GERARDO GHIRARDINI

«La Gioconda»:
dalla pièce al libretto d'opera


INVITO ALL'OPERA MURSIA

Prima di passare tra le mani di Arrigo Boito, il dramma di Victor Hugo era già stato ridotto a melodramma da Gaetano Rossi, il quale, in calce al riassunto degli antefatti citava la fonte sottolineando come si sia reso necessario il cambiamento di nomi (da Tisbe a Elaisa, da Caterina a Bianca, da Rodolfo a Viscardo, da Angelo a Manfredo, da Omodei a Brunoro) e di località (da Padova a Siracusa), oltre a «qualche carattere e situazione». Il tutto, con la musica di Saverio Mercadante, vide la luce alla Scala di Milano l'l 1 maggio 1837.
A parte la curiosa concomitanza di un Angelo di César Cui, rappresentato a S. Pietroburgo nel medesimo anno della Gioconda, giova far cenno per dovere di cronaca all'interesse che l'argomento vittorughiano ebbe a suscitare nel francese Alfred Bruneau, autore di un Angélo, tyran de Padoue su libretto di Ch. Meré, rappresentato a Parigi nel 1929.
Ben diversa da quella di Rossi per Mercadante è la posizione tenuta da Boito: meno fedele nella sostanza, ma di maggior presa sotto il profilo operistico. Più che rifiutare la tesi sociale di Victor Hugo, il librettista padovano non se ne cura, fornendo una risposta d'altro tipo, in linea con il vento che soffia sui nuovi indirizzi della cultura italiana. Basta già il primo alito per scombinare un poco le carte, secondo un diverso ordine.
Gioconda (ex Tisbe) ama Enzo (ex Rodolfo), ma questi ama, riamato, Laura (ex Caterina), moglie di Alvise (ex Angelo) che nessun rapporto ha con Gioconda, amata da Barnaba (ex Omodei). Ecco dunque la nuova disposizione dell'intrigo, in cui - come vedremo - gioca un ruolo di primo piano la figura della Cieca. Inoltre, il consueto rapporto sentimentale soprano-tenore si tramuta in quello tra mezzosoprano e tenore, spingendosi ancora più in là. Enzo infatti, non solo non ama Gioconda (cosa ormai scontata), ma arriva a caricarsi di indifferenza sottovalutando il sacrificio da lei affrontato con tanta dedizione. Mentre in realtà nell'Angelo vittorughiano a Rodolfo scappa quello sconfortato «Miserabile!» di cui si diceva poc'anzi, mentre Viscardo nel Giuramento si rammarica di aver ferito a morte Elaisa («Ed io l'uccisi! oh cielo!»), Enzo non ha effettivamente nulla da rimproverarsi, essendosi il suo tentativo di omicidio bloccato allo stadio puramente intenzionale. Quindi, solo dopo essersi reso perfettamente conto dello stato delle cose voluto da chissà quale combinazione, si limiterà a spendere aggettivi come «santa» e «benedetta», rivolti a Gioconda con fare oltremodo rassegnato. Non sono dunque ragioni d'ordine sociale a causare la morte della protagonista, ma la sua stessa mano guidata, per dirla con Luigi Baldacci, da «una necessità naturale nel grande quadro biologico dei destini umani».
Mai Gioconda si lascia sfuggire parole di autocommiserazione come accade a Tisbe, allorché questa rievoca la triste infanzia: «Sapete che cos'è essere un bambino, un bambino povero, debole, nudo, miserabile, affamato, solo al mondo...?»; «Viviam cantando ed io/Canto a chi vuol le mie liete canzoni», ecco al contrario come si qualifica l'eroina di Boito.
Il suo rapporto con il tenore, dicevamo, appare problematico, essendo Enzo Grimaldo conteso tra due donne. Ma la cosa non si risolve come in analoghi precedenti nei quali il triangolo «lui, lei e l'altro» finisce col trasformarsi sic et simpliciter in «lui, lei e l'altra». Pensiamo per esempio alla figura di Pollione, il tenore della belliniana Norma, che sceglie la via del rogo da percorrere assieme alla protagonista, o a Radames che per amore sfiderà la morte, battuto sul tempo da Aida che già lo attende tra le tenebre della tomba. Fatto, quest'ultimo, da associarsi al carattere profondamente morale dell'opera verdiana. Com'era da prevedersi, la lezione viene disattesa da Boito. Enzo appare spesso e volentieri in buona luce, e ciò gli procura l'encomio del pubblico. Eroico nel tentativo di salvare la Cieca dal patibolo, diffidente verso Barnaba in nome della lealtà e del coraggio, spontaneo nello slanciarsi contro Alvise Badoero colpevole di uxoricidio, rimane comunque - come si diceva - abbastanza impassibile nei confronti del sacrificio di Gioconda; o, ancor meglio, in questa circostanza nulla fa per sviare l'ormai prevedibilissimo corso degli eventi. La sua è dunque una presa d'atto d'ordine scientifico. L'impegno morale, si sa, esula dalla concezione scapigliata volta a disincantare il pubblico, anziché renderlo estatico di fronte a forme di tipizzazione romantica che, a conti fatti, sanno più di divino che di umano, più di utopia che di leggi della vita. Il pulpito non è certo la sua giusta destinazione.
Il Finale dell'opera, se nelle premesse può in qualche modo ricordare quello del Trovatore (Gioconda baratta con Barnaba il proprio corpo in cambio della libertà di Enzo, analogamente agli accordi tra Leonora e il Conte di Luna), nelle conclusioni resta un caso a sé. Diciamo pure che per i due spasimanti (Enzo e Laura) il tutto finisce in gloria, né più né meno di quanto accadrà in una Fanciulla del West; con la sola differenza che qui ci scappa il morto, e si tratta della protagonista. Se poi si aggiunge il particolare che, oltre a privarci della consolazione di sapere ricongiunta in cielo Gioconda con l'amato (come nel caso di Leonora e di Manrico: e anche su questo, transeat!), Boito suggella l'epilogo con la furibonda uscita di scena di Barnaba, il tragico quadro si completa nella più squallida desolazione. «Perduta la madre, perduto l'uomo», Gioconda si squarcia il petto, così soccombendo allo scatenarsi degli eventi. La voragine spirituale è ancora maggiore di quella fisica e porta un nome preciso: solitudine, per altro acuita da una buona dose di compiacimento esibizionistico. «Volesti il mio corpo dimon maledetto? E il corpo ti do!» Due volte la parola «corpo», contro la castissima aggettivazione usata da Leonora nel Trovatore.
Se l'avere abbandonato Gioconda a se stessa può considerarsi un elemento di novità tutt'altro che irrilevante, un vero asso nella manica tipicamente boitiano appare l'idea di trarre dal ripostiglio della memoria la figura della vecchia madre, trasformandola in Cieca e affidandole il compito di personaggio-chiave, ora 'casus belli' come nella Scena della sommossa, ora depositaria di poteri occulti espressi dal rosario (la croce di Hugo), infine mezzo per svelare la «morte» di Laura durante la festa a Ca' d'Oro. Per non parlare del costante rapporto psicologico, anche a distanza, con la figlia. Una relazione che potremmo definire di dipendenza. Anche quando non compare in scena come nel secondo e nel quarto atto, la sua presenza aleggia ugualmente sullo sviluppo delle vicende, cosicché l'opera potrebbe benissimo intitolarsi La Cieca, mentre in Hugo il personaggio è solo rievocato:

Era una povera donna senza marito che cantava canzoni morlacche sulle piazze di Brescia. Io andavo con lei. Ci buttavano qualche soldo. Così ho cominciato [...]. Un giorno nella canzone che cantava senza capirne le parole, pare ci fosse una qualche rima offensiva per la signoria di Venezia, ma che fece ridere gli uomini d'un ambasciatore che ci stavano a sentire. Passava un senatore: guardò, sentil e disse al capitano maggiore che lo seguiva: «Alla forca quella donna!».
Quasi nullo invece è il rapporto (in senso più quantitativo che qualitativo) tra la protagonista e Barnaba, tipica figura di «baritono» che cerca amore trovando solo resistenze limitate, per altro, a poche ma efficacissime battute nel primo atto e nel Finale dell'opera, giacché il dialogo del terzo atto nel quale Gioconda si promette al «terribile cantor» esercita i propri riflessi sull'andarnento generale del Concertato, più che sul diretto rapporto tra i due interlocutori. Personaggio cinico e raziocinante, Barnaba possiede il monopolio del male. Per esempio, tutto compreso nell'atto della delazione, filosofeggia sul potere e sui suoi torvi risvolti, ma trova il modo di infilare considerazioni psicologiche anche all'interno di una Barcarola quale «Pescator, affonda l'esca», confondendosi proditoriamente con la ciurma, in piena regola con la propria vocazione di sbirro («Sta in guardia! e il rapido sospetto svia/E ridi e vigila, e canta e spia»). Nel suo orizzonte non c'è alcuno sprazzo di luce, ma solo uno straripante desiderio di cose negative. È una figura sordida come l'Omodei di Victor Hugo, al quale la morte precoce non impedisce di portare a compimento i più turpi e diabolici piani. Quell'Omodei che, poco prima di morire, esclama: «Se sarete voi a seppellirmi, mi lascerete un braccio che sporga dalla terra, su dritto, a figurare la mia vendetta».
Non commediante vissuta o cortigiana dagli ignoti trascorsi e dall'ambiguo presente come Tisbe, ma artista che potremmo definire «acqua e sapone», Gioconda fa del proprio candore motivo di vanto. Assolutamente priva di malizia, si presenta come colei che ha sempre sorriso e che vive cantando liete canzoni in compagnia dell'adorata madre di cui regge il «tremulo piè», ma dalla quale è a sua volta sorretta spiritualmente. Un quadro senza dubbio roseo, come pure un mezzo per fare d'acchito centro sul pubblico. Gioconda è dunque figura incontaminata dalle esperienze negative della «collega» vittorughiana scossa, già in tenera età, da tristissime vicissitudini. Una voce, la sua, immune da sofisticazioni, a differenza di quella di Tisbe, ormai consumata nell'arte di usare toni melliflui. Inoltre il suo passato ha una trama esile, vien fatto di dire inesistente, mentre quello della cortigiana venera abbonda in particolari. Ciò spiega l'accanirsi di quest'ultima, sempre in balìa degli eventi, sempre esposta a mille intrighi, contro l'aristocrazia e le sue regole di vita. La bella e lieta cantatrice di Boito salta tutte queste tappe («dalla fame all'orgia»), restando perciò circonfusa da un'aureola di purezza che le riserva un posto di privilegio nel cuore di tutti, ma non in quello di Enzo. Eppure, all'interno di questa fanciullesca rispettabilità si nasconde un carattere forte che la rende inavvicinabile alle profferte di Barnaba dal quale non si lascia intimidire («Al diavol vanne colla tua chitarra!»), così come non cede di fronte alla concorrente in amore, trasformandosi in un'autentica furia («Ed io l'amo siccome il leone/ama il sangue, ed il turbine il vol»).
Analogamente dicasi per la capacità di padroneggiare le situazioni, malgrado i dubbi e i cedimenti tipici di un'anima inquieta come la sua. Ma un elemento ha in comune con Tisbe, trasmigrato da Hugo a Boito con accenti ancor più effettisfici: il desiderio di morte. In questo contesto giova ricordare il punto in cui Enzo la minaccia violentemente a causa del rifiuto da parte sua di svelare il nascondiglio in cui giace il corpo di Laura. Atto accolto con favore ma bloccato, a differenza del corrispettivo vittorughiano, dal risveglio della presunta avvelenata. Una sorpresa, non c'è che dire, tenuta in serbo dal librettista con particolare abilità melodrammaturgica. A parte l'atmosfera di per sé grondante di dettagli funerei, ciò che acquista un forte sapore emozionale è il «fulmine» di cui brilla il pugnale di Enzo, così come la risposta, tempestiva quanto laconica, di Gioconda: «Oh gioia! M'uccide! ». Due parole soltanto, due autentici fulmini a ciel sereno. Se la pièce indugiava in atti («Tisbe gli prende la mano e gliela bacia») e commenti («Ah! Al cuore! Mi hai colpita al cuore! Cosà va bene... Grazie! Mi hai liberata ...»), il libretto corre più speditamente. È innegabile che questo sia un «colpo di teatro», anche in relazione al fatto che il prisma caratteriale della protagonista si arricchisce di nuovi vocaboli; per esempio quello di una Gioconda «furibonda iena, gelosa della morte», come la vede Enzo in preda all'ira. Né si dimentichi, procedendo a ritroso nell'ultirno atto, il Monologo «Suicidio!» che autorizza a parlare di compiacimento decadente spinto alle soglie della sensibilità verista. Prova ne sia la definizione di suicidio, «Ultima voce del mio destin/Ultima croce del mio cammin». Che il De Sanctis scriva nel '75 Il principio del realismo non è un caso.
E siamo alla fine. Quand'anche disorientata, la nostra cantatrice può ormai appagare la propria vocazione masochistica, non prima comunque di essersi fatta beffa dell'inesorabile Barnaba, truccandosi e abbigliandosi per lui, ma in realtà allontanando di qualche istante il momento fatale. Un crudele gioco il cui massimo dell'impudenza consiste, non solo nell'offrire il proprio corpo esanime al bavoso spasimante, ma soprattutto nell'impedirgli di essere ascoltato mentre narra la sua ultima prodezza, vale a dire l'uccisione della Cieca. In tal modo la beffa allarga a dismisura i propri confini. Un fatto non privo di rilievo: la morte di Gioconda esce dalle regole che imporrebbero di calare il sipario su spasimi, benedizioni, imprecazioni, pentimenti e così via, esaurendosi invece, dopo questo cinico gioco di specchi, nel precipitoso eclissarsi di Barnaba tra le tenebre di Venezia.
Abbiamo conosciuto un Enzo saldamente ancorato a posizioni morali, ma un po' freddino nei confronti di Gioconda che gli dà l'estremo saluto. Boito si preoccupa di porlo anche in altra luce rispetto a certa atmosfera tesa: per esempio facendogli adottare un gergo marinaresco o impegnandolo in esibizioni liriche di cui non v'è traccia in Victor Hugo. Propiziato dall'atmosfera notturna del secondo atto, il giovane principe vede nell'uniformità del panorama («Cielo e mar!») un «santo altare» dal quale proviene l'«angelo» ardentemente atteso. Ma le possibilità di fare sfoggio di attitudini liriche non si limitano a questa, dal momento che tra poco ad esse si aggiungeranno altre divagazioni sull'ambiente («Siamo in un'isola tutta deserta/Tra mare e cielo, tra cielo e mar») e sui destini d'amore («Noi salperem; cogli occhi al firmamento/Coi baci in fronte e colle vele al vento! »). Egli, inutile ripeterlo, adesca abilmente gli appetiti della platea, quasi volesse farsi perdonare in anticipo la magra figura che lo attende verso la fine dell'opera.
A fargli compagnia in questi momenti di contemplazione c'è Laura, personaggio fragile rispetto alla vittorughiana Caterina; vien fatto di dire letteralmente soverchiato dalle avversità. Basti l'incontro tra i due innamorati per distinguere le antitetiche nature sulla base delle diverse reazioni al plumbeo augurio di Barnaba «Buona fortuna!». «Oh! La sinistra voce!», esclama con terrore Laura, mentre Enzo ribatte con tono rassicurante: «S'ei fu che ti salvò!». Poi, di seguito, «Pur sorridea d'un infernal sorriso!» (Laura) e «È l'uomo che ci aperse il paradiso!» (Enzo). Un confronto che si dispiega in tutto il suo significato, quello di evidenziare in Enzo l'aspirazione ai grandi gesti e il desiderio di risolvere ogni difficoltà, tranne ovviamente che nello sbrigativo addio a Gioconda e, in Laura, l'abbandonarsi al flusso degli eventi.
Ma c'è per Laura un'altra possibilità di confronto, questa volta con il marito Alvise, in cui è chiara la sproporzione abilmente accentuata da Boito. Oltre a ciò, in questo caso è possibile notare anche un notevole divario rispetto alla Caterina di Hugo che, in un analogo frangente, non rinunciava ad accuse e considerazioni d'ordine politico e sociale («Voi avete delle amanti, ciò vi è permesso. Tutto è permesso agli uomini... Apparteniamo ad un paese immondo. È una repellente repubblica quella dove un uomo può avventarsi impunemente contro una disgraziata donna come fate voi»). Nel fronteggiare Gioconda, invece, sfodera tutto un campionario di espressioni sotto l'influsso di una forte carica che sembrerebbe forzare la sua intima natura. Cosicché quel che ne esce è un vero e proprio duettone d'opera, certamente privo delle finezze che contraddistinguevano il confronto tra Caterina e Tisbe. Mentre infatti la pagina della Gioconda può definirsi un vero e proprio «muro contro muro» («L'amo come il fulgor del creato», esclama Laura, mentre Gioconda di rincalzo risponde «Ed io l'amo siccome il leone ama il sangue...»), nella pièce di Victor Hugo, ove fra l'altro la Scena si svolge in casa di Caterina che ha nascosto Rodolfo nell'attiguo oratorio, il ruolo di protagonista nel senso pieno della parola spetta nuovamente a Tisbe, dandole ancora una volta l'opportunità di apostrofare l'aristocrazia con toni aspri e beffardi, in presenza di una Caterina impegnata a simulare il massimo dello stupore e della remissività:
LA TISBE
[...] Ah, mie dame gransignore, io non so che cosa stia per accadere, ma quel che è certo si è che ne ho una sotto ai piedi, una di voialtre! e che non lascerò la presa, può star tranquilla! Meglio le sarebbe valso un fulmine sul capo che il viso di fronte al suo! Dite un po', signora, siete una bella sfacciata ad alzar gli occhi su di me quando avete un amante in camera vostra!

CATERINA
Signora!...

LA TISBE
Nascosto!

CATERINA
V'ingannate!

LA TISBE
Eh via, perché negare? Era qui! I vostri posti rispettivi sono ancora evidenti sulle poltrone. Avreste dovuto metterle almeno in disordine. Che cosa vi stavate dicendo? Mille cose tenere, no? Mille cose graziose, vero? Ti amo! ti adoro! son tua!... Ah no, non toccatemi, signora!

CATERINA
Non riesco a capire...

LA TISBE
E non valete affatto meglio di noi, signore mie. Quello che noi diciamo di giorno ad alta voce a un uomo, voi glielo balbettate pudicamente di notte. Le ore soltanto son differenti! Noi vi prendiamo i mariti, voi ci predente gli amanti. È una lotta. Benissimo: lottiamo! Oh belletto, ipocrisia, tradimenti, imitazioni di virtù, donne false che non siete altro!
Sulla base di una annotazione di Boito riportata dal Cesari: «Ti mando la combinata variante al duetto delle due donne, accompagnata dall'augurio, che questa Gioconda ci giocondi entrambi», è possibile supporre che il poeta abbia inteso tranquillizzare il compositore, sempre tempestato da scrupoli, con questo autentico «zuccherino», appagandone così le bramosie melodrammatiche. Un'operazione che, come vedremo, sortirà il giusto effetto sul piano musicale.
Abbiamo distinto alcuni personaggi e perfino mescolato le loro peculiarità. Resta ora da conoscere la figura di Alvise Badoero, quella che tra le «varianti» di Boito perde maggiormente in particolari. Mentre Victor Hugo, indipendentemente dal titolo del dramma, assegnava ad Angelo il compito di definire l'ambientazione, cioè l'asfittico clima politico di una Padova assoggettata a Venezia (la «grinfia del leone sulla pecora»), l'unica ragion d'essere di Alvise rispetto all'originale consiste nell'infoltire la già ricca bardatura funereo-mortuaria del testo. Costui non è certo un capolavoro di delicatezza. Pretenderebbe, in pectore, di possedere i tratti del doge, ma in realtà non è che uno dei capi dell'inquisizione, collocandosi - in parole povere - poco al di sopra del semplice sbirro. In lui sono palesi le incongruenze tra il suo presentarsi con fare altero («Ribellion!») e perfino umanitario («E salva sia») e le sadiche smanie di vendetta «Chi un Badoer tradì/Non può sperar pietà»), malgrado il malcelato 'bon ton' tipico di alcuni preamboli formali («Bella così, madonna, io non v'ho mai veduta»). Nella sua veste di personaggio nero sembrerebbe uscito da una costola di Barnaba, eppure non ne possiede lo stile e poi, rispetto a quest'ultimo, finisce per essere soltanto un uomo d'azione imbevuto di propositi vendicativi.
Il Monologo del terzo atto «Sì! morir ella de'!», oggetto di un faticoso travaglio librettistico, si presenta come un catalogo di immagini e di parole pescate nel più profondo pozzo del compiacimento decadente che si palleggia tra l'«infamia» e «l'espiazion tremenda», tra «l'agonia» e «il gemito». Scrupoloso custode delle regole del perbenismo, Alvise sente l'obbligo di lavare l'onta dell'adulterio, evitando in tal modo che i suoi avi abbiano ad arrossire di vergogna, e pertanto ricorre ad un macabro cerimoniale, frutto di una fantasia malata in cui gli ospiti della grande festa a Ca' d'Oro non stentano a scorgere la mano del vampiro. Il tutto, all'interno di una cornice che assiste al contemperarsi del momento spettacolare (la Danza delle ore) con il realismo più funereo (l'esposizione del catafalco). Mentre al contrario l'Angelo vittorughiano, sia pure animato dalla massima determinazione («Il mio letto insozzato si muta in tomba»), agisce più in sordina («Il crimine era circondato di tenebre, lo sia anche il castigo»). Si sa comunque che Ponchielli lo avrebbe voluto meno univoco. «Avrei bramato», scrive infatti a proposito dell'Aria, «che Alvise fosse colto piuttosto da rimorsi, da rimembranze del passato... Qualche cosa con meno cinismo, un colore diverso...». I tormenti del verdiano Filippo II contagiano l'inquieto Cremonese?
Quanto sopra esposto porta inevitabilmente il discorso sugli aspetti più scapigliati e decadenti che intorbidano il testo, sia pur tenendo conto del progressivo distacco, da parte del librettista, dal «gruppo» che sulle prime lo aveva visto tra i più fedeli. I bollori giovanili non sono ormai che un ricordo, ma il poeta, senza alcun bisogno di incanaglirsi, ha buona memoria. Si tenga poi presente che, come si è a suo tempo detto, la genesi di Gioconda vede Boito tutto preso da un 'surmenage' legato, prima all'attesa, poi al consolidamento del successo della nuova edizione di Mefistofele. Non è tuttavia automatico supporre che il libretto scritto per Ponchielli nasca quasi controvoglia, o comunque possa originare da rimasugli o, in genere, reminiscenze culturali qua e là assemblati con un gusto della spettacolarità ormai d'obbligo, pur di schivare la vita difficile. Come dire semplicemente che, una volta sedata l'aria di tempesta e fattosi improduttivo il terreno di caccia per l'ex saputello, Boito getta la spugna anche come autore di libretti, completando una serie di opere scritte sotto pseudonirno a partire dagli anni immediatamente successivi al «patatrac» scaligero del '68. Nella bufera o sull'altare l'artista padovano ammorbidirebbe le proprie idee? Interpretazione, forse in parte vera, ma senza dubbio discutibile. Per troppo tempo infatti ha pesato sul libretto de La Gioconda l'ipoteca di una musica ritenuta tout-court facile, orecchiabile, effettistica, quando non addirittura banale, prevedibile sbocco di un'operazione drammaturgica di scarso valore. Ammesso e non concesso che il presunto effettismo e la supposta orecchiabilità possano equivalere a fallimento, il testo scritto da Boito per Ponchielli, benché fonte di interrogativi, va considerato tutt'altro che un semplice ripiego. Caso mai è più credibile supporre che su di esso abbia potuto agire qualche rivalsa, non del tutto sfogata, da scaricare impietosamente sul groppone del collega.
L'aver manipolato così liberamente il dramma di Victor Hugo costituisce innanzitutto un fattore di curiosità all'interno del mondo musicale italiano. Non si tratta infatti dell'essenzializzazione tipica di Verdi, ma piuttosto di un arricchimento in senso estensivo. Tralasciando lo sfasato rapporto triangolare, presente anche altrove, l'attenzione si incentra sul finale a sorpresa, gravitante attorno al suicidio e al risolutivo incontro con Barnaba: un fulmineo succedersi di situazioni drammatiche che vedono Boito sgombro da qualsiasi sussidio esterno e quindi solo di fronte alla propria inventiva di uomo di teatro. Si pensi che questa pagina, anziché diventare un prevedibile «faccia a faccia» tra due anime opposte, pur obbedendo a criteri dialettici, fondamenta del pensiero boitiano, propone un ambiguo ribaltamento di ruoli. La «sirena» Gíoconda si permette, ad un passo dalla morte, di contraddire la propria indole sincera e spontanea, imbastendo lì per lì la commediola della vestizione sotto gli occhi avidi di un Barnaba in preda a «selvaggio delirio»: proprio lui che della razionale freddezza si è sempre fatto vanto. Una forma di dualismo sentito in questo caso con tutto il gusto della libidine, oltre che in grado di creare un precedente all'atteggiarsi di Tosca di fronte a Scarpia (ci riferiamo alla celebre opera pucciniana): quel sottile gioco di passaggi alle prese con candelabri e crocifissi, che ha il suo culmine nel lungo indugio sul cadavere. Anche nel Finale della Gioconda non manca lo spunto mistico in senso morboso, consistente nella preghiera rivolta alla Vergine, mentre il cielo si copre e Barnaba entra di soppiatto. Sono tutti aspetti eterogenei, concertati a sazietà con fine senso del teatro, e rispondono in certa misura ai principi della poetica scapigliata che qui si incarna nella provocatoria coesistenza di gesti, frasi, oggetti, situazioni. Si pensi all'aprirsi dell'ultima Scena, un efficacissimo scorcio nel quale convivono l'ampolla del veleno con il tentativo di fuga, il proposito suicida con l'idea pressante della madre, l'incubo del patto con l'invocazione alla Madonna. L'atmosfera onirica popolata di dubbi e di speranze ormai rese vane e il brutale imperversare di Barnaba, respirano la medesima aria. In tal modo, certe disposizioni d'animo boitiane che parevano affievolirsi, vengono qua e là riacchiappate o addirittura esaltate. Il poeta, dunque, persevera.
Come non vedere nelle implicazioni vampiristiche del terzo atto l'eco di un Baudelaire, o le luci sinistre di un Re Orso, seppure ovviamente calate all'intemo di una regolare orditura da Concertato d'opera, il cui conclusivo «Orror, orror!» rischia di imparentarsi con il più stucchevole melodrammismo?
Alla sensualità sadica e delirante di Barnaba si affianca un puntuale rapporto di alterità con personaggi e situazioni. Da brava spia, origlia tenendo sott'occhi tutto e tutti, e fra le grinfie stringe sempre un capro espiatorio. Le vittime delle sue malefatte variano in continuazione: ora la Cieca, ora Gioconda, ora i due amanti. Ciò che avvalora ogni suo pensiero e ogni sua azione è il principio dell'antitesi: con il popolo che festeggia una regata e che egli sa abilmente sfruttare come «gregge umana», con Gioconda che gli tiene impavidamente testa («Mi fai ribrezzo»), con Enzo che, sia pur da lui beneficato, pensa di doverlo ringraziare con un augurio di maledizione. Ma al vertice di ogni piano sta una gran voglia di catastrofe. Solo nei confronti di Alvise Badoero, suo superiore, non nutre alcuna animosità, vista l'appartenenza di entrambi al Consiglio dei Dieci e il loro muoversi all'interno della medesima orbita d'azione. Si aggiunga inoltre la capacità di costui di calarsi nei panni del malvagio, fungendo pertanto da suo alter ego.
Benché invaghito di Gioconda, Barnaba cova non solo il desiderio di possederla, ma anche di ucciderla psicologicamente. Prova ne sia il fatto che, nonostante la certezza di stringerla tra le braccia sulla base della promessa ottenuta a sorpresa, non si farà scrupolo di soffocame la madre, guida spirituale della giovane spesso smarrita. Ciò va inteso, più che altro, come l'ennesima conferma di un progetto sadico e delittuoso perpetrato con carattere di continuità a vasto raggio. Rivelare alla donna amata le proprie nefandezze equivale in pratica a spingere il «confratello» Alvise al delitto: un'altra correlazione.