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LAURETO RODONI

IL DEMONE DI ONEGIN


Maestro concertatore e direttore
d'orchestra:
Vladimir Fedoseyev
Regia:
Grischa Asagaroff
Scene:
Bernhard Kleber
Costumi:
Reinhard von der Thannen
Luci:
Jürgen Hoffmann
Coro:
Jürg Hämmerli
Coreografia:
Stefano Gianetti

Larina:
Stefania Kaluza
Tatjana:
Maya Dashuk
Olga:
Liliana Nikiteanu
Filipjewna:
Cornelia Kallisch
Eugen Onegin:
Michael Volle
Lenski:
Piotr Beczala
Fürst Gremin:
László Polgár
Hauptmann Sarezki:
Valeriy Murga
Triquet:
Martin Zysset
Vorsänger:
Vesselin Tchakov
Gillot:
Thomas von Grüningen

A proposito della Dama di Picche, Ciaikovskij ebbe a scrivere: «C'è qualcosa in quest'opera che spaventa e capita che io stesso ne abbia paura. [...] Quando sono arrivato alla morte di German e al coro finale ho provato un tale dolore per lui che mi sono messo a piangere disperatamente. [...] Soltanto uno specialista può comprendere quale impresa inverosimile io abbia compiuto. [...] Mi toglie il respiro...» Il coinvolgimento emotivo del compositore russo durante le fasi della creazione artistica, intimamente connesso alla sua esperienza esistenziale e alla sua Weltanschauung, era talmente intenso e profondo da costituire forse un 'unicum' nella storia della musica. Una doviziosa produzione epistolare e in particolare moltissime lettere indirizzate a Nadezda von Meck confermano che le sue opere (sinfoniche, liriche, da camera...) formano una sorta di sconfinato romanzo autobiografico in musica. Anche dietro le pieghe della vicenda di Eugen Onegin si svolge un altro dramma, legato all’Io del compositore, come se Cajkovskij si servisse della vita fittizia dei suoi personaggi per comunicare qualcosa che lo riguardava da vicino.
L’Onegin è, da questro punto di vista, uno dei capitoli più importanti e nel contempo un vertice artistico nell’ambito del suo ‘romanzo in musica’.*
Tener conto dell’aspetto biografico non significa ovviamente riferirsi a un generico e banale biografismo d’accatto, non fondato cioè su un rigoroso esame filologico delle testimonianze del compositore e della cerchia di persone che hanno interagito con lui nei periodi in cui componeva. Un approccio dilettantesco e superficiale alla biografia di Ciajkovskij è addirittura esiziale se i risultati vengono trasferiti in ambito esegetico-stilistico, poiché può indurre gli interpreti a privilegiare, non solo nel caso dell'Onegin, un’enfasi melodrammatica che distorce il senso del dramma, che evidenzia in maniera erronea (e stucchevole) la ricchezza emotiva del testo e della musica.
Dunque solo se svolta con serietà scientifica l'analisi biografica è imprescindibile sia per il maestro direttore e concertatore, sia per i cantanti, sia infine per il team che ha il non facile compito di allestire le «scene liriche» ciajkovskijane.
Per il regista
Grisha Asagaroff, i due protagonisti maschili, Onegin e Lenskij, pur nella loro diversità fisica, culturale e filosofica sono indissolubilmente legati non solo dal vincolo dell’amicizia, ma anche per il fatto che sono due facce della stessa medaglia: incarnano cioè il medesimo personaggio che altri non è se non Ciajkovskij stesso. Non è certo quindi un caso che Lenskij si presenti sulla scena con le fattezze del compositore in età giovanile.

D’altro canto Onegin è, come vedremo, solo in apparenza figura antitetica rispetto a Lenskij e al compositore. La frammentazione drammaturgica del protagonista-autore trova la sua unificazione in un personaggio inserito magistralmente nella vicenda dal regista; un personaggio che diventa il vero protagonista di quest’opera disperata: l'angelo nero, il demone dolorosamente contorto che si annida nell’anima di entrambi i personaggi, lugubre simbolo della loro incapacità di vivere e di amare (si pensi al Don Giovanni**) che li condurrà alla morte fisica (Lenskij) e a quella 'spirituale' (Onegin).

Chi ama veramente, in maniera struggente e parossistica, è la giovanissima Tatiana. Quando è sola nella sua stanza in camicia da notte bianca,

«i violoncelli esitano insieme a lei, l'avvolgono, e comincia la lunga, lunghissima sequenza che attraverso un lento crescendo di toni trascina la fanciulla fino all'acme della passione d'amore. Punteggiata da flauti tranquilli e da oboe dolcissimi, la lettera si scrive mentre Tatiana canta al ritmo di una penna che scorre sulla carta. Il destino ha deciso, è lui, è dio, siamo noi, un sogno, un angelo o un demonio... Frasi sconnesse, parole in equilibrio sulla musica, parole d'amore per nessuno, per un fantasma d'amore. Il corpo assente, pieno del niente che qualifica quest'opera, il vuoto delle passioni giovanili e la loro vana violenza, Tatiana scrive una lettera.» (Catherine Clément)

La scena della lettera è il culmine dell'anelito di Tatiana verso l’amore, troppo presto frustrato dalla crudele e ipocritamente paternalistica predica morale di Onegin sui pericoli che corrono le fanciulle quando si abbandonano ciecamente al loro sentimento. Tutte le aspirazioni della ragazza crollano miseramente, i suoi sogni si infrangono dinanzi all’indifferenza, al cinismo, alla stanchezza esistenziale di Onegin e il destino la condannerà a quell’infelicità, evocata già all’inizio dell'opera da Larina, la madre di Olga e Tatiana:

«L’abitudine ci è donata dal cielo a rimpiazzare la felicità».

Un monito, questo, che è una vera e propria prolessi di eventi successivi.
Anche Tatiana è una vittima del demone, dell’angelo nero, ma indirettamente, soltanto perché si innamora di un personaggio che di questo demone è succube.
La scena del corteggiamento di Olga è da interpretare, nella lettura di Asagaroff, come rappresentazione del processo esistenziale che porta Lenskij, in preda a uno stato confusionale sempre più grave, a una fatalistica autodistruzione, a un suicidio mascherato da omicidio, nella scena del duello, vertice di drammaticità musicale assoluto che anticipa i momenti più sconvolgenti della Dama di Picche.

Onegin-Ciajkovskij uccide Lenskij-Ciajkovskij, quel Ciajkovskij che fallisce miseramente, definitivamente, ‘mortalmente’ nel tentativo di conferire una borghese normalità alla sua vita aggrappandosi con frenesia quasi disperata all'istituzione del matrimonio. L’abbraccio di Onegin a Lenskij esanime

è la consapevolezza che un percorso di vita si è definitivamente interrotto e che ciò che segue non potrà essere che un destino di angoscia e di dolore. Lo stesso percorso che comporta per il compositore la catastrofe del matrimonio con l’accettazione coatta, difficile e tormentata, senza più vie di scampo, della sua omosessualità, condivisa di nascosto con Alësa, il giovanissimo, fedele servitore, da cui Cajkovskij dipendeva sul piano pratico e affettivo: «Alësa era contemporaneamente un compagno, una governante, un amico, un amante e un figlio» (Claudio Casini). ***
«Perché dunque non vedere nell’impossibilità di vivere certe situazioni sulla scena lirica (il matrimonio come coronamento dell’autentica felicità di coppia) il velo di quella condizione negata nella vita reale?» si chiede Michele Girardi. «Perché dunque non motivare l’unico episodio realmente tragico dell’intera opera come il simbolo della stessa negazione all’autentica felicità: una morte assurda suggella l’unico rapporto possibile tra i due uomini, proprio perché le convenzioni vietano loro altri tipi di legame?»

Vladimir Fedoseyev, profondo conoscitore dello stile ciakovskijano, ha diretto la sublime ma impervia partitura escludendo senza tentennamenti quel tipo di lettura melodrammatica in senso deteriore che svilisce la vicenda come se fosse un romanzo d’appendice rendendola addirittura stucchevole. Il dolore dei protagonisti e del compositore-protagonista è scarnificato, lancinante come la punta di stillicidi ghiacciati della Russia invernale. Una vicenda veramente 'agghiacciante', terribile per l’estremo pessimismo vi è racchiuso. Nessun compromesso, nessuna concessione vi deve essere da parte degli interpreti a un patetismo lacrimevole, che non esito a giudicare irriverente verso il compositore.
E sicuramente quella parte del pubblico legata a un Ciajkovskij stereotipato e falso se n’è andata delusa dal teatro. Fedoseyev ha esaltato senza iperboli una partitura dall’orchestrazione stupefacente, raffinatissima, spesso cameristica, dai colori di continuo cangianti che ben accompagnavano il cromatismo non oleografico delle scene di Bernhard Kleber. I piani sonori erano superbamente evidenziati, sempre sorretti da una continua tensione narrativa, esaltata da una flessibilità ritmica che permetteva subitanee accensioni drammatiche. Magnifica la prestazione dell’Orchester der Oper Zürich, in particolare nel settore degli archi, dove i violoncelli, guidati dal quel sensibilissimo musicista (e impareggiabile trascinatore) che è Claudius Hermann, hanno strabiliato per qualità degli armonici e del fraseggio. Un’orchestra che ha a tal punto compreso il valore di questa esperienza esecutiva, da tributare al Maestro un caloroso ringraziamento alla fine dell’opera.
Quanto al cast, mirifica la lacerata interpretazione di
Michael Volle del ruolo di Onegin. Voce baritonale robusta, timbro splendido e omogeneo, fraseggio morbido e ricco di sfumature, stilisticamente volte a modellare, senza enfasi, i complessi caratteri di Onegin: l’indolenza snob nel primo atto, la protervia, la disperazione per la morte di Lenskij e per il rifiuto di Tatiana... E anche sul piano scenico, Michael Volle ha saputo cogliere, superbamente vestito da von der Thannen e guidato da Asagaroff, i complessi 'passaggi' psicologici del suo personaggio.
Sullo stesso, altissimo livello interpretativo il Lenskij di
Piotr Beczala, senza dubbio uno dei migliori tenori lirici del momento, in grado, grazie a una tecnica strepitosa, di smorzare il suono a qualunque altezza, variandone lo spessore e l’intensità; suono portato ad assottigliamenti di sconvolgente impatto emotivo, soprattutto nell’aria che precede il duello, uno dei tanti vertici di questa notevolissima produzione zurighese.
Il giovane soprano russo Maya Dashuk ha pure pienamente convinto nel ruolo di Tatiana, soprattutto nella scena finale in cui la sua musicalità ed espressività erano associate ad un’impressionante presenza scenica, valorizzata da uno splendido costume, lugubre come il suo stato d'animo, e da uno spazio chiuso ed opprimente, metafora del suo destino, dove spettrali coppie danzavano una ossimorica Totentanz sulle allegre note della Polonaise.
Di eccellente livello anche il resto del cast:
Liliana Nichiteanu ha impersonato impeccabilmente Olga; László Polgár con un fraseggio di nobile compostezza, ha conferito una calda umanità al personaggio di Gremin. Nei ruoli minori grande rilievo han saputo dare Stefania Kaluza, Cornelia Kallisch e Martin Zysset ai personaggi di Larina, della balia e di Monsieur Triquet (il cui madrigale viene non di rado 'stritolato' dai tenori buffi; Zysset ha... cantato e come ha cantato!). Valeriy Murga, Vesselin Tchakov e Thomas von Grüningen completavano degnamente il cast. È un grande merito del Teatro zurighese quello di non trascurare la qualità anche nelle parti minori.
Per concludere, il coro diretto da
Jürg Hämmerli, alle prese con una parte di grande difficoltà, ha contribuito notevolmente, con una performance encomiabile, alla riuscita di tutto lo spettacolo.
Successo caloroso. Qualche dissenso per il team di regia, che però nel complesso è stato apprezzato dal pubblico. Si replica fino al 15 febbraio.

kkk
* Ciajkovskij è da annoverare senza ombra di dubbio tra i più grandi operisti di ogni tempo e il fatto che sommi capolavori come l’Onegin e La dama di picche siano relativamente poco rappresentati è dovuto soltanto alle enormi difficoltà di esecuzione, «tali e tante», come scrive Elvio Giudici, «da aver pochi paragoni possibili nel repertorio teatrale ottocentesco».

** In questo allestimento Onegin è anche una citazione (capelli, portamento, fattezze, atteggiamenti) del personaggio Don Giovanni nel memorabile allestimenzo zurighese di Flimm e Harnoncourt. E si sa quanto Ciajkovskij amasse quest’opera di Mozart.

*** Ecco la citazione completa: «Nasceva [nel 1871] un legame che sarebbe durato tutta la vita e che andava al di là di un semplice rapporto fra padrone e servitore; per un lungo periodo infatti, fra Ciajkovskij e Alësa ci furono anche affettuosi rapporti sessuali, almeno fino al momento in cui Alësa, superata l'età della pubertà e dell'adolescenza che tanto attirava Cajkovskij, non passò ad avventure e amori eterosessuali che si conclusero con due matrimoni successivi. Ma il legame fra i due restò fortissimo per tutta la vita. Da parte di Cajkovskij si trattò di una vera e propria dipendenza affettiva e pratica: Alësa era contemporaneamente un compagno, una governante, un amico, un amante e un figlio.» (Casini-Delogu, p. 87). Alësa (Aleksej Ivanovic Sofronov) fu, alla morte di ciajkovskij, un fervente promotore del Museo Ciajkovskij a Klin.