STEFAN ZWEIG
 
ZWEIG, IL TERZO REICH
RICHARD STRAUSS 

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Testo tratto da
IL MONDO DI IERI
RICORDI DI UN EUROPEO
Oscar Mondadori
Milano 1979
pp. 294 - 301 

È difficile liberarsi in poche settimane di una fede interiore, maturata in trenta o quarant'anni. Cresciuti nell'idea del diritto, credevamo all'esistenza di una coscienza tedesca, europea, universale, ed eravamo convinti che ogni eccesso di barbarie fosse tale da abolirsi da se stesso una volta per tutte di fronte all'umanità. Poiché io qui tento di mantenermi equo quanto mi è possibile, debbo dichiarare che tutti noi nel 1933 ed ancora nel 1934, in Germania ed in Austria, ogni volta non ritenemmo possibile neppure la centesima, neppure la millesima parte di quanto invece poche settimane successive portarono con sé. Si capisce era chiaro sin dal principio che noi scrittori liberi ed indipendenti avremmo dovuto aspettarci talune difficoltà ed ostilità.
Subito dopo l'incendio del Reichstag dissi al mio editore che i miei libri in Germania sarebbero stati ben presto un affare finito. Non dimenticherò mai la sua sorpresa e la sua protesta «Chi dovrebbe proibire i suoi libri» mi disse allora nel 1933. « Lei non ha mai scritto una parola contro la Germania, né mai si è immischiato di politica» È chiaro: tutti gli orrori, come i roghi di libri, le gazzarre attorno alla berlina, che pochi mesi dopo eran tutti reali, apparivano un mese dopo la salita al potere di Hitler, ed anche a persone di ampie vedute, eventualità inconcepibili.
Il nazionalsocialismo, con la sua tecnica di inganno senza scrupoli, si guardò sempre dal proclamare l'intero radicalismo delle sue mete prima di avervi allenato il mondo. Questo era il suo prudente metodo: una piccola dose seguita da una piccola pausa, poi un'altra dose. Una pillola ed un momento d'attesa, per vedere se non era troppo forte, se la coscienza mondiale tollerava quel dosaggio. Ma poiché la coscienza europea - a danno e vergogna della nostra civiltà - ostentava con grande zelo la propria indifferenza, sin che quelle violenze avvenivano «oltre confine», le dosi si fecero sempre più forti, ed alla fine ne fu rovinata l'Europa intera.
Hitler non ha attuato nulla di più geniale di questa sua tattica dei lenti assaggi e della sempre crescente pressione nei riguardi di un'Europa' che si faceva moralmente, e presto anche militarmente, sempre più debole. Anche l'azione già da tempo preparata per annientare in Germania ogni libera parola ed ogni libro indipendente procedette secondo questo metodo degli assaggi. Non fu promulgata una legge - questa non venne che due anni più tardi - con cui si vietassero senz'altro i nostri libri, si cominciò con modesti assaggi, per vedere sin dove si potesse giungere il primo attacco contro i nostri libri fu attribuito agli studenti nazisti, un gruppo ufficialmente irresponsabile.
Con lo stesso sistema con cui si era inscenato lo «sdegno popolare» per imporre il boicottaggio agli ebrei già prestabilito, fu data ora agli studenti la parola d'ordine segreta perché manifestassero pubblicamente la loro «esasperazione» contro quelle opere. E gli studenti tedeschi, sempre lieti di ogni occasione per manifestare la loro mentalità reazionaria, si adunarono docilmente in ogni università, rubarono esemplari delle nostre opere alle librerie e marciarono a bandiere spiegate recando quella preda in una pubblica piazza. Ivi quei libri - seguendo un antico uso germanico medievale, poiché il medioevo era di moda - furono inchiodati pubblicamente alla berlina al «palo del disonore» (io possedevo un esemplare di una mia opera trapassato da un chiodo a questo modo, salvato dopo la cerimonia e donatomi da uno studente amico), oppure, non essendo purtroppo permesso bruciare uomini vivi, vennero arsi i volumi su grandi roghi, mentre si recitavano versetti patriottici.
È vero che, dopo lunghe esitazioni, il ministro della propaganda Goebbels aveva deciso all'ultimo momento di dare la sua benedizione a quel bruciamento di libri, ma esso rimase tuttavia una misura semiufficiale. Nulla mostra più chiaramente quanto poco allora la Germania si identificasse con simili azioni, come il fatto che il pubblico non traesse le minime conseguenze da quegli ostracismi. Benché i librai fossero esortati a non mettere in vetrina alcun libro nostro, benché nessun giornale più li citasse, il vero pubblico non si lascib minimamente influenzare. Sino a quando non vi fu pericolo di prigione o di campo di concentramento, i miei libri, nel 1933 e nel 1934, vennero venduti malgrado ogni difficoltà quasi come prima. Ci volle il grandioso decreto «a protezione del popolo tedesco», in cui si dichiarava delitto la stampa, la vendita e la diffusione dei nostri libri, per staccare da noi con la violenza i milioni di tedeschi, i quali ancora oggi preferiscono legger noi ed accompagnare fedelmente l'opera nostra che non subirsi certi scrittori improvvisamente gonfiati, i poeti «del sangue e della terra».
Il poter dividere questo destino del totale annientamento letterario in Germania con contemporanei eminenti quali Thomas Mann, Heinrich Mann, Werfel, Freud ed Einstein e molti altri, le cui opere mi appaiono molto più importanti delle mie, mi parve sempre piuttosto un onore che una vergogna, ed ogni gesto da martire mi ripugna tanto che ricordo qui con riluttanza di aver così partecipato al destino comune. Ma per strana coincidenza toccò proprio a me di mettere in imbarazzo i nazionalsocialisti, e persino Adolf Hitler in persona. Proprio la mia figura letteraria fra tutte le altre dei proscritti è stata oggetto per lungo tempo di grande eccitazione e di dibattiti senza fine fra i più alti circoli dei frequentatori della villa di Berchtesgaden, così che io posso aggiungere alle cose gradevoli della mia vita il modesto compiacimento di aver indispettito il più potente uomo dell'età moderna, Adolf Hitler.
Già nei primi giorni del nuovo regime ero stato causa innocente di una minuscola rivolta. Girava allora tuna la Germania una pellicola tratta dalla mia novella «Segreto ardente», che ne aveva anche mantenuto il titolo. Nessuno ci aveva badato, ma l'indomani dell'incendio del Reichstag, che i nazisti tentarono invano di toglier dalle loro spalle per gettarlo su quelle dei comunisti, accadde che la folla si radunò davanti ai manifesti del «Segreto ardente» ammiccando e ridendo con chiara allusione. Capirono anche gli agenti della Ghestapo perché il titolo facesse ridere, e quella stessa sera la polizia girò su motociclette in gran fretta a far proibire quel film, che l'indomani era infatti sparito col suo titolo da tutti i giornali e da tutte le strade.
Proibire una singola parola che desse disturbo, anche bruciare tutti i nostri libri era stato un lavoro abbastanza semplice. Ma in un altro caso non riuscirono a colpirmi senza nuocere insieme ad un uomo di cui essi in quel momento critico avevano assoluto bisogno di fronte al mondo, il più grande ed il più celebre compositore vivo della nazione tedesca, Richard Strauss, col quale io avevo appena finito di comporre un'opera.
Era stata la mia prima collaborazione col maestro. Precedentemente, dopo «Elettra e «Il Cavaliere della Rosa», tutti i libretti delle sue opere erano stati scritti da Hugo von Hofmannsthal ed io non mi ero mai incontrato personalmente con Richard Strauss. Dopo la morte di Hofmannsthal mi fece dire dal mio editore che avrebbe incominciato volentieri un'opera nuova e che desiderava sapere se fossi disposto a scriverne il testo. Sentii l'onore di simile offerta.
Da quando Max Reger aveva messo in musica le mie prime poesie, ero vissuto sempre nella musica e con musicisti. Ero legato di buona amicizia con Busoni, con Bruno Walter, con Alban Berg, con Toscanini. Ma non conoscevo alcun compositore del tempo nostro al quale più volentieri avrei offerto i miei servigi che a Riccardo Strauss, quest'ultimo campione della grande stirpe dei purosangue musicali tedeschi, che va da Händel ai giorni nostri, passando per Bach, Beethoven e Brahms. Mi dichiarai pronto e subito al primo incontro proposi a Strauss di scegliere ad argomento di opera il tema «The silent woman» di Ben Jonson e fu una grata sorpresa per me vedere con quanta rapidità e limpidezza Strauss accolse tutte le mie proposte. Non avrei mai supposto in lui una cosI pronta intelligenza artistica ed una cosi stupefacente conoscenza drammaturgica.
Mentre gli stavo raccontando l'argomento egli lo plasmava drammaticamente e lo adattava anche subito, il che era ancora più straordinario, ai limiti della sua capacità creativa, di cui si rendeva conto con una chiaroveggenza quasi spaventosa. Ho conosciuto molti grandi artisti in vita mia, mai però uno che sapesse conservare in modo cosi astratto ed indefettibile l'oggettività di fronte a se stesso. Subito al primo colloquio, Strauss mi confessò apertamente di sapere benissimo come un musicista a settant'anni non possegga più l'energia originaria dell'ispirazione. Non gli sarebbero più riuscite opere sinfoniche come «Till Eulenspiegel» oppure «Morte e trasfgurazione», giacché appunto la musica pura esige un massimo di freschezza creativa.
Però la parola valeva ancor sempre ad ispirarlo. Si sentiva in grado di illustrare drammaticamente una sostanza già preesistente, perché dalle situazioni e dalle parole si sviluppavano in lui spontaneamente temi musicali: per questo si era dato ormai, nei suoi tardi anni, in modo esclusivo all'opera. Sapeva anche benissimo che l'opera è in fondo forma artistica superata. Wagner è tale vetta, che nessuno può andare al di là. « Però », aggiungeva con la sua ampia risata bavarica, «io me la son cavata facendogli un giro attorno.»
Dopo esserci messi d'accordo sulle linee fondamentali, mi impartì ancora alcune piccole istruzioni. Intendeva lasciarmi libertà assoluta, giacché egli non si sentiva mai ispirato da un libretto «su misura» del genere verdiano, ma soltanto da un vero lavoro poetico. Avrebbe solo desiderato che ci inserissi un paio di forme complicate, adatte ad offrire possibilità di sviluppo coloristico. «A me non vengono in mente melodie lunghe come quelle di Mozart. Io non arrivo che a temi brevi, ma quel che so fare, è voltare e parafrasare poi un tema, cavandone tutto quanto contiene, e credo che in questo oggi nessuno mi superi.» Rimasi ancora una volta stupefatto da tanta sincerità, giacché è vero che in Strauss non si trovano quasi mai melodie che vadano oltre un paio di battute; ma con quanta perfezione e pienezza vengono poi - come nel valzer del «Cavaliere della rosa» - elaborate e sfruttate quelle poche battute!
Ad ogni nuovo incontro dovevo ammirare la sicurezza e l'oggettività con cui il vecchio maestro si poneva di fronte a se stesso nella propria opera. Una volta gli ero accanto durante una prova senza pubblico della sua «Elena egiziana» al Festspielhaus di Salisburgo. Non c'era nessuno nella sala ed era buio pesto. Egli ascoltava. M'accorsi che ad un tratto si mise a tamburellare impaziente con le dita sui braccioli della poltrona. Poi mi mormorò: «Brutto! Bruttissimo! Qui non mi è venuto in mente nulla». E dopo pochi momenti: «Se potessi almeno cancellarlo! Buon Dio, è tutto vuoto e troppo lungo, troppo lungo! ». Dopo qualche momento: «Vede: qui c'è del buono!». Giudicava l'opera propria con imparziale oggettività, come se udisse quella musica per la prima volta ed essa fosse scritta da un compositore a lui ignoto. Tale stranissimo senso della propria misura non lo abbandonava mai; sapeva sempre con precisione chi fosse e quanto potesse. Non lo interessava troppo invece sapere quanto gli altri significassero in paragone a lui, ed ancor meno come lo giudicassero gli altri. Quel che gli dava gioia era il lavoro in sé.
Questo «lavorare» è un singolare processo in Richard Strauss. Nulla di demoniaco in lui, non conosce il raptus dell'artista, non le depressioni e le disperazioni note attraverso alla biografia di Beethoven o di Wagner. Strauss lavora con calma e freddezza, compone - al pari di Johann Sebastian Bach e di tutti i sublimi artigiani della loro arte - calmo e regolare. Alle nove di mattina siede allo scrittoio e riprende il lavoro esattamente al punto in cui ha cessato di comporre la vigilia, traccia con regolarità il primo schizzo a matita, poi a penna la riduzione per pianoforte, e così continua senza pausa sino a mezzogiorno o all'una. Nel pomeriggio giuoca a skat, trascrive due o tre pagine nello spartito e qualche volta la sera dirige a teatro.
Ignora ogni forma di nervosità, conserva notte e giorno uguale chiarezza e limpidità artistica. Quando il domestico bussa alla porta perché indossi la marsina e vada a dirigere, si alza dal suo lavoro, va a teatro e dirige l'orchestra con la stessa sicurezza e la stessa calma con cui ha fatto la partita nel pomeriggio, e l'ispirazione riprende in lui l'indomani allo stesso punto dove si è interrotto. Strauss, per dirla con la parola di Goethe, «kommandiert» le sue idee musicali; per lui la derivazione tedesca della parola arte vien veramente da potere, Kunst significa per lui können, come dimostra anche il suo motto scherzoso: «Chi vuol essere un vero compositore deve saper mettere in musica anche una lista delle vivande».
Le difficoltà non lo spaventano, ma divertono soltanto la sua maestria plasmatrice. Ricordo con piacere come scintillavano i suoi occhietti azzurri mentre mi diceva trionfalmente indicandomi un passeggio: «Qui ho dato del filo da torcere alla cantante! Avrà da faticare maledettamente prima di riuscirci». In simili rari istanti in cui il suo occhio si illumina, si intuisce che vi è qualche cosa di demoniaco profondamente celato in quest'uomo, il quale a tutta prima suscita quasi diffidenza per la puntualità, la metodicità, l'assenza di nervi, la solidità artigiana del suo modo di lavorare. Anche il suo volto del resto dà un'impressione di banalità con le guance grassocce ed infantili, con la rotondità un po' comune dei lineamenti e con la fronte dalla curva incerta: basta però guardare i suoi occhi chiari, azzurri e fortemente radiosi, per sentire al di là della maschera borghese una particolare forza magica. Sono forse gli occhi più vigili che io abbia veduto in un musicista, non occhi demoniaci, ma in certo modo veggenti, gli occhi di un uomo che ha riconosciuto il proprio compito sino all'estremo.
Tornato a Salisburgo dopo l'interessante incontro, mi diedi subito al lavoro. Curioso io stesso di vedere se avrebbe potuto accostarsi ai miei versi, gli mandai già due settimane dopo il primo atto. Mi rispose subito con una cartolina che citava i «Maestri Cantori»: «La prima strofa riuscì». Dopo il secondo atto mi giunsero, quale saluto ancor più cordiale, le prime battute della sua canzone «Per fortuna ti ho trovato, bimba diletta» e la sua gioia, anzi il suo entusiasmo, trasformarono la mia fatica in un indicibile piacere. Richard Strauss non ha mutata una riga di tutto il mio libretto, pregandomi soltanto una volta di aggiungere tre o quattro versi per avere un'altra voce. Si stabilirono così fra noi i rapporti più cordiali, egli fu ospite in casa nostra ed io andai da lui a Garmisch, dove mi suonò al pianoforte con le sue belle dita lunghe e magre tutta l'opera nel suo primo abbozzo. Senza che ci fosse contratto od obbligo, fu stabilito come cosa ovvia che finita quell'opera gliene abbozzassi un'altra, di cui aveva già approvato l'idea.
Nel gennaio 1933, quando Adolf Hitler giunse al potere la nostra opera «La donna taciturna» era pressoché pronta nella riduzione per pianoforte, mentre il primo atto era già strurnentato. Poche settimane più tardi fu emanato il rigido divieto per tutti i teatri tedeschi di rappresentare opere di non ariani, od anche quelle di cui fosse stato collaboratore in qualunque forma un ebreo. La grande scomunica fu estesa anche ai morti e, con sdegno dei musicisti del mondo intero, la statua di Mendelssohn venne allontanata dal Gewandhaus di Lipsia. Io ritenni che con quel divieto fosse conclusa la sorte della nostra opera ritenni cioè naturale che Richard Strauss rinunciasse a compietarla e si accingesse a cominciarne un'altra con altro libretto. Egli invece mi scrisse lettere su lettere per dirmi che ero pazzo, che al contrario io pensassi a preparare il testo dell'opera prossima, intanto che da parte sua istrumentava la prima. Non pensava affatto a subire imposizioni circa la collaborazione ed io debbo dichiarare apertamente che nel corso di tutta la vicenda egli ha conservato verso di me fedeltà di sodale, finché questa fu possibile a conservarsi.
È vero che in pari tempo prese delle misure a me molto meno simpatiche si accostò ai nuovi signori, si incontrò sovente con Hitler, Goering e Goebbels, ed in un periodo in cui persino Furtwängler osava aperti gesti di resistenza, si lasciò nominare presidente della Reichsmusikkammer nazista. Questa sua aperta adesione tornava in quel momento di enorme importanza ai nazionalsocialisti. Con loro dispetto avevano voltate le spalle al nazismo non soltanto i migliori scrittori, ma anche i musicisti più notevoli, ed i pochi solidali con loro o transfughi dall'altro campo erano degli sconosciuti al gran pubblico. In simile penoso momento l'alleanza del musicista più celebre della Germania aveva in senso decorativo un enorme valore per Goebbels e Hitler. Questi che, come mi raccontò Strauss, già negli anni del suo vagabondaggio viennese, col poco denaro chissà come racimolato era andato a Graz per assistere alla prima rappresentazione della Salomè, gli rendeva onore con ostentazione; nelle serate di gala a Berchtesgaden, oltre ai Lieder di Wagner, non si cantavano che quelli di Strauss.
L'adesione invece da parte di Strauss aveva fini precisi. Nel suo egoismo artistico, che egli sempre apertamente e freddamente confessava, ogni regime gli era in ultima analisi indifferente. Aveva servito come direttore d'orchestra il Kaiser e istrumentate per lui marce militari, poi era stato nella stessa qualità a Vienna per l'imperatore d'Austria, e si era infine conservato persona gratissima tanto nella repubblica austriaca che in quella germanica. Andare incontro ai nazi era inoltre di vitale interesse per lui, giacché egli, dal punto di vista nazionalsocialista, aveva un passivo notevolissimo. Suo figlio aveva sposato un'ebrea ed egli aveva motivo di temere che i suoi adoratissimi nipotini potessero venir esclusi come reprobi dalle scuole; la sua ultima opera era compromessa dal mio nome, quelle precedenti dal nome non «puramente ariano» di Hofmanosthal, il suo editore era un ebreo. Gli parve insomma urgente crearsi un sostegno alle spalle, e a questo mirò con la massima tenacia. Andò a dirigere dovunque i nuovi padroni ordinassero, mise in musica un inno per le olimpiadi e in pari tempo nelle sue liberissime epistole si espresse con me con ben poco entusiasmo per quell'incarico. In realtà, nel suo «sacro egoismo» d'artista egli si preoccupava di una cosa sola conservare la viva efficacia dell'opera propria e ancor più vedere rappresentato il nuovo melodramma particolarmente caro al suo cuore.
Per me naturalmente simili concessioni al nazionalsocialismo riuscivano penosissime. Era facile infatti che nascesse l'impressione di una mia segreta complicità o anche solo del mio consenso ad accettare per la mia persona un'unica eccezione al vergognoso boicottaggio. Da tutte le parti i miei amici insistevano perché io pubblicamente protestassi contro una rappresentazione dell'opera nella Germania nazista. Ma in primo luogo io ho per principio orrore di ogni gesto pubblico e patetico, in secondo mi ripugnava creare difficoltà ad un uomo geniale dell'altezza di Richard Strauss. Egli era il maggior compositore vivente, aveva settant'anni, aveva dedicato tre anni di lavoro a quest'opera dimostrandomi durante tutto questo tempo la sua cordiale amicizia, la sua correttezza e persino il suo coraggio. Ritenni perciò fosse giusto da parte mia attendere in silenzio e lasciare che le cose avessero il loro corso. Sapevo inoltre che con nessun altro mezzo come con la mia perfetta passività avrei potuto crear difficoltà ai nuovi protettori della civiltà tedesca Il Ministero della propaganda e il sindacato degli scrittori aspettavano soltanto il pretesto per giustificare la proibizione anche del loro maggior musicísta.
Venne per esempio richiesto il libretto da tutta una serie di uffici e di personaggi, certo nella segreta speranza di trovarvi un pretesto al veto. Come sarebbe stato comodo se quella «Donna taciturna» avesse contenuto una situazione un po' scabrosa' come quella del «Cavaliere dolla rosa», in cui un giovanotto esce dalla camera di una donna maritata! Si sarebbe potuto fingere di dover proteggere la morale tedesca Invece, con gran delusione, il mio testo non conteneva nulla di sconveniente. Furono studiati allora gli schedari polizieschi e riveduti i miei vecchi libri. Ma anche in essi non c'era nulla da scoprire, perché io non avevo mai pronunciato una parola di disprezzo per la Germania, come del resto per nessun'altra nazione del mondo, e mai avevo preso parte alla politica. Checché facessero e tentassero, la decisione ricadeva su di loro: se impedire cioè davanti al mondo intero al loro decano, al quale avevano affidato lo stendardo della musica nazista, l'esecuzione della sua opera o se invece permettere - giorno della vergogna nazionale! - che il nome di Stefan Zweig, la cui omissione quale librettista non era tollerata da Richard Strauss, dovesse contaminare ancora una volta, come tanto sovente in passato, i manifesti teatrali germanici. Fra me e me godevo delle loro preoccupazioni e del loro rompicapo: capivo che, anche senzafar nulla, o meglio proprio non facendo nulla, la mia commedia musicale si sarebbe fatalmente risolta in una gran chiassata politica.
Il partito evitò di prendere decisioni fin che fu possibile, ma al principio del 1934 dovette risolvere se menersi contro i propri stessi decreti o contro il maggior musicista del tempo. Non vi era più luogo a rimandò gli spartiti, le riduzioni per pianoforte, il libretto, tutto era stampato e pronto; al teatro di Corte di Dresda i costumi erano ordinati, le parti assegnate ed anzi già studiate, mentre le diverse istanze, Goering e Goebbels, sindacato letterario e consiglio culturale, Ministero dell'istruzione e gruppi estremisti dell'antisemitismo, non riuscivano a mettersi d'accordo. Per quanto ciò possa oggi apparire incredibile e assurdo, l'affare della «Donna tariturna» finl per farsi grave davvero. Nessuno osava assumersi la responsabilità di una chiara decisione, così che rimase un'unica via affidare la faccenda al responso personale del signore della Germania, nonché del partito, ad Adolf Hitler.
I miei libri avevano già prima avuto l'onore di esser letti largamente dai nazisti; specialmente «Fouché», quale esempio di assenza di scrupoli, veniva di continuo letto e discusso. Ma non mi sarei mai immaginato di dover procurare, oltre che a Goebbels e a Goering, anche ad Adolf Hitler in persona la fatica di leggere ex novo i tre atti del mio libretto lirico. La decisione non gli tornò facile. Ci fu, come m i fu poi riferito per numerose vie segrete, tutta una serié di conferenze. Alla fine Richard Strauss venne chiamato davanti all'onnipotente, e Hitler gli comunicò in persona che permetteva la rappresentazlone m via eccezionale, benché essa contravvenisse a tutte le leggi del nuovo Reich tedesco, una decisione che aveva probabilmente presa non meno di malavoglia e non meno slealmente di quando firmò il trattato con Stalin e Molotov.
S'avvicinò così quella nera giornata per la Germania nazional- socialista, in cui venne ancora rappresentata una opera che ostentava su tutti i manifesti murali il nome di Stefan Zweig. Naturalmente io non assistetti alla rappresentazione, ben sapendo che la sala sarebbe stata piena di uniformi brune e che Hitler: medesimo era atteso per una delle esecuzioni. L'opera ottenne un grande successo, ed io debbo anche dire ad onore dei critici; musicali che nove decimi di essi approfittarono con entusiasmo di quell'occasione per rivelare ancora una volta, e per l'ultima la loro opposizione interiore al criterio razzista, facendo cioè i più cordiali elogi del mio libretto. Tutti i teatri tedeschi, Berlino, Amburgo, Francoforte, Monaco annunciarono subito per la stagione seguente la nuova opera.
Ma d'un tratto, dopo la seconda rappresentazione, venne il fulmine. Tutto fu sospeso e l'opera venne da un giorno all'altro proibita non solo per Dresda ma per tutta la Germania. Non basta si lesse con stupore che Richard Strauss aveva presentato le sue dimissioni da presidente della Reichsmusikkammer. Ognuno sapeva che doveva esser successo qualcosa di grosso, ma passò qualche tempo prima che io arrivassi a conoscere l'intera verità. Strauss mi aveva scritto un'altra lettera, insistendo perché mi accingessi subito a preparargli il libretto di una nuova opera, ed esprimendo con troppa libertà il punto di vista personale. Questa lettera era cascata in mano alla polizia segreta e, presentata a Strauss medesimo, lo aveva costretto a dare le dimissioni, mentre l'opera veniva proibita.
Essa non è andata in scena in lingua tedesca altro che nella libera Svizzera ed a Praga Più tardi fu rappresentata alla Scala di Milano con il particolare consenso di Mussolini, il quale allora non si era ancora sottomesso al criterio della razza. Il popolo tedesco non ha più udito una nota di quest'opera senile, ma in parte affascinante, di uno dei suoi più grandi musicisti.