Simile il Faust (1833-35) di Nikolaus Lenau (1802-1850), pseudonimo dell'austriaco Nikolaus Franz Niembsch Edier von Strehlenau. Poeta in preda ad una lacerante angoscia e a una pena d'esistere tipicamente romantiche, proiettate nel personaggio Faust, ma biograficamente sperimentate. Angoscia o melanconia caratterizzano il suo Faust, pubblicato per la prima volta nel 1836, anche questo espressione di un pessimismo universale, tipicamente leopardiano.
La seconda edizione del suo Faust è del 1841. Nel progetto iniziale, nelle vicende di Faust Lenau voleva presentarci un personaggio che rinnega la religione cristiana ufficiale per farsi cultore di un panteismo universalistico; poi, nella seconda edizione, ampliata, Faust vira a conclusioni pessimistiche, simili a quelle del Faust di Grabbe: la mente esaltata e inquieta del grande e titanico Speculatore, rifiutando quel dantesco stare contento al "quia", non accettando umilmente il suo essere insignificante creatura, sfida apertamente Dio e i suoi dogmi; tuttavia è un impari certame, in cui, come ai tempi degli exempla cristiani, Faust e ogni uomo come lui, risulteranno irrimediabilmente sconfitti.
Faust è ancora il grande Speculatore, affetto da eccesso di Streben, allora chiede l'aiuto di Mefistofele che, in vesti di affascinante dea, ha un piano ben preciso: fare in modo che la vittima rinneghi prima Cristo, poi sia rinnegato dalla Natura, in modo che sopravviva solo il Nulla, ch'è poi il vero inferno. Mefistofele comincia col dimostrare che Dio è un essere cattivo e sadico, in quanto fa nascere nell'uomo la sete di sapere per poi precludere ogni accesso alla verità. Faust, rinnegato Cristo e la sua morale, cade in preda alla lussuria, possiede una fanciulla e uccide il suo pretendente rivale. Non ha solo confutato Dio, ma ha anche, compiendo l'omicidio, trasgredito la natura umana, che quindi lo condanna e lo rinnega. Ma anche la Natura è, nell'arringa di Mefistofele, un intermediario malvagio, sadico almeno quanto Dio: crea incessantemente solo per poter poi distruggere tutto quello che ha creato. Uno dietro l'altro cade ogni ideale, ogni fede: nella scienza, nella religione, nella morale e nella natura. Faust ha come alternativa quella di trasformarsi in un nerboruto marinaio che fatica senza niente chiedersi, senza porsi problemi di conoscenza o di esistenza, ma godendo solo del vino e dell'amore. Un marinaio, tutto senso e niente intelletto, che evidentemente corrisponde al Don Giovanni di Grabbe: quasi polari alternative alla disillusa e autodistruttiva melanconia di Faust, ch'è una malattia tutta mentale. Ma Faust è, purtroppo, costituzionalmente, diverso dal marinaio tutto muscoli, è perseguitato da insopprimibile sete di sapere, da incurabile malinconia:

entro di me si sfrena
come un'orgia di forze incontenibili,
ribelli alla ragione, affaccendate
in opre, che non voglio e che non so.
Esiliato così da me medesimo,
punto e corroso dall'eterno dubbio,
smarrito, senza patria e senza meta,
tra l'abisso profondo dello spirito
e l'inaccessa rupe della vita,
barcollo sovra il ponte malsicuro
della coscienza, insino a quando il cuore
non si stanchi di battermi nel seno;
è la vita perenne nostalgia
d'una non conosciuta verità.

Questo Faust si illude di aver riconquistato l'onnipotenza dell'Io, è di nuovo il "centro e fulcro ed origine dell'Universo":

Voglio affermar dell'Io l'onnipotenza,
incrollabile in sé, di sé completo,
niun altro sommesso e pertinente!
;

è condannato ad essere lui il solo e unico Dio, dopo la scomparsa di quello tradizionale. Un Titano che ha spodestato Dio, ma non già grazie alla sua strenua resistenza e lotta, ma più semplicemente perché le divinità non esistono o sono solo degli esseri malvagi e impotenti. Tuttavia questo, di essere l'Onnipotente, è un compito che quel fragile fanciullo malinconico non può in alcun modo sopportare, lui che vive solo nella sua follia e nella sua malattia. Vorrebbe affermare la sua onnipotenza, macchiandosi di ogni più sacrilega colpa. Gli dice Mefistofele:

Tu l'esistenza devi trascinare
supinamente rassegnato, oppure
attraverso la colpa, risoluto,
romper nel regno della Verità.

Il demonio ha, come detto, un ben preciso piano per demolire, pezzo dopo pezzo, il povero Faust:

Da Cristo ormai per sempre egli è disgiunto:
or da Natura debbo separarlo.
Riuscirò! Preciso è il piano mio!
Io vo' gettarlo in grembo alla lussuria,
prima che in lui s'accenda un vero amore
[...]; il Delitto.
Come si sia macchiato d'una colpa
contro Natura, in eterno dissidio
con Natura sarà.
[...]
Ma come da Natura io l'abbia scisso
e solo ei sia con la sua essenza sola,
per entro il cerchio angusto io balzerò
e lascerò tutte le fiamme mie
ardergli attorno tormentose. Folle
ci si dibatterà nel cerchio igneo,
bramoso di trafiggere se stesso
siccome lo scorpione velenoso.
[... ]
Sì! Distruggendo,
mi sentirò (di contro al Creatore
alfin risurto) Creatore anch'io.

Non è più un diavolo-Mefistofele che propone alternative, semmai rivitalizzanti allo stato melanconico; è una divinità, la sola sopravissuta e sempre incombente, addetta a inoculare la corrosiva malattia dell'Io - o l'insostenibilità della sua onnipotenza -, che conduce, passo passo, Faust alla follia, al desiderio di avvelenare se stesso, come lo scorpione.

In una taverna Faust s'innamora di Hannchen ed è da lei riamato, tanto che lascia il fidanzato e lo segue. Ma Faust l'abbandona per andare a conquistare la moglie di un fabbro. Riappare anche Hannchen col bambino di Faust, che di nuovo l'abbandona e si rifugia in un monastero. Poi Faust si innamora di Maria, la figlia del re e uccide il duca Hubert, fidanzato di Maria. L'ultima scena vede Faust su una nave; senza più niente da perdere e avviato verso la sua rovina, getta in mare il capitano e il sacerdote, per cui la nave affonda e Faust muore sugli scogli. Non è, come ci si aspetterebbe, preda del diavolo, perché anche il diavolo "è soltanto un intorbidarsi della consapevolezza di Dio, un sogno di Dio, un sogno confuso". Dio e Mefistofele non sono più potenze esterne, tra le quali Faust deve scegliere, sono ambedue all'interno di Faust, l'uomo spaccato tra la sua impotenza e i deliri di onnipotenza; sono se stesso, parassitaria creatura che vive sul e del tronco dell'albero divino, ma anche contaminata dal morbo dell'esaltazione autarchica

Indicibile angoscia è al mio pensiero
ch'altro non sia l'umana creatura
fuor che timida pianta rampicante
avviticchiata attorno al Creatore
come a un tronco superbo, e che soltanto
attorno a lui volgendo le sue spire
le altezze possa attingere e la luce!
Se questa sorte data all'uman genere
medito bene, debbo convenire:
"meglio il Nulla sarebbe", ché la pianta
rampicante non è che vana forma
che di viver s'illude, e sol nel tronco
è la piena sostanza della Vita.

È un Faust ancora sfaccettato, impossibile da ridurre all'unità: si esalta e si autoproclama Dio, si macchia delle più infamanti colpe (nuovo Prometeo o Caino), ma, invece di rinvigorirsi dell'atto di trasgressione prima liberatorio, si abbandona alla deriva della sua disistima, della sua epidemica melanconia:

Nella mia stessa luce io vo' distruggermi,
darmi alle fiamme come al rogo diede
i suoi tesori e sé Sardanapalo,
bruciarmi con le gemme del mio spirito
e gioire in pensar che le combuste
gemme mai più ricreerà la Vita!

Questo Faust, tipico eroe romantico destinato sì all'annientamento, ma sempre controfigura del mitico Prometeo, è ora rimasto del tutto solo e abbandonato in questo mondo per lui senza senso, in cui, ma ancora in preda a insensate esagitazioni, continua a dibattersi, a cercare alleati o fantomatici nemici da combattere; ma nessun soccorso - come anche nessuna dannazione - gli può più venire, né dal cielo né dall'inferno.