GIOVANNI CARLI BALLOLA - ROBERTO PARENTI
UN OTTIMO MONDO IMPOSSIBILE
(SULLA «CLEMENZA DI TITO»)


Sulla genesi della Clemenza di Tito, penultima opera di Mozart in ordine alla data della prima rappresentazione (Praga, Teatro Nazionale, 6 settembre 1791), ultima, se si tiene conto che la sua composizione venne a interrompere quella, già quasi portata a compimento, della Zauberflöte, più di uno studioso ha recentemente tentato di far luce, col risultato di accordarle un lasso di tempo un poco più ampio di quei "miracolosi" diciotto giorni tramandati da un'incontrollata notizia fornita dal Nissen o, meglio, dalle sue fonti, precipuamente il Niemetschek e il Rochlitz [1].
Lasciando da parte le illazioni arbitrarie, si può ragionevolmente ritenere, sulla scorta dei documenti pervenutici, che Mozart abbia incominciato a occuparsi attivamente della nuova opera nella seconda metà del luglio 1791. Soltanto allora, infatti, caduto il progetto primitivo di affidare l'incarico a Salieri [2] (il quale, troppo occupato a sostituire il proprio allievo Joseph Weigl assente nell'incarico di direttore del Teatro della corte imperiale di Vienna, aveva ripetutamente rifiutato la committenza), l'impresario Domenico Guardasoni provvide a girare la scrittura a Mozart, accordandosi nel contempo con il poeta di corte Caterino Mazzolà per l'adattamento del soggetto designato a "vera opera" (come si vedrà, l'espressione, ricavata dal catalogo dove Mozart annotò in data 5 settembre la nuova composizione, è da ritenersi significativa).
Era accaduto che, per i festeggiamenti indetti per l'incoronazione dell'imperatore Leopoldo II a re di Boemia, gli Eccelsi Stati Boemi, ossia i membri del governo residenti a Praga e responsabili nei confronti della corte di Vienna, avevano stipulato con Guardasoni un contratto per l'allestimento di un'opera seria. La decisione era stata presa con grande ritardo: la cerimonia si sarebbe svolta nella cattedrale di San Vito il 6 settembre, e il documento sottoscritto dalle cinque Eccellenze e dall'impresario reca la data dell'8 luglio. Proposto dallo stesso Guardasoni, il "suggetto" sarà infallibilmente metastasiano e acconcio all'aulica circostanza: La clemenza di Tito, melodramma nato nel 1734 con musica di Caldara per un altro festeggiamento asburgico, quello del giorno onomastico di Carlo VI. Da allora, le virtù di Tito Vespasiano, amor ac deliciae generis bumani, rimusicate decine e decine di volte sugli stessi versi ammiratissimi, tra i tanti, da Voltaire e dal Muratori, erano state puntualmente chiamate in causa a celebrare quelle dei principi di mezza Europa. Nel luglio del 1791, dopo la fuga di Varennes e la sanguinosa manifestazione repubblicana al Campo di Marte, esse ancora una volta - né sarà l'ultima - venivano evocate da quello che poteva ormai dirsi un automatismo cerimoniale dell'Ancien Régime a puntellare un'ideologia, quella dell'assolutismo illuminato, che la storia e la coscienza europea stavano relegando tra i gloriosi progetti civili del secolo morente, nobili alberi ormai senza frutto e squassati dalla bufera.
Né, a rendere omaggio al cognato di Luigi XVI, poteva più soccorrere il melodramma metastasiano così com'era stato scritto dal Poeta cesareo oltre un cinquantennio avanti. Da allora l'opera seria si era trasformata per vie diverse e in varie guise, tali comunque da renderla assai dissimile da quella espressa dalla struttura originaria del componimento teatrale di Metastasio, che consta, come tutti sanno, di un'alternanza pianificata di recitativi in endecasillabi e settenari sciolti e di arie strofiche, con due soli interventi corali replicati (15 e III 12-13) e senza alcun pezzo d'assieme. Il compito di Mazzolà consistette, per appunto, nel trasformare in "vera opera" tale sistema melodrammatico ormai improponibile, mediante uno sfoltimento di scene e dialoghi che ridusse a due gli originari tre atti, la sostituzione di alcune arie vecchie con versi nuovi, correlati all'azione del dramma e delle sue curve espressive e il più possibile funzionali all'effusione immediata del sentimento del personaggio (quindi, con preferenziale eliminazione dei momenti melici sentenziosi, razionaleggianti o metaforico-descrittivi) e l'introduzione di tutti i pezzi d'assieme: i tre duetti, i tre terzetti e i due finali d'atto.
Negl'interventi sostitutivi e integrativi, Mazzolà operò con una spregiudicatezza che allora era considerata normale, contaminando versi propri con versi metastasiani, smantellando intere scene e riutilizzandone in parte le macerie, opportunamente integrate con materiali nuovi, negli ensembles e nei finali. Il risultato sarà un libretto abbordabile da parte di un compositore degli anni Novanta sufficientemente edotto sullo stato di cose relativo all'opera seria del suo tempo, la quale aveva ormai acquisi in buona parte e stabilmente le strutture, se non, ovviamente, spirito, dell'opera buffa. Un libretto, peraltro, nel quale l'intrigo romanzesco e amoroso, ridotto al suo schematico meccanismo, fa aggio fatalmente sui contenuti ideologici e morali e sulle finezze psicologiche che in Metastasio lo giustificano e ne costituiscono il pregio culturale e il fascino poetico. Basti osservare come, dalla riduzione di Mazzolà, esca sconciata e priva di gran parte del suo significato politico la famosa scena 7 del terzo atto, tanto amata da Voltaire, dove Tito si esprime con parole tali da essere "eterna lezione di tutti i re e incanto di tutti gli uomini" [3].
Anche come veicolo di comunicazione ideologica, oltre che come istituto melodrammaturgico, l'opera metastasiana aveva fatto il suo tempo. Purtroppo era destinata ad essere la sola: chance offerta dalle circostanze al più grande drammaturgo musicale del secolo, rimasto per dieci anni escluso dal mondo dell'opera seria: senza contare che per Mozart, le cui fortune professionali avevano toccato il fondo, essa rappresentava in quel momento una committenza ufficiale e istituzionale che sarebbe stato dissennato disattendere. Prima ancora di avere notizie circa la compagnia di canto che Guardasoni era andato a contrattare in Italia, egli si mise al lavoro, mandando avanti tutte le parti dell'opera meno vincolate alla tipologia vocale degli interpreti (concepita in un primo tempo per voce di tenore, la parte di Sesto dovette poi venire riscritta in chiave di soprano per il musico Domenico Bedini); il grosso dell'opera fu composto tra il 15 e il 25 agosto, e l'ultima rincorsa al traguardo del 6 settembre verrà ovviamente presa a Praga, dove il Maestro era arrivato il 28 agosto con Constanze e il famulus Süssmayr, il quale (secondo una notizia non documentata) gli darà una mano nella stesura dei recitativi semplici e nelle altre mansioni da retrobottega artigianale. A Praga Mozart avrà il piacere di rivedere, sotto il paludamento di Tito imperatore, Antonio Baglioni, il suo primo Don Ottavio; gli altri interpreti saranno Maria Marchetti Fantozzi (Vitellia), il già menzionato Domenico Bedini (Sesto), Carolina Perini en travesti (Annio), Gaetano Campi (Publio) e una signora Antonini (Servilia). Dopo una "prima" dall'esito incerto, il successo dell'opera andò crescendo nel corso delle repliche, culminando nell'ultima di esse, avvenuta il 30 settembre, simultaneamente alla "prima" della Zauberflöte.
A conti fatti, la recente verifica documentaria non ha gran che cambiato le carte in tavola alla tradizione biografica che vuole la clemenza di Tito scritta a tamburo battente. A tale proposito, si è anche avanzata l'ipotesi (destinata, allo stato attuale delle ricerche, a rimanere tale, nonostante tutti gli sforzi fatti per attribuirle maggiore consistenza) che Mozart, per guadagnar tempo, si fosse indotto a fare ciò che non aveva fatto mai: recuperare, cioè, un rondò con corno di bassetto obbligato - per l'esattezza, la sua seconda sezione, Allegro - composto alcuni mesi prima per Josepha Duschek e Anton Stadler e, previ opportuni ritocchi e l'aggiunta del recitativo introduttivo e del Larghetto espressamente composti, trasformarlo nel brano più celebre dell'opera, il rondò di Vitellia "Non più di fiori" (II 4) che mediante una transizione orchestrale di grande efficacia emotiva porta direttamente allo splendido coro che apre l'epilogo. La presenza nel programma di un concerto tenuto dalla Duschek e da Stadler a Praga il 26 aprile 1791, di un fantomatico "Rondò del Signor Mozart con corno di bassetto obbligato" non registrato nel catalogo tematico dell'autore, e le solite illazioni basate sull'analisi dei vari tipi di carta filigranata utilizzati dal compositore, sono, per il momento, i soli dati sui quali è stata costruita questa ipotesi .
Con le sue undici arie e i suoi undici pezzi d'insieme e/o corali, senza contare i quattro recitativi accompagnati, La clemenza di Tito si colloca alla pari accanto all'Elfrida (1792), una tra le opere serie più progressive di Paisiello su libretto di Calzabigi, e comunque dalla parte nettamente maggioritaria di quei melodrammi di fine secolo nei quali i pezzi d'insieme, per quantità e importanza, incominciano a pareggiare e talora (Gli Orazi e i Curiazi di Cimarosa, 1796) a soverchiare i numeri solistici. Con questo Mozart si era assicurata la carta vincente della simultanea dialettica psicologica e affettiva di più personaggi, collegata con lo sviluppo del discorso musicale: un principio capitale della drammaturgia musicale moderna, germogliato, come ben sappiamo, nel terreno dell'opera buffa, e al quale il dramma serio si era accostato in ritardo rispetto ai precedenti trascorsi, beninteso fruttuosi, in partibus della tragédie-lyrique e degli esperimenti gluckiani, ma in tempo per una sua rigogliosa rigenerazione su presupposti nettamente antitetici.
Fece di più, ideando, con audacia pari all'eccellenza degli esiti raggiunti, nel finale primo un grandioso ensemble di azione, ma di una concezione e di un ritmo teatrale assai più rettilinei, concisi e liberi di quelli usuali, non che dell'opera seria coeva, della stessa opera buffa. Anche questa volta, come già era avvenuto in Idomeneo, sono i conflitti privati dei singoli personaggi a proiettare attorno a sé un lungo cono d'ombra, determinando l'atmosfera, la "tinta" verdiana: un elemento che nell'opera seria, almeno fino al Rossini del terzo atto di Otello o del primo della Donna del lago, sarà evento rarissimo, per non dire eccezionale. Esso trova origine, ancora prima dello stravolto recitativo obbligato di Sesto "O dèi, che smania è questa" col quale ha effettivamente inizio il finale, nel terzetto "Vengo! aspettate!" (I 11) dove Vitellia, nell'apprendere che Tito l'ha inopinatamente designata sua sposa, esprime tutto il suo smarrimento per avere, soltanto pochi istanti prima, spinto Sesto al regicidio, mentre Annio e Publio fraintendono i suoi sentimenti. Un brano d'inusitata concitazione, rivelatore repentino (anche se i suoi prodromi non saranno sfuggiti all'ascoltatore attento della sinfonia e del primo duetto) di una tra le possibili chiavi di lettura di quest'opera ambigua ed elusiva, certo la più imprevedibile per chi si fosse lasciato traviare al suo cospetto da estetizzanti miraggi parnassiani o da banali definizioni di gusto neobelcantistico: quella di una aggressiva gestualità neoclassica di segno già cherubiniano, estremo distillato dei raptus espressionistici gluckiani e in Tito manifesta in primo luogo nella tipeggiatura vocale dei due personaggi più lacerati dalle passioni, Vitellia e Sesto.
Una scrittura che sfrutta in senso drammatico evidenti peculiarità dei due interpreti, divaricandone sistematicamente il canto declamato per amplissimi intervalli, con sùbite impennate e inabissamenti nelle note ultragravi. Memore del cri français, Mozart non si perita di prescrivere a Vitellia un con forza proprio sulle note di passaggio (terzetto cit., btt. 32 ss.), seguito con fulminante contrasto da un sotto voce. Esplosioni di angoscia, come quelle di Vitellia, alle parole "Le grida, ahimè, ch'io sento" (finale I, btt. 80-81) o di Sesto, alle parole "Ah, tardo è il pentimento!" (n. 11, recitativo accompagnato, btt. 78-81) e "Ah, dove, o stelle, è andata / la sua dolcezza usata? " (n. 18, terzetto, btt. 812) appartengono a una Stimmung assai più vicina alla "parola scenica" di un melodramma romantico, con la sua simbiosi armonico-vocale di tipo accentuativo e interiettivo, che alla declamazione di matrice franco-gluckiana, efficace fin che si vuole, ma incisa sulle tavole di bronzo di un sistema ferreamente controllato da quella superiore unità di misura, chiamata classicismo. Un che di sinistrò e allucinato ingombra, al contrario, le più intime fibre del davvero formidabile - nel senso propriamente etimologico dell'aggettivazione - rondò di Vitellia "Non più di fiori", oscuro labirinto del pathos percorso da capo a fondo dal sommesso muggito del corno di bassetto, Minotauro tenero e terribile del racconto di Borges. Una pagina tanto più terrifica, nella sua spettrale compostezza cantabile e nello spirito di simmetria dei suoi impassibili interscambi tematici tra voce e strumento, che con effetto travolgente emerge dal suo Erebo alla luce abbagliante del successivo coro "Che del ciel, che degli dèi", tra gli esempi più chiari del gusto arcaicizzante - quei ritmi puntati, di memoria händeiana - cui, qui e altrove, è indotto in tentazione un musicista già ossesso dal dèmone freddo del metacomporre.
Ma torniamo al finale primo (denominato, per l'esattezza, "Quintetto con coro"), vero cuore pulsante dell'opera, che proietta a distanza il corrusco delle sue fiamme notturne. Una sua analisi particolareggiata non è stata affrontata ancora, e occuperebbe lo spazio di un saggio. Sintetizzando al massimo, diremo almeno che la sua novità di concezione e la sua efficacia drammatica consistono, essenzialmente, nella sua sistematica oscillazione tra simmetrie e asimmetrie di parametri ritmici e fraseologici, distribuite nell'ambito di una macrostruttura estremamente lineare, la cui dinamica culmina nelle battute centrali di un recitativo, rapido e soffocato, tra Vitellia e Sesto ("Sesto! Da me che vuoi?", ecc.); dopo le quali si passa da una musica di azione ad una di contemplazione tragica, da un tempo pressoché reale ad uno ideale. La tentazione di avvertire, nell'Andante conclusivo, un lontano preannuncio del lirico concertato ottocentesco viene vanificata, oltre che dalla rapida e quasi sommaria concisione dell'episodio - quasi un flash fotografico che immobilizza una scena di terrore e sgomento nel suo divenire - dal suo svolgersi quasi esclusivamente attraverso un nudo declamato sillabico dei soli e del coro, frantumato da pause e da interiezioni sconvolte su accordi dissonanti dell'orchestra.
È a questa componente di esasperazione espressiva, nera corrente infera sottesa da Idomeneo attraverso Don Giovanni, il Quintetto in sol minore e la trilogia sinfonica dell'88 e destinata a estinguersi rampollando tra "le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l'erme" di un dramma romano antico-metastasiano, che il Tito deve la consistenza e la coerenza drammaturgica del personaggio di Vitelia: astrazione di eroina tragica, certo, e non affatto rapportabile alla concreta umanità di una Donna Anna o di una Donna Elvira; ma astrazione esasperata al limite dell'assoluto, nella quale alita quel non so che di terrifico avvertibile nell'iperbolico delirio passionale di una Roxane o di un'Hermione raciniane. Il gesto e il grido di questo estremo Mozart tragico suonano infatti rappresi come quelli delle salme pompeiane imprigionate nella colata lavica, in una tesa stilizzazione che costituisce il segno dominante dell'opera, l'elemento unificatore in virtù del quale la sua diseguale temperie inventiva ne esce dissimulata, quasi fosse stata immersa in un mordente purificatore. Ma è anche la ragione della lunga sfortuna sortita ad essa lungo tutto il secolo XIX e per buona parte del nostro, dopo il breve volo compiuto nell'Europa imperiale e restaurativa dominata dal gusto neoclassicistico, e prima del suo recente risorgimento sull'onda della rinascita di quello stesso gusto, intrecciato a certo estetismo belcantistico non sempre di prima lega: un soggetto di grande interesse per quella storia della ricezione musicale che si sta da più parti delineando in tutta la sua suggestiva ampiezza di prospettive estetiche.
L'aggiornamento formale, sul quale ci siamo più volte soffermati, si accompagna infatti nel Tito, con paradosso tutto mozartiano, ad una forte tendenza a ipostatizzare in stilemi assoluti e atemporali le strutture del melodramma italiano, facendone una sorta di metastorica idea platonica dell'opera seria. Questo è avvertibile al massimo grado nell'assunzione, si direbbe, simbolica, di forme d'annosa codificazione stilistica, quali l'aria di bravura col "da capo" che rispunta fuori - "Se all'impero, amici dèi" (II 11) - come pezzo forte di prammatica del protagonista; e non nella morfologia, per così dire, rammodernata, con la quale era apparsa dieci anni prima nella celebre aria "Fuor del mar" di Idomeneo - un brano che riveste un'analoga posizione strategica, come momento di massima evidenziazione del ruolo del protagonista -, ma in quella, nobilmente antiquata (netta differenziazione agogica, ritmica e tonale, oltre che espressiva, della seconda parte e "da capo" integrale, anche se riscritto in vista della conclusione alla tonica) dell'ultima aria di Idomeneo "Torna la pace al core" (III, scena ultima). Quanto, inoltre, potessero ancora, sulla memoria di questo Mozart operista serio in extremis, suggestioni ormai remote nel tempo ma penetrate in lui come patrimonio generico di un'indefettibile tradizione italiana, lo dimostra questo eloquente raffronto.

Ma il Tito comprende altresì alcune grandi arie di concezione più moderna, formate da due distinti movimenti, lento e veloce, e assegnate esclusivamente a Sesto e a Vitellia. Fatto salvo il già commentato, abissale rondò di questa, tali brani sono tra quelli che meglio giustificano la faccia levigata e apollinea, che di preferenza si è voluto illuminare, della medaglia imperiale.
Qui la stilizzazione sfiora non di rado i territori di un automanierismo graziosamente anodino che tocca primati non mai raggiunti nel teatro di Mozart: si pensi solo alla distratta gratuità di una frase come quella, "Tanto affanno soffre un core, / né si more di dolor" (btt. 53 ss.), che disinvoltamente balza fuori nella seconda parte di un episodio solistico, come il rondò di Sesto "Deh, per questo istante solo" (II 9), tutt'altro che privo di momenti intensi, e che stenta a trovare giustificazione anche presso la coscienza critica più hanslickiana. Persino in tali eccessi d'indifferenza, non riscattabili certo in nome dell' "oggettivismo" o di altre estetiche scappatoie, dal momento che solitamente coincidono con delle vere cadute inventive, si denota la contraddittorietà senza eguali che al di sotto di quel candeggio d'omologazione stilistica, cui si accennava più sopra, conserva sostanzialmente quest'opera sorprendente e ovvia, formidabile e dilettevole, commovente e deludente: dalla quale non ci saremmo aspettato tanto e insieme ci aspetteremmo di più. Il giusto mezzo vi è forse mantenuto da momenti d'un'estasi lirica così tersa e inesausta - il duetto di Annio e Servilia "Ah perdona al primo affetto" (15) - o di una soavità così angelica - il duettino liederistico di Sesto e Annio (13); il coro con solo di Tito "Ah, grazie si rendano" (II 4) - che sembrano contenere ogni aspetto dell'ultimo stile mozartiano, con riguardo ancor più per la produzione strumentale che per Così o per la stessa coeva Zauberflöte: alla quale (pregio o difetto?) mancano l'autunnale estenuatezza e lo sgomento tragico del suo gemello italiano.
Quello che abbiamo già altrove definito come l'ultimo approdo neoplatonico mozartiano, la liberazione dell'Idea musicale dal soverchio del marmo neoclassico che la circoscrive, raggiunge in queste pagine i suoi esiti estremi; gli stessi che la pienezza vitalistica di Papageno e la palpitante tenerezza di Tamino e Pamina impediranno di conseguire alla Zauberoper di Schikaneder. È, questa, la sola spiegazione plausibile da darsi alla brevità e alla trasparenza singolari, estese a tutti i suoi elementi costitutivi - dalle forme alla scrittura orchestrale - che contraddistinguono l'opera e che non sono certo dovute (come si è spesso affermato) a una composizione incalzata dalla frett ma a una precisa scelta estetica. Una scelta palesemente contraria alle attese di una committenza che si aspettava un operone di circostanza, e che invece otterrà un melodramma postumo bifronte ed elusivo, dove Tartaro ed Elisi, passato e avvenire appaiono del pari trascesi in un assorto, privato fantasma drammaturgico, dal quale il secolo imminente non potrà, a lungo andare, che prendere le distanze.