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GUY COGEVAL

DEBUSSY E I RISCHI DEL TEATRO

Il cimitero di progetti lirici o corali abbandonati da Debussy prima di Pelléas et Mélisande basterebbe a rivelare le difficoltà che il giovane musicista incontrava volendo entrare nel modello dell'opera tradizionale, anche se rigenerato dal «Wort-Ton-Drama» wagneriano. L'elenco di queste opere incompiute è lungo, cominciando da Zuleima, ispiratagli da Heine, che lo fece tanto penare a Villa Medici, a Axel, tratta da Villiers de l'Isle-Adam, di cui compose soltanto una scena, passando per Rodrigue et Chimène di Catulle Mendès, abbandonata. Elenco tanto lungo che alcuni commentatori hanno creduto giusto concludere che Debussy soffrisse di un'impotenza profonda di fronte al genere lirico, all'impossibilità di adattare la sua musica per la scena, e di stupirsi delle sue scelte letterarie ritenendole aberranti. In realtà, il giovane musicista si scosta risolutamente dalle vie della facilità aperte davanti a lui: sia produrre grandi opere alla francese nelle loro versioni wagnerizzate (come Reyer e Thomas ne indicano il cammino), sia volgersi verso il naturalismo lirico che spunta con Mascagni, Leoncavallo, Bruneau, Charpentier ([...] «...Come vuoi che personaggi brutti come Zola e Bruneau siano capaci d'altro se non uno sforzo verso il mediocre?») [1].
Le apparenti incertezze di Debussy si iscrivono nella ricerca, comune alla generazione simbolista, di un teatro che fugge la rappresentazione tradizionale, sia per quanto riguarda il linguaggio drammatico che per l'allestimento scenico.
Tutti sognano un teatro mentale, fosse pure senza scenografie e senza attori. Soprattutto quelli (e Debussy fa parte di loro) che si confessano delusi dalle liturgie di Bayreuth, dove la magica armonia wagneriana non giunge a dissimulare le armature in ferro dolce e i mostri di cartapesta che si agitano davanti a tele dipinte. La volgarità dei procedimenti scenici assassina l'immaginazione.
Donde il ripiegamento di numerosi simbolisti verso forme di spettacolo più astratte, come le coreografie luminose e dinamiche di Loïe-Füller alle Folies-Bergère: le forme effimere e senza sosta rinnovate ch'essa evoca col moto incessante dei suoi veli descrivono uno spazio dove l'immaginazione può agire, libera. «Ora, questa transizione di sonorità ai tessuti (che cosa somiglia a un velo, meglio della musica!) è, unicamente, il sortilegio che opera la Loïe-Füller per istinto, con l'esagerazione, il ritirarsi, di gonna o di ala, istituendo un luogo. L'incantatrice crea l'ambiente, lo trae fuori da sé e in sé lo fa rientrare, attraverso un silenzio palpitante di crespi di Cina. Fra poco sparirà, come in questo caso, una imbecillaggine, il tradizionale impianto delle scenografie permanenti o fisse in opposizione alla mobilità coreografica» [2]. Questo spettacolo fuggente, in cui tutto sembra confondersi, è proteso al sogno e fonte di estasi. Ma se indica orientamenti possibili a una futura utilizzazione dello spazio (e i balletti di Debussy ne risentiranno), non può pretendere di fondare una vera drammaturgia, intesa come nel senso largo di pratica teatrale.
In questo senso, la parte di scrittori quali Ibsen e Maeterlinck è d'una importanza considerevole. «Qualche cosa di Amleto è morto per noi il giorno in cui l'abbiamo visto morire sul palcoscenico. Lo spettro d'un attore l'ha deteriorato e noi non possiamo più allontanare l'usurpatore dai nostri sogni (...). L'assenza dell'uomo mi sembra indispensabile» [3]. Questa posizione estrema, difesa da Maeterlinck quando aveva appena terminato di scrivere Serres chaudes, avrebbe potuto essere sostenuta da Debussy alla stessa epoca; quest'ultimo non dichiarava, infatti, al suo ex maestro Ernest Guiraud che l'autore del libretto sognato sarebbe «colui che, dicendo le cose a metà, mi permetterà di innestare il mio sogno sul suo; che concepirà personaggi la cui storia e la cui dimora non saranno di alcun tempo e di alcun luogo; che non mi imporrà dispoticamente la 'scena da fare' e mi lascerà libero qui o là di esprimere più arte di lui, e di completare la sua opera. Ma egli non abbia paura! Io non seguirò gli errori del teatro lirico, in cui la musica predomina insolentemente. Io sogno componimenti poetici che non condannino a perpetrare atti lunghi, pesanti, che mi forniscano scene mobili, diverse per i luoghi e il carattere; dove i personaggi non discutano la vita e il destino» [4].
Subire la vita e il destino. È proprio una costante dei personaggi del teatro di Maeterlinck, marionette con «l'apparenza di sonnambuli un po' sordi, incessantemente strappati a un sogno penoso» [5], che ripetono con ostinazione le stesse domande per assicurarsi almeno, «in mancanza di tutto, la coscienza dell'eco» [6]. In un'epoca in cui trionfano sulla scena Sardou e Rostand, Maeterlinck propone un teatro che aborrisce la magniloquenza e sa destare risonanze segrete dietro le parole più semplici. È vero che sul filo dei testi teatrali, la ripetizione di certe trovate originali diventa maniera. Chi non ha sorriso ai «Piccolo Padre!» d'Yniold, o alle scene di questo tipo che abbondano nel drammaturgo belga: «...Sembra ch'essa abbia sempre paura / Voi non avete allora paura qui? / Chi intendete? / Tutti voialtri! / Sì, sì, abbiamo paura! / Abbiamo paura da tanto tempo! I Perché ce lo chiedete? / Non so perché lo chiedo! ...» [7].
E tuttavia, dove ritrovare, prima di Beckett, nel teatro contemporaneo la violenza contenuta di queste situazioni di attesa angosciosa d'una rivelazione che non viene mai, e di rassegnazione al nulla? Come Vladimiro ed Estragone, «Les Aveugles» (I Ciechi), nel dramma omonimo (1891), aspettano su di una landa deserta il prete che deve ricondurli all'ospizio; ma costui non viene; perché è morto; ed è vicino a loro; però essi non possono vederlo. Concisione spietata, quindi esemplare, d'una situazione drammatica.

È in particolare al «Théàtre d'art» di Paul Fort, poi soprattutto a «l'Oeuvre», fondata nel 1893 da Lugné-Poe, Camille Mauclair e Edouard Vuillard, che Debussy è guidato a conoscere quel teatro in rotta con la tradizione: Henri de Régnier, Ibsen, Jarry («Ho una voglia straordinaria quanto pazza di sentire 'Ubu Re' [8], quell'Ubu-Re di cui non è stato sempre sottolineato che doveva alla Principessa Maleine di Maeterlinck quanto a Shakespeare»). Armonia, sintesi, suggestione, principi di quelle rappresentazioni, s'esprimono nelle scenografie dei pittori Nabi legati a Lugné-Poe da una lunga e profonda amicizia: Bonnard, Vuillard, Sérusier, Denis, Ibels. Con le scenografie e i costumi, questi pittori si impegnano a sottolineare le analogie di colore con il dramma; essi creano un accompagnamento pittorico che suggerisce l'atmosfera col gioco calcolato delle tonalità. La scena abbandona la cura dell'illusione della realtà: essa si compone come un quadro.
La rappresentazione che la compagnia de «l'Oeuvre» dà di Pélléas et Mélisande ai Bouffes-Parisiens il 17 maggio 1893 lascia in Debussy un ricordo incancellabile: invece delle diciannove scenografie successive previste dallo spettacolo, due tele di fondo imprecise su cui si armonizzano i costumi ispirati da Memling, Holbein o Walter Crane; l'illuminazione, che viene dall'alto, circonfonde i personaggi d'un chiarore lunare. Questo gioco di figure prese nel tranello di un ambiente impreciso, costrette in uno spazio a due dimensioni, ha dovuto intervenire nell'adesione totale di Debussy al clima dell'opera; il giorno dopo egli scriveva i primi abbozzi musicali, poi si affrettava, nell'agosto 1893, ad ottenere l'autorizzazione di Maeterlinck di trarre un'opera musicale dalla sua creazione letteraria. Nonostante le difficoltà che gli causarono certe scene, poteva annunciar la fine della partitura (non orchestrata) nell'agosto 1895; questa prima versione subirà ancora numerosi rimaneggiamenti prima di apparire sei anni più tardi all'Opéra-Comique. Durante questo periodo, Debussy rinsalda la sua notorietà componendo, fra l'altro, le Chansons de Bilitis (1897) e i Nocturnes per orchestra (1897-1899).
All'inizio, l'intenzione di Debussy era di serbare a Pelléas il carattere confidenziale di «Spettacolo di gala intimo», della rappresentazione dell'«Oeuvre». L'assenza di interludi per collegare le scene svela l'idea di un'opera da camera da rappresentare in una piccola sala davanti a un pubblico scelto (come il «Pavillon des Muses» visto in precedenza di Robert de Montesquiou).
Nell'ambiente sontuoso dell'Opéra-Comique, Debussy accetta il rischio della dilatazione spaziale, quindi di snaturare il senso originale della propria opera. Per di più, egli non può condurre seco i pittori del teatro dell'«Oeuvre» e deve accontentarsi del miserabile allestimento che propongono gli scenografi titolari dell'Opéra-Comique, Ronsin e Jusseaume. Prigionieri d'una praticaccia che rare incursioni nel repertorio naturalista non sono davvero riuscite a scuotere, essi propongono scenografie che avrebbero potuto essere quelle di Gwendoline di Chabrier, o, forzando un poco, di Esclarmonde di Massenet. Intercambiabili. Tristi e grigiastre, «succo di tabacco», come tutto ciò che si faceva all'Opéra e all'Opéra-Comique in quell'epoca. Dove tutta l'invenzione degli scenografi si esaurisce nel voler ricreare i luoghi conformemente ai dati del libretto, con la cura dell'esattezza illusionista.
Nonostante tutto, secondo quanto riferito dal suo amico René Peter, Debussy fu soddisfatto delle scenografie; la pesantezza dei loro spostamenti ebbe almeno il buon risultato di spingere il musicista a comporre all'ultimo minuto i superbi interludi orchestrali che conosciamo. Debussy fu presente a tutte le prove, cesellando la minima inflessione del testo e della musica, precisando il senso delle sue intenzioni agli interpreti dai quali pretendeva che fossero, da solido uomo di teatro, anzitutto degli attori. L'entusiasmo di questi ultimi, la regia precisa di Albert Carré, direttore dell'Opéra-Comique, la mirabile direzione di André Messager (stando a quanto detto dallo stesso Debussy: «lei aveva saputo destare la vita sonora di Pelléas con una tenera delicatezza che non si deve più cercar di ritrovare») [9] realizza senza dubbio una parte del sogno teatrale che il musicista aveva portato entro di sé fino ad allora.

«La parte nascosta dei destini»

Tutti sanno che le prime rappresentazioni (maggio 1902) si svolgono in un'atmosfera di battaglia campale; tuttavia molto rapidamente, beneficiando dell'appoggio entusiastico dei giovani musicisti che si trovavano in armonia con quell'estetica (Ravel, Schmitt, Dukas, ...), e le consorterie esaurendosi da se stesse, l'opera fu coronata da successo. Non si potrebbe affermare comunque che Pelléas abbia conquistato un posto nel repertorio comparabile a quello di altre opere di rottura, come Tristano o Salomé; essa spinge all'ammirazione, suscita il rispetto, ma conserva il clima di un'opera misteriosa e difficile, che impedisce una totale e universale adesione. Opera limite, essa non s'inserisce in nessuna forma prestabilita, sia per la caratterizzazione vocale di psicologie nettamente espresse, oppure l'utilizzazione d'un tessuto denso di leitmotive sostenuti da un'orchestra torrenziale. René Leibowitz ha perfettamente caratterizzato questa consapevolezza d'una lacuna, qualificando Pelléas di «no man's land dell'arte lirica» [10].
L'obiettività di Debussy di fronte ai protagonisti del dramma è spietata, quanto la sua compassione è sincera. Si può davvero dare un giudizio univoco su Mélisande, nel contempo vittima, menzognera, incosciente piena di presentimenti? È il saggio Arkel, che sembra in certi momenti dire soltanto stupidaggini? E Golaud, che non avrà capito nulla? e avrà sofferto dall'inizio alla fine? E Pelléas, sempre in procinto di partire, e sempre presente? Il mondo di Pelléas non è fluido, «impressionista», è ambiguo; esprime la penosa consapevolezza dell'incapacità di agire, dell'impossibilità di nominare le cose senza ucciderle. Donde codesta declamazione in scorrevole recitativo in cui s'intrecciano i simboli, e alla quale la musica conferise risonanze inesauribili. L'orchestra, ideale per trasparenza, suscita paesaggi sonori d'una estrema mobilità.
Così, il coro invisibile dietro la terrazza (I,3) svela orizzonti aperti al di là d'Allemonde, subito dati in preda ai ruggiti del mare; i cupi colori affidati al fagotto e ai timpani nella scena dei sotterranei (II,2), interamente costruita sulla gamma da toni, svela un castello i cui muri sono corrosi dalla putredine, destinati a un crollo fatale; e i rintocchi gravi della campana di Mélisande risuonano d'una tristezza inconsolabile.
L'evidenza magica di quest'universo, che, di primo acchito, sembra d'una desolante banalità, proviene dal fatto ch'esso si edifica come un'audace metafora della Natura nel suo stato più primitivo: Allemonde è una gigantesca serra, una specie di labirinto biologico dove la vita segue il suo corso impassibile e crudele verso la morte, e dove le separazioni emettono il mormorio di sfaldature molecolari. Il linguaggio non è che un velo gettato su di una realtà immemorabile: esso può in parte dissimularla, ma certamente non alterarla. E questa allucinante situazione drammatica diventa credibile perché la musica effettua il testo: l'impossibilità di lasciare il cerchio incantato del dominio, quella corrente magnetica che riconduce i protagonisti verso il castello, Debussy li esprime utilizzando ossessivamente il perpetuum mobile, il moto vorticoso fisso, le cadenze che non si concludono ... La musica non è più accompagnamento, rivestimento, illustrazione. Essa agisce.

«È morto, il bell'Adone!»

Conoscendo la lentezza meticolosa del lavoro di Debussy si rimane stupefatti della rapidità con cui egli compone la musica del Martyre de St. Sébastien. riceve i primi frammenti del testo durante il gennaio 1911, quando la prima rappresentazione deve aver luogo cinque mesi più tardi. Questa insolita febbrilità può spiegare alcune debolezze della partitura, che offre circa cinquanta minuti di musica all'interminabile dramma di Gabriele d'Annunzio. Ci si chiede ancora sulle ragioni che hanno spinto il compositore a collaborare col poeta italiano, la cui estetica «decadente» non era precisamente vicina ai suoi gusti. Tanto più che il progetto fu realizzato come una vasta operazione pubblicitaria intorno alla danzatrice Ida Rubinstein, che doveva incarnare il Santo.
Là dove non è imbrigliato dagli arcaismi preziosi ed enfatici del «poema» dell'Immaginifico, Debussy dimostra di aver raggiunto nel corso degli anni de La Mer e delle Images per orchestra, l'apogeo dei suoi mezzi.
Nella «Chambre magique» (seconda Mansione), la tonalità fluttuante, il luccichio boreale delle corde, le marezzature malefiche del controfagotto e dei corni cristallizzano un clima prodigiosamente onirico, fanno udire una specie di eco planetaria. Per la «Danza estatica» del Santo, Debussy compone una fra le sue pagine più toccanti, in cui il lamento lancinante del tema della Croce, cromatico, parsifaliano, subisce le convulsioni dell'ostinato ritmico dei timpani (che fa pensare a certe pagine di Berg). Nel bosco di Apollo, dove Sebastiano supplica gli arcieri di trafiggerlo con le loro frecce, la melopea irreale del corno inglese serpeggia in una atmosfera atonale d'alba rattristata e smorta; si ritrova un po' più tardi nella strana elegia degli Adoniasti quel clima di sogno greve impossibile da dissolvere.
Nei passi più sacri dei cori «a cappella», come nello splendore grandioso del Paradiso, Debussy non raggiunge più quella incredibile raffinatezza sonora; come sempre, egli rimane più convincente là dove non afferma nulla, là dove la sua musica diviene espressione dell'impronunciabile. E la complessa atmosfera di magico e di sacro, di sensuale e di mistico, di scatenata gioia dionisiaca e di morbosa aspirazione all'annientamento che offre il testo di d'Annunzio si adatta meglio di quanto di solito si pretende alla sensibilità dell'artista. Egli ha proclamato fino a poco prima della sua morte la volontà di farne un'opera più lunga. In realtà, il non aver compiuto questo suo progetto riflette perfettamente la ripugnanza profonda di Debussy per le forme di lungo respiro che non possono evitare la ridondanza. Di fronte al San Sebastiano, egli si trova fra il desiderio di «dare il suo Parsifal», e la consapevolezza perfetta dell'evoluzione necessaria della musica occidentale verso forme concise e sintetiche, come Webern e Stravinsky ne mostrano il cammino in quello stesso momento.
Il Martyre non fu un gran successo (d'altra parte non si è mai imposto nel repertorio) nonostante l'interpretazione stupenda di Ida Rubinstein e le scenografie ultraspettacolai di Léon Bakst. Chi meglio di quest'ultimo poteva tradurre visivamente quel clima di confusione religiosa, di disgregazione culturale, di un mondo che si spegne in un nuovo mondo? Da chi poteva provenire un conglomerato tanto audace, eccessivo, di toghe romane, di stoffe damascate, di strascichi bizantini, di mantelli presi in prestito da Carpaccio, in palazzi sostenuti da colonne a spirale; un Basso-Impero fantasmatico, primitivo e voluttuoso, che scoppia in una splendida orgia policroma.

«Il mio dubbio, ammasso di notte antica, svanisce»

Il Martyre apre il periodo di collaborazione tra Debussy e i Balletti Russi, che sono «l'evento» culturale dell'immediato dopoguerra. Non soltanto Diaghilev, Bakst e Nijinsky rinnovano totalmente l'arte della danza, ma sconvolgono anche le tradizioni della regia con l'irruzione selvaggia del colore. Con la preoccupazione accentuata d'una sintesi dinamica e cromatica fra danza e spazio, essi invocano una volta di più il vecchio fantasma della fusione delle arti, la «Gesamtkunstwerk» tanto cara a Wagner, il cui ideale era transitato attraverso l'opera scenica dei pittori Nabi. Dietro quei lontani echi si può comprendere la coerenza profonda della cultura teatrale di Debussy.
Per il primo balletto di cui Nijinsky deve assicurare la coreografia, Diaghilev fissa la sua scelta sul
Prélude à l'Après-midi d'un faune; composto nel 1894 sotto l'ispirazione del celebre poemetto di Mallarmé, e la cui musica è allora ben nota al pubblico; i due russi desiderano una coreografia sperimentale per sovrapporre una possibile visione immaginaria a quest'opera orchestrale che basta, d'altronde, molto bene a se stessa.
Seguendo i concetti ritmici dello svizzero Emile-Jacques Dalcroze, essi intendono animare alcuni bassorilievi arcaici, evocare la rigidità plastica delle figure dipinte sui vasi greci. Le regole tradizionali del balletto sono allora rovesciate: movimenti angolosi, piedi come avvitati al suolo, corpi di profilo che sembrano scorrere su rotaie. Con questo rifiuto dello scambietto, dell'arrotondare armonioso, della verticalità, Nijinsky elimina il virtuosismo che l'aveva nondimeno reso celebre e anticipa le ricerche del balletto contemporaneo, quelle di Merce Cunningham in particolare. Egli fonda la «scrittura corporale» sognata da Mallarmé, «e si sa come Nijinsky, mimando il 'coito col nulla' imponeva al pubblico dei Balletti Russi quell'angoscia meridiana, quel panico estivo, quella disperazione afrodisiaca» [11].
La scenografia concepita da Bakst è uno splendido arazzo su cui si alternano cipressi, rocce e cascate (senza curarsi di rappresentare le «rive sicule d'una calma palude» descritte da Mallarmé) e su cui si staccano i chitoni variopinti delle ninfe. «Inerte, tutto arde nell'ora fulva». Quanto al costume del fauno, una delle più geniali trovate teatrali del secolo XXº, è da allora oggetto d'una associazione visiva sistematica con la musica di Debussy.

Jeux, su cui Debussy lavora tra l'agosto e il settembre 1912, è la sola musica di Debussy specificamente composta per il balletto, su di un tema di Nijinsky; la ricerca d'una palla da tennis perduta offre il pretesto a un giovane e a due ragazze per darsi a una serie di scherzi nella notte: «ci si cerca, ci si perde, ci s'insegue, ci si disputa, ci si tiene il broncio senza ragione». Gli aspetti ridicoli della coreografia, che voleva essere una «apologia plastica dell'uomo del 1913», sono stati spesso stigmatizzati, e facevano particolarmente montare su tutte le furie Debussy: «[...] accadono certo fatti decisamente inutili. Permettetemi di enumerare fra questi ultimi, la rappresentazione di Jeux, dove il genio perverso di Nijinsky si è impegnato in speciali calcoli! quest'uomo addiziona le biscrome con i suoi piedi, dà prova del suo valore con le braccia, poi preso da improvvisa emiplegia, guarda passare la musica con sguardo avverso. Sembra che questo si chiami la stilizzazione del gesto. Tutto ciò è brutto! è anche dalcroziano, [...]» [12] Questi fatti non impediscono al musicista di scrivere allora la sua opera più profetica: le analisi «pre-weberniane» della partitura hanno fatto la prova dello scoppio sonoro nello spazio a cui essa giunge, dall'assenza di sviluppo reale delle culture motiviche molto semplici; Jean Barraqué l'ha mirabilmente espresso: «[...] Una minuziosa analisi mostra che il compositore tiene talvolta conto degli 'sviluppi assenti' come se la musica si fosse svolta altrove, seguendo un percorso logicamente deduttivo, ma si trovasse scalzata, per interruzione, in zone di oblio. Così l'opera sfugge allo sbriciolamento concettuale, perché la nozione di discontinuità prende un nuovo senso; si tratta molto di più, sul piano strutturale, d'una 'continuità alternativa [13]». Jeux è stato raramente ripreso sotto forma di balletto, e sembra essersi durevolmente stabilito nelle sale di concerto. Ma ancora una volta, pur di prendere sufficiente distanza di fronte all'opera, Debussy ha messo in evidenza nel tema del balletto gli elementi che servono a riaffermare la comunione biologica, l'osmosi plastica tra l'uomo e la natura, postulato fondamentale della 'Weltansschauung' simbolista. Le linee che disegnano i movimenti dei corpi si iscrivono in una oscillazione generale dell'universo, che le pulsazioni ritmiche della danza sposano e rivelano. Eccoci di nuovo immersi nella profonda poetica di Pelléas, in seno a quel grande parco dove si estendono oscurità crepuscolari e complici: ancora una serra calda che respira, un giardino botanico che scivola lentamente nei profumi della notte.
I tre ballerini di Jeux scrivono uno spazio notturno, cancellato appena tracciato, con la stessa urgenza, la stessa necessità che isola il fauno nel mistero di mezzogiorno, o che fa morire Sebastiano nel grigiore smorto d'un mattino torbido. Stessa aspirazione a ritornare nel nulla delle origini. La concezione teatrale di Debussy è d'una notevole coerenza, prolungata come essa è dal senso profondo della sua musica pianistica e orchestrale. Senza bisogno di un dispiega mento tetralogico dimostrativo, Debussy ci propone un universo in cui il mistero affiora in ogni evidenza, dove il movimento non è che accelerazione circolare delle idee fisse, dove il suono è soltanto il ricordo del suono. Dove lo spazio, pronunciato, viene disgregato dall'avanzare inesorabile del tempo. Abolito.