lunedì 7 giugno 2004 Avete
girato alcuni video che riprendono interni senza esseri umani. Sembra che
siate affascinate da questo tipo di ambienti. Perchè? La ragione per
cui gli ambienti non hanno persone al loro interno è perché sono stati abbandonati,
non sono più abitati. La scelta per questo tipo di situazioni è legata probabilmente
al nostro interesse per la storia recente e soprattutto per il passato recente:
alcuni di queste costruzioni non sono più rilevanti o non sono più funzionanti,
perché la storia procede e muta, eppure sono ancora parte del nostro passato,
della nostra storia. Sono in una specie di limbo, ed è questo che vogliamo
esplorare: l’essenza particolare di qualcosa che è ancora parte del nostro
passato, ma sembra non avere più importanza, non è più utilizzato.
Scegliete spesso anche edifici che hanno una connessione con il potere... In
un certo senso tutti gli edifici hanno connessioni con qualche tipo di potere!
“Potere” è una parola così generica a volte. Potere, possente... L’architettura
è essa stessa possente e questa è la natura di ogni sito. Ma alcuni edifici
hanno un “passato politico” e sembrano parlare di quel particolare “passato
politico”.
E la presenza umana, invece? Nei due lavori che vengono presentati alla Fondazione Halevim compaiono delle persone. Nel video Dreamtime
si vedono esseri umani (addetti ai lavori e astronauti) sulle strutture esterne
di un razzo spaziale, mentre nel video a 4 canali Monument (Apollo Pavillion, Peterlee)
ci sono dei bambini che giocano sulle strutture abbandonate dell’edificio.
Entrambi danno l’impressione di un’estrema fragilità… In Dreamtime
–magari può sembrare troppo romantico!- c’è quasi un senso di un sacrificio.
Tre cosmonauti che stanno per essere mandati nello spazio, ha un che di sacrificale,
in un certo senso... ovviamente hanno tre tonnellate di carburante che li
porteranno a destinazione; c’è anche un senso di aggressione e un certa tensione.
E quando guardi la struttura in sè, sembra in effetti una specie di catapulta
meccanica, basilare, eppure alimentata da tutto quel carburante... sembra
quasi un “burning man”, un fantoccio che brucia: come dicevamo prima, una
specie di rituale, un sacrificio. E’ sicuramente qualcosa di estremo a cui
prendere parte. Per quanto riguarda invece l’altro video, Apollo Pavillion,
i bambini non potrebbero arrampicarsi su quella struttura, è proibito. Ma
questa è per loro un divertimento eccitante. Sembra che questo edificio l’abbiano
colonizzato, conquistato: per loro è un parco giochi. Quello che è interessante
e divertente è come lo scalano, come si arrampicano su di esso, sono così
agili. Per loro è un posto fantastico per giocare...
Parliamo
di nuovo delle strutture prive di presenze umane: sono state create dagli
uomini, ma sembra che abbiano una loro vita propria, una sorta di genius loci... Secondo
noi c’è piuttosto una memoria, un senso della memoria che ogni visitatore
si porta dietro quando percorre questi luoghi; ognuno si porta il proprio
senso della storia. Nel lavoro abbiamo cercato decisamente di condensare
l’esperienza. Le cose, come hai detto, hanno una specie di “atmosfera”, forse
non proprio uno “spirito”, ma sicuramente hanno un’atmosfera. Quello che
cerchiamo con tutte le nostre forze di distillare in alcuni dei film e delle
installazioni è di evocare davvero una sorta di atmosfera.
Come
artiste, avete al vostro attivo video, ma anche fotografie e alcune sculture.
Perchè avete scelto in particolare il video e la fotografia come media d’elezione? Quando
abbiamo cominciato a lavorare insieme, facevamo fotografie e giravamo video
in Super8; abbiamo visto parecchie performance e lavori “time-based”. In
qualche modo il video è stato un’estensione naturale, un passaggio dalle
immagini fisse delle fotografie alle immagini in movimento. E poi il film
è la maggior forma d’arte del XX secolo. Viviamo in una cultura, in una società
formata dal cinema, il linguaggio filmico è d’uso corrente. Abbiamo sempre
fotografato lo spazio, poi dalla fotografia siamo passate a voler animare
le situazioni, a volerci muovere attraverso lo spazio: ci è sembrato logico
a quel punto passare al video, al filmare gli spazi. In generale la fotografia
precede il processo filmico...
Nei
vostri video sembra che adottiate un punto di vista esterno, lontano dal
soggetto filmato, che abbiate un’attitudine neutra nei suoi confronti. E’
sicuramente una scelta consapevole quella di posizionare lo spettatore in
una determinata situazione. Siamo consapevoli della fisicità del vedere,
di come la visione del film debba essere anche un “incontro fisico”, in un
certo senso. Abbiamo scelto di non partecipare ai nostri video e di non avere
un rapporto diretto con le cose o le persone che filmiamo. Tendiamo a “uscire”
perché quello che vogliamo tentare di fare è rappresentare cose che vanno
al di là di noi stesse, avere un impatto maggiore, un’implicazione più impersonale,
andare oltre la nostra esperienza personale, di artiste e di spettatrici.
C’è qualcosa che vogliamo condividere con lo spettatore. Cerchiamo di “fare
un passo indietro” in modo che ci sia uno “spazio” in cui lo spettatore possa
entrare, vedere il lavoro e provare la propria esperienza, piuttosto che
la nostra.
Gli spazi che riprendete danno spesso un’idea di tensione,
quasi di ansia, dove anche le persone, quando ci sono, acquistano uno status
non umano... In Dreamtime i corpi che occupano lo spazio diventano quasi “scultorei”, quasi rimossi in un certo senso; in Apollo Pavillion
è veramente importante l’intervento dei bambini sulla costruzione, dove c’è
quasi un momento di anarchia su questa struttura così modernista. In Dreamtime
poi, è ripreso il lancio di un razzo, qualcosa che non fa parte della nostra
esperienza comune, ecco perchè abbiamo scelto di rappresentarlo, di mostrarlo
ed ecco perchè fa sentire una certa ansia: è qualcosa di assolutamente insolito.
Inoltre si assiste ad un evento, al suo procedere, il che provoca sicuramente
un crescendo di tensione fino al lancio finale.
articoli correlati Jane & Louise Wilson alla Fondazione Halevim link correlati Le Wilson nominate per il Turner Prize monica ponzini
Bio: Jane e Louise Wilson sono nate nel 1967 a Newcastle, in Inghilterra. Cominciano
a lavorare insieme nel 1992 e da allora collaborano nella realizzazione,
in particolare, di foto e video, focalizzando l’attenzione su strutture architettoniche
legate al potere e alle istituzioni. Le loro opere sono state esposte in
tutto il mondo, dal Kunstverein di Hannover alla Kunsthalle di Nurnberg,
dallo Stedelijk Museum di Amsterdam alla Serpentine Gallery di Londra. Nel
1999 sono state nominate per il Turner Prize. La mostra alla Fondazione Halevim
è la prima personale in Italia.
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