccoti qui, vivo e vegeto! Ti ho riconosciuto non appena ho posto gli occhi su di te e mi è stato assai difficile fingermi indifferente come se non avessi veduto altro, qui dentro, che furfanti da quattro soldi e immondizia delle strade. Io sono vecchio e povero, Sir Miles; ma non hai che da dirmi una parola e andrò a proclamare la verità con tutti, anche a costo di essere strozzato».

«No,» disse Hendon «non lo farai. Rovineresti te stesso, giovando ben poco alla mia causa. Ma ti ringrazio, poiché mi hai restituito in parte la perduta fiducia nei miei simili.»

L’anziano servo divenne prezioso per Hendon e per il re, poiché venne parecchie volte al giorno a “insultare” l’ex padrone e sempre portò di nascosto ghiottonerie per migliorare il vitto della prigione; inoltre tenne informati i due sulle ultime notizie. Hendon lasciava le buone cibarie al re; senza di esse Sua Maestà non sarebbe forse sopravvissuto, poiché non riusciva a mangiare lo schifoso rancio distribuito dal carceriere. Andrews era costretto a limitarsi a brevi visite per non destare sospetti, ma riusciva ogni volta a comunicare svariate informazioni... snocciolandole a voce bassa, a beneficio di Hendon, e inframezzandole con epiteti offensivi pronunciati in tono più alto, a beneficio di altri che potessero ascoltare.

Così, a poco a poco, narrò la storia della famiglia. Arthur era morto da sei anni. Questo lutto, oltre alla mancanza di ogni notizia da parte di Hendon, aveva minato la salute del padre; rendendosi conto che stava per morire, egli voleva vedere Hugh e Edith sposati prima di rendere l’anima a Dio; ma Edith seguitava a supplicare di aspettare, sperando nel ritorno di Miles; poi era pervenuta la lettera con la notizia della morte di Hendon, e il colpo aveva prostrato Sir Richard; ritenendo ormai imminente la propria fine, egli aveva insistito insieme a Hugh affinché il matrimonio venisse celebrato subito; a furia di suppliche, Edith era riuscita a ottenere un mese di respiro, poi un secondo e un terzo mese; ma, in ultimo, la cerimonia nuziale aveva avuto luogo accanto al letto di morte di Sir Richard. Il matrimonio non era risultato felice. Si bisbigliava, nella regione circostante, che poco dopo le nozze, la sposa avesse trovato, tra i documenti del marito, numerose prime stesure incomplete della lettera fatale, accusandolo poi di avere affrettato il matrimonio, nonché la morte di Sir Richard, mediante quel vile falso. Episodi di crudeltà nei confronti di Lady Edith e dei servi correvano sulla bocca di tutti; e, dopo la morte del padre, Sir Hugh aveva rinunciato a ogni finzione di dolcezza, divenendo un padrone spietato nei confronti di tutti coloro che, in qualche modo, dipendevano, per il pane quotidiano, da lui e dai suoi possedimenti.

Uno dei pettegolezzi di Andrews venne ascoltato dal re con vivo interesse: «Corre voce che il Re sia pazzo. Ma, in nome di Dio, evitate di riferire che sono stato io a dirlo, poiché sembra che parlarne significhi la morte».

Sua Maestà fissò irosamente il vecchio e disse: «Il re non è pazzo, buon uomo, e constaterai come ti convenga occuparti di cose che ti riguardano, anziché di questi pettegolezzi sediziosi!».

«Che cosa vuol dire il ragazzo?» domandò Andrews, sorpreso da quella brusca e inattesa aggressività. Hendon gli fece un cenno ammonitore e lui non insistette e continuò a riferire altre notizie: «Il defunto Re sarà seppellito a Windsor tra un giorno o due... il sedici del mese... e il nuovo Re verrà incoronato a Westminster il giorno venti».

«Secondo me devono anzitutto trovarlo» borbottò Sua Maestà. Poi soggiunse, fiducioso: «Ma provvederanno a questo... e ci penserò anch’io».

«In nome di...»

Ma il vecchio non aggiunse altro; un nuovo cenno ammonitore di Hendon lo fece tacere. Egli ricominciò allora con i pettegolezzi: «Sir Hugh si reca alla cerimonia dell’incoronazione, e con grandi speranze. Conta fiduciosamente di tornare pari d’Inghilterra, poiché è assai ben considerato dal Lord Protettore».

«Quale Lord Protettore?» domandò Sua Maestà.

«Sua grazia il Duca di Somerset.»

«Quale Duca di Somerset?»

«Nespole, ve n’è uno solo... Seymour, Conte di Hertford.»

Il re domandò, in tono aspro: «Da quando in qua egli è duca e Lord Protettore?».

«Dall’ultimo giorno di gennaio.»

«E, di grazia, chi lo ha creato tale?»

«Lui stesso e il Gran Consiglio, con l’approvazione del Re».

Sua Maestà trasalì violentemente: «Il Re!» gridò. «Quale re, buon signore?»

«Quale re, ma guarda!» “Dio misericordioso, da quale male è afflitto questo ragazzo?” «Poiché ne abbiamo uno solo, non è difficile rispondere... Sua Sacra Maestà il Re Edoardo Sesto, che Dio ce lo conservi! Sì, ed è per giunta un caro e grazioso ragazzo; e, sia o meno malato di mente – ma dicono che migliora ogni giorno – le lodi di lui sono sulle labbra di tutti; e tutti lo benedicono e offrono preghiere al Signore affinché sia risparmiato e possa regnare a lungo in Inghilterra, in quanto ha umanamente iniziato il proprio regno salvando la vita dell’anziano Duca di Norfolk, e ora è deciso a eliminare le leggi più crudeli che perseguitano e opprimono il popolo.»

Queste notizie ammutolirono per lo stupore Sua Maestà e lo calarono in una meditazione così profonda e dolente che egli non udì i pettegolezzi del vecchio. Si domando se il “grazioso ragazzo” fosse il piccolo mendicante che aveva lasciato nel palazzo vestito con i suoi panni. Non sembrava possibile che così potesse essere, poiché i modi e la maniera di esprimersi lo avrebbero tradito se avesse sostenuto di essere il Principe di Galles; in tal caso sarebbe stato scacciato e avrebbero avuto inizio le ricerche del vero principe. Poteva mai essere che la corte avesse messo al suo posto qualche nobile rampollo? No, poiché suo zio non lo avrebbe consentito; era potentissimo e si sarebbe affrettato a impedire una simile iniziativa, naturalmente. Le cogitazioni del ragazzo non approdarono a niente; quanto più egli si sforzava di districare la matassa di quel mistero, tanto più diveniva perplesso, tanto più gli doleva la testa e tanto peggio riusciva a dormire. L’impazienza di recarsi a Londra cresceva di ora in ora, e la prigionia diveniva per lui intollerabile.

Tutte le arti di Hendon fallirono con il re... egli non riuscì a consolarlo; ma due donne incatenate accanto al ragazzo si dimostrarono più abili. Grazie alla loro dolcezza e gentilezza, Edoardo ritrovò la serenità e imparò a sopportare con una certa dose di pazienza. Era molto grato a entrambe e finì con l’amarle teneramente e con il deliziarsi del soave e consolante effetto della loro presenza. Domandò perché si trovassero in prigione, e quando le due donne dissero di essere battiste sorrise e pose un’altra domanda: «È forse questa una colpa così grave da giustificare la condanna alla prigionia? Ora mi affliggo perché vi perderò... senza dubbio non vi tratterranno qui a lungo, per una così piccola cosa!».

Non gli risposero e un qualcosa, sui loro volti, lo fece sentire a disagio. Ansiosamente, disse: «Non parlate? Siate buone e ditemi... non vi sarà per caso qualche altro castigo? Ditemi, vi prego, che questo non è da temere».

Le donne cercarono di cambiare discorso, ma i suoi timori erano stati destati, ormai, ed egli insistette: «Vi fustigheranno, per caso? No, non sarebbero così crudeli! Ditemi che non lo sarebbero. Suvvia, non faranno una cosa simile, non è vero?».

Entrambe le donne tradirono confusione e sgomento, ma era impossibile evitar di rispondere e una delle due disse, con la voce soffocata della commozione: «Oh, tu finirai per spezzarci il cuore, dolce creatura! Dio ci aiuti a sopportare il nostro...».

«Allora confessi!» la interruppe il re. «Dunque vi fustigheranno, i miserabili dal cuore di pietra! Ma, oh, non devi piangere, non lo sopporto. Fatti coraggio. Tornerò a essere quello che sono in tempo per salvarvi da questa amara sorte, e lo farò!»

Quando il re si destò, la mattina dopo, le due donne erano scomparse.

«Sono salve!» egli esclamò, gioiosamente; poi soggiunse disperato: «Ma povero me, poiché erano le mie consolatrici!».

Entrambe gli avevano lasciato un pezzo di nastro, fermato mediante uno spillo, sulle vesti, in pegno del loro ricordo. Egli disse che avrebbe conservato per sempre quei nastri e che presto avrebbe cercato le due care e buone amiche per prenderle sotto la sua protezione.

Proprio in quel momento, il carceriere entrò con alcuni suoi subordinati e ordinò che i detenuti venissero condotti nel cortile della prigione. Il re era sopraffatto dalla gioia; sarebbe stato meraviglioso rivedere il cielo azzurro e respirare di nuovo l’aria pura. Si spazientì e si irritò a causa della lentezza dei carcerieri, ma finalmente giunse anche il suo turno e venne liberato dai ceppi, con l’ordine di seguire gli altri detenuti insieme a Hendon.

Il cortile – un quadrilatero – era pavimentato in pietra. I detenuti vi giunsero passando sotto una massiccia arcata e furono disposti in fila, le spalle contro il muro. Una corda venne tesa davanti a loro e inoltre i carcerieri rimasero lì per sorvegliarli. Era una mattinata gelida, con nuvole basse, e la neve leggera caduta durante la notte imbiancava il vasto spazio vuoto, accentuandone il lugubre aspetto. Di tanto in tanto il vento invernale infuriava con pungenti raffiche nel cortile, spostando qua e là la neve a mulinelli.

Al centro del cortile si trovavano due donne, incatenate a pali. Bastò un’occhiata, al re, per riconoscere le sue buone amiche. Il ragazzo rabbrividì e disse a se stesso: “Ahimè, non sono state liberate come avevo creduto. Pensare che creature come loro devono conoscere la frusta! In Inghilterra! Ahimè, è vergognoso che questo debba accadere non già tra i pagani, ma nell’Inghilterra cristiana! Saranno flagellate; e io, che esse hanno consolato e trattato con tanta bontà, devo stare a guardare e assistere a una così grande ingiustizia! È strano, è molto strano che io, la fonte stessa del potere in questo grande regno, mi trovi nell’impossibilità di proteggerle. Ma che questi miscredenti stiano in guardia! Verrà il giorno in cui esigerò da loro la resa dei conti per quel che hanno fatto. Ogni frustata che infliggeranno oggi ne costerà loro cento!”.

Un grande cancello venne aperto e una folla di cittadini si riversò nel cortile. Si pigiarono tutti intorno alle due donne, sottraendole alla vista del re. Un ecclesiastico entrò, passò tra la folla, e a sua volta non fu più visibile. Il re udì, a questo punto, uno scambio di frasi, come se venisse data risposta a una serie di domande, ma non riuscì a capire che cosa veniva detto. Seguì un gran trambusto di preparativi e vi furono numerosi andirivieni di funzionari tra la folla in attesa al lato opposto del luogo in cui si trovavano le donne; e, nel frattempo, un silenzio profondo calò a poco a poco sul cortile.

Poi, in seguito a un ordine, la folla si separò e indietreggiò, e il re assistette a uno spettacolo che lo raggelò fino al midollo delle ossa. Fascine erano state ammonticchiate intorno alle due donne e un uomo inginocchiato vi stava appiccando il fuoco!

Le condannate al rogo chinarono il capo e si coprirono la faccia con le mani; fiamme gialle cominciarono a guizzare verso l’alto tra le fascine che scoppiettavano e crepitavano e spirali di fumo azzurrognolo cominciarono a essere trascinate via, fluttuanti, dal vento; l’ecclesiastico levò le mani giunte e recitò una preghiera; proprio in quel momento, due fanciulle entrarono di corsa per il grande cancello lanciando urli penetranti e si gettarono sulle due donne tra le fiamme. All’istante le guardie le trascinarono via e una delle due venne immobilizzata in una salda stretta, ma l’altra riuscì a liberarsi dicendo che voleva morire con sua madre; prima che qualcuno fosse riuscito a fermarla, aveva di nuovo gettato le braccia al collo della donna. Una volta di più venne trascinata via, con la gonna già in fiamme. Due uomini la trattennero e la parte della gonna che bruciava fu strappata e lanciata ad ardere lontano, mentre la fanciulla continuava a dibattersi per sottrarsi alla stretta e diceva che ora sarebbe rimasta sola al mondo e supplicava affinché le si consentisse di morire con la madre. Entrambe le fanciulle urlavano ininterrottamente e continuavano a divincolarsi, ma all’improvviso questo tumulto venne soffocato da un susseguirsi di terribili grida di dolore, un dolore mortale. Il re distolse lo sguardo dalle donne tra le fiamme, poi si voltò, appoggiò il viso cinereo al muro e non guardò più. Disse: «Quel che ho veduto in questo breve momento non si cancellerà mai più dalla mia memoria; vi resterà per sempre e io rivedrò la scena ogni giorno e la sognerò ogni notte, fino alla morte. Volesse Iddio che fossi stato cieco!».

Hendon stava osservando il re. Non senza soddisfazione, disse a se stesso: “Il suo male sta guarendo; egli è cambiato e divenuto più tranquillo. Se fosse ancora come prima, si lancerebbe contro questi furfanti, dicendo di essere il re, e ordinando che le donne vengano liberate illese. Ben presto le sue illusioni si dilegueranno, verranno dimenticate e la sua povera mente tornerà a essere normale. Dio affretti tale momento!”.

Quello stesso giorno vennero portati nello stanzone numerosi altri detenuti che l’indomani sarebbero stati condotti, sotto scorta, in varie località del regno, a scontarvi la pena cui erano stati condannati a causa dei loro reati. Il re conversò con tutti costoro... sin dall’inizio si era puntigliosamente preparato a esercitare i suoi futuri poteri di sovrano, interrogando i detenuti ogni qual volta ne aveva la possibilità, e ora il racconto delle disgrazie di questi derelitti gli strinse il cuore. Tra essi si trovava una povera donna deficiente che aveva rubato a un tessitore uno o due metri di stoffa; doveva essere impiccata per questo. V’era poi un uomo accusato di aver rubato un cavallo; disse che, non essendo stata addotta alcuna prova, aveva creduto di essersi salvato dal capestro; e invece no, era stato appena rimesso in libertà che lo avevano arrestato per l’abbattimento di un cervo nel parco del re; questa colpa era stata provata e ora sarebbe salito sul patibolo. V’era l’apprendista di un mercante, il cui caso sgomentò particolarmente Edoardo; questo giovane disse di aver trovato, una sera, un falco sfuggito al suo proprietario, e di esserselo portato a casa, immaginando di averne il diritto; ma il tribunale lo aveva riconosciuto colpevole di furto, e condannato a morte.

Il re si infuriò a causa di queste crudeltà e volle che Hendon evadesse per fuggire con lui a Westminster, ove gli sarebbe stato possibile salire sul trono e, in virtù dei suoi poteri sovrani, graziare quegli sfortunati salvando loro la vita.

«Povero fanciullo» sospirò Miles «questi luttuosi racconti lo hanno fatto ricadere nella malattia; ahimè, se non fosse stato per una così deplorevole circostanza, sarebbe guarito in poco tempo.»

Tra i detenuti appena giunti si trovava un anziano avvocato: un uomo dal viso energico e dal carattere indomito. Tre anni prima aveva scritto un opuscolo contro il Lord Cancelliere, accusandolo di ingiustizia, ed era stato condannato per questo alla perdita degli orecchi sulla gogna, alla cancellazione dall’ordine della professione forense, e inoltre multato di tremila sterline, oltre alla pena dell’ergastolo. Di recente aveva commesso lo stesso reato e ora, per conseguenza, oltre a restare in prigione fino all’ultimo dei suoi giorni, avrebbe perduto quel che gli rimaneva degli orecchi, pagato una multa di cinquemila sterline e sarebbe stato marchiato a fuoco su entrambe le gote.

«Queste sono le cicatrici onorevoli» egli disse, spingendo indietro i capelli grigi e mostrando i mozziconi mutilati di quelli che erano stati un tempo gli orecchi.

Gli occhi del re ardevano di passione: «Nessuno crede in me» disse Edoardo «e non mi crederai nemmeno tu. Ma non importa. Entro un mese sarai libero; non solo, ma le leggi che hanno disonorato te e svergognato il nome inglese verranno cancellate dai codici. Il mondo è fatto male; i sovrani dovrebbero frequentare a volte la scuola delle loro stesse leggi, e imparare così a essere misericordiosi».


28


Il sacrificio

Nel frattempo, Miles cominciava a essere più stanco della prigionia e dell’inazione. Ma, a questo punto, iniziò il processo, con sua grande contentezza, in quanto riteneva che avrebbe gradito qualsiasi condanna, purché non si trattasse di un nuovo periodo di detenzione. Ma si sbagliava al riguardo. Andò infatti su tutte le furie, quando si sentì definire “un vagabondo pericoloso” e venne condannato a restare per due ore alla gogna a causa di ciò e inoltre per avere aggredito il proprietario di Hendon Hall. Le sue affermazioni di essere il fratello di colui che lo aveva denunciato e il legittimo erede del titolo e delle proprietà degli Hendon rimasero sprezzantemente inascoltate, quasi non meritassero neppure di essere prese in considerazione.

Egli si infuriò e minacciò, mentre lo conducevano a scontare la pena, ma tutto fu inutile; venne trascinato con modi rudi dalle guardie e subì persino qualche percossa per il suo comportamento irriverente.

Il re non riuscì ad aprirsi un varco tra la canaglia che lo seguiva e fu pertanto costretto ad andare dietro a tutti gli altri, lontano dal suo buon amico e servitore. Egli stesso, il re, era stato quasi condannato alla gogna per essersi trovato in una così cattiva compagnia, ma aveva finito poi per cavarsela con un predicozzo e un ammonimento, in considerazione della sua tenera età. Quando la folla si fermò, infine, Edoardo corse febbrilmente da un punto all’altro, lungo la cerchia esterna della ressa, cercando un varco nel quale insinuarsi, e infine, dopo molte difficoltà e molti indugi, vi riuscì. Là sedeva il suo povero scudiero, sulla degradante gogna, fatto oggetto dei lazzi e degli insulti di una sudicia plebaglia... lui, la guardia del corpo del Re d’Inghilterra! Edoardo aveva udito pronunciare la sentenza, ma si era reso conto soltanto assai vagamente di quel che significava. L’ira cominciò a dilagargli dentro, mentre capiva appieno a quale nuova indegnità fosse stato sottoposto; e, un momento dopo, la furia divenne travolgente quando egli vide un uovo volare in aria e spiaccicarsi contro la gota di Hendon e udì la folla urlare divertita godendosi la cosa. Balzò allora entro lo spazio circolare tenuto sgombro e affrontò l’ufficiale delle guardie, gridando: «Vergogna! Costui è il mio servitore. Liberatelo! Io sono...»

«Oh, taci!» esclamò Hendon, in preda al panico. «Distruggerai te stesso. Non ascoltarlo, ufficiale, è pazzo!»

«Non temere, non mi sogno neppure di ascoltarlo, buon uomo. Non mi curo affatto di lui; sono però senz’altro propenso a dargli una lezione.» Si rivolse a una delle guardie e soggiunse: «Fa assaggiare al piccolo idiota una o due frustate, affinché impari a comportarsi come si deve».

«Una mezza dozzina gli gioverà di più» fece osservare Sir Hugh, giunto a cavallo un momento prima per dare un’occhiata a quanto accadeva.

Il re venne afferrato. Non si dibatté neppure, tanto era paralizzato dalla mera idea dell’oltraggio mostruoso che ci si proponeva di infliggere alla sua sacra persona.

Nella storia esisteva già il vergognoso precedente di un re inglese sottoposto all’umiliazione delle frustate; e gli riusciva intollerabile il pensiero che sarebbe toccato a lui riscrivere una pagina così vergognosa. Non c’era scampo, aveva due sole alternative: o subire quell’onta, o supplicare affinché lo perdonassero. Un dilemma crudele. Ma si sarebbe lasciato frustare; un re poteva sopportare questo, non umiliarsi.

Nel frattempo, però, Miles Hendon si accingeva a toglierlo dalle peste: «Lasciatelo stare quel fanciullo, cani spietati» disse. «Non vedete quanto è giovane ed esile? Lasciatelo andare; prenderò io le frustate.»

«Perdiana, è una buona idea, e mi rallegra il cuore» esclamò Sir Hugh, mentre la faccia gli si illuminava di sardonica soddisfazione. «Liberate il piccolo accattone, e somministrate un dozzina di frustate a quest’uomo al posto suo... una dozzina di buone frustate, di quelle che staccano la pelle.» Il re stava per protestare fieramente, ma Sir Hugh lo tacitò con un formidabile espediente. «Sì, parla pure e di’ quello che pensi; ma bada, egli subirà sei frustate in più per ogni parola che pronuncerai.»

Hendon venne tolto dalla gogna e denudato dalla cintola in su; poi, mentre la frusta cominciava a piombargli sulla schiena, il povero, piccolo re si voltò dall’altra parte e lasciò che lacrime poco regali gli striassero le gote, senza tentare in alcun modo di trattenerle. “Ah, cuore buono e coraggioso!” pensò. “Questo tuo gesto leale non perirà mai nel mio ricordo. Non lo dimenticherò; e non lo dimenticheranno nemmeno loro!” soggiunse con passione. Mentre così rifletteva, apprezzò sempre e sempre più il comportamento magnanimo di Hendon, e sempre più grande divenne la sua gratitudine. Di lì a poco egli disse a se stesso: “Chi salva il principe dalle ferite e da una possibile morte – ed egli ha fatto anche questo per me – rende un grande servigio; eppure esso è poco – è niente, oh, meno di niente! – se lo si paragona al gesto di colui che salva il principe dalla vergogna!”.

Hendon non gridò mai mentre lo frustavano e sopportò i dolorosi colpi con una forza d’animo da soldato. Questo suo coraggio nonché il fatto che aveva salvato il ragazzo sostituendosi a lui gli meritarono il rispetto anche della misera e abietta plebaglia lì riunita, per cui i lazzi e gli scherni cessarono e non si udì altro suono all’infuori degli schiocchi delle frustate. Il silenzio che pervase la piazza, quando Hendon venne a trovarsi una volta di più alla berlina, contrastò nettamente con il clamore offensivo di poco tempo prima. Il re si avvicinò senza dare nell’occhio al fianco di Miles e gli bisbigliò all’orecchio: «Nemmeno i sovrani possono renderti nobile, o anima buona e grande, poiché colui che è più in alto dei re ha già fatto questo per te; ma un re può confermare la tua nobiltà agli occhi degli uomini». Raccattò la frusta che si trovava lì al suolo, gli sfiorò appena con essa le spalle insanguinate e bisbigliò: «Edoardo d’Inghilterra ti fa conte».

Hendon rimase commosso. Gli salirono le lacrime agli occhi, ma al contempo il tetro umorismo della situazione e delle circostanze minò a tal punto la gravità di lui che soltanto a stento egli riuscì a impedire all’ilarità interiore di tradirsi. Essere innalzato all’improvviso, nudo e sanguinante, dalla condizione di uomo comune alle altezze alpine e allo splendore del titolo di conte gli parve il non plus ultra in fatto di grottesco. Disse a se stesso: “Ora sono davvero coperto di orpelli. Il cavaliere fantasma del Regno dei Sogni e delle Ombre è divenuto un conte fantasma! Volo da capogiro, per ali spennate come le mie! Se le cose continueranno in questo modo, tra non molto sarò decorato come un Albero di Maggio, con fantastiche pavesature e onori fasulli. Ma apprezzerò ugualmente tutto ciò, per quanto privo di valore, in quanto mi viene dato con amore. Meglio queste mie povere e false dignità – date senza essere richieste, da una mano pura e da un animo nobile – di quelle vere, acquisite mediante il servilismo e concesse a malincuore da un potere interessato!”.

Il temuto Sir Hugh fece voltare il cavallo e, quando lo spronò per allontanarsi, il vivo muro della folla si aprì silenziosamente lasciandolo passare, e altrettanto silenziosamente si richiuse. Poi il silenzio continuò. Nessuno osò azzardarsi a fare un commento a favore del prigioniero, o a complimentarlo; ciò nonostante, l’assenza di insulti fu, di per sé, un omaggio sufficiente. Un ritardatario, che non sapeva nulla di quanto era avvenuto, diede dell’“impostore” a Hendon e si accingeva a scagliargli contro un gatto morto, ma venne subito gettato a terra e preso a calci, senza che nessuno aprisse bocca, dopodiché il profondo silenzio continuò.


29


A Londra

Una volta scontata la pena della gogna, Hendon venne liberato e ricevette l’ordine di allontanarsi da quella regione e di non tornarvi mai più. Lo spadone gli fu restituito insieme al mulo e al somaro. Egli salì in sella e si allontanò, seguito dal re, mentre la folla gli apriva un varco con silenzioso rispetto, lasciandolo passare, e si disperdeva poi, una volta perdutili di vista.

Hendon venne ben presto assorbito dai propri pensieri. V’erano interrogativi di grande importanza cui occorreva trovare una risposta. Che cosa avrebbe dovuto fare, adesso? Dove sarebbe dovuto andare? Bisognava che trovasse in qualche posto un potente aiuto, altrimenti avrebbe dovuto rinunciare all’eredità che gli spettava di diritto, e per giunta rassegnarsi a essere considerato da tutti un impostore. Ma dove poteva sperar di trovare l’alleato possente che gli occorreva? Dove, invero? Trattavasi di un problema di non facile soluzione. Di lì a non molto, gli venne in mente un’idea che additava, per lo meno, una possibilità... la più esile tra le esili possibilità, senza dubbio, ma valeva ugualmente la pena di prenderla in considerazione, in mancanza di altre vie d’uscita più promettenti. Ricordò quanto aveva detto il vecchio Andrews a proposito della bontà del giovane re e della generosa difesa, da parte sua, dei maltrattati e degli sfortunati. Perché non tentare di avvicinarlo, di parlargli e chiedergli giustizia? Ah, sì; ma era mai possibile che un uomo povero all’estremo come lui venisse introdotto all’augusta presenza di un monarca? In ogni modo, non importava. Meglio lasciare che questa difficoltà si risolvesse per proprio conto; si trattava di un ponte che egli poteva fare a meno di attraversare fino al momento in cui si sarebbe trovato dinanzi a esso. Aveva vissuto un tempo in campagna, ed era stato solito escogitare stratagemmi ed espedienti; senza alcun dubbio sarebbe riuscito a trovare una soluzione. Sì, si sarebbe recato nella capitale. Forse il vecchio amico di suo padre, Sir Humphrey Marlow, lo avrebbe aiutato: il buon Sir Humphrey, primo luogotenente delle cucine, o delle scuderie, o di qualcos’altro, del sovrano defunto. Miles non riusciva a ricordare che cosa fosse stato esattamente. Ora che aveva qualcosa verso cui dirigere le sue energie, e uno scopo ben preciso da raggiungere, la nebbia dell’umiliazione e dello sconforto calata su di lui si sollevò e si disperse, ed egli alzò la testa e si guardò attorno. Rimase stupito vedendo sin dove era arrivato; il villaggio si trovava ormai molto indietro alle sue spalle. Il re lo stava seguendo a capo chino, poiché a sua volta era immerso in riflessioni e progetti. A questo punto, un dubbio penoso venne a oscurare l’allegria appena ritrovata di Hendon: sarebbe stato disposto, il ragazzo, a tornare in una città ove, per tutta la sua breve esistenza, non aveva conosciuto altro che maltrattamenti e nera miseria? Ma la domanda doveva pure essergli posta; non si poteva evitarla; e pertanto Hendon tirò le redini e gridò: «Ho dimenticato di domandarti dove siamo diretti. Ordina, mio sovrano!».

«A Londra!»

Hendon spronò il mulo e ripartì, enormemente contento della risposta ma anche sbalordito.

L’intero viaggio venne compiuto senza avventure di qualche importanza. Ma ve ne fu una al suo termine. Verso le dieci di sera del diciannove febbraio, cominciarono ad attraversare il Ponte di Londra nel bel mezzo di una turbinosa e vorticosa massa di persone che lanciavano evviva e urrà, persone le cui facce rese allegre dalla birra si stagliavano nel bagliore di innumerevoli torce; e, proprio in quel momento, la testa putrefatta di qualche ex duca o altro personaggio piombò tra loro due, colpendo Hendon sul gomito e rimbalzando poi tra lo scalpicciare dei piedi frettolosi. Fino a tal punto sono evanescenti e instabili le opere degli uomini, a questo mondo! Il buon re defunto si trova nella tomba da tre settimane e tre giorni appena, e già gli ornamenti da lui scelti con tanta cura, tra i personaggi più in vista, per il suo nobile ponte stanno cadendo. Un cittadino inciampò contro quella testa e andò a finire con la propria sulla schiena di qualcuno che lo precedeva, il quale si voltò di scatto e stese a terra con un pugno il primo individuo a portata di mano, per essere a sua volta prontamente abbattuto dall’amico dell’individuo. Si trattava del momento più indicato per una rissa, in quanto i festeggiamenti dell’indomani – il Giorno dell’Incoronazione – stavano già cominciando, e tutti erano colmi di liquori forti e di patriottismo; cinque minuti dopo, la battaglia si era già estesa a una superficie notevolmente vasta; dopo dieci o dodici minuti poteva essere definita un vero e proprio tumulto. A questo punto Hendon e il re vennero separati, senza speranze, l’uno dall’altro e si perdettero nel caos delle ruggenti masse umane. Mentre invano si cercavano, ci congediamo da loro.


30


I progressi di Tom

Mentre il vero re si aggirava per il paese poveramente vestito, malamente nutrito, percosso e deriso dai vagabondi per qualche tempo, poi, per un altro periodo di tempo, rinchiuso in una prigione con ladri e assassini, e sempre insultato da tutti come un idiota e un impostore, il falso re, Tom Canty, si stava godendo un’esperienza completamente diversa.

L’ultima volta che lo abbiamo veduto, la regalità stava cominciando ad avere per lui un aspetto decisamente piacevole; tale aspetto continuò a diventare, di giorno in giorno, ancor più splendente e piacevole; e, di lì a non molto, l’esistenza di Tom fu tutta luminosità solare e delizia. Egli dimenticò le paure; i dubbi diminuirono e scomparvero; l’imbarazzo lo abbandonò, cedendo il posto a un comportamento disinvolto e fiducioso. Sfruttava con crescente profitto il ragazzo che aveva l’incarico di essere punito in sua vece.

Quando voleva giocare o conversare, ordinava che Lady Elizabeth e Lady Jane Grey venissero alla sua augusta presenza, e quando si era stancato di loro le congedava con l’aria di uno che fosse assuefatto da molto tempo a comportarsi in quel modo. Né lo turbava più sentirsi baciare la mano da quelle nobili fanciulle allorché si congedavano.

Finì con il trovare piacevole l’essere accompagnato a letto in pompa magna, la sera, e vestito con un cerimoniale complicato e solenne ogni mattina. Era per lui un piacere e un motivo d’orgoglio andare a pranzo scortato da un fastoso seguito di alti funzionari e di gentiluomini addetti alla sua persona; al punto che ne raddoppiò il numero, portandoli a cento. Gli piaceva udire gli squilli di tromba risuonare nei corridoi e le voci lontane che gridavano: «Largo al Re!».

Imparò persino ad apprezzare le riunioni del Consiglio della corona, quando, assiso sul trono, sembrava essere qualcosa di più di un semplice portavoce del Lord Protettore. Gli piaceva ricevere gli illustri ambasciatori e i loro seguiti sfarzosi e ascoltare i messaggi affettuosi che essi gli portavano da parte di grandi monarchi i quali lo chiamavano “fratello”. Oh felice Tom Canty, un tempo re del Cortile dei Rifiuti!

Apprezzava le vesti sontuose e ne ordinò altre; trovò che quattrocento servi erano troppo pochi per il fasto che gli si addiceva, e ne triplicò il numero. L’adulazione dei cortigiani, che profondamente si prosternavano, finì con l’essere una soave musica per i suoi orecchi. Continuava a essere dolce e gentile, nonché un vigoroso e deciso difensore di tutti gli oppressi, e a condurre una guerra instancabile contro le leggi ingiuste; ma talora, se si riteneva offeso, poteva prendersela con un conte, e persino con un duca, e fulminarli con uno sguardo che li faceva tremare. Una volta, quando la sua regale “sorella”, l’arcigna e bigotta Lady Mary, contestò la saggezza del suo comportamento nel concedere la grazia a un così gran numero di individui, che altrimenti sarebbero stati incarcerati, o impiccati, o bruciati vivi sul rogo, e gli ricordò che le prigioni del loro augusto e defunto genitore avevano contenuto talora fino a sessantamila detenuti e che, nel corso del suo ammirevole regno, egli aveva mandato a morte, per mano del carnefice, settantaduemila tra ladri e banditi, il ragazzo fu pervaso da una grande indignazione e le ordinò di andare a chiudersi in camera sua per chiedere a Dio di toglierle dal petto la pietra che aveva al posto del cuore, restituendole pietà e umanità.

Ma Tom Canty non provava mai alcun turbamento per il povero, piccolo e legittimo principe, che lo aveva trattato così generosamente, accorrendo con tanto zelo per difenderlo dall’insolente sentinella al cancello del palazzo? Oh, sì, i suoi primi giorni e le sue prime notti da re furono assillati da pensieri dolorosi concernenti il principe smarrito e dal desiderio sincero che egli tornasse per essere felicemente restituito agli splendori cui aveva diritto. Tuttavia, man mano che il tempo passava e il principe non faceva ritorno, la mente di Tom finì con l’essere sempre più presa dalle nuove e incantevoli esperienze e, a poco a poco, il monarca scomparso si dileguò quasi completamente dai suoi pensieri; in ultimo, quando si intrometteva in essi a rari intervalli, era ormai uno spettro sgradito, poiché faceva sì che Tom si sentisse in colpa e pieno di vergogna. La povera madre e le sorelle di Tom si allontanarono nello stesso modo dalla sua mente. A tutta prima egli aveva continuato a struggersi per loro, a soffrire a causa loro, ad anelare di rivederle; ma poi, l’idea che potessero apparire un giorno o l’altro, sudicie e vestite di stracci, e tradirlo con i loro baci, e farlo scendere dal suo trono maestoso e di nuovo trascinarlo nella povertà, nella degradazione e tra i tuguri, lo faceva rabbrividire. In ultimo, esse smisero quasi completamente di affliggere i suoi pensieri. Ed egli ne fu soddisfatto, e persino lieto; poiché ormai, ogni qual volta i loro visi luttuosi e accusatori gli apparivano nel ricordo, lo facevano sentire più spregevole dei vermi che strisciavano.

A mezzanotte del diciannove di febbraio, Tom Canty stava scivolando nel sonno sul suo ricco letto a palazzo, protetto dai fedeli vassalli e circondato dalla pompa della regalità, un fanciullo felice, poiché l’indomani era il giorno fissato per la sua solenne incoronazione quale Re d’Inghilterra. In quello stesso momento, Edoardo, il vero re, affamato e assetato, sudicio e inzaccherato, sfinito dalle fatiche del viaggio e coperto di stracci – la conseguenza della rissa – si trovava pigiato tra una calca di persone che osservavano, con profondo interesse, squadre di operai frettolosi i quali seguitavano a entrare nella Westminster Abbey e a uscirne, indaffarati come formiche: stavano, infatti, completando gli ultimi preparativi per la cerimonia dell’incoronazione.


31


Il corteo del riconoscimento

Quando Tom Canty si destò, la mattina dopo, l’aria era pervasa da un tonante mormorio; esso risuonava ovunque, anche in lontananza, e sembrava musica alle sue orecchie, poiché stava a significare che l’intera popolazione inglese era scesa nelle strade per dare un leale benvenuto al grande giorno.

Di lì a non molto, Tom venne a essere, una volta di più, il personaggio principale del meraviglioso corteo acquatico sul Tamigi, in quanto, per un’antica tradizione, il “corteo del riconoscimento” attraverso Londra doveva cominciare dalla Torre, e là egli era adesso diretto.

Quando vi giunse, le mura dell’antica fortezza parvero squarciarsi all’improvviso in mille punti e, da ogni squarcio, scaturì una rossa lingua di fiamma, seguita da un bianco sbuffo di fumo; vi furono poi esplosioni assordanti che soffocarono le grida della moltitudine e fecero tremare il suolo; le lingue di fiamma, gli sbuffi di fumo e le esplosioni continuarono a ripetersi e a ripetersi con mirabile rapidità, per cui, in pochi momenti, l’antica Torre scomparve come avvolta in una vasta nebbia, tutta tranne la cima di quell’alto pinnacolo denominato Torre Bianca; quest’ultima, con le sue bandiere, si levava sopra il denso strato di fumo così come la vetta di una montagna sporge al di sopra delle nubi.

Tom Canty, splendidamente vestito, montava un caracollante destriero, la cui ricca gualdrappa arrivava sin quasi al suolo; lo “zio” di lui, il Lord Protettore Sommerset, in sella a un altro destriero, veniva subito dopo; le guardie del re, disposte in fila per uno a ciascun lato, portavano corazze brunite; dopo il Protettore veniva una processione, apparentemente interminabile, di nobili sfarzosi accompagnati dai loro vassalli; li seguivano il sindaco di Londra con i consiglieri comunali, in velluto cremisi, con le catene d’oro sul petto; e, dietro a essi, i funzionari e gli appartenenti a tutte le corporazioni di Londra, con le ricche vesti e i vistosi vessilli di ogni singolo gruppo.

Inoltre, del corteo, come speciale guardia d’onore, faceva parte l’Antica e Onorevole Compagnia d’Artiglieria, un’organizzazione che risaliva, già allora, a trecento anni addietro ed era l’unico reparto militare inglese cui fosse stato conferito il privilegio – in vigore ancora ai nostri giorni – di non essere tenuto a eseguire gli ordini del Parlamento. Costituiva un brillante spettacolo e venne accolta con acclamazioni lungo l’intero itinerario, mentre maestosamente procedeva tra le compatte moltitudini dei cittadini. L’antico cronista dice:

“Il re, entrando nella città, venne accolto dal popolo con preghiere, grida di benvenuto e parole affettuose, nonché da tutte quelle manifestazioni che esprimono il sincero amore dei sudditi nei confronti del loro sovrano; e il monarca, mostrando le sue liete sembianze a coloro che erano lontani, e rivolgendo le parole più tenere a coloro che si trovavano più vicini alla sua graziosa persona, dimostrava di essere non meno grato di accogliere la benevolenza del popolo di quanto il popolo stesso fosse lieto di manifestargliela. A tutti augurava ogni bene e tutti ringraziava. A coloro i quali dicevano ‘Dio salvi Sua Grazia’ rispondeva ‘Dio vi salvi tutti!’ e soggiungeva di essere loro grato con tutto il cuore. E la popolazione era entusiasta delle risposte e dei gesti affettuosi del suo sovrano.”

In Fenchurch Street, un “bel fanciullo, dall’abito costoso”, trovavasi in piedi su una sorta di podio per dare al re il benvenuto della città. Ecco gli ultimi versi del suo saluto:

 

Benvenuto, o re, con lo slancio grande di ogni cuore;

Benvenuto ancora, per quanto ogni lingua può parlare

Gioiosamente, menti e cuori ti accolgon con amore

Dio ti conservi, preghiamo, e lunga vita ti possa dare!

Il popolo proruppe in un lieto grido, ripetendo, con una sola voce, quanto aveva detto il ragazzo. Tom Canty contemplò intorno a sé il mare di facce entusiaste, e il cuore gli si gonfiò di esultanza e sentì che la sola cosa per cui valesse la pena di vivere a questo mondo consisteva nell’essere un re e l’idolo di una nazione. Di lì a non molto scorse, in lontananza, due dei suoi laceri compagni di giochi del Cortile dei Rifiuti, uno di essi il Lord Grande Ammiraglio della sua reggia immaginaria, e l’altro il Primo Lord della Camera da Letto, nella stessa pretenziosa finzione; e l’orgoglio si gonfiò in lui come non mai. Oh, se soltanto avessero potuto riconoscerlo! Quale indicibile felicità avrebbe provato se soltanto fossero stati in grado di riconoscerlo e di rendersi conto che il deriso finto re dei quartieri miserabili e dei vicoli era diventato un vero sovrano, il quale aveva come umili servitori illustri duchi e principi, e il mondo intero ai propri piedi! Ma doveva soffocare quel desiderio e negare a se stesso la soddisfazione, poiché tale riconoscimento gli sarebbe costato più caro di quanto potesse dargli; pertanto voltò la testa dall’altra parte e lasciò che i due cenciosi e sudici ragazzi continuassero con le loro grida di gioia e le loro liete adulazioni, senza sospettare a chi le stessero prodigando.

Di tanto in tanto si levava il grido: «Una prodigalità! Una prodigalità!» e Tom rispondeva lanciando intorno a sé una manciata di monete nuove di zecca, affinché il popolo si azzuffasse per impadronirsene.

L’antico cronista dice:

“All’estremità di Gracechurch Street, davanti al simbolo dell’Aquila, la città aveva eretto un arco imponente, sotto il quale si trovava un palco che andava da un lato all’altro della strada. Lì era stato preparato un quadro allegorico storico, che rappresentava i progenitori immediati del re. Elisabetta di York sedeva nel bel mezzo di un’immensa rosa bianca i cui petali formavano intorno a lei ricchi falpalà; al suo fianco trovavasi Enrico VII, al centro di una grande rosa rossa, disposta nello stesso modo; le mani della coppia regale erano unite in maniera che la fede nuziale facesse spicco. Dalle rose rossa e bianca saliva uno stelo che arrivava fino a un secondo palco occupato da Enrico VIII, il quale scaturiva da una rosa rossa e bianca, avendo al fianco l’effigie della madre del nuovo sovrano, Jane Seymour. Da questa coppia saliva un altro stelo, fino a un terzo palco, sul quale trovavasi l’effigie dello stesso Edoardo VI, in trono con tutta la pompa della regalità. E l’intero quadro allegorico era incorniciato da ghirlande di rose rosse e bianche.”

Questo bizzarro e vistoso spettacolo entusiasmò a tal punto la folla esultante che le sue acclamazioni soffocarono completamente la vocetta del bambino che aveva il compito di spiegare la cosa con versi laudativi. Ma Tom Canty non se ne dispiacque, in quanto simili leali acclamazioni erano per lui una musica più soave di qualsiasi poesia, quali che potessero esserne i meriti stilistici. Da qualsiasi parte Tom volgesse il proprio viso fanciullesco e lieto, il popolo riconosceva l’estrema somiglianza dell’effigie alle fattezze del re in carne e ossa, per cui si levavano nuovi turbini di applausi.

Il grande corteo proseguì, ancora e ancora, passando sotto un arco di trionfo dopo l’altro e accanto a una serie sbalorditiva di spettacolari quadri allegorici, ognuno dei quali rappresentava ed esaltava qualche virtù, o talento, o merito del piccolo sovrano.

“Lungo l’intera Cheapside, da ogni soffitta e da ogni finestra, pendevano bandiere e pennoni; la via era inoltre rivestita dai tappeti più sontuosi e dai più ricchi tessuti d’oro... esempi delle grandi ricchezze contenute nelle botteghe a entrambi i lati; ma lo splendore di questa strada veniva uguagliato dalle altre, e in alcune persino superato!”

«E tutto questo sfarzo e tutte queste meraviglie soltanto per dare il benvenuto a me... a me!» mormorò Tom Canty.

Le gote del falso re erano accese dall’entusiasmo, i suoi occhi splendevano, i suoi sensi sembravano essere travolti da un delirio di piacere. In quel momento, proprio mentre stava per alzare la mano e lanciare intorno a sé un’altra generosa “prodigalità”, scorse un viso pallido e stupefatto, proteso verso di lui dalla seconda fila della folla e i cui occhi lo stavano fissando intensamente. Una costernazione tale da sconvolgerlo si diffuse in lui; aveva riconosciuto sua madre! E portò di scatto la mano in alto, davanti agli occhi, con il palmo in fuori... l’antico gesto istintivo, nato da un episodio dimenticato e perpetuato dall’abitudine. Un attimo ancora ed ella si districò dalla ressa, passò tra le guardie e gli fu accanto. Abbracciandogli la gamba, la coprì di baci e gridò: «Oh, bambino mio, mio tesoro!» e al contempo alzò verso di lui il viso trasfigurato dall’amore e dalla felicità. In quello stesso momento, l’ufficiale delle guardie del re la strappò via con un’imprecazione e la scaraventò indietro con una spinta del braccio vigoroso. Le parole: «Io non ti conosco, donna!» erano già state pronunciate dalle labbra di Tom Canty, mentre si svolgeva il commovente episodio, ma ora egli si sentì toccare il cuore vedendola trattata in quel modo; e, mentre si voltava per intravederla un’ultima volta, mentre la folla inghiottiva sua madre, sottraendogliela allo sguardo, ella parve così ferita, così addolorata, che in lui dilagò una vergogna tale da ridurre in cenere l’orgoglio e da fare avvizzire la sua rubata regalità. Tutta la pompa e tutte le grandezze perdettero ogni valore e parvero cadergli di dosso come putridi stracci.

Il corteo proseguì ancora, tra un fasto crescente e crescenti tempeste di acclamazioni, ma per Tom Canty tutto ciò era come se non fosse esistito. Egli non vedeva né udiva. La regalità aveva perduto la propria grazia e ogni soave aspetto; il suo fasto si stava tramutando in rimprovero. E il rimorso gli divorava ora il cuore. Disse: «Volesse Iddio che fossi libero da questa prigionia!».

Inconsciamente, era tornato a esprimersi come nei primi giorni della coattiva grandezza.

Lo splendido corteo continuò a percorrere le vie tortuose, come un radioso e interminabile serpente nella bizzarra e antica città, tra la folla assiepata che lanciava evviva; ma il re continuava a cavalcare a capo chino e con gli occhi spenti, vedendo soltanto il viso della madre e l’espressione ferita e addolorata su di esso.

«Prodigalità! Prodigalità!» Ma il grido giungeva a orecchi sordi.

«Lunga vita a Edoardo d’Inghilterra!» La terra stessa parve vibrare a causa dell’esplosione di quest’urlo, ma non vi fu alcuna reazione da parte del re. Egli lo udì soltanto come si può udire il tuono della risacca quando arriva alle orecchie da grande distanza, poiché era soffocato da un altro suono molto più vicino, nel suo petto, nella coscienza che lo accusava... una voce che seguitava a ripetere quelle parole vergognose: «Io non ti conosco, donna!».

Tali parole investivano l’anima stessa del re come i rintocchi funebri di una campana a morto investono l’anima di un amico superstite, quando gli rammentano segreti tradimenti subiti per opera sua da colui che è scomparso.

Nuovi sfarzi si dispiegavano a ogni svolta; apparivano nuove bellezze, nuove meraviglie; i rombi trattenuti dei pezzi d’artiglieria in attesa venivano scatenati; nuove acclamazioni scaturivano dalle gote delle moltitudini; ma il re non mostrava affatto di avvedersene, e la voce accusatrice che continuava a gemere nel suo cuore martellante era il solo suono che udisse.

A poco a poco la letizia sui volti dei sudditi si attenuò un poco, sfiorata da qualcosa di simile alla trepidazione e all’ansia; divenne percettibile, inoltre, una diminuzione nel fragore degli applausi. Il Lord Protettore non tardò ad accorgersene; e fu altrettanto pronto nell’individuare la causa. Spronando il cavallo, si portò al fianco del re e, sporgendosi dalla sella, a capo scoperto, disse: «Mio sovrano, è un momento mal scelto questo per sognare. Il popolo ti vede a capo chino, osserva la tua espressione accigliata e considera ciò un presagio infausto. Ascolta il mio consiglio: scopri il sole della regalità, fallo splendere sulle nebbie della malinconia e disperdile. Alza il viso e sorridi alla popolazione».

Così dicendo, il duca lanciò manciate di monete a destra e a sinistra, poi tornò al proprio posto. Il falso re fece meccanicamente come gli era stato ordinato. Il sorriso di lui divenne forzato, ma ben pochi occhi erano abbastanza vicini, o abbastanza acuti, per avvedersene. I cenni del capo piumato di lui, mentre salutava i sudditi, erano colmi di grazia e cortesia; la generosità con la quale distribuiva monete era regalmente grande, per cui le ansie del popolo svanirono e le acclamazioni tornarono a levarsi con la stessa formidabile sonorità di prima.

Eppure, una volta ancora, poco prima che il corteo giungesse alla meta, il duca fu costretto a portarsi avanti e a fare rimostranze. Bisbigliò: «Oh maestoso sovrano! Scuotiti di dosso questo fatale umor nero; gli occhi del mondo sono fissi su di te!». Poi soggiunse, in un tono di aspra irritazione: «La peste colga quella miserabile impazzita. È stata lei a turbare tua Altezza!».

Lo sfarzoso personaggio volse uno sguardo spento sul duca e, con una voce altrettanto spenta, disse: «Era mia madre!».

«Mio Dio!» gemette il Protettore, tirando le redini per far sì che il cavallo restasse indietro e lo riportasse al suo posto nel corteo. «Il presagio era saturo di profetica verità. È impazzito di nuovo!»


32


Il Giorno dell’Incoronazione

Torniamo indietro di alcune ore e situiamoci nell’Abbazia di Westminster alle quattro del mattino di quel memorabile Giorno dell’Incoronazione. Non siamo privi di compagnia poiché, sebbene sia ancora notte, possiamo vedere come le tribune illuminate da torce già vadano riempiendosi di persone ben contente di restare immobili, in attesa, sette o otto ore, fino al momento in cui assisteranno a ciò che non possono sperar di vedere due volte in vita loro... l’incoronazione di un re. Sì, Londra e Westminster sono state in agitazione sin dal momento in cui l’avvertimento dei cannoni ha tuonato alle tre del mattino, e già folle di persone ricche, ma non titolate, che hanno pagato per il privilegio di tentar di trovare un posto a sedere stanno premendo davanti agli ingressi a esse riservati.

Le ore si trascinano alquanto tediosamente. Ogni trambusto è cessato da qualche tempo, poiché tutte le tribune sono ormai gremite da un pezzo. Possiamo adesso metterci a sedere e guardare e riflettere con comodo. Intravediamo qua e là, nella fioca luce della cattedrale, parti di tribune e di balconate gremite di persone, mentre la vista di altre parti delle stesse tribune e balconate viene impedita da pilastri e sporgenze. Possiamo vedere, però, l’intero e vasto transetto nord deserto e in attesa dei privilegiati d’Inghilterra. Vediamo inoltre l’ampia superficie della pedana, rivestita da ricchi tappeti, sulla quale si trova il trono. Il trono è situato al centro e sollevato su una seconda pedana alla quale si accede mediante quattro gradini. Il trono racchiude una pietra ruvida e piatta – la pietra di Scone – sulla quale si sono assise, per essere incoronate, molte generazioni di re scozzesi, e che pertanto, con il trascorrere del tempo, è divenuta sufficientemente sacra per i monarchi inglesi. Sia il trono sia lo sgabello sul quale appoggiare i piedi sono rivestiti di tessuto d’oro.

Regna il silenzio, le torce baluginano fiocamente, il tempo trascorre con greve lentezza. Ma, infine, la tardiva luce del giorno riesce a prevalere, le torce vengono spente e una calda luminosità si diffonde nel vasto spazio. Tutte le caratteristiche della nobile chiesa risaltano, adesso, ma con sognante morbidezza, poiché il sole è velato da un leggero strato di nubi.

Alle sette si determina il primo cambiamento nella sonnacchiosa monotonia; infatti, al battere di quest’ora, la prima consorte di un Pari d’Inghilterra entra nel transetto, vestita come Salomone in quanto a splendore, e viene accompagnata al posto assegnatole da un funzionario abbigliato in seta e velluto, mentre un suo collega solleva il lungo strascico della dama, la segue e, quando ella si è seduta, glielo dispone sul grembo. Sposta quindi lo sgabello a seconda dei suoi desideri, dopodiché pone il diadema là, ove la dama lo avrà a portata di mano quando giungerà il momento in cui tutte le nobildonne dovranno porselo sul capo contemporaneamente.

Ormai le consorti dei Pari stanno entrando, una dopo l’altra, nella cattedrale, sfarzosamente; e i funzionari dai costumi di seta corrono qua e là, con lustri riflessi, facendole sedere e sistemandole comodamente. La scena è adesso molto animata. V’è un gran movimento e si vedono colori cangianti ovunque. Dopo qualche tempo torna a regnare il silenzio, poiché le consorti dei Pari si trovano tutte ai loro posti: una estesa e compatta superficie di fiori umani che risplendono con le tinte più diverse, scintillanti di fulgidi diamanti come la Via Lattea. Tutte le età sono là rappresentate: rugose e anziane dame dai capelli bianchi, che possono risalire molto indietro lungo il fiume del tempo e ricordare l’incoronazione di Riccardo III e i giorni turbolenti di quell’antica epoca dimenticata; vi sono poi splendide dame di mezza età, e adorabili e graziose giovani signore, e soavi e splendide fanciulle, dagli occhi radiosi e dalla carnagione liscia e fresca, che saranno forse un po’ goffe nel mettersi sul capo il diadema quando giungerà il grande momento, in quanto la cosa rappresenterà per loro una novità e le ostacolerà inoltre l’agitazione. D’altro canto, può anche darsi che questo non accada, i capelli di tutte queste dame essendo stati acconciati appositamente per far sì che possano rapidamente e con successo mettersi il diadema allorché verrà dato il segnale.

Abbiamo già notato che tutto questo schieramento di grandi dame è costellato di diamanti e che trattasi di uno spettacolo meraviglioso, ma ora stiamo per rimanere davvero stupefatti. Verso le nove, le nubi all’improvviso si aprono, un raggio di sole penetra la calda luce diffusa e si sposta adagio lungo le file di dame, facendo scaturire lungo ogni fila sprazzi di splendori multicolorati e noi ci sentiamo formicolare la punta delle dita a causa del fremito elettrizzante, causato dalla sorpresa e dalla bellezza dello spettacolo. Poi, l’inviato speciale giunto da qualche remota località dell’Oriente, incedendo insieme al gruppo degli ambasciatori stranieri, attraversa questo raggio di sole e noi tratteniamo il respiro, tanto sono straordinari i fulgori e i lampi che palpitano intorno a lui, in quanto egli è coperto, da capo a piedi, di gemme e ogni suo minimo movimento gli fa scaturire tutto intorno una danzante radiosità.

Serviamoci ora, per maggior comodità, del passato remoto. Il tempo continuò a trascorrere adagio... un’ora... due ore... due ore e mezzo; poi i tuoni cupi dell’artiglieria annunciarono che il re e il suo grande corteo erano giunti, finalmente, per cui la moltitudine in attesa poté esultare. Tutti sapevano che vi sarebbe stato un ulteriore indugio, in quanto il sovrano doveva essere preparato e vestito per la solenne cerimonia; ma questo indugio sarebbe stato piacevolmente occupato dal riunirsi dei Pari del regno, con le loro vesti maestose. Essi vennero cerimoniosamente accompagnati ai loro posti, con le corone di ognuno disposte a comoda portata di mano; e, nel frattempo, la moltitudine nelle tribune si interessava sempre più allo spettacolo poiché la maggior parte dei presenti contemplava per la prima volta duchi, conti e baroni i cui nomi figuravano da cinquecento anni nella storia. Allorché tutti furono infine seduti, lo spettacolo, veduto dalle tribune e da ogni altro punto dominante, poté considerarsi completo... uno spettacolo sfarzoso a contemplarsi e memorabile.

In questo momento gli alti capi della Chiesa, con le lunghe vesti e la mitra, sfilarono salendo sulla piattaforma e occuparono i posti a essi assegnati; li seguirono il Lord Protettore e altri altissimi funzionari, seguiti a loro volta da un distaccamento in corazza della guardia del Re.

Vi fu ancora una breve attesa; poi, a un segnale, si diffusero le note trionfali di una musica squillante, e Tom Canty, con un lungo manto di tessuto d’oro, apparve sulla soglia di una porta e si diresse verso la piattaforma. L’intera moltitudine balzò in piedi ed ebbe inizio la cerimonia del riconoscimento.

Un nobile inno dilagò allora nell’Abbazia, con le sue ricche onde di suono; e, così annunciato e accolto, Tom Canty venne condotto verso il trono. L’antico cerimoniale continuò con impressionante solennità, mentre tutti i presenti stavano a guardare; e, a mano a mano che la cerimonia si avvicinava al termine, Tom Canty diveniva pallido, sempre più pallido, mentre un’afflizione e una disperazione sempre più profonda gli pervadevano l’anima e il cuore colmo di rimorsi.

Infine il gesto ultimo fu sul punto di essere compiuto. L’Arcivescovo di Canterbury sollevò dal cuscino la corona d’Inghilterra e la tenne sopra il capo del tremante, falso re. Nello stesso momento, una radiosità da arcobaleno balenò lungo l’intero e vasto transetto, poiché, con un sol gesto, ognuno di coloro che formavano il grande stuolo dei nobili sollevò la propria corona o il proprio diadema, tenendoli sospesi sopra il capo... e immobilizzandosi in tale atteggiamento.

Un silenzio profondo calò nell’Abbazia. Ma in quel momento impressionante una stupefacente apparizione si intromise nella scena... e l’assorta moltitudine la vide soltanto quando si mostrò all’improvviso, risalendo il grande passaggio centrale. Trattavasi di un ragazzo, a testa nuda, mal calzato, coperto da rozzi abiti plebei divenuti ormai stracci. Egli levò la mano destra con una solennità che mal si addiceva al suo sudicio e sciatto aspetto e pronunciò queste parole di avvertimento: «Vi proibisco di deporre la corona d’Inghilterra sul capo di quell’usurpatore. Io sono il Re!».

Dopo un attimo appena, parecchie mani indignate avevano già afferrato il ragazzo; ma, nello stesso momento, Tom Canty, con le sue vesti regali, fece un rapido passo avanti e gridò, in uno squillante tono di voce: «Lasciatelo! Il Re è lui!».

Una sorta di panico stupefatto passò sulla grande accolta e, in parte, i presenti balzarono in piedi dai loro posti guardandosi allibiti per riportare poi lo sguardo sui due principali personaggi della scena, quasi stessero domandandosi se erano desti o se invece dormissero e stessero sognando. Il Lord Protettore rimase sbalordito quanto gli altri, ma si riprese prontamente ed esclamò, con la voce di chi è assuefatto a comandare: «Non ascoltate Sua Maestà, egli è stato ripreso dalla malattia. Impadronitevi del vagabondo!».

Sarebbe stato ubbidito, ma il falso re batté il piede sul pavimento e gridò: «Guai a voi! Non lo toccate; egli è il Re!».

Le mani si fermarono; una sorta di paralisi immobilizzò tutti e nessuno si mosse, nessuno parlò; nessuno, invero, sapeva come comportarsi, o che cosa dire, in una situazione così strana e sorprendente. Mentre la mente di ognuno dei presenti si sforzava di ritrovare la chiarezza, il ragazzo continuò a farsi avanti con un nobile portamento e un’aria fiduciosa; non si era mai fermato sin dall’inizio, e tutti erano ancora in preda, impotenti, alla confusione quando egli salì sulla piattaforma e il falso re gli corse incontro, con la letizia sul viso, si inginocchiò dinanzi a lui e disse: «Oh, mio signore il Re, consenti al povero Tom Canty di essere il primo a giurarti fedeltà e a dire: “Poni sul tuo capo la corona che ti spetta e torna a essere quello che sei”».

Lo sguardo del Lord Protettore si posò severo sul volto del nuovo venuto, ma subito la severità scomparve, cedendo il posto a un’espressione di incerto stupore. Così fu anche per gli altri alti funzionari. Si sbirciarono a vicenda e indietreggiarono di un passo, assecondando un comune e inconsapevole impulso. La riflessione nella mente di ognuno di loro era identica: “Quale strana somiglianza!”.

Il Lord Protettore rifletté, perplesso, per un momento o due; poi disse, con gravità e rispetto: «Con il tuo consenso, signore, vorrei porti certe domande che...».

«Risponderò a esse, mio Lord.»

Il duca pose allora un gran numero di domande concernenti la corte, il defunto re, il principe, le principesse, e a tutte il ragazzo rispose esattamente e senza alcuna esitazione. Descrisse i saloni di rappresentanza del palazzo, gli appartamenti del precedente sovrano e quelli del Principe di Galles.

Era strano, era meraviglioso; sì, era inspiegabile... così dissero tutti, ascoltandolo. La marea stava cominciando a invertire la propria direzione e sempre più alte erano le speranze di Tom Canty, quando il Lord Protettore scosse la testa e disse: «La cosa è invero quanto mai mirabile, ma non più di quanto possa fare anche nostro signore il Re». Queste parole, e il fatto che si fosse parlato di lui come se egli fosse stato ancora il sovrano, rattristarono Tom Canty, che sentì ogni speranza franargli sotto i piedi. «Queste» soggiunse il Lord Protettore «non sono prove.»

La marea si stava invertendo rapidamente, adesso, molto rapidamente davvero, ma nella direzione sbagliata; lasciava il povero Tom Canty in secca sul trono e trascinava via, al largo, il re vero. Il Lord Protettore rifletté, poi scosse la testa mentre un’idea sembrava imporsi nella sua mente: «È pericoloso per lo Stato e per noi tutti prendere in considerazione un enigma così fatale; potrebbe dividere la nazione e minare il trono stesso». Poi si voltò e disse: «Sir Thomas, si proceda all’arresto di questo... No, un momento!». Il volto gli si illuminò ed egli si rivolse al lacero candidato con la seguente domanda: «Dove si trova il Grande Sigillo? Rispondimi veridicamente e l’enigma sarà risolto, poiché soltanto colui che è davvero il Principe di Galles può dirlo! Da un particolare così insignificante dipendono un trono e una dinastia!».

Era stata un’idea assennata, un’idea felice. E che tale venisse considerata dagli alti funzionari lo manifestò il plauso silenzioso che passò di sguardo in sguardo, intorno alla loro cerchia, sotto forma di occhiate di viva approvazione. Sì, soltanto il vero principe era in grado di svelare l’ostinato mistero del Grande Sigillo scomparso; il piccolo impostore aveva imparato bene la lezione, ma a quel proposito gli insegnamenti non gli sarebbero serviti a nulla, poiché il suo stesso maestro non avrebbe potuto rispondere a una simile domanda.

«Ah, benissimo, molto bene davvero, ora ci libereremo in men che non si dica di questa situazione, divenuta ormai molto preoccupante e pericolosa!»

E gli alti funzionari annuirono senza darlo a vedere, e sorrisero in cuor loro, soddisfatti, e osservarono attentamente per vedere lo stupido ragazzo in preda allo sgomento paralizzante di una colpevole confusione.

Quanto grande fu il loro stupore, pertanto, quando videro che non accadeva alcunché di simile... e quanto si meravigliarono udendo il ragazzo rispondere prontamente, con una voce fiduciosa e serena, e dire: «Non v’è alcunché di difficile in questa domanda». Poi, senza nemmeno sognarsi di chiedere il permesso a qualcuno, egli si voltò e, con la disinvoltura di chi è assuefatto a comportarsi in questo modo, impartì il seguente ordine: «Buon Lord St John, recati nel mio studio privato, al palazzo – poiché nessuno conosce quella stanza meglio di te – e, molto in basso accanto al pavimento, nell’angolo sinistro più lontano dalla porta che dà sull’anticamera, troverai nella parete una testa di chiodo in ottone; premila e vedrai aprirsi un piccolo ripostiglio per gioielli che tu non conosci: no, nessun altro in tutto il mondo ne conosce l’esistenza, tranne me e il fido artigiano dal quale venne escogitato. Il primo oggetto che ti apparirà dinanzi agli occhi sarà il Grande Sigillo; prendilo e portalo subito qui».

Tutti rimasero meravigliati da queste parole e ancor più si stupirono perché il piccolo accattone aveva scelto quel Pari d’Inghilterra senza alcuna esitazione e senza il benché minimo timore di sbagliare, chiamandolo per nome con l’aria placida e persuasiva di averlo conosciuto sin dalla propria nascita. Lo stupore indusse quasi il Pari a ubbidire. Egli fece addirittura la mossa di andare, ma rapidamente ritrovò il proprio placido atteggiamento, tradendo lo sbaglio commesso con un rossore. Tom Canty si rivolse allora a lui e disse, in tono aspro: «Perché esiti? Non hai udito l’ordine del Re? Va’!».

Lord St John fece un profondo inchino – anche se tutti notarono che fu significativamente cauto e non impegnativo, in quanto non rivolto all’uno o all’altro dei due possibili sovrani, ma al terreno neutrale situato in un punto intermedio tra loro – e si congedò.

A questo punto ebbe inizio un movimento, da parte degli sfarzosi componenti del gruppo di altolocati personaggi, un movimento lento, appena percettibile, eppure costante e ininterrotto: un movimento simile a quello che si può osservare in un caleidoscopio fatto ruotare adagio, per cui gli elementi di uno splendido disegno si separano per formarne un altro; un movimento che, a poco a poco, nel caso in questione, sciolse la folla fastosa intorno a Tom Canty e tornò a raggrupparla intorno al nuovo venuto. Tom Canty rimase quasi solo. Seguì poi un breve intervallo di intensa aspettativa e di tensione nervosa, durante il quale anche i pochi cuori deboli e indecisi, rimasti accanto a Tom Canty, trovarono a poco a poco il coraggio bastante per passare, a uno a uno, dalla parte della maggioranza. Così, in ultimo, Tom, con la veste e i gioielli regali, rimase completamente solo e isolato dal mondo, una personcina imponente in quel vuoto significativo.

A questo punto si vide Lord St John di ritorno. Mentre egli si faceva avanti nel passaggio centrale, la curiosità divenne così intensa che il mormorio sommesso delle conversazioni, nella grande accolta, si spense per essere sostituito da un silenzio profondo, da una spasmodica attesa a fiato sospeso, durante la quale i suoi passi echeggiarono come tonfi sordi e lontani.

Tutti gli sguardi erano fissi su St John, mentre egli si avvicinava. Giunse sulla piattaforma, sostò un momento, poi si diresse verso Tom Canty, fece un profondo inchino e disse: «Sire, il Grande Sigillo non si trova là!».

La folla non si allontana da un appestato con maggior fretta di quella con la quale il gruppo di pallidi e atterriti cortigiani si allontanò dal piccolo e lacero pretendente alla corona. Dopo un attimo egli rimase completamente solo, senza amici e sostenitori, e venne fatto oggetto di occhiate beffarde e irose.

Il Lord Protettore gridò, quasi con ferocia: «Trascinate il mendicante nella strada e fustigatelo attraverso l’intera città; l’abietto furfante non merita altro!».

Gli ufficiali della guardia si fecero avanti per eseguire l’ordine, ma Tom Canty li fermò con un gesto e disse: «Indietro! Chi lo tocca mette a repentaglio la vita!».

Il Lord Protettore era quanto mai perplesso. Domandò a Lord St John: «Hai cercato bene? Ma questa domanda è superflua. Sembra davvero strano. I piccoli oggetti, i nonnulla, possono essere smarriti senza che nessuno se ne avveda e senza che ciò stupisca. Ma come può un oggetto voluminoso quanto il Grande Sigillo d’Inghilterra, un massiccio disco d’oro, svanire senza che nessuno riesca più a rintracciarlo...?».

Tom Canty, con gli occhi spalancati, balzò avanti e gridò: «Un momento, basta così! È forse rotondo? E spesso? E su di esso sono incisi disegni e lettere? Sì? Ah, ora so finalmente che cos’è il Grande Sigillo che ha causato tante preoccupazioni! Se mi fosse stato descritto, avreste potuto averlo tre settimane fa. So benissimo dove si trova, ma non fui io a metterlo là... per primo».

«E chi, allora, mio sovrano?» domandò il Lord Protettore.

«Colui che si trova qui... il legittimo Re d’Inghilterra. Se vi dirà egli stesso ove trovasi il sigillo, vi persuaderete allora che lo ha sempre saputo. Rifletti bene, mio Re... sprona la memoria... fu l’ultima, l’ultimissima cosa che tu facesti quel giorno, prima di uscire di corsa dal palazzo, indossando i miei stracci, per punire il soldato dal quale ero stato offeso.»

Seguì il silenzio, non turbato neppure da un bisbiglio, e tutti gli sguardi fissarono il nuovo venuto che si teneva ritto, a capo chino, la fronte corrugata, brancolando, tra una moltitudine di ricordi insignificanti, in cerca di un piccolo fatto che lo eludeva e che, se ritrovato, lo avrebbe posto sul trono... mentre se non veniva trovato, lo avrebbe lasciato qual era adesso, per sempre... povero e un fuoricasta. I momenti trascorsero, uno dopo l’altro... si accumularono, divenendo minuti... e sempre il ragazzo lottava, silenziosamente alle prese con la propria memoria, e non dava alcun segno di ricordare. Ma infine sospirò, scosse adagio la testa e disse, con le labbra tremanti e in tono deluso: «Rivedo la scena... completamente... ma il Grande Sigillo non vi figura». Si interruppe, poi alzò gli occhi e soggiunse, con dolce dignità: «Miei Lord e gentiluomini, se volete defraudare il vostro legittimo sovrano di ciò che gli spetta, in difetto di questa prova che non è in grado di fornirvi, non posso impedirvelo, essendo privo di ogni potere. Ma...».

«Oh follia, oh pazzia, mio Re!» gridò Tom Canty, in preda al panico. «Aspetta! Rifletti! Non rinunciare! La causa non è ancora perduta! E non lo sarà! Ascolta quanto ti dico... segui bene ogni mia parola: rievocherò quella mattina, ricostruirò esattamente quello che accadde. Parlammo. Io ti dissi delle mie sorelle, Nan e Bet... ah, vedi, questo lo rammenti; e della mia vecchia nonna, e dei rudi giochi dei ragazzi nel Cortile dei Rifiuti... ecco, ricordi anche queste cose; benissimo, continua a seguirmi e ricorderai tutto. Mi offristi cibi e bevande e, con principesca cortesia, congedasti i servi affinché, con la mia scarsa educazione, io non dovessi vergognarmi alla loro presenza... ecco, vedi, rammenti anche questo.»

A mano a mano che Tom rievocava ogni particolare, e che l’altro ragazzo annuiva ricordando, la grande accolta e i cortigiani stavano a guardare e ad ascoltare con interdetto stupore; il racconto sembrava veritiero, eppure come poteva mai essersi determinata quell’impossibile vicinanza tra un principe e un accattone? Mai un così gran numero di persone era stato tanto perplesso, tanto interessato, tanto sbalordito.

«Così, per gioco, mio Principe, ci scambiammo gli abiti. Poi andammo a metterci davanti a uno specchio, ed eravamo talmente uguali che, come dicemmo entrambi, sembrava non esservi stato alcuno scambio... sì, vedo che rammenti anche questo. Poi tu notasti che il soldato mi aveva ferito una mano. Guarda! È rimasto il segno. Non posso neppure scrivere con essa, tanto le dita sono rigide. Tua Altezza balzò allora in piedi, giurando di volersi vendicare del soldato e correndo verso la porta. Passasti accanto a un tavolo; l’oggetto che tu chiami Sigillo si trovava su di esso; lo afferrasti e ti guardasti attorno ansiosamente, come per cercare un posto in cui nasconderlo. Poi lo sguardo ti cadde su...»

«Basta così, e sia ringraziato il buon Dio!» esclamò il lacero pretendente al trono, in preda a un’agitazione incontenibile. «Va’, mio buon St John; in un braccio dell’armatura milanese appesa alla parete troverai il Grande Sigillo!»

«Giusto, mio re! Giusto!» gridò Tom Canty. «Ora lo scettro d’Inghilterra ti appartiene; e, se qualcuno volesse contestarlo, meglio per lui sarebbe essere nato muto! Va’, mio Lord St John; metti le ali ai piedi!»

Non una sola persona nell’intera assemblea rimaneva ormai ancora seduta e tutti erano fuori di sé per l’inquietudine, l’apprensione e un’agitazione sfibrante. Sia da coloro che occupavano la navata sia da coloro che si trovavano sulla piattaforma, si levò un assordante ronzio di conversazioni frenetiche e, per qualche tempo, nessuno seppe altro, o udì altro o si interessò ad altro tranne quanto il vicino gli stava urlando nell’orecchio, o tranne quanto ognuno urlava nell’orecchio del vicino. Il tempo – nessuno sarebbe stato in grado di dire quanto – trascorse non percepito e non calcolato. Infine un silenzio improvviso calò nell’Abbazia e, in quello stesso momento, St John apparve sulla piattaforma tenendo alta la mano che stringeva il Grande Sigillo. Si levò allora un urlo possente.

«Lunga vita al vero Re!»

Per cinque minuti l’aria risuonò di grida e delle note di strumenti musicali e venne resa bianca dallo sventolio di innumerevoli fazzoletti; in tutto questo imperversare, un lacero ragazzo, il più importante personaggio d’Inghilterra, rimaneva in piedi, acceso in viso e felice e fiero, al centro della spaziosa piattaforma, con i grandi vassalli del regno inginocchiati tutto attorno.

Poi si rialzarono tutti e Tom Canty gridò: «Ora, o mio Re, riprenditi queste vesti regali e restituisci al povero Tom, il tuo servo, gli stracci che gli appartengono».

Il Lord Protettore intervenne: «Che il piccolo furfante venga spogliato e gettato nella Torre».

Ma il nuovo re, il vero re, disse: «Non voglio che sia così. Se non fosse stato per lui non avrei riavuto la corona; che nessuno osi alzare la mano su questo ragazzo per nuocergli. E quanto a te, mio buon zio, mio Lord Protettore, con il tuo comportamento non ti dimostri grato nei confronti del povero figliolo, poiché mi risulta che è stato lui a nominarti duca». Il Protettore arrossì. «Ma egli non era re, per cui che cosa vale, adesso, il tuo alto titolo? Domani tu me ne chiederai, per il tramite di lui, la conferma, altrimenti non sarai più duca, ma rimarrai un semplice conte.»

Dopo questo rabbuffo, Sua Grazia il Duca di Somerset si fece, momentaneamente, in disparte. Il re si rivolse a Tom e disse, cortesemente: «Mio povero ragazzo, come hai potuto ricordare dove nascosi il Sigillo, mentre io stesso non riuscivo a rammentarlo?».

«Ah, mio Re, è stato facile, in quanto me ne sono servito per parecchi giorni.»

«Te ne sei servito, pur non sapendo spiegarti di che cosa si trattava?»

«Non sapevo che cercassero quell’oggetto. Non me lo avevano descritto, Maestà.»

«Allora come te ne sei servito?»

Rosso sangue cominciò ad affluire alle gote di Tom, ed egli abbassò gli occhi e tacque.

«Parla, buon figliolo, e non temere» disse il re. «Come ti sei servito del Grande Sigillo d’Inghilterra?»

Tom balbettò per un momento, in preda a un patetico imbarazzo, poi riuscì a spiegarsi con chiarezza: «L’ho adoperato per schiacciare noci!».

Povero figliolo, la valanga di risate che accolse queste parole per poco non lo fece stramazzare. Ma se qualche mente dubitava ancora, pensando che Tom Canty fosse il vero Re d’Inghilterra, in quanto conosceva troppo bene tutti gli aspetti della regalità, questa risposta bastò per fugare ogni residua incertezza.

Nel frattempo, il sontuoso manto regale era passato dalle spalle di Tom a quelle di Edoardo, i cui stracci rimasero, così, efficacemente nascosti. Quindi la cerimonia dell’incoronazione riprese; il vero re venne consacrato e la corona gli fu posta sul capo mentre i cannoni, tuonando, comunicavano la notizia alla città e gli applausi sembravano far vibrare l’intera Londra.


33


Edoardo Re

Miles Hendon era già abbastanza pittoresco prima di rimanere coinvolto nel tumulto sul Ponte di Londra; lo divenne molto di più quando ne uscì. Aveva pochissimo denaro all’inizio del pestaggio; quando esso terminò, non gliene restava più affatto. I borsaioli lo avevano derubato anche dell’ultima monetina.

Ma non importava, purché gli riuscisse di trovare il suo ragazzo. Essendo un soldato, egli non si accinse a cercarlo in modo casuale, ma si accinse, in primo luogo, a pianificare quella campagna.

Cos’era logico che il ragazzo facesse? Dov’era naturale che andasse? Be’, ragionò Miles, egli si sarebbe logicamente recato ove aveva abitato un tempo, poiché questo è l’istinto delle menti malate, quando sono dimenticate da tutti e non hanno un tetto; e, d’altro canto, così si regolano anche le menti sane. Ma dove aveva abitato un tempo? I suoi stracci, nonché il volgare farabutto che sembrava conoscerlo e che addirittura asseriva di essere suo padre, inducevano a credere che provenisse dall’uno o l’altro dei più miseri e squallidi quartieri di Londra. Sarebbero state difficili e lunghe le ricerche? No, era probabile che fossero facili e brevi. Egli avrebbe cercato non già il ragazzo ma una folla; nel bel mezzo di una folla, più o meno numerosa, sarebbe riuscito di certo a trovare, prima o poi, il suo povero piccolo amico; nel bel mezzo di una turba di straccioni i quali si sarebbero divertiti a infastidire e a tormentare il ragazzo che, senza dubbio, avrebbe continuato, come sempre, a proclamarsi re. Dopodiché Miles Hendon avrebbe messo fuori combattimento qualcuno dei farabutti e portato via il piccolo pupillo consolandolo e rallegrandolo con parole affettuose; e mai più loro due si sarebbero separati.

Così Miles cominciò la ricerca. Un’ora dopo l’altra arrancò lungo angusti vicoli e squallide viuzze, cercando gruppi di persone o folle, e trovandone a non finire, ma senza mai scorgere traccia del ragazzo. Questo lo meravigliò molto, ma non lo scoraggiò. A parer suo, il piano della campagna non aveva alcun difetto; il solo errore di calcolo consisteva nel fatto che la campagna stessa si stava protraendo, mentre egli si era aspettato che fosse breve.

Quando, infine, spuntò la luce del giorno, Miles Hendon aveva percorso molti chilometri e passato al setaccio un gran numero di gruppi di persone, ma con l’unico risultato di essere notevolmente stanco, alquanto affamato e parecchio assonnato. Desiderava far colazione, ma non ne aveva la possibilità. L’idea di mendicare non gli passò neppure per la mente; quanto a impegnare la spada, giammai! Avrebbe preferito, piuttosto, perdere l’onore; avrebbe potuto privarsi di parte degli indumenti... già, ma sarebbe stato più facile trovare un acquirente di malattie che di capi di vestiario così malconci.

A mezzogiorno stava ancora camminando, tra il popolino che seguiva adesso il corteo reale; si era detto, infatti, che quello sfoggio di regalità avrebbe attratto potentemente il suo piccolo lunatico. Seguì il corteo lungo tutto il tortuoso itinerario attraverso Londra e fino a Westminster e all’Abbazia. Si aggirò qua e là tra le moltitudini ammassate nei pressi, per molto tempo, finché si sentì sfinito, deluso e perplesso; e infine si allontanò, cercando di escogitare qualche espediente per rendere più efficace il suo piano. Dopo qualche tempo, quando emerse dalle cogitazioni, si accorse di essersi lasciata lontana alle spalle la città; e inoltre la sera andava avvicinandosi. Si trovava vicino al fiume e in aperta campagna. Era quella una regione di lussuose dimore di campagna, ove non avrebbero di certo gradito la presenza di un uomo mal vestito come lui.

Non faceva troppo freddo e pertanto si distese a terra, al riparo di una siepe, per riposare e riflettere. Di lì a non molto, la sonnolenza cominciò ad annebbiargli i sensi, i sordi e lontani colpi di cannone vennero portati dal vento fino ai suoi orecchi ed egli disse a se stesso: “Il nuovo Re è stato incoronato” poi, immediatamente, si addormentò. Non aveva più chiuso occhio né riposato da oltre trenta ore. Si destò soltanto a metà mattinata dell’indomani.

Si rimise in piedi zoppicante, irrigidito, quasi famelico; andò a lavarsi al fiume, si riempì lo stomaco con uno o due litri d’acqua, poi arrancò verso Westminster prendendosela con se stesso per aver perduto tanto tempo. La fame lo aiutò, a questo punto, a escogitare un nuovo piano: avrebbe cercato di parlare con l’anziano Sir Humphrey Marlow, di farsi prestare un po’ di denaro e... Ma il suo piano, per il momento, non andò più in là di così; avrebbe avuto tutto il tempo per ampliarlo dopo avere attuato questa prima parte.

Verso le undici si avvicinò al palazzo; e, sebbene fosse circondato da un gran numero di persone sfarzosamente vestite che andavano nella stessa direzione, non passò inosservato... questo per merito dei suoi miseri indumenti. Osservò attentamente i volti della gente, sperando di vederne uno caritatevole il cui proprietario potesse essere disposto ad annunciare la presenza di lui al vecchio luogotenente; quanto a tentar di entrare nel palazzo senza esservi invitato, la cosa sarebbe stata semplicemente impossibile.

Di lì a non molto, il nostro amico, il ragazzo incaricato di subire le punizioni inflitte al re, gli passò accanto, poi girò sui tacchi e scrutò attentamente la sagoma di lui, dicendosi: “Se non è costui il vagabondo a causa del quale Sua Maestà si sta tanto crucciando, allora sono un somaro... benché sia probabile che lo fossi anche prima. Risponde alla descrizione fino all’ultimo straccio; creandone due identici, Dio avrebbe sminuito i miracoli con una inutile ripetitività. Vorrei proprio escogitare un pretesto per parlargli”.

Miles Hendon gli evitò il disturbo, poiché girò sui tacchi in quel momento, come fanno di solito gli uomini quando qualcuno li ipnotizza fissandoli intensamente alle spalle; poi, avendo notato un considerevole interessamento negli occhi del ragazzo, si diresse verso di lui e disse: «Sei appena uscito dal palazzo; vi abiti, per caso?».

«Sì, signoria.»

«Conosci Sir Humphrey Marlow?

Il ragazzo trasalì e pensò: “Santo Cielo! Conosce il mio povero padre defunto!”. Poi rispose, a voce alta: «Lo conosco benissimo, signoria».

«Bene. Si trova nel palazzo?»

«Sì» rispose il ragazzetto, e soggiunse, tra sé e sé: “Nella tomba”.

«Potrei anelare al favore, da parte tua, di andargli ad annunciare il mio nome e a dirgli che vorrei parlare confidenzialmente con lui?»

«Eseguirò ben volentieri l’incarico, mio bel signore.»

«Allora riferiscigli che Miles Hendon, figlio di Sir Richard, si trova qui fuori; ti sarò molto riconoscente, mio buon ragazzo.»

Un’espressione delusa apparve sul volto del suo interlocutore, che disse a se stesso: “Il re non lo ha chiamato così; ma non importa, costui deve essere il fratello gemello e potrà dare a sua Maestà notizie di quell’altro, scommetto”. Pertanto disse a Miles: «Entra qui un momento, mio buon signore, e aspettami finché non verrò a chiamarti».

Hendon entrò nel luogo indicatogli; trattavasi di una sorta di nicchia nel muro del palazzo, con una panca di pietra; un riparo per le sentinelle in caso di maltempo. Si era appena seduto che passò un reparto di alabardieri al comando di un ufficiale. Quest’ultimo lo vide, diede l’alt agli uomini, e ordinò a Hendon di venire avanti. Egli ubbidì e venne arrestato seduta stante, in quanto individuo sospetto che si aggirava intorno al palazzo. Le cose stavano cominciando a mettersi assai male. Il povero Miles si accinse a dare spiegazioni, ma l’ufficiale lo tacitò villanamente e ordinò agli alabardieri di disarmarlo e perquisirlo.

“Voglia Iddio misericordioso che trovino qualcosa” si disse il povero Hendon. “Mi sono frugato le tasche abbastanza a lungo senza alcun risultato, eppure le mie necessità sono più grandi delle loro.”

Nulla gli venne trovato indosso, tranne un documento. L’ufficiale lo aprì e Hendon sorrise riconoscendo i “ghirigori” scarabocchiati dal suo smarrito piccolo amico in quella luttuosa giornata a Hendon Hall. L’ufficiale si rabbuiò in viso mentre leggeva il paragrafo scritto in inglese, e nel frattempo Hendon, ascoltandolo, impallidiva, diventando così del colore opposto.

«Un altro pretendente alla Corona!» gridò l’ufficiale. «Davvero si moltiplicano come conigli, oggi! Afferrate questo furfante, uomini, e tenetelo ben stretto mentre io porto nel palazzo il prezioso documento per farlo pervenire al Re.»

Poi si allontanò frettolosamente, lasciando il prigioniero nelle mani degli alabardieri.

«Con ciò la mia nera sfortuna avrà finalmente termine,» mormorò Hendon «poiché ormai è certo che penzolerò all’estremità di una corda, a causa di quello scritto. Ma che cosa sarà del mio povero ragazzo? Ah, soltanto il buon Dio può saperlo!»

Di lì a non molto, vide l’ufficiale tornare indietro in gran fretta, e pertanto Miles chiamò a raccolta il coraggio, proponendosi di affrontare da uomo la cattiva sorte. Ma l’ufficiale ordinò agli uomini di liberare il prigioniero e restituirgli la spada; poi si inchinò rispettosamente e disse: «Seguimi, di grazia, mio signore».

Hendon lo seguì, dicendo a se stesso: “Se non stessi andando verso la morte e il giudizio di Dio e non fossi pertanto costretto a economizzare in fatto di peccati, lo strozzerei, questo furfante, per la sua beffarda cortesia”.

I due attraversarono un cortile gremito di persone e giunsero dinanzi all’ingresso principale del palazzo, ove l’ufficiale, con un altro inchino, consegnò Hendon a un imponente cortigiano, il quale lo accolse con profondo rispetto e gli fece attraversare una grande sala ai cui lati si allineavano due file di splendidi lacché (tutti fecero riverenze mentre i due passavano, ma soltanto per ridere poi silenziosamente dell’alto spaventapasseri non appena voltava le spalle), quindi su per uno scalone, tra gruppi di persone altolocate, e infine in un vasto salone; lì gli aprì un varco tra la più alta nobiltà d’Inghilterra, quindi si inchinò, gli rammentò di togliersi il cappello, e lo lasciò in piedi nel bel mezzo di quell’ambiente, fissato da tutti i presenti e causando un gran numero di cipigli indignati nonché di sorrisi divertiti e beffardi.

Miles Hendon era completamente sconcertato. Ecco che là, a cinque passi di distanza, sedeva, sotto un baldacchino, il giovane re, con la testa bassa e voltata dall’altra parte, intento a parlare con una sorta di uccello del paradiso umano... un duca, forse; Hendon si disse che era già abbastanza crudele dover subire la condanna a morte nel pieno rigoglio della vita senza che a ciò si aggiungesse anche quella insolita, pubblica umiliazione. Desiderò che il re si sbrigasse; alcuni degli sfarzosi personaggi intorno a lui stavano diventando offensivi. In quel momento, il re alzò lievemente la testa e Hendon poté vederlo bene in viso. Questo gli mozzò quasi il respiro! Continuò a fissare il bel volto giovanile come una persona paralizzata, poi, dopo qualche momento, esclamò: «Ma guarda, il signore del Regno dei Sogni e delle Ombre sul trono!».

Mormorò alcune frasi balbettanti, sempre guardando e meravigliandosi, poi volse gli occhi intorno a sé, sulla folla fastosa e sullo splendido salone, e bisbigliò: «Ma costoro sono reali...esistono davvero... senza dubbio questo non è un sogno!».

Tornò a fissare il re e si domandò: “È un sogno? O questi è il vero sovrano d’Inghilterra, e non il povero Tom, impazzito e senza amici, per il quale lo avevo scambiato? Chi risolverà per me questo enigma?”.

Un’idea improvvisa gli balenò nella mente. A gran passi si avvicinò alla parete, prese una sedia, la portò al centro della sala, la piazzò sul pavimento, e vi sedette!

Si levò un brusio di indignazione, una mano rude venne posta su di lui e una voce esclamò: «Alzati, marrano, buffone screanzato! Vorresti star seduto alla presenza del Re?».

Lo scompiglio attrasse l’attenzione di Sua Maestà, che tese una mano e gridò: «Non toccatelo; è il suo diritto!».

I nobili indietreggiarono, stupefatti. Il re continuò: «Sappiate, voi tutti, dame, Lord e gentiluomini, che questi è il mio fido e diletto servitore Miles Hendon, il quale, servendosi della sua valida spada, salvò il principe da lesioni fisiche e forse dalla morte; e per questo è stato fatto cavaliere, dalla voce stessa del Re. Sappiate, inoltre, che per un servigio ancor più grande, in quanto evitò al sovrano le frustate e l’onta, sottoponendovisi egli stesso, Sir Hendon è Pari d’Inghilterra, Conte di Kent, e avrà terre e oro in misura confacente alla sua dignità. Non solo... poiché il privilegio del quale si è appena avvalso gli è stato concesso dal Re, abbiamo ordinato che tutti i suoi discendenti avranno e conserveranno il diritto di sedere alla presenza di sua Maestà il Re d’Inghilterra, d’ora in avanti, e epoca dopo epoca, fino a quando esisterà la Corona. Che nessuno lo molesti!».

Due persone che, a causa di indugi, erano giunte dalla campagna soltanto quel mattino, e si trovavano nella sala da cinque minuti appena, udirono queste parole e fissarono dapprima il re, poi lo spaventapasseri, poi di nuovo il sovrano, in preda a una sorta di torpido smarrimento. Trattavasi di Sir Hugh e di Lady Edith. Ma il nuovo conte non le vide. Continuava a contemplare il monarca, stordito, e andava dicendo a se stesso: “Oh, povero me! Questi è il mio poveretto! Questi è il mio ragazzo impazzito! Questi è colui al quale volevo mostrare quanto fosse grandiosa la mia dimora di settanta stanze, con ventisette servi! Questi è colui che, a parer mio, aveva conosciuto soltanto stracci come indumenti, calci come consolazioni, e rifiuti come cibo! Questi è colui che ho adottato con l’intenzione di renderlo rispettabile! Volesse Iddio che in questo momento avessi un sacco in cui ficcare la testa per nascondermi!”.

Poi ritrovò a un tratto le buone maniere, e cadde in ginocchio, con le mani tra quelle del re, e giurò fedeltà, e rese omaggio per le terre e i titoli conferitigli. Quindi si rialzò e rispettosamente si tenne in disparte, ancora bersaglio di tutti gli sguardi... e di molta invidia, per giunta.

A questo punto il re notò Sir Hugh e parlò con voce irosa, gli occhi balenanti: «Spogliate quel ladro dei suoi falsi orpelli e delle proprietà rubate e imprigionatelo fino a quando avrò il tempo di occuparmi di lui».

Colui che era stato Sir Hugh venne trascinato via.

Vi fu un movimento, a questo punto, al lato opposto del salone; i nobili lì riuniti si separarono e Tom Canty, bizzarramente ma riccamente vestito, venne avanti tra le viventi pareti, preceduto da un cerimoniere. Si inginocchiò dinanzi al re, il quale disse: «Mi hanno informato sugli eventi di queste ultime settimane e sono assai soddisfatto di te. Tu hai governato il regno con la dovuta dolcezza e misericordia di un re. Hai ritrovato tua madre e le tue sorelle? Bene, sarà provveduto a esse, e tuo padre penderà sulla forca se tu lo desideri e se la legge lo consente. Sappiate, voi tutti dai quali vengo ascoltato, che a partire da oggi chiunque alloggi nell’Ospizio del Cristo, godendo della generosità del Re, avrà nutrimento anche per la mente e il cuore, oltre che per lo stomaco; e questo ragazzo dimorerà là e a lui spetterà il primo posto nell’onorato consesso dei governatori, vita natural durante. E per il fatto che è stato re, gli spettano particolari onori; osservate perciò questo suo abito di cerimonia, perché grazie a esso sarà riconosciuto, e nessuno dovrà copiarlo; e ovunque egli possa recarsi, grazie a esso ricorderà al popolo di essere stato sovrano, un tempo, e nessuno dovrà negargli il dovuto rispetto o mancare di salutarlo. Egli ha la protezione del trono, egli ha l’appoggio della Corona, egli sarà noto e denominato con il titolo onorevole di Pupillo del Re».

Il fiero e lieto Tom Canty balzò in piedi, baciò la mano del monarca e venne accompagnato fuori della sala. Non perdette tempo, ma volò da sua madre per raccontare ogni cosa a lei e a Nan e a Bet, affinché godessero con lui per la grande notizia ed esultassero.


34


Giustizia e ricompensa

Una volta chiariti tutti i misteri, risultò, in seguito alla confessione di Hugh Hendon, che la moglie aveva disconosciuto Miles per ordine suo, quel giorno, a Hendon Hall: un ordine accompagnato e rafforzato dalla promessa, assolutamente degna di fede, che se ella non avesse negato di riconoscere in lui Miles Hendon – senza mai smentirsi – Hugh le avrebbe tolto la vita; al che ella lo aveva invitato a togliergliela, la vita, ormai priva per lei di valore... poiché non intendeva ripudiare Miles. Il marito, allora, si era impegnato a risparmiargliela, ma a fare assassinare Miles! Questa era tutt’altra cosa, ed ella aveva promesso e mantenuto.

Hugh non venne processato per le minacce né per essersi impadronito delle proprietà e del titolo del fratello, in quanto moglie e fratello non vollero testimoniare contro di lui, né Miles lo avrebbe consentito anche se ella fosse stata disposta. Hugh abbandonò Edith e si recò nel continente, ove, di lì a non molto, morì. E, in seguito, il Conte di Kent sposò la vedova. Vi furono grandi festeggiamenti e un’immensa esultanza, nel villaggio di Hendon, quando la coppia vi tornò per la prima volta.

Del padre di Tom Canty nessuno seppe più nulla.

Il re fece cercare il contadino che era stato marchiato e venduto come schiavo, lo sottrasse alla vita disonesta con la banda di Attaccabrighe e gli assicurò un’esistenza agiata.

Tolse inoltre dalla prigione l’anziano avvocato e gli condonò la multa. Assegnò case decenti alle figlie delle due donne Battiste che aveva veduto bruciare sul rogo e punì severamente l’uomo che aveva ingiustamente fatto frustare Miles Hendon sulla schiena.

Salvò dalla forca il ragazzo impadronitosi del falcone disperso e anche la donna che aveva rubato un lembo di stoffa al tessitore; ma non fece in tempo a salvare l’uomo condannato per avere ucciso un cervo nella foresta reale.

Favorì la carriera del giudice impietositosi di lui quando si supponeva che avesse rubato il porcellino, ed ebbe la soddisfazione di vederlo affermarsi nella pubblica stima e divenire un uomo grande e onorato.

Fino a quando visse, il re narrò sempre volentieri la storia delle sue avventure, dal principio alla fine, dal momento in cui la sentinella lo aveva scaraventato lontano dal cancello del palazzo, fino alla mezzanotte conclusiva, quando si era abilmente unito a un gruppo di operai frettolosi, riuscendo così a entrare nell’Abbazia di Westminster e a nascondersi nella tomba del Confessore, ove aveva dormito così a lungo, il giorno seguente, che soltanto per poco non si era lasciato sfuggire la cerimonia dell’incoronazione. Diceva che la frequente rievocazione di queste lezioni preziose lo manteneva saldo nel proposito di beneficare il suo popolo mediante gli insegnamenti tratti; pertanto, fino a quando fosse vissuto, avrebbe continuato a raccontare la storia, mantenendo in tal modo vivi nella memoria gli episodi dolorosi e facendo sì che la sorgente della compassione continuasse a sgorgargli nel cuore.

Miles Hendon e Tom Canty continuarono a essere i prediletti del re per tutto il suo breve regno, e lo piansero sinceramente quando egli morì. Il buon Conte di Kent era troppo sensato per abusare del suo singolare privilegio, ma lo esercitò due volte, dopo la scena cui abbiamo assistito, prima di passare a miglior vita... una volta, in occasione dell’ascesa al trono della Regina Mary; e un’altra, in occasione dell’ascesa al trono della Regina Elisabetta. Un suo discendente si avvalse dello stesso privilegio quando fu Giacomo I ad ascendere al trono. Era ormai trascorso quasi un quarto di secolo, e più o meno tutti avevano dimenticato il privilegio dei Kent; per cui, quando il Kent di allora apparve dinanzi a Carlo I e alla sua corte e sedette alla presenza del sovrano per asserire e perpetuare il diritto della stirpe, scoppiò un gran putiferio! Ma tutto fu ben presto chiarito, e il diritto venne confermato. L’ultimo conte della stirpe cadde nelle guerre del Commonwealth, battendosi per il re, e lo strano privilegio finì con lui.

Tom Canty visse fino a tarda età, divenendo un bel vegliardo dai capelli bianchi e dall’aspetto grave e benevolo. Fino all’ultimo dei suoi giorni fu onorato, e addirittura venerato, poiché il suo imponente e singolare costume continuava a ricordare alla gente come, ai suoi tempi, egli fosse stato re; per cui, ogni qual volta appariva, la folla si separava per aprirgli un varco, e tutti bisbigliavano, l’uno all’altro: «Giù il cappello! Questo è il pupillo del Re!». Così, tutti lo salutavano, ottenendo in cambio il suo sorriso benevolo. Ma lo stimavano, anche, perché la sua era una storia onorevole.

Sì, Re Edoardo VI visse soltanto pochi anni, povero ragazzo, ma li visse degnamente. Più di una volta, quando qualche grande dignitario, qualche dorato vassallo della Corona, contestava la sua clemenza e sosteneva che certe leggi da lui emendate erano già sufficientemente clementi e non causavano sofferenze o oppressioni tali da giustificare proteste, il giovane re volgeva sull’interlocutore la luttuosa eloquenza dei suoi grandi occhi compassionevoli e rispondeva: «Che cosa sai tu di sofferenza e oppressioni? Io e il mio popolo le conosciamo, ma tu le ignori».

Il regno di Edoardo VI fu singolarmente misericordioso per quei tempi crudeli. Ora che stiamo per congedarci da lui, cerchiamo di tenerlo presente nel ricordo, per rendergli il giusto merito.

Table of Contents

Indice

 

Premessa

 

1 La nascita del principe e del povero

 

2 La fanciullezza di Tom

 

3 L’incontro di Tom con il principe

 

4 Incominciano i guai del principe

 

5 Tom divenuto patrizio

 

6 Tom riceve istruzioni

 

7 Il primo banchetto regale di Tom

 

8 La questione del Sigillo

 

9 Il corteo sul fiume

 

10 Il principe in trappola

 

11 Nel Palazzo Municipale

 

12 Il principe e il suo liberatore

 

13 La scomparsa del principe

 

14 “Le Roi est mort. Vive le Roi!”

 

15 Tom Re

 

16 Il pranzo di gala

 

17 Fufù primo

 

18 Il principe con i vagabondi

 

19 Il principe con i contadini

 

20 Il principe e l’eremita

 

21 Hendon giunge in soccorso

 

22 Vittima del tradimento

 

23 Il principe prigioniero

 

24 La fuga

 

25 Hendon Hall

 

26 Disconosciuto

 

27 In prigione

 

28 Il sacrificio

 

29 A Londra

 

30 I progressi di Tom

 

31 Il corteo del riconoscimento

 

32 Il Giorno dell’Incoronazione

 

33 Edoardo Re

 

34 Giustizia e ricompensa