GIULIO CAPRIN

L'OMBRA DI SOFOCLE
NELL'ELETTRA DI HOFMANNSTAHL


DAL PROGRAMMA DI SALA DELLA PRIMA
RAPPRESENTAZIONE ALLA SCALA DI MILANO NEL 1909


È stato detto che Sofocle ha fatto la fortuna di Hugo von Hofmannstahl; ma si potrebbe anche dire che Hofmannstahl stia facendo la fortuna di Sofocle, per lo meno ne rinfresca la popolarità. Mi spiego: un critico che senta il bisogno di passare per una persona colta presso i suoi lettori, dopo la rappresentazione della nuova tragedia di Elettra, ha buon giuoco e può anche credere di avere buon gusto opponendo al giovane poeta viennese, alla sua maniera di concepire, al suo stile soltanto questo solenne nome antico: Sofocle. Un tal nome lanciato là come prima o come ultima battuta di una critica o pronunciato con un sorriso di compiacenza o di superiorità è di effetto sicuro sui lettori; questi si sentono molto lusingati di vedersi trattati come persone che la tragedia greca la hanno sulla punta delle dita, perché, per quanto male si dica dell'erudizione, il passare per erudito fa piacere a tutti; e così i lettori fanno volentieri eco al critico ripetendo anch'essi con un ambiguo sorriso: Sofocle!
In conclusione l'Hofmannstahl dovrebbe esser punito per l'audacia di aver osato riprendere una tragedia che l'antico scrittore ha consacrata con il suo nome, e magari annientato a beneficio del suo grandissimo antecessore; ma questi non ha davvero il bisogno di un annientamento altrui per essere quello che è, vale a dire il più luminoso tragico greco, cioè un artista i cui procedimenti di necessità erano molto e molto lontani da quelli del teatro moderno. Costringere la tragedia nostra ad essere simile a quella greca non sarebbe meno assurdo che dolersi se la tragedia greca non assomiglia alla nostra. E nel caso speciale dell'Hofmannstahl, questi, nonostante il soggetto identico alla tragedia Sofoclea, ha il diritto di essere giudicato in sè stesso, senza la minaccia perpetua di quel confronto con una grandezza che non veramente può essergli confrontata perchè è una grandezza di genere diverso.
Soltanto movendo da questa convinzione che il teatro greco ha un significato, un fine, un modo di espressione diversi dai nostri si può mettere a riscontro le due Elettre; altrimenti sotto un parvente fervore di classicismo c'è il caso di nascondere un'ingiustizia verso l'Hofmannstahl, per il discutibile piacere di fare dello snobismo intellettuale. Perchè sono proprio gli snobs intellettuali che sentono il dovere di esaltarsi ogni volta che si fa loro il nome della tragedia greca. Ma un classicista sincero non può affatto rallegrarsi come di un consenso alla sua causa se sente dire - cosa che succede - di una signora che va pazza per l'Antigone e per l'Edipo; perchè il classicista sincero sa che ad intendere compiutamente queste opere si arriva con una preparazione lenta, per volontà riflessa e non per rivelazione improvvisa. Anzi per gustarle a pieno bisogna spogliarsi di abitudini mentali a cui non è facile rinunciare: bisogna aver la capacità critica di essere per qualche poco non moderni per godere la bellezza d'arte che si nasconde in quelle forme letterarie così lontane. La bellezza artistica è come la religione: muta forme e riti secondo i tempi e i luoghi; e se pure lo stesso Ente e la stessa idea si nascondano sotto le infinite rivelazioni, i più non possono intenderlo e adorarlo se non secondo i riti della loro confessione particolare.

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Un riscontro fra la Elettra dell'Hofmannstahl e la sofoclea gioverebbe appunto a mostrare la profonda diversità che è tra il teatro tragico greco ed il nostro.
Basta aprire la tragedia dell'antico. Essa si inizia con il dialogo tra il Pedagogo ed Oreste (presente è anche Pilade, ma è personaggio muto), i quali sono già arrivati ad Argo per compiere la vendetta dell'ucciso Agamennone, uccidendo Clitennestra, la adultera omicida, e il suo drudo correo Egisto. Essi nella prima scena espongono per filo e per segno agli spettatori lo stato delle cose e le loro intenzioni, e come si infingeranno per non essere conosciuti e per non far nascere sospetti.
Per noi un tale inizio sarebbe assurdo perchè toglie ogni possibilità di sospensione. Un tale procedimento poteva esser buono per il teatro greco, il quale - pare - sulla sospensione non contava affatto nè poteva contarci perchè le sue tragedie erano svolgimenti di leggende conosciutissime, nè il tragèdo si prendeva il diritto di modificarle per ottenerne degli effetti a suo modo. Ma che diremmo noi dell'Hofmannstahl se non avesse cominciata la sua Elettra in tutt'altra maniera, con la scena delle ancelle, la quale senza prevenire l'azione futura subito ci introduce nell'orrore della casa contaminata e ci intona ad ascoltare i truci lamenti di Elettra?
Ma anche non fermandosi troppo sulla diversità della tecnica teatrale, che in 2400 anni ha avuto il tempo di mutare, c'è nell'intima concezione delle due Elettre una differenza inconciliabile: sono due razze, due civiltà, due anime diverse che considerano un caso umano.
La concezione dell'Elettra sofoclea è in fondo una concezione pacata. Leggendola noi moderni - e per quanto ci si insegni di non esserlo, restiamo sempre prigionieri del nostro tempo - restiamo come insoddisfatti perchè ci sembra che i sentimenti e sovra tutto l'espressione dei sentimenti non corrisponda alle azioni. Le azioni sono terribili: un antefatto crudele prepara una crudelissima catastrofe, delitti contro natura, vendette snaturate sulla casa infelice; ma le parole che esprimono tanto orrore sono nella loro gravità misurate e serene.
Per quanto al nostro senso morale ripugni l'idea di una figlia che si strugga di veder uccisa la madre che le ha sgozzato il padre, teatralmente noi possiamo anche prendere le sue parti - ogni buono spettatore è un po' partigiano - quando la sua azione selvaggia sia preparata da un furore più che umano, e di questo possiamo aver la prova anche nel furore dell'espressione. Tutta la tragedia deve essere oppressa da un'aria lugubre: l'odio deve essere l'alimento di tutti i personaggi, torbidi, pieni di orrore.
Tali veramente appaiono la protagonista e la antagonista nella tragedia dell'Hofmannstahl, creature di violenza ferma, ma umane nella loro perversità. Quelle di Sofocle più di una volta ci sfuggono; la loro psicologia non ci lascia persuasi.
C'è tanto nell'antica tragedia quanto nella moderna un dialogo centrale fra Clitennestra ed Elettra; situazione spaventosa: una madre che tortura la figlia perchè ne teme l'odio, una figlia che dà ragione all'odio materno perchè ne desidera la morte, l'una posta contro l'altra.
L'Hofmannstahl ha espresso di questa situazione la terribilità sostanziale, senza sforzare la verosimiglianza psicologica. Nella sua scena Clitennestra va a cercare di Elettra perchè i sogni la tormentano, e nella sua coscienza di colpevole la figlia, quantunque odiata, esercita sempre un fascino come di maga possente; ed Elettra conduce un dialogo di ossequio simulato, che si muove per una varia serie di infingimenti drammatici prima di scoppiare nell'aperta e violenta espressione dell'odio.
Ma la Elettra e la Clitennestra di Sofocle sembrano di altra carne. Clitennestra comincia a parlare alla figlia ponendo con tutta calma la questione della sua complicità, ed usa un linguaggio pieno di dialettica, ma per le esigenze del teatro moderno - vuoto di drammaticità. Uditela:
«Io non ho arroganza: ma parlo male di te perchè sento che tu spesso parli male di me. In fatti il tuo eterno pretesto noia è altro se non che tuo padre è morto per mia mano. Per mia mano lo so benissimo: io non voglio negare tali cose. Ma la giustizia, non io sola, lo ha ucciso; e a questa giustizia tu avresti dovuto dar mano se fossi stata saggia, perchè questo tuo padre, che sempre piangi, osò solo fra i Greci sacrificare agli Dei la tua sorella!!»
A questo tranquillo cinismo di Clitennestra, Elettra oppone una serie di considerazioni che vogliono giustificare Agamennone del sacrificio di Ifigenia, a cui l'altra aveva alluso - per insistere sulla colpa della madre e sul suo desiderio di vendetta con una chiarezza per noi inconcepibili.
Se Sofocle fosse un giovane autore e trattasse ora questa situazione come la ha trattata, tutti i critici lo rimprovererebbero di aver sciupati tutti gli effetti che ne poteva trarre. L'accusa sarebbe fuori di luogo in bocca nostra, ma anche la semplice ipotesi ci mostra una volta di più che noi chiediamo al nostro teatro una drammaticità che i Greci o non volevano o non sapevano ancora ottenere.

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Di questo bisogna tener conto nel giudicare la rapida, intensa tragedia che il caposcuola dei giovani poeti viennesi, l'Hofmannstahl, ha offerto alle note di Richard Strauss, una tragedia di nome e di contenuto antico, ma di spirito modernissimo, degna di star vicina alla ardente e perversa Salomé wildiana, che già piacque al musicista germanico.
Tale è del resto una caratteristica dell'Hofmannstahl di riprendere motivi già trattati da altri scrittori in altri tempi, e di risentirli e di rinnovarli con la sua anima nuova: un metodo che potrà sembrare troppo audace soltanto a coloro che ignorano che alcune delle più grandi opere d'arte sono rifacimenti di motivi e invenzioni già esistenti in altre opere d'arte: Faust o Don Giovanni sono i più noti di questi temi ciclici, ma anche di molti altri è pieno il teatro tragico di tutte le letterature. E forse la necessità di riprendere soggetti già trattati, perchè le situazioni fondamentali, i casi di dolore e di passione più cospicui sono limitati in sè: la varietà infinita è nel pensiero e nell'arte degli scrittori che vi si soffermano.
L'Hofmannstahl, che qui appare come un rinnovatore della materia sofoclea, in una tragedia anteriore, La Venezia salvata, aveva preso il soggetto da un quasi ignoto tragèdo inglese del '600, Thomas Otway, soggetto che - indipendentemente dall'inglese - era stato trattato da un poeta nostro, Giuseppe Revere. Eppure l'Hofmannstahl rimane sempre uno scrittore personalissimo, e chiunque esamini senza preconcetti la sua Elettra, ne rimarrà volontieri convinto.
Egli ha saputo esprimere in una rapida azione un concepimento nuovo dell'antica tragedia, concepimento realistico e poetico ad un tempo. E crudelmente realista la situazione di Elettra, urlante fra i cani il suo dolore rabbioso; sono di un fiero realismo molti particolari che qualunque tragedia classica avrebbe volentieri evitati, il colloquio delle ancelle malediche e sboccate, le ingiurie degli intimi schiavi alla decaduta figlia di re.
Non certo così parla nella tragedia antica il coro delle donne micenee, che porta la voce della calma e della ragionevolezza in mezzo alle passioni greche. Ma, con altra arte, un senso e un colorito poetico temperano e trasformano la cruda energia delle cose anche nella tragedia moderna.
È una poesia conveniente al carattere della situazione; una poesia di immagini audaci, violente, un contrasto crudo di luci ed ombre come è crudo il contrasto delle fiaccole rosse sull'ombra tragica del palazzo maledetto. È una poesia che parla a tutti i sensi; e cerca i suoi paragoni tra le cose che odorano e sorridono, ma anche tra le cose che putono e sghignazzano. Ma è un merito innegabile di questa poesia pur fastosa ed eccessiva di adattarsi al dramma senza sopraffarne l'impeto serrato.
Con tale opera Hugo von Hofmannstahl porta per la prima volta in Italia la sua giovinezza gloriosa e fortunata. Anche per la sola Elettra egli può essere giudicato e pregiato: ma ha il diritto di chiedere che nella discussione non sia indotta l'ombra di Sofocle.