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GIUSEPPE TAROZZI
PUCCINI NEL SUO CONTESTO STORICO

 






Le nubi che si sono addensate sull'Italia e che via via si sono fatte sempre più minacciose e nere, ora si trasformano decisamente in lampi, tuoni e raffiche di tempesta. Il prezzo del pane continua a salire, la rovinosa campagna africana di Crispi sfocia in una inevitabile crisi economica. La terra non rende, la malaria e la pellagra falcidiano i contadini, diverse imprese edilizie chiudono, molti operai vengono licenziati. Per tutto il 1897 la ribellione cova sotto le ceneri. L'Italia è un povero, vecchio, stremato paese che si dibatte in contraddizioni incancrenite, mai seriamente affrontate. In molte regioni si muore letteralmente di fame. I disordini aumentano, il malcontento si allarga rapidamente. E la regina Margherita assiste alla nascita di fermenti e subbugli popolari con animo dolente, offeso e inorridito. Re Umberto non fa nemmeno quello. Si annoia sempre di più.
Poi, nel gennaio del 1898, Roma conosce i primi veri disordini. Viene decretato lo stato d'assedio. A Parma la folla si ribella, taglia i pali del telegrafo, distrugge i primi lampioni a luce elettrica. Nel maggio dello stesso anno, una circolare del governo rampogna le autorità locali che non sanno fare altro, per sedare i disordini, che richiedere l'intervento dell'esercito, e ricorda che, prima o poi, ciò porterà a gravi spargimenti di sangue. Intanto, si richiama alle armi un'altra classe. Aumentano i provvedimenti di polizia. I deputati socialisti, per evitare l'arresto, vivono giorno e notte dentro il palazzo di Montecitorio. Infine, sempre nel maggio del 1898, succedono i fatti di Milano: due guardie di pubblica sicurezza rimangono uccise nel corso di violente manifestazioni di protesta.
Allora il generale Bava-Beccaris fa tuonare i cannoni e i mortai contro un assembramento di mendicanti, da lui scambiati per feroci sovversivi, che attendevano la distribuzione della minestra attorno alle scalinate di un convento. Ottantun persone inermi sono uccise. La popolazione si ribella, quattro giorni si combatte per le strade Naturalmente la colpa è dei socialisti: Costa, Bissolati, Anna Kulisciov vengono arrestati. Filippo Turati viene condannato a dodici anni di carcere. Anche il democratico don Albertario va in prigione. In compenso, il generale Bava-Beccaris viene insignito della Gran Croce dell'Ordine Militare di Savoia per il suo indomito coraggio e il suo attaccamento alla patria, dimostrato cannoneggiando la folla milanese inerme.
Ma non basta: le università di Roma, Padova, Bologna e Napoli sono chiuse. Gli impiegati dello stato vengono militarizzati e così pure i ferrovieri. Le camere del lavoro, le associazioni filantropiche, le cooperative vengono proibite e disciolte. Alcune testate di quotidiani milanesi, fra le quali «Il Secolo», sono temporaneamente sospese. E dopo tutto questo bailamme di provvedimenti, il governo di Rudiní rassegna le dimissioni. Come nuovo presidente del Consiglio il re nomina il generale Pelloux.
E Puccini, e il sor Giacomo, e lo stimatissimo «doge», che fa? Di tutto quanto sta succedendo in Italia, lui se ne accorge solo di straforo, marginalmente. Per il momento sta lavorando a «Tosca», e gira l'Europa per presenziare alla messa in scena della «Bohème», che intanto prosegue imperterrita la sua carriera trionfale. Sì, se ne avvede che a Milano sono successe cose poco piacevoli, l'ha letto sui giornali francesi e così ne scrive a un amico lucchese, Luigi Pieri, trasferitosi a Milano: «Caro Ciospo, coi torbidi milanesi come te la passi? Ti gira che roba!? E vedo che non sono terminati ancora! Leggo stasera sui giornali francesi, martedì, che ieri in via Monforte ci furono le cannonate, Dio mio che fotta [sic] seria! dove si andrà a finire? I giornali di qui parlano di 1000 morti, non credo tanto, poiché i giornali milanesi che leggo dicono molto, ma molto meno! Scrivimi qualcosa.»
Così sistemata e congedata la fotta, passa a relazionare l'amico dei suoi successi parigini, della nuova esecuzione francese della «Bohème» eccetera eccetera. In un'altra lettera, e questa all'editore, il solito Giulio Ricordi, fa solo un accenno ai tragici avvenimenti, verso la fine: «...augurando a Lei e all'Italia, la desiderata tranquillità e augurando al 'Secolo' e C. di restare soppressi a vita per il bene nostro e dell'arte.» In fondo, di Rudiní aveva fatto un piacere a Puccini sopprimendo temporaneamente il quotidiano di casa Sonzogno, editore dei suoi rivali Mascagni e, soprattutto, Leoncavallo. Tutto qui, quello che ha da dire Puccini sulla situazione sociale e politica che l'Italia sta attraversando: il solito, benpensante, «dove si andrà a finire?», la solita e scontata invocazione all'ordine e alla tranquillità.

Giuseppe TAROZZI, «Puccini. La fine del belcanto»
Milano, Bompiani, 1972, pp. 61-63.