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LAURETO RODONI
Dopo i trionfi
degli anni '70
HARNONCOURT RITORNA A MONTEVERDI
Un
evento culturale di risonanza mondiale.
Ovazioni interminabili al grande
Maestro.
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L'Opernhaus di Zurigo, «fucina di idee
e di stimolanti proposte» (Elvio
Giudici), vent'anni dopo i magistrali e clamorosi spettacoli
monteverdiani, diretti dalla leggendaria coppia artistica Harnoncourt-Ponnelle e portati
con grande successo su altri palcoscenici (tra cui la Scala), propone
un nuovo allestimento de Il ritorno
di Ulisse in patria che il Divino Claudio compose verso il
1640, tre anni prima della morte.
L'evento, senza retorica, è, sul piano
culturale, di risonanza mondiale, poiché Nikolaus Harnoncourt, tra i
massimi studiosi ed esecutori della musica del compositore cremonese,
torna sul podio del teatro zurighese per dirigere la sua magnifica
orchestra La Scintilla (con
strumenti d'epoca) e un cast (oltre
20 cantanti) di tutto rispetto in questo capolavoro estremo di
Monteverdi. Protagonisti il baritono Dietrich Henschel (Ulisse) e il
mezzosoprano Vesselina Kasarova (Penelope).
Il team di
regia è guidato da Klaus Michael Grüber,
«mostro sacro» della regia mondiale, ex «enfant
terrible», artefice, con Strehler, di memorabili spettacoli al
Piccolo
di Milano, sotto la direzione illuminata di Paolo Grassi. A
differenza di Peter Stein, a cui è spesso accostato dalla
critica, Grüber «sembra improvvisare in modo
apparentemente capriccioso, ma sempre ricco di invenzioni e
illuminazioni inattese.» [DIZIONARIO
DELLO SPETTACOLO]
Il
«Ritorno di Ulisse» si caratterizza per l'ardita
commistione di registri, anche antitetici: la tragedia si mescola
alla quotidianità, il patetico al comico, a esempio. Per
Monteverdi il testo riveste sempre un ruolo primario; la musica deve
limitarsi a rafforzarne il significato, affinché l'attenzione
dell'ascoltatore sia costantemente rivolta al significato del poema.
Con questo scopo, egli continua la sperimentazione di quel nuovo tipo
di vocalità, a metà strada tra canto a piena voce e
recitazione intonata, il cosiddetto recitar cantando, che ebbe un
incommensurabile influsso sulla musica coeva e successiva, fino ai
nostri giorni.
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Nonostante le aspre
polemiche che ha suscitato e suscita tuttora per l'originalità
e l'arditezza delle sue interpretazioni, Nikolaus Harnoncourt
è universalmente riconosciuto come uno specialista tra i
più autorevoli della musica antica. Egli stesso è
conscio di essere un interprete «scomodo, sovversivo»,
anche perché vive la propria vita artistica sotto il segno di
una costante ricerca, mai accontentandosi dei risultati raggiunti.
«Il ritorno di Ulisse in patria» che il maestro austriaco
dirige in questo periodo a Zurigo ne è una ulteriore prova.
Non è facile dare coesione a un'opera di
Monteverdi. Il libretto dell'«Ulisse» si basa sui canti
13-23 dell'«Odissea». Sia il poeta (Giacomo Badoero), sia
il compositore si attengono scrupolosamente, quasi con pedanteria al
testo di Omero. Siccome il pubblico colto dell'epoca conosceva nei
minimi dettagli il poema, essi potevano rinunciare a uno svolgimento
drammatico imperniato su tensione e distensione. Nel dramma
monteverdiano, l'uomo è una creatura fragile nelle mani delle
tre forze del destino: il tempo, il caso e l'amore. Anche gli
dèi sono sottomessi a queste forze.
Con queste premesse, i pericoli che incombono sono
l'uniformità, la monotonia, la noia. Con Harnoncourt sul
podio, non vi è stato mai il benché minimo calo di
tensione, sia musicale, sia narrativo. Assecondato da una solida
orchestra, motivata per non dire soggiogata dalla competenza e dal
carisma del Maestro, e da un cast eccellente anche nelle parti
minori, Harnoncourt ha offerto un'interpretazione esemplare e
commovente, differenziata nei molteplici registri che la
contraddistinguono, pulsante, vivificata da una conoscenza
profondissima dello stile monteverdiano. Se l'edizione del '77 (storica,
imprescindibile) si può considerare pionieristica, questa,
come scrisse Peter Hagmann sulla
NZZ, conduce «an den Kern des Werkes», al nocciolo, al
cuore, all'anima dell'opera. Interminabili ovazioni per il grande
direttore austriaco. La regia di Grüber, lievemente contestata,
non ha entusiasmato, ma è raffinata, sottile, colta e
rispettosa della musica.
La prima rappresentazione ha avuto luogo il 24
febbraio, alle 19.00. Altre rappresentazioni il 5, 13, 15, 17 marzo
(alle ore 14.00); il 9 e l'11 aprile (alle 14.00). Agli estimatori di
Monteverdi e di Harnoncourt..., parafrasando
«Tannhäuser», un consiglio: «Nach
Zürich!»
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Monteverdi
raccoglie l'eredità del madrigale rinascimentale, portato ai
massimi livelli stilistici da Luca Marenzio: in particolare, cerca di
risolvere la crisi della polifonia, già avvertita Gesualdo da
Venosa, ricollegandosi alla tradizione con sguardo critico e
lungimirante. In tal modo, pone le basi del teatro musicale e
rappresentativo, ispirandosi ai teorici della Camerata de' Bardi:
questi, nell'intento di far rivivere l'antica drammaturgia greca,
influenzano i musicisti favorendo la sperimentazione di un nuovo tipo
di vocalità, a metà strada fra canto a piena voce e
recitazione intonata, detto recitar cantando. Monteverdi decreta la
fine dell'innegabile chiusura intellettualistica alla quale, fino ad
allora, la musica veniva sacrificata: egli passa, infatti, da una
musica reservata, astatta e riservata a pochi intenditori, ad una
musica espressiva di affetti, che tenta di coinvolgere sempre di
più il pubblico. Tali innovazioni furono apportate dal
musicista con piena consapevolezza del suo ruolo
"rivoluzionario".
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Klaus
Michael Grüber ist mit seiner Inszenierung von
Monteverdis «Ulisse» erstmals am Zürcher Opernhaus
zu erleben. Er gilt als einer der grossen Theatermagier seiner
Generation. Das Regiehandwerk erlernte er in den 60er Jahren bei
Giorgio Strehler am Piccolo Teatro und begann Ende der 60er, Anfang
der 70er Jahre in Mailand, Bremen und Berlin zu inszenieren. Für
die Schaubühne entstanden legendare Arbeiten, die seinen Ruhm
als Meister eindringlicher, bisweilen hermetischer Bilderweiten
begründeten. An der Schaubühne lernte er Ellen Hammer
kennen, die seit 30 Jahren seine engste Mitarbeiterin ist, und die
auch bei der Zurcher Neuinszenierung des «Ulisse»
für Regiemitarbeit und dramaturgische Konzeption verantwortlich
zeichnet. Mit Monteverdi haben sie sich schon einmal gemeinsam
beschäftigt, als sie 1999 für das Festival International
d'Art Lyrique in Aix-en-Provence dessen «L'iricoronazione di
Poppea» erarbeiteten.
Monteverdis Bestreben, das menschliche Schicksal in
den Vordergrund vor alle theatralische Prachtentfaltung zu stellen,
spiegelt sich in ihrer Arbeit wieder. Spektakulärer Einsatz der
Bühnenmaschinerie, unablässige Szenenwechsel waren
Erfordernisse, die ein Komponisi der damaligen Zeit zu bedienen
hatte. Mit einigen behutsamen Umstellungen sowie Strichen wird in der
Zürcher Neuinszenierung ein geradlinigeres Erzählen dessen
ermöglicht, was den Kern von Monteverdis Heimkehrerdrama hildet.Angestrebt
ist Einfachheit, die es dem Publikum ermöglicht, zuschauen und
mitfühlen zu können, ohne von störenden
Aktivitäten abgelenkt zu werden. Der Mensch im Mittelpunkt,
ernstgenommen mit seinen Zweifeln und Ängsten, sei es der Dulder
Ulisse in seinem Aufbegehren, die nicht mehr an Glück glauben
könnende Penelope oder Iro, mit seiner Beleibtheit der
Lächerlichkeit preisgegeben.
Ebenso fein, genau und liebevoll, wie Monteverdi alle
seine Figuren zeichnet, ist Klaus Michael Grübers Umgang mit
ihnen. Dass dabei die kleinste mimische oder gestische Änderung
bedeutsam werden kann, verdankt sich dem poetischen Bühnenraum
des berühmten französischen Malers und Bühnenbildners
Gilles Aillaud, auch er seit nahezu 30 Jahren kongenialer
Partner Klaus Michael Grübers. Vom gleichsam kosmischen Beginn
des Prologs setzt er vorwiegend mit gemalten Prospekten, die - ebenso
wie in manchen Szenen die Regie - die Entstehungszeit von Monteverdis
«Ulisse» mit ins Spiel bringen, zugleich einfache wie
atmosphärisch dichte Zeichen, die die unterschiedlichen
Schauplätze direkt ins Bild setzen. Mitarbeiter ist ihm dabei
Bernard Michel, selbst Maler und seit 20 Jahren im Team um
Klaus Michael Grüber.
Wesentlich für dessen Inszenierungen, so Ellen
Hammer, ist die enge Zusammenarbeit aller Beteiligten: «Jeder,
vom Hauptdarsteller bis zum letzten Statisten, muss das seine
beitragen. Grüber hat nie fixe Ideen. Er schaut die Frauen und
Männer, die Umgebung, mit der er arbeitet an und gewinnt daraus
den Respekt für ihre Freiheit. Er übt nie Zwang aus,
sondern sucht immer das Einverständnis der Darsteller.
Andererseits gelingt es ihm, die Persönlichkeit eines
Darstellers zu erfassen und sie mit der Rolle in Verbindung zu
bringen, um eine Idee zu entwickeln. Die Persönlichkeit des
Darstellers beeinflusst seine Lesart der Rolle und er versucht dann,
alles daran zu setzen, dass die Rolle ganz mit dem Interpreten
verwachst. Das zählt mehr als vorbereitende Diskussionen, die
bei ihm meist kurz sind. Er gibt die Grundrichtung an. Ob zum
Beispiel die Kostüme heutig oder historisch sind, dazu braucht
er nicht mehr als zehn Sekunden. Danach macht jeder seine
Arbeit.» So auch die zu Grübers Team gehörende
Kostümbildnerin Eva Dessecker, die gleichfalls aus der
Probenarbeit heraus auf die Erfordernisse der Inszenierung und die
Individualität der Darstellerinnen und Darsteller
reagiert.
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[...] Il tema
della produzione di rifiuti in ambito teatrale è stato
affrontato esplicitamenteda Klaus Michael Grüber, nella seconda
e conclusiva serata dellAntikenprojekt, realizzato nel 1974
alla Schaubühne di Berlino e dedicato alla tragedia greca. Nella
prima serata, gli "esercizi per attori" curati da Peter
Stein, lantica ritualità veniva esplorata con ampio uso
di materiali "sporchi" e "poveri" (fango bende
eccetera), che imbrattavano gli attori e lo spazio scenico.
Allinizio della seconda serata, Le Baccanti con la regia di
Grüber, lo spazio è interamente bianco, asettico:
"bianco il soffitto metallico, bianche le pareti, ma interamente
bianco anche il suolo". Anche se poi questa scatola scenica si
rivelerà una boite a surprises, in cui si aprono voragini,
specchi, vetrine, varchi e botole: aperture verso linconscio,
il rimosso, o limmaginario. Lo scatenamento dionisiaco delle
Baccanti che uccidono e smembrano Penteo comporta una devastazione
dello spazio scenico, segnato e sporcato dalle forze
dellirrazionale. A segnare il ritorno allordine
sarà lintervento di una pattuglia di poliziotti o
inservienti, in tute di plastica gialla e maschere che nascondono il
volto, che tureranno le falle e riporteranno lambiente alla
condizioneiniziale. Con lausilio di uno di quei furgoncini
gommati che si usano per le pulizie, che come un panzer,
irromperà nella sala portandovi la violenza invadente,
lorrore del suo meccanismo livellatore, e il suo tanfo
inquinante. Esteriormente tutto sembra tornato come prima, le tracce
del disordine sono state cancellate. Ma qualche traccia, è
inevitabile, rimane: sui corpi degli attori ("Penteo ha un
braccio e una gamba segnati di bianco gesso, il primo messaggero una
spalla e un fianco verdi di muschio, Agave è tutta marchiata
del colore del sangue, il Secondo Messaggero striato di un materiale
giallo come il miele"). E rimane naturalmente nellamemoria degli
spettatori. [...]
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