Don Giovanni e Faust (Don Juan und Faust). Tragedia in 4 atti di Christian Dietrich Grabbe (1801-1836).
Pubblicata a Francoforte nel 1829, la tragedia venne rappresentata per la prima volta a Detmold il 29-III-1829, accompagnata dalle musiche di Albert Lortzing.

Le figure del dramma, ispirato a Goethe e al Don Giovanni di Mozart, rappresentano in modo simbolico i due aspetti dell'uomo europeo: l'uomo nordico (Faust) e quello latino (Don Giovanni). Don Giovanni, a Roma, dichiara il proprio amore a Donna Anna, la quale, pur ricambiandolo, sceglie di restare fedele al fidanzato Don Ottavio. Ad una festa danzante, successiva alle nozze di Anna e Ottavio, Don Giovanni incontra Faust, il quale è parimenti deciso a conquistare Donna Anna. Don Giovanni uccide Ottavio in duello; tuttavia, allorché si reca dalla sposa per rapirla, scopre che Anna è già in potere di Faust, il quale l'aveva fatta trasportare sulla cima del Monte Bianco, in un castello incantato, dal diavolo, suo cavalier servente. Insieme a Leporello, il suo servitore, Don Giovanni si getta alla ricerca dell'amata, la quale è bensi alla mercé di Faust, tuttavia rifiuta le sue offerte. La brama di conoscenza di Faust si trasforma ben presto in cieca gelosia, in brama d'amore. Don Giovanni e Leporello raggiungono il Monte Bianco, ma una tempesta, scatenata da Faust, li riporta a Roma; tuttavia, allorché quest'ultimo si accorge che Donna Anna è innamorata di Don Giovanni, la fa uccidere per la disperazione e va alla ricerca di Don Giovanni per comunicargli la notizia. Giovanni, tuttavia, appare molto meno addolorato di quanto Faust non si aspettasse: egli apprezza la vita, in grado di offrirgli nuove bellezze e nuovi piaceri, diversamente da Faust, incapace di coglierne gli aspetti gradevoli nella sua incessante inquietudine. In mezzo alle forze demoniache che io minacciano, Don Giovanni prosegue la propria vita spensierata e allegra, fino a che una pioggia di fuoco, scatenata dal diavolo, non uccide sia lui sia Leporello. Faust, nel frattempo, era già stato portato via dal diavolo.

Il dramma di Grabbe mette in scena due giganti, due uomini antitetici: Don Giovanni, che rappresenta la forza vitale e l'inarrestabile sensualità dei popoli meridionali, e Faust, l'uomo nordico, più riflessivo e più chiuso in sé, che aspira a diventare un superuomo e il cui desiderio di conoscenza e la brama di potere, che lo portano a stringere un patto con il diavolo, non placano né la sua sete di conoscenza né la sua aspirazione alla felicità; piuttosto, dalle forze demoniache, Faust vorrebbe sapere come avrebbe potuto diventare felice. L'opera manca tuttavia di coesione interna, risolvendosi in due drammi paralleli (i protagonisti si incontrano soltanto due volte) che si sviluppano in modo relativamente indipendente l'uno dall'altro. (Fabrizio Rondolino)


IL FAUST NICHILISTA E SCETTICO

La melanconia di Faust è non solo stimolo e preambolo della genialità, ma anche, prima ancora, disperazione psichica e esistenziale.
Nell'Ottocento abbiamo anche dei Faust nichilisti e melanconici, emblemi di un pessimismo che ricorda assai da vicino quello leopardiano. Si pensi al Don Giovanni e Faust, di Christian Dietrich Grabbe, del 1829. Nel Faust di Grabbe e in quello di Lenau, come vedremo poi, domina la pars destruens del mito. Grabbe nasce nel 1801 a Detmold nella Vestfalia e lì muore nel 1836. È lui stesso uno spirito faustiano: grande studioso di scienza, ma anche di poesia e di teatro, a un certo punto della sua vita, deluso di tutto, si dà all'alcol, che lo porterà ben presto alla morte. La sua produzione è tutta una celebrazione dei grandi personaggi "titanici", inventati o riesumanti dalla storia: Il duca Teodoro di Gothland, edito nel 1827, ma scritto tra il 1818 e il 1822; Mario e Silla, in due redazioni, 1813 e 1827; fino al ciclo di drammi dedicati agli Svevi, di cui solo due portati a termine, Federico Barbarossa, del 1829 e Arrigo VI, del 1830; poi anche Napoleone o i cento giorni, del 1830-31, e Annibale, del 1835. Si tratta di eroi in gran parte storici, ma tutti indistintamente impregnati da un profondo e annichilente pessimismo sullo stesso significato dell'esistenza umana.

Nel Don Giovanni e Faust la scena si svolge a Roma, dove Don Giovanni si trova con il meno titanico ma anche alter ego servo Leporello. Don Giovanni è innamorato della bellissima donna Anna, figlia del Governatore di Siviglia, ora deputato a rappresentare la Spagna a Roma. Lei deve sposare Don Ottavio, che Don Giovanni ucciderà, ma verrà incolpato dell'assassinio il mago Faust, che abita sull'Aventino. Faust è un mago, venuto dalla Germania per stabilirsi a Roma; è un luterano che tuttavia dubita ed è deluso anche di Lutero:

Ma, in fondo, cos'hai ottenuto, Lutero? Hai annientato l'illusione, come un lampo, l'hai arsa, l'hai ridotta in cenere e non hai messo niente al suo posto, nessuna verità che ci dia finalmente la pace. Al nostro sguardo deluso si apre l'abisso senza scampo. Distruggere e, con le macerie, erigere una torre di rifiuti: di questo è capace l'uomo mentre si affatica coi recipienti più svariati per addizionare le gocce e mettere in fila i ciottoli! Questa sarebbe la scienza, questo il fine dell'arte! Dio crea dal nulla, mentre noi costruiamo dalle rovine.

Tutto rovina attorno all'intellettuale, allo studioso e all'uomo in genere che, almeno, una volta, prima di Lutero, aveva dei direttori spirituali, ora non ha neppure quelli. Inevitabile la scelta diabolica: "Se una via conduce al cielo, quella che devo percorrere passa attraverso l'inferno."
Ma tanto la sua sete di sapere, quanto l'intenzione tutta faustiana di raggiungere il cielo attraverso l'inferno, conducono solo all'abisso del nulla (Dio è morto, ma anche Satana è impotente):

Chi sazierà la mia sete? A uno a uno mettere insieme i granelli di sabbia fino a formare l'immensa aridità del deserto e scavarci dentro la propria fossa fino a morire di sete e disperazione! [...] Chi ha solo concepito le mie ricerche? Quale via della scienza e dell'arte non ho preso in considerazione? Ho avuto il coraggio di spingermi (posso affermarlo in piena coscienza) ben oltre i limiti cui sono giunti tutti quelli che, superata la prima pietra miliare, tornano sui loro passi compiaciuti di se stessi, quei dotti sciocchi, fatui, che suscitano l'ammirazione e l'invidia di chi è ancora più sciocco! Io non ho fatto che camminare... Mi sono lasciato il sole alle spalle e solo a tratti l'ho intravisto, attraverso la nebbia, guardarmi triste e cupo come un occhio materno gonfio di lacrime! Lo guardavo perché cercavo una luce che superasse il suo splendore! E ora vedo il fine: davanti a me si spalanca la vertigine dove scroscia e rugge fuggendo il fiume dei sensi e del pensiero, nelle cui torbide acque il serpente del dubbio freme e si ritrae vomitando dalla lingua di fuoco le fiamme avvelenate! [...] E la Bibbia, il Grande Libro (tu, la cosiddetta Arca della Fede), colma di varianti, traboccante di doppi sensi, di saggezza e di enigmi singolari, le tue pagine non mi difendono in questo combattimento disperato: si accartocciano e cadono al suolo come foglie d'autunno e, se nulla bussa al mio vecchio cuore, nulla mi potrà salvare, non mille Bibbie, non mille paradisi, non mille eternità. Incisa a lettere di fuoco, una spaventosa sentenza mi perseguita: «Non puoi credere in niente che tu già non conosca e non puoi conoscere niente prima di credere ». Ogni intelligenza umana si misura con l'enigma e tenta di risolverlo, ma nessuno è riuscito a penetrarlo. Felice chi è sprovveduto al punto di cadere vittima dell'apparenza e scambiarla per luce e credere ciecamente perché cieca è la sua speranza! Oh, spiriti avvolti nell'eterno sonno! Eppure preferisco passare la vita tra atroci ' tormenti piuttosto che sopportare la felicità dei mediocri!

Si tratta evidentemente di una malinconia senza possibilità di guarigione, perché tutte le verità e certezze sono rovinate, una sull'altra. Nessuno, tranne forse Pessoa, ha saputo descriverci in modo più angoscioso la malinconia faustiana; una malinconia che è già tipicamente tedesca ("Se non fossi tedesco, non potrei essere Faust"). La felicità sta solo nelle illusioni, ma queste, a chi come Faust vuole la conoscenza, si rivelano proprio come illusioni: beati gli ignoranti - o gli animali - che si fermano all'apparenza, incapaci di smascherarla.
In questo stato di disperato scetticismo e disperazione, Faust evoca Mefistofele, quasi partorito da lui stesso, perché, come già abbiamo visto, preferisce attraversare l'inferno piuttosto che essere felice come i "mediocri". Mefistofele gli appare nelle vesti di cavaliere nero, prende Faust sotto il suo manto e lo porta sotto terra, poi in cielo e infine Faust riappare sulla terra col nome di conte di Mezzocampo, e si trova in una sala da ballo. Mefistofele, è, come dice a Faust, un dio molto più leale e affidabile del Dio cristiano, perché almeno vive nell'oscurità, nella notte, non illumina come il sole (da sempre simbolo di Dio) una realtà che poi si rivela falsa e illusoria. Faust gli ribatte che tuttavia è stato sconfitto da un essere più potente; ma Mefistofele risponde:

Sono stato messo fuori gioco da un astuto stratagemma. Lui voleva l'arbitrio assoluto e lo volevo anch'io. Lui si serviva di mezzi illeciti, io agivo allo scoperto. Lui, le catene, le chiamava amore e quanti sciocchi, vittime di questa parola, non sentirono il cozzo tremendo della ferraglia che li imprigionava, ma la notte è infinita, mentre la luce ha sempre bisogno d'essere alimentata e spesso è costretta ad estinguersi. [...] I nostri trom sono tanto vicini al cielo che solo il palmo di una mano può separarli. [...] Ma come, dottore! Non sai ancora che la notte genera l'aurora? E io non sono forse qui perché la luce del vostro piccolo orizzonte è solo un fuoco illusorio che brilla su un fondo nero?

La notte, insomma, è il luogo del più reale rispetto al giorno, alla luce; ma non nel senso romantico di una notte e oscurità pregni di un simbolismo polisemantico, ma una notte che recupera il suo significato originario, di buio, di oscurità e di confusione.
Il Cavaliere-Mefistofele, dopo avergli fatto visitare gli abissi infernali e i cieli, gli chiede se è alla fine soddisfatto, perché "finalmente sai cos'è l'Io, l'Universo e quell'entità che voi chiamate Dio". Ma Faust chiede di vedere "un abisso più profondo, una vetta assai più alta". E Mefistofele controbatte che anche se glieli mostrasse, lui, Faust, non sarebbe in grado di comprenderli; e perché chiede Faust? Perché, risponde Mefistofele, queste verità "sono al di là del tuo linguaggio". Un'impasse modernissima, semiologicamente ineccepibile: l'uomo non può comprendere ciò che il suo linguaggio non può esprimere, e il linguaggio dell'uomo è limitato ad esprimere solo ciò che è sperimentabile o razionalmente concepibile, perché "tutto ciò che non parla è privo di senso, è patrimonio dell'illusione".
Poi c'è l'immancabile patto tra Faust e Mefistofele firmato col sangue. A questa scena faustiana ne succede una con Don Giovanni protagonista, un deuteragonista ch'è anche antagonista, di Faust e dell'autore: è l'uomo che incurante di sapere, si ferma solo alla soddisfazione dei sensi, che sa vivere senza scrupoli e cinicamente: "Occorre urlare con i lupi, e con le donne bisogna fare il graffiasanti, occorre ballare e dire menzogne". Anche Faust si innamora di donna Anna, vista nello specchio, un'immagine riflessa che significa ancora illusione, di impossibili passioni, dell'amore come panacea del male di vivere: "L'illusione è l'unica verità, più vera della constatazione ultima: non sappiamo nulla!" Segue una festa in casa del Governatore, ministro della Spagna al Vaticano, dove arrivano anche Faust e il Cavaliere; Leporello, d'accordo con Don Giovanni innamorato di donna Anna, figlia del Governatore, provoca don Ottavio, lo sfida a duello e lo uccide; non soddisfatto, Don Giovanni uccide anche il Governatore. Faust, dopo aver per magia paralizzati tutti gli ospiti, rapisce donna Anna e la porta in un castello costruito da Mefistofele sul Monte Bianco; vuole conquistarla, ma lei si rifiuta, semmai è innamorata di Don Giovanni: neppure il patto col diavolo può far si che Faust possa soddisfare le sue pulsioni sessuali: a lui non è lecito amare ed essere amato.
Intanto arriva al castello di Faust anche Don Giovanni e Faust gli domanda: "Cosa significa essere uomo, se non aspiri al soprannaturale?", e a lui risponde Don Giovanni: "Al superuomo, sia angelo o demone, l'amore della donna è del tutto indifferente, come del resto, alle razze viventi inferiori della scimmia, del babbuino o della rana! Amico, credimi, io solo vivo e regno nel cuore di Anna!"
Faust ha fatto la scelta opposta a quella di Don Giovanni, una scelta la sua che, precisa, è tutta "tedesca" - di disprezzare il terrestre per aspirare al "soprannaturale" - contro quella "latina" di Don Giovanni, che invece cerca di godersi tutti i piaceri della vita, che è soddisfatto della sua dimensione umana, purché tutti i suoi desideri carnali siano appagati. Ambedue fanno, in senso diverso, un patto con Mefistofele, ma la sorte di ambedue sarà parimenti disastrosa. Alla fine Faust diventa, come doppio o sosia Don Giovanni, pluriomicida: uccide sia la legittima moglie da lontano, sia donna Anna; ma, a sua volta, viene strozzato dal Cavaliere nero. L'ultima scena è chiaramente influenzata dal Don Giovanni di Mozart: Don Giovanni banchetta con l'immagine impietrita del Governatore, in una pioggia di fuoco appare il Cavaliere che lo avvolge nel suo mantello e lo trascina all'inferno. Satana, che si era presentato in soccorso a due tipologie differenti di postulanti, resta l'unico pa
drone assoluto della scena: è il trionfatore, ma non perché si è impossessato di due altre anime, bensI perché ha vanificato, perché illusori, tutti i loro desideri, le loro speranze di potere e di conoscenza, d'amore e di sesso. Il diavolo, pur trascinando alla perdizione sia Faust che Don Giovanni, rimane il dio se non più affidabile, almeno più veritiero, perché ora il grande mistificatore' e illusionista non è più il mago Faust, bensì Dio stesso. (Paolo Orvieto)