VICTOR I. SEROFF

LA TORMENTATA GENESI E IL CONTRASTATO
ESORDIO DI PELLÉAS ET MÉLISANDE di DEBUSSY


DEBUSSY
NUOVA ACCADEMIA EDITRICE
pp. 183-203


«Come accoglierà il mondo queste due povere creature?», scriveva Debussy a Lerolle nel 1894. «È così difficile metterle al mondo...», lamentava a Ysaëe nel 1896. Tali furono per dieci anni i pensieri del musicista sul Pelléas et Mélisande, e indubbiamente, adesso che l'occasione finalmente era arrivata, la sua unica preoccupazione era di rappresentare l'opera nel miglior modo possibile. Certo non aveva neppure la più pallida idea del «dramma» che avrebbe provocato ancor prima che si alzasse il sipario della prova generale; un «dramma» che coinvolse due primedonne belle, ambiziose e gelose, i loro amanti, e lo stesso Debussy.
Entrambe le due prime donne, Georgette Leblanc e Mary Garden, hanno scritto le loro memorie e hanno riferito la vicenda, ciascuna - presumibilmente - «secondo quanto sapeva e in tutta buona fede»: ed è ovvio che le due versioni sono in contraddizione reciproca. Il racconto di Georgette Leblanc, scritto circa vent'anni dopo che si svolse il fatto, è più breve e più equilibrato come si addice al tono di chi perde in una disputa; mentre quello di Mary Garden, scritto cinquant'anni dopo, è così soggettivo e così impreciso sulle date che può servire soltanto ad illustrare i personaggi implicati in un intrigo che per Debussy fu un inutile rompicapo.
Entrambe erano cantanti note al pubblico dell'Opéra Comique, ed entrambe erano intimamente legate al sovrintendente Albert Carré e ad André Messager (il direttore d'orchestra), cui spettava la decisione inappellabile nella scelta del cast. Mary Garden aveva avuto un'avventura sentimentale di due anni con Messager e nelle sue memorie afferma che Carré l'aveva chiesta in sposa. Georgette Leblanc aveva sposato da poco il Maeterlinck e, nella sua storia, ella stessa insinua che Carré non le era del tutto indifferente. Tali erano dunque il cast e l'atmosfera afrodisiaca in cui Debussy entrò con la partitura del Pelléas et Mélisande.
Secondo la Leblanc - e non sembra improbabile - durante o alla fine dell'estate 1901, il musicista andò a trovare il Maeterlinck, che viveva allora a Parigi in rue Raynouard.
Mentre Debussy gli faceva ascoltare il suo spartito, l'ospite fumava la pipa e poiché la musica non la capiva, né gli interessava, quasi si addormentò per la noia: la moglie Georgette, seduta dietro di lui, faceva sforzi disperati per tenerlo sveglio. Prima che Debussy se ne andasse, parlarono delle possibilità di scelta circa le interpreti delle varie parti, e la Leblanc espresse il desiderio di cantare la parte di Mélisande. Il marito era d'accordo e il musicista ne fu «incantato»: decisero immediatamente di studiare insieme, e lo fecero due o tre volte in casa di Maeterlinck e due volte in casa del compositore. Sembrava che Debussy fosse perfettamente soddisfatto della cantante.
Nel frattempo al caffé Weber si tenne un importante conciliabolo tra Carré, Messager e Debussy. Furono suggeriti ed esaminati molti nomi per la distribuzione delle parti e, sia perché la situazione ricordava a Carré e a Messager che avevano passato dei mesi a cercare la persona adatta a interpretare Louise prima di scoprire Marthe Rioton, sia per motivi più personali, Carré fece il nome della Garden rievocandone il sensazionale debutto quando aveva sostituito la Rioton che si era sentita male durante una rappresentazione di Louise. Il compositore non sapeva nulla di lei, ma l'altro insistette: «Penso che la sua affascinante inesperienza sarà un punto di più a favore, in questo caso».
Fu così deciso che Debussy avrebbe preso contatto con gli interpreti a un piccolo ricevimento in casa di Messager; il quale disse, un giorno: «Debussy suonò lo spartito e cantò tutte le parti con quella sua voce profonda e sepolcrale, ma con una espressione che si faceva sempre più irresistibile. L'impressione suscitata dalla sua musica quel giorno fu, penso, un'esperienza unica. C'era dapprima una atmosfera di sfiducia e quasi di ostilità; poi, gradatamente l'attenzione degli ascoltatori fu conquistata, e, a poco a poco, l'emozione li vinse: le ultime note della scena della morte di Mélisande caddero tra il silenzio e le lacrime».
Mary Garden afferma di essere scoppiata «in singhiozzi dirotti»; la signora Messager si mise a piangere con lei e tutte e due fuggirono nella stanza accanto.
Il 13 gennaio incominciarono le prove e pochi giorni dopo il Maeterlinck lesse sui giornali il nome di Mary Garden come interprete di Mélisande, al posto di Georgette Leblanc. Furibondo, voleva far interrompere immediatamente la rappresentazione, e fece appello alla Société des Auteurs, basando la sua protesta sul fatto che la registrazione del Pelléas alla Société, in data 30 dicembre 1901, era illegale perché mancava la sua firma: non avrebbe dato la sua approvazione finché la distribuzione delle parti non fosse stata sottoposta al suo giudizio.
Quando gli furono chieste spiegazioni, Debussy mostrò una lettera del Maeterlinck in data 19 ottobre 1895, che lo autorizzava a rappresentare l'opera «quando, dove e come voleva». Quanto all'affermazione di lui che il musicista soltanto pochi mesi prima aveva consentito ad affidare alla Leblanc la parte di Mélisande, egli rispose dicendo che non si era impegnato che con un «vedremo».
Il sette febbraio, facendo seguito alle proteste del Maeterlinck, Victorien Sardou, che allora presiedeva la Commission des Auteurs, convocò entrambe le parti per la successiva sessione del comitato, e il 14 dello stesso mese Debussy dichiarò che rimaneva fermo nella sua idea riguardo la Garden. La Commission propose che si sottomettessero a un arbitrato, e Debussy accettò. Il Maeterlinck promise che avrebbe dato una risposta, e una settimana dopo annunciò che aveva deciso di ricorrere in giudizio e di procedere anche contro Carré, che considerava egualmente responsabile. Il 27 febbraio il Tribunale emetteva la sentenza a favore di Debussy.
Brandendo il suo bastone, il Maeterlinck disse alla Leblanc che se ne sarebbe servito per «insegnare a vivere a Debussy» e, siccome il loro appartamento era a piano terreno, uscì dalla finestra con l'aria di un crociato sulla via della vendetta. Quando vide entrare in casa sua l'ospite inaspettato, il musicista si rifugiò in una poltrona, Lily corse da lui con i sali, e supplicò il poeta di andarsene. «Che altro avrebbe potuto fare?», commentò più tardi Maeterlinck, «Tutti pazzi, tutti malati questi musicisti!».
Ma lo scrittore non aveva finito. Georgette Leblanc aveva paura che Debussy mandasse i suoi padrini al Maeterlinck, e questi minacciò di sfidare a duello il Carré. Debussy l'aveva tradito ed egli era furibondo; ma il più mascalzone era stato Carré che, secondo lui, si vendicava sulla Leblanc perché alcuni anni prima aveva rifiutato di diventare la sua amante.
Debussy non aveva nessuna intenzione di battersi in duello, aveva in mente cose molto più serie. Le prove incominciarono alla metà di gennaio e continuarono per tre mesi e mezzo fino al giorno della prima: quarantun prove con i cantanti, senza contare quelle con la sola orchestra. Di lì a poco l'entusiasmo iniziale cominciò a svanire; Debussy aveva affidato la copiatura delle parti d'orchestra a un musicista inesperto, studente di pianoforte, che, sebbene contasse coscienziosamente tutte le «pause», dimenticava di segnare i cambiamenti di tempo e di tonalità, e spesso confondeva i diesis con i bemolli. Questo provocava frequenti interruzioni delle prove, e i membri dell'orchestra, seccati, si ribellavano. «Una nauseante massa di cani», brontolava il compositore cercando di aiutare, di spiegare e di correggere dove e quando poteva.
Alcuni strumentisti dell'orchestra, e soprattutto quelli degli ottoni, rimasero così commossi dalla scena della morte di Mélisande che andarono da Messager e dissero: «Abbiamo pochissimo da fare in quest'opera, e non sappiamo quale effetto faccia a voi che state lì al vostro posto, ma quando Arkel dice "Se io fossi Dio avrei pietà degli uomini..." è veramente meraviglioso». Ma gran parte della compagnia di canto e degli orchestrali erano esasperati dalle prove insolitamente lunghe e incominciavano a esserne stufi.
Per Debussy tutti questi erano soltanto dei particolari, perché Carré gli aveva chiesto di scrivere dell'altra musica per gli intermezzi, così da avere il tempo necessario a cambiare le scene. Naturalmente, la musica aggiunta doveva adattarsi a quella già scritta senza disturbare l'unità della composizione.
Quando non era in teatro, Debussy lavorava al suo tavolo, mentre Messager gli mandava continuamente lettere e telegrammi per chiedergli la musica della scena successiva, minacciando di sospendere le prove. Questa corrispondenza giaceva accatastata sul suo tavolo insieme a note di protesta del Tribunale per insolvenza di debiti. Claude passava le notti a comporre, a risistemare e a modificare la partitura per venire incontro alle esigenze dell'allestimento di Carré; certo non aveva tempo di pensare al Maeterlinck. Questi il 19 marzo venne all'Opéra Comique, assistette alle due prove, prima dell'orchestra, e più tardi di tutta la compagnia, e se ne andò senza rivolgere la parola a nessuno. Non ci si aspettava di non sentirlo più, ma nessuno sapeva che aveva cambiato tattica.
Maeterlinck non aveva intenzione di lasciare questo «affaire» soltanto nelle mani della giustizia; andò da una chiromante, in buona fede, a quanto disse: in altri termini, sebbene non credesse completamente ai poteri sovrannaturali, tuttavia la sua mente era incline alla fiducia in cose del genere, ed egli era pronto a farne esperienza. Tutta la faccenda del Pelléas gli sembrava una occasione eccellente per tentare la prova, dal momento che in questo intrigo erano impegnate volontà diverse, potenti e ostili a lui: «Le forze erano ben equilibrate e secondo la logica umana era impossibile prevedere chi sarebbe stato il vincitore», commentava più tardi, descrivendo la sua visita alla chiromante.
Scelse la chiromante più famosa di Parigi: caduta in trance, essa affermò di essersi incarnata nello spirito di una ragazzina di nome Giulia. Sedendo all'altro lato del tavolo, di fronte a lui, lo invitò a concentrarsi sull'oggetto delle sue preoccupazioni e a parlargliene come ne avrebbe parlato a una ragazzina di sette o otto anni. Poi le sue mani, i suoi occhi e tutto il suo corpo furono presi da convulsioni violente che il Maeterlinck trovava disgustose: con i capelli scomposti, l'espressione del viso mutata completamente in quella semplice e infantile di una bimba, incominciò a parlare con voce acuta. Ed egli si sentiva attratto a crederle, mentre descriveva lentamente non solo i luoghi, ma il viso e il carattere di tutti quelli che erano causa delle sue «preoccupazioni».
«Ma come andrà a finire tutto questo?», chiese lui. «Sarò io a vincere oppure il nemico che mi resiste e mi vuol male?».
«Ah! È difficile dirlo», rispose la voce; e, precisò, soprattutto perché il nemico non era ostile a lui, ma «a causa di un'altra persona». «Non vedo perché egli la detesti», continuò la voce, «Oh, come la odia, come la odia! ed è perché voi l'amate ed egli non vuole che voi facciate per lei quello che volete fare».
«Ma andrà fino in fondo e non si accontenterà di un compromesso?», chiese ansioso il Maeterlinck.
«Oh! non vi preoccupate di lui. Vedo che è ammalato e non vivrà a lungo».
«Che stupidaggine! L'ho visto l'altro ieri e sta benissimo».
No, no.., questo non significa nulla; è malato, non si vede, ma è molto malato. Morirà presto».
«Ma quando e come?».
«È coperto di sangue. Vedo del sangue intorno a lui, ovunque».
«Sangue? vuoi dire un duello? [Qui il Maeterlinck scrisse tra parentesi: "Per un istante pensai di trovare un pretesto per provocare il mio avversario "]. Oppure un incidente, un delitto, una vendetta?» [«Era un uomo ingiusto e senza scrupoli che aveva fatto del male a molte persone», commentava il poeta].
«Oh! non mi fare più domande. Sono molto stanca... lasciami andare... sii buono... ti aiuterò».
Si ripeté la crisi di convulsioni come all'inizio del trance, e la donna riacquistò la sua espressione e la sua voce naturale come risvegliandosi da un lungo sonno.
Evidentemente il Maeterlinck seguì il suo consiglio di «esser buono», perché non sfidò il Carré. Più tardi questi si ammalò veramente, dovette subire un'operazione e... per poco non si avverò la profezia.
Ma il Maeterlinck non si dava per vinto. Quando le prove del Pelléas raggiunsero l'acme dell'eccitazione e della confusione perché mancavano soltanto due settimane alla prima, mandò una lettera a Le Figaro, che fu pubblicata il 14 aprile:

«Egregio signor direttore,
la direzione dell'Opéra Comique ha annunciato la prossima rappresentazione del Pelléas et Mélisande. Tale rappresentazione avrà luogo contro il mio desiderio perché i signori Carré e Debussy hanno trasgredito i miei più legittimi diritti. Infatti Debussy, dopo aver convenuto con me sulla scelta dell'artista, la sola, a mio avviso, capace di interpretare la parte di Mélisande, appoggiato soprattutto dall'opposizione di Carré alla mia scelta, decise di negarmi il diritto di intervenire, abusando di una lettera che io gli avevo scritto in tutta fiducia circa sei anni or sono.
Questo gesto sgarbato fu accompagnato da strane manovre, come dimostra il contratto relativo al lavoro, che ovviamente porta una data anteriore per provare che la mia protesta era giunta troppo tardi. Così essi riuscirono ad escludermi dalla mia stessa opera, e da allora in poi fui trattato come se mi trovassi in un paese conquistato da loro. Tagli arbitrari e assurdi hanno reso il dramma incomprensibile; sono stati conservati invece dei passi che io volevo sopprimere o migliorare, come ho fatto nel libretto che è appena uscito e dal quale si vedrà fino a qual punto il testo adottato dall'Opéra Comique differisca dalla versione autentica. In breve, il Pelléas in questione mi è diventato estraneo e ostile quasi come un nemico, e, privato di ogni controllo sulla mia opera, sono ridotto a desiderarne un immediato e deciso fallimento».

Quest'ultima missiva non fece che aizzare i pettegolezzi sempre crescenti, gli intrighi e le critiche legate a un'opera che ancora non era stata rappresentata. «Se Maeterlinck, che ne è l'autore, è contrario, perché discutere?», era l'opinione comune. Debussy scrisse e telegrafò a Godet perché lo consigliasse sul da farsi circa la lettera del Maeterlinck, e insieme decisero di ignorarla. Ma Carré scrisse a Octave Mirbeau, il vecchio amico del poeta, sperando di riuscire col suo aiuto a calmarne le ire; ma invano. Mirbeau si lagnava dell'atteggiamento ridicolo assunto dall'amico: «Non ho mai visto un uomo succube fino a questo punto di un demonio di donna»; ma aggiunse che non c'era nulla da fare contro la sua totale cecità: «Non posso neppure chiedergliene ragione, perché ormai non ragiona più».
Sei mesi dopo la prima del Pelléas et Mélisande, il Maeterlinck finalmente si diede per vinto, e alla fine del 1902, scrisse: «La profezia di Giulia si è in parte avverata: cioè, benché io non sia riuscito vincitore nella parte essenziale, tuttavia "l'affaire" è riuscito soddisfacente sotto altri aspetti». (Carré aveva assunto la Leblanc per una parte importante nell'Ariane et Barbe-Bleue di Dukas, opera composta su versi del Maeterlinck). E continuò: «Quanto alla morte del mio avversario non è ancora venuta, e dispenso ben volentieri il futuro dal mantenere la promessa fattami da una bimba innocente del mondo sconosciuto». Ma non perdonò mai Debussy: nel 1909, assistette a una rappresentazione del Pelléas et Mélisande alla Manhattan Opera House di New York, e uscì dopo il primo atto.
Ma per tornare al 1902, a Parigi, le date della prova generale e della prima erano state fissate, e Debussy scriveva in fretta a Louÿs: «Non ho bisogno di dirti quanto mi sia necessaria la tua presenza...».«Puoi contare su di me, Claude, ho invitato cinque amici per riempire il palco di applausi. Grazie e buona fortuna», rispose l'amico. Queste furono le brevi missive che i due amici si scambiarono prima di entrare all'Opéra Comique a vedere qual sorte fosse riservata al «sogno» del musicista: si rendevano conto perfettamente che la rappresentazione avrebbe sicuramente suscitato dell'ostilità.
Il 26, aprile, era un assolato giorno di primavera e una folla di spettatori invitati si confondeva con i passanti curiosi riempiendo Place Boïeldieu, in attesa che si aprissero le porte per la prova generale. Ma un altro colpo doveva ferire l'opera di Debussy prima ancora che si alzasse il sipario del primo atto. Non si è mai saputo chi abbia istigato questa azione calunniosa: fu venduto per dieci centesimi la copia un «programma» stampato che metteva in ridicolo l'opera:

Questa è una storia del medioevo, o meglio ancora, una leggenda. Fanno da scenario un castello e una foresta. Dodici scene, dodici quadri. La storia è narrata alla maniera dei titoli dei vari capitoli di un romanzo umoristico.

Scena I. Golaud, un vecchio vedovo, padre del piccolo Yniold, che si perde nella foresta, incontra qui una ragazza, che si è perduta anch'essa. La porta con sé e la sposa.

Scena II: Il vecchio padre, Arkel, che viene a sapere di questa unione, non fa obiezioni, è fatalista. Non accade mai nulla che sia inutile, afferma.

Scena III. Pelléas, fratello di Golaud, fa una passeggiata con la giovane cognata nei giardini ombrosi. Ah, ah!

Scena IV. Mélisande, sempre accompagnata da Pelléas, va a lavarsi a una fonte; perde l'anello nuziale che sprofonda nell'acqua e scompare.

Scena V: Pelléas e Mélisande cercano l'anello... in una grotta oscura.

Scena VI: Mélisande sta lavorando al fuso (cioè si sta pettinando le chiome) e... al perfetto amore con Pelléas. Il piccolo Yniold, bimbo terribile, vede... e medita e spifferare il tutto.

Scena VII: Mélisande canta mentre si pettina le chiome... Pelléas l'aiuta e fa scivolare la mano tra i capelli di lei: se ne ricopre tutto, se li avvolge intorno al collo come una sciarpa. Sentono venire qualcuno... Mio Dio! il marito. «Che fate qui?». «Io... io...», balbetta Pelléas. «Siete dei fanciulli e nient'altro!», esclama il brav'uomo; tuttavia è un po' nervoso.

Scena VIII: Golaud e Pelléas vanno a spasso nel cunicolo sotterraneo. Deve esserci sotto qualcosa.

Scena IX: Golaud cerca di dare l'imbeccata al piccolo Yniold, che così, innocentemente, sputa l'osso.

Scena X. Il vecchio padre Arkel chiacchiera un po'. Improvvisamente arriva Golaud con gli occhi iniettati di sangue, e ordina a Mélisande di portargli la spada. Parla in modo sconnesso. Minaccia la giovane donna. Il padre Arkel pensa che sia sbronzo.

Scena XI: Vicino alla fonte. Duello d'amore tra Pelléas e Mélisande. Naturalmente il marito li sorprende con la spada in pugno. Colpisce il fratello a morte. L'amante inorridita - Mélisande - corre via.

Scena XII: Mélisande giace sul letto, morente. Il marito assassino si dispera; chiede perdono alla moglie. Però vuol sapere la verità.., se gli amanti l'hanno tradito fino in fondo...
Il buon Arkel svela ingenuamente che Mélisande è madre di una bimba. La colpevole non se ne rende conto, e deve vederla per crederci. Poi muore. Golaud piange.

Ecco qua: questo piccolo dramma è un capolavoro e il Maeterlinck è un genio. Almeno, così dicono.

Pettegolezzi infondati riferivano che autore dell'opuscolo fosse lo stesso Maeterlinck, ma è molto dubbio che il poeta abbia potuto decidere questa specie di «hara-kiri». Comunque, quel libercolo ebbe certamente un effetto disastroso sugli spettatori che dovettero consultare quel «programma speciale» durante la rappresentazione, poiché alle prove generali, abitualmente, non veniva distribuito il programma ufficiale. E fu quello il tono con cui venne accolta l'opera di Debussy.
Dapprima gli spettatori si scambiarono sguardi stupiti, poi sorrisero e parlarono di come stavano sprecando una giornata di sole; infine l'irritazione si fece sempre più viva; ad un certo punto si incominciarono a sentire i commenti per tutta la sala: «Dateci della vera musica... quando smetteranno di accordare gli strumenti?... Come, niente ouverture, niente balletti, niente donnine, niente coro, niente duetti?...».
Ogni frase era accompagnata dai commenti di tutto il pubblico, e lo stesso Messager si volse più di una volta a guardare gli spettatori, per cercare di zittirli. Ma quando si sentì il forte accento scozzese di Mary Garden dire «Je ne suis pas hereuse», rintronò tutto l'edificio: «Guardate un po'... povera piccola, non è felice.., che strano! Ah, ah, non importa, penserà il giovane cognato a consolarla, appena ha finito di pettinarsi le chiome!».
Durante gli intervalli, risate e motteggi riempivano i corridoi; il piccolo Yniold era diventato «le petit Guinol», e l'opera fu ribattezzata Pédéraste et Médisante.
Alcune discussioni degenerarono, tanto che dovette intervenire la polizia; per il resto della serata l'uditorio si comportò come su una piazza di mercato, e quando Golaud sollevò il piccolo Yniold per vedere se Mélisande e Pelléas fossero vicini al letto, urla di «basta, ne abbiamo abbastanza!» giunsero quasi a far interrompere lo spettacolo.
Lily sedeva nel suo palco, pallida come se, stesse per svenire; Debussy si chiuse a chiave nello studio di Carré, dove gli giungevano brevi commenti: «Perché l'autore ha voluto che Mélisande fosse incinta?», chiedevano alcuni lasciando il teatro. «Doveva proprio mettere al mondo un figlio prima di morire? Poteva aspettare altri quindici giorni, e così avrebbe avuto la simpatia degli spettatori, tutta per sé, senza doverla dividere con l'orfano e col suo avvenire...». «Debussy, Debussy...», urlavano i giovani partigiani del compositore. «Fate silenzio, idioti!...» furono le ultime parole che si udirono nella sala.
Debussy rimase impassibile esteriormente; lasciando il teatro, ringraziò Carré e Messager, e raggiunse Lily e René Peter con i quali andò a fare ima passeggiata al Bois de Boulogne. Non disse nulla del Pelléas, e parlò invece della bellezza del cielo e del giorno che volgeva al tramonto. Peter affermò di non aver mai visto il musicista così orgoglioso, così «al disopra della miseria umana». Anche gli amici più intimi si chiedevano quali mai potessero essere i suoi sentimenti veri; Claude li rivelò soltanto sei anni dopo, ma questa volta per mezzo della stampa:

La realizzazione scenica di un'opera d'arte, per quanto bella, non corrisponde mai alla visione interiore che è passata di volta in volta attraverso alternative di dubbio e di entusiasmo. Pensate al meraviglioso universo nel quale i vostri personaggi e voi stesso avete vissuto per così lungo tempo, quando a volte vi sembrava che essi stessero per nascere tangibili, dalle pagine silenziose del manoscritto. È sorprendente che voi siate stupito di vederli prendere vita sotto i vostri occhi grazie all'interpretazione di questo o quell'artista? E allora si prova quasi una sorta di terrore, e appena si osa parlar loro. In realtà, essi sono come dei fantasmi.
A partire da questo momento non resta nulla dell'antico sogno. Lo spirito di un altro si interpone tra voi e lui. La scenografia si materializza grazie ai movimenti abili dei macchinisti, e gli uccelli della foresta trovano il loro nido nei boschi dell'orchestra. La luna si accende, e il sipario interrompe o prolunga l'emozione. Applausi... rumori aggressivi che assomigliano al brusio di una festa lontana, ove voi apparite soltanto come il parassita di una gloria che non è sempre quella che desideravate. Poiché per riuscire nel teatro il più delle volte bisogna dare una risposta a dei desideri anonimi e provocare un'emozione facilmente assimilabile...
Nel 1902, quando l’Opéra Comique mise in scena il Pelléas et Mélisande, ho vissuto qualcuna di queste impressioni, benché all'allestimento fosse stata dedicata la massima cura. Forse le mie inquietudini erano vane, ma: in ogni caso ciò varrà a dimostrare quello che vorrei dire più avanti. Mi sono sempre reso conto che la personalità di Mélisande è difficile da interpretare. Ho fatto del mio meglio per esprimere con la musica la sua fragilità e il suo fascino sfuggente; bisognava considerare anche i suoi atteggiamenti, i suoi lunghi silenzi, durante i quali un solo gesto fuori luogo: avrebbe potuto: distruggerne tutto il significato. Il punto più delicato era la voce di Mélisande, così dolce quando la sentivo dentro di me; poiché la più bella voce del mondo può essere inconsciamente fatale all'espressione individuale di un dato personaggio.
Non è affar mio né mia intenzione di descrivere qui le diverse fasi per cui si passa durante il periodo delle prove. In effetti, le prove del Pelléas et Mélisande furono le ore più piacevoli che io abbia mai vissuto in teatro. Ho visto esempi della più ammirevole dedizione e sono entrato in rapporto con grandi artisti. Tra questi, si distingueva una giovane donna dalla personalità particolarmente marcata. Non ho quasi mai avuto osservazioni da farle; a poco a poco il personaggio di Mélisande prendeva vita in lei e io attendevo con una strana fiducia mista a curiosità.
Arrivammo infine al quinto atto, - la morte di Mélisande - e non so descrivere lo stupore che ho provato. Risentivo nella realtà la stessa dolce voce che avevo sentito nel profondo del mio animo, le parole tremanti di tenerezza, il fascino avvincente che non avevo mai osato sperare di ritrovare e che ha costretto poi il pubblico ad acclamare il nome di Miss Mary Garden con entusiasmo sempre crescente.

La reazione degli spettatori durante la prova generale ebbe, comunque, ulteriori ripercussioni; ne giunse l'eco all'orecchio del Sottosegretario di Stato alle Belle Arti, e Debussy fu invitato a fare due tagli nello spartito, se voleva che l'opera fosse rappresentata: così fu soppressa la scena del ragazzino con le pecore al quarto atto, e un'altra, tra Golaud e Yniold alla fine del terzo, fu censurata. Il musicista non poté fare nulla per impedire ii primo taglio, ma cercò di salvare la seconda «scena offensiva», venendo a un compromesso con il rappresentante del Governo: decise di tralasciare quindici misure dello spartito originale, che facevano parte del dialogo tra Yniold e il padre: «No, padre caro»; «E il letto? Sono vicino al letto?»; «Il letto, padre caro? Non vedo il letto...»; «Ssst, potrebbero sentirti».
Tre giorni dopo, il 30 aprile, il Pelléas et Mélisande fu rappresentato alla «prima» ufficiale; l'opera si trovò a dover affrontare un uditorio assai più tranquillo, ma il modo con cui fu accolta era ben lontano da qualsiasi acclamazione entusiasta. E Debussy dovette superare un'altra prova: l'opinione dei critici.
Il commento di Catulle Mendès fu pubblicato sul Journal il giorno successivo. Il musicista e gli amici avevano buone ragioni di preoccuparsi di Mendès: nessuna delle due parti aveva dimenticato che Debussy, a suo tempo, aveva perduto improvvisamente ogni interesse all'opera Rodrigue et Chimène. Lo videro alla prova generale e poi di nuovo alla prima: era questo un buono o cattivo auspicio? Avrebbe ripagato il compositore di quanto era accaduto dieci anni prima, oppure era egli stesso un artista troppo grande per lasciarsi influenzare dai suoi sentimenti personali quando si trattava di giudicare un'opera d'arte? L'articolo apparso sul Journal rispondeva a queste domande, se pur non in modo del tutto soddisfacente.
Egli ebbe parole lusinghiere per Debussy come musicista, ma ebbe anche molti «ma» quando incominciò ad analizzare l'opera; «Ogni artista ha visto con molto piacere la collaborazione tra Debussy e Maeterlinck. La loro delicata e sottile sensibilità, la somiglianza dei loro sogni e delle loro emozioni, la loro fraternità, si potrebbe dire, i giovani ingegni del poeta e del musicista parvero unirsi perfettamente. Ci si aspettava - cosa tanto rara in un'opera - un'opera veramente omogenea, come se fosse stata ispirata da una persona sola, e nella quale il dramma parlato si sarebbe trasformato da sé in dramma musicale. Se la nostra speranza non è stata delusa, è stata tuttavia appagata troppo raramente», diceva Mendès, rendendo così chiaro fin dall'inizio dove avrebbe condotto la sua analisi particolareggiata. «Si è notato spesso un disaccordo, talvolta persino una separazione, proprio quando ci si attendeva quel perfetto accordo indispensabile in quest'opera più che in qualsiasi altra».
Ricordando, quasi con noncuranza, la continua monotonia di espressione, che secondo lui era impossibile rendere «musicale», Mendès parlava della «distanza» e delle «differenze» tra il poeta e il musicista che, nonostante alcuni brani incantevoli del dramma, avevano tuttavia danneggiato la sicurezza di successo dell'opera: «Probabilmente ci siamo sbagliati attribuendo a Debussy e a Maeterlinck una sensibilità affine».
Dopo aver reso a tutti il dovuto, Mendès concludeva la sua critica affermando che dopo aver assistito a due rappresentazioni gli era rimasto un desiderio: «... di ascoltare la partitura senza il declamato, nell'esecuzione di un'orchestra sinfonica; e di assistere al dramma lirico del Maeterlinck, in sé affascinante, abbastanza lirico per essere rappresentato sulla scena di un teatro parigino, senza cantanti e senza strumenti musicali».
La reazione di Mendès non soltanto ebbe un effetto immediato sul pubblico delle rappresentazioni successive, ma incoraggiò gli altri critici a sfoderare una tale serie d'insulti che minacciarono di distruggere l'opera.
«Il ritmo, la melodia e la tonalità sono tre cose sconosciute a Debussy, ed egli le disprezza deliberatamente», scriveva nel Ménestrel Arthur Pougin, un ex-violinista succeduto a Fétis nella redazione della Biographie Universelle des Musiciens. «La sua musica è vaga, imprecisa, senza colore e senza forma: manca spesso di movimento e di vita...».
Louis de Foucaud, esperto critico d'arte e professore di estetica e di storia dell'arte all'Ecole Nationale des Beaux-Arts di Parigi, scrisse ne Le Gaulois:

Questo spartito rappresenta l'espressione di particolari teorie che io non potrei mai in nessuna circostanza approvare. A forza di indulgere in sottigliezze cerebrali e in una malsana ricerca di originalità e di novità, il compositore è giunto alla negazione di tutto. Rinuncia alla melodia e ai suoi sviluppi, rinuncia alla sinfonia e alle sue risorse deduttive... I soli elementi realmente interessanti dell'opera sono le combinazioni armoniche...
Quest'arte nichilista, che smembra tutto, che respinge i legami della tonalità e si libera dal ritmo, può divertire soltanto quelli che sono "blasés", ma non può suscitare alcuna emozione profonda nei nostri cuori... Noi aspiriamo a un'arte profonda e veramente umana, non a continui effetti che titillano l'epidermide e che sono fondamentalmente morbosi. Non si possono soddisfare gli ideali senza idee. Non si può lenire la sete dell'anima con farmaci di dubbia efficacia...

Si potrebbero citare pagine e pagine di critiche analoghe che apparivano continuamente sui quotidiani e sulle riviste settimanali e mensili di Parigi; nella valanga di queste diatribe si disperdevano le voci di musicisti e di critici come D'Indy, Paul Dukas, Gaston Garraud, Calvocoressi e Marnold, che si levarono a difendere Debussy.
Le critiche agirono non solo sull'atteggiamento del pubblico generico, ma anche su quello delle istituzioni musicali di Parigi: il compositore era messo in ridicolo alla Schola Cantorum, e il direttore del Conservatorio di Parigi, Théodore Dubois, pubblicò un decreto ufficiale che proibiva agli studenti di composizione di assistere alle rappresentazioni del Pelléas, sotto la pena della immediata espulsione (ne furono vittime Maurice Emmanuel e Émile Vuillermoz, che divennero più tardi eminenti critici e musicologi).
L'opera sopravvisse a questi attacchi soltanto grazie alla fermezza adamantina di Carré, che mantenne in vita la rappresentazione nel modo più ingegnoso, invitando a sedere nelle poltrone vuote i giovani entusiasti che generalmente occupavano le gallerie. Ma la stampa era contro di lui, contro Debussy, fino a quando i critici incominciarono a concedersi interminabili critiche reciproche: a questo punto Le Figaro propose che il compositore rispondesse personalmente alle accuse e a questo scopo il 16 maggio fu inviato Robert de Flers a intervistarlo.
Non era facile scoprire esattamente che cosa pensasse delle recensioni della sua opera; sorrideva, parlando piano, con la sua voce tranquilla e le risposte furono brevi.

Per oltre dieci anni il Pelléas et Mélisande è stato la mia compagnia quotidiana, ma non mi lamento di questa lunga fatica: mi ha dato una gioia e una intima soddisfazione che nessuna parola e nessuna critica potrebbero mai sminuire. Inoltre, alcuni critici mi hanno compreso perfettamente e hanno intuito le mie intenzioni. Devo grazie a Gaston Garraud (La Liberté), Camille de Saint-Croix (La Petite République), Gustave Bret (La Presse), André Corneau (Le Matin), ed a Henry Bauer per il bell'articolo su Le Figaro.
Dopo una quantità quasi imbarazzante di lodi, Catulle Mendès afferma che non ho saputo rendere adeguatamente «l'essenza poetica del dramma» e che la mia musica «ne è indipendente». Eppure, in tutta sincerità, ho fatto ogni sforzo possibile per identificare le due cose. Volevo che esprimessero se stesse individualmente, indipendentemente da me. Ho lasciato che cantassero dentro di me, e ho cercato di ascoltane e di interpretarle fedelmente. Ecco tutto. Il signor Gauthier-Villars critica la mia opera perché la struttura melodica non si trova mai nella voce, ma sempre nell'orchestra. Volevo che l'azione non fosse mai rallentata, volevo che continuasse ininterrottamente...
So di aver molto «allarmato» il signor D'Harcourt. Mi spiace molto. Parlando di me, accenna agli «arrivisti turbolenti»... Ma non deve sentirsi a disagio. Egli invoca la Sacra Trinità della musica: melodia, armonia e ritmo, le cui leggi non si possono violare. E va bene. Ma vi è forse qualche legge che proibisce al musicista di fondere questi tre elementi? Credo proprio di no. In ogni caso, sebbene io abbia letto attentamente e per ben due volte la sua critica, non sono riuscito a scoprire il significato esatto degli appunti che D'Harcourt ha mosso alla mia opera. Indubbiamente sono troppo profondi. Lo stesso critico allude al «risveglio di Mélisande»; forse lo confonde con il risveglio di Brunilde.
Ho cercato di obbedire a una legge della bellezza che sembra singolarmente ignorata quando si tratta di musica drammatica. I personaggi di questo dramma si sforzano di cantare come persone reali, e non nel linguaggio arbitrario costruito su tradizioni antiquate. Da qui, il rimprovero mosso alla mia cosiddetta preferenza per la declamazione monotona, nella quale non vi è alcuna traccia di melodia... Innanzitutto, ciò non è vero. Inoltre, i sentimenti di un personaggio non si possono esprimere continuamente con la melodia. E del resto, la melodia drammatica dovrebbe differire completamente dalla melodia in generale...
La gente che va ad ascoltare la musica nei teatri, in fin dei conti, somiglia molto a quella che si vede raccolta intorno a uno che canta per le strade! Qui, per qualche soldo, si può indulgere a emozioni melodiche... Vi si nota persino una maggiore pazienza che negli abbonati dei nostri teatri statali, e un desiderio di comprendere che si potrebbe persino dire manca completamente in quel pubblico. Per una singolare ironia, questo pubblico, che urla dal desiderio di qualcosa di nuovo, è lo stesso che si mostra allarmato e deride quando qualcuno cerca di strapparlo alle vecchie abitudini, e ai soliti rumori monotoni... Questo può sembrare incomprensibile; ma non bisogna dimenticare che un'opera d'arte o uno sforzo per creare la bellezza sono sempre considerati da alcuni come un affronto personale.

E, concludendo la lunga intervista, Debussy disse che non pretendeva di aver scoperto tutto nel Pelléas, ma che aveva cercato di tracciare nel Siegfried di Wagner un sentiero che altri avrebbero potuto seguire, ampliandolo con scoperte personali che, forse, avrebbero liberato la musica drammatica dal pesante giogo sotto il quale viveva da tempo.
Ma, a peggiorare la situazione, la qualità originaria delle rappresentazioni declinò rapidamente. Dopo la prima del Pelléas, Messager, al quale Debussy era legato da profonda amicizia, aveva lasciato l'Opéra Comique ed era andato al Covent Garden. Aveva rotto con Carré per ragioni personali, a causa di Mary Garden; e il suo posto era stato preso da un direttore d'orchestra ancora inesperto, Henri Büsser [Fino alla première, il maestro Büsser era stato il direttore dei cori, che nel Pelléas et Mélisande hanno ben poco lavoro]. Non aveva fatto neppure una prova completa dell'opera, e Debussy si lagnava perché «non sapeva assolutamente che farsene della partitura: aveva l'aria di uno che stia per fare un bagno freddo. L'orchestra lo aiuta in maniera ammirevole, quasi sussurrando le sfumature più sottili, mentre lui avanza affrettatamente con la bacchetta tra i piedi dei cantanti senza neppure sapere che cosa stiano cantando». Quanto alla compagnia di canto, non andava meglio del direttore; «Perier (Pelléas) canta con una voce che sembra venir fuori dal suo ombrello!», gridava disperato Debussy; e da quando se n'era andato Messager, la Garden non guardava più neppure il leggio del direttore d'orchestra il compositore, del resto, non le dava torto.
Debussy fu presente a ogni prova, a ogni rappresentazione, ma non sapeva che cosa fare per aiutare, o per prevenire un probabile disastro. Ma alla settima replica, il 20 maggio, la sala era al completo: Debussy per la prima volta sentì intorno a sé molti applausi, ma non riusciva a spiegarsi come fosse accaduto, e scrisse a Messager: «Potete spiegarvelo come volete».
Era domenica, e Pierre Lab de Le Temps, il critico musicale più importante della stampa di Parigi, in un lungo articolo, forse il più lungo che fosse mai apparso sul quotidiano, salutava il Pelléas come un vero capolavoro della letteratura musicale. «È una gloria per un direttore di teatro aver fatto rappresentare quest'opera, ed è una gloria averla allestita nel modo perfetto in cui egli l'ha fatto», così Lab terminava la recensione che doveva capovolgere la situazione e decidere il fato dell'opera di Debussy.
In realtà non si trattava di una semplice recensione, ma di una tesi sul Pelléas et Mélisande. Dopo aver descritto il contenuto in ogni particolare per ben tre colonne e mezza, il critico diceva che l'opera aveva alcuni gravi difetti, ma aveva anche pregi di gran lunga maggiori; e qui parlava prima dei difetti dei personaggi, che camminano e si muovono come in un sogno, stupiti di ciò che dicono e fanno, passivi, irresponsabili, dominati dalla strana forza del destino; spesso parlando e movendosi senza ragione alcuna, o meglio, senza una ragione che risulti chiara agli spettatori o ai personaggi stessi.
I particolari gli sembrava che «aggiungessero soltanto indecisione e simboli superflui, per aumentare l'oscurità». L'azione del dramma si trascinava a fatica: dopo due atti a stento si poteva dire che iniziasse affatto, e «questi due atti contengono scene con finali così drastici che non si capisce a che cosa avrebbero dovuto servire». Eppure, Lab trovava in queste stesse scene una grande bellezza, una delicatezza e una forza di emozione che si addicevano alla musica e in particolare alla musica di Debussy.
Forse Lab aveva aspettato tre settimane a scrivere la sua critica proprio per studiare le altre critiche del Pelléas, poiché faceva dei riferimenti ad esse in ordine quasi cronologico e dimostrava di conoscerle tutte.
«Questa musica ha una bellezza singolare, e una originalità altrettanto singolare. Vi è originalità ovunque; un'originalità spontanea, armoniosa, senza sistema e senza sforzo. Per citare Madame de Sévigné, "è la più stupefacente, la più incredibile, la più inaspettata, la più rara, la più degna di invidia! ...". Non c'è nulla, o quasi nulla, di Wagner, nel Pelléas et Mélisande», affermava categoricamente il Lab rivolgendosi a tutti quelli che parlavano dell'influenza wagneriana sull'opera del compositore francese. «Né la forma drammatica, né il rapporto tra la musica e il testo, né le voci, né l'armonia, né l'orchestrazione vengono da Bayreuth» [In quegli anni era assai facile farsi dare del «wagneriano» a sproposito; ed è naturale che i musicisti e i critici più vicini a Debussy, ben conoscendo le intenzioni antiwagneriste di Claude, respingessero sdegnosamente l'insinuazione. Oggi, però, pur restando fermo il fatto che l'impianto del Pelléas e della musica di Debussy in genere è tutt'altra cosa da Wagner, ci si accorge che, proprio nel Pelléas, affiorano tracce, vaghe ma ben individuabili, di una residua influenza wagneriana. Pur avversando Wagner, nemmeno Debussy è riuscito a sfuggirgli del tutto].
E, dopo aver criticato i compositori francesi che imitavano Wagner, continuava: «La declamazione è in alto rilievo, rapida, fluida, canora e naturale nelle sue inflessioni, piena di sfumature, espressiva e sempre musicale... Il canto è sorretto da armonie sontuose e profonde e da un'orchestra che è la più poetica e ricca di colori. Non è necessario un apparato complicato di temi conduttori né una struttura sinfonica wagneriana per rivelare l'animo di Mélisande, di Golaud e del vecchio Arkel. La capacità espressiva delle loro parole è sufficiente, e altrettanto quella dell'armonia e dell'orchestra. La strumentazione è eloquente, ma è insieme la più discreta del mondo: teme di far troppo rumore, non soffoca le voci, e non perde né una parola né una nota. E questa è un'altra virtù singolare, lontana dalla mediocrità».
E qui Lab confrontava Debussy e Mussorgsky, ma soltanto nei particolari esteriori; riassumendo il problema degli influssi, diceva: «Dove dobbiamo collocare dunque Debussy e la sua musica? forse un discepolo di Wagner? Per niente. Un discepolo di César Franck? Affatto. Di Massenet? Non più di altri. Di chi allora? Che cos'è allora che non assomiglia a nessuno tanto che non si sa che cosa pensare o cosa dire?... Dobbiamo fingere di credere che la gente si sia davvero sforzata di avere la propria opinione, e di valutare onestamente una persona sconosciuta? Forse qualcuno ha tentato di comprenderlo? È molto più facile negare o deridere. Perché si è riso in teatro e sui giornali, si sono negate a quest'opera le qualità più elementari. Si è proclamato che non ha ritmo, non ha armonia, e addirittura, per dirla francamente, non è neppure musica. Questa specie di giudizi temporanei è eterna, e poiché l'arte di Debussy non si può paragonare né ai classici, né a Wagner, né agli italiani, dicono che non è musica. Ci vorrà del tempo per scoprirla».
Lab accennava alle prime critiche toccate a Wagner, e poi portava un altro esempio: «Egli ha abbandonato l'armonia nel senso più puro della parola... Forse vi verrebbe fatto di pensare che sto citando una frase che si riferisce a Debussy. Ma non è affatto così. Questo fu scritto a proposito di Bizet, in una recensione alla Carmen che apparve su Le Figaro».
Lab divideva i «nemici del Pelléas» in diversi gruppi. Primo: l'uomo della strada, che se ne divertiva e rideva. Poi i teorici: «Sono per lo più wagneriani. Questi rivoluzionari di successo sono i più conservatori. Non ammettono né comprendono che si possa sognare un'arte diversa da quella di cui essi sono gli apostoli. Il castello della musica appartiene a loro.., ammettono soltanto la musica scritta secondo le loro norme.
Poi ci sono i musicisti, e i musicisti eccellenti, che non possono sinceramente gustare alcuna musica diversa dalla propria. Questa è la ragione che essi accampano; ma vorrei che ricordassero di essere stati loro i più ostinati oppositori di Wagner. E finalmente vi sono quelle persone in buona fede, i veri amici della musica; e a quelli io chiedo, se non hanno ancora sentito il Pelléas, di ascoltarlo, o se l'hanno già sentito, di ascoltarlo di nuovo. E, poiché col tempo dovranno unirsi a quelli che gustano e amano quest'opera, non sarebbe meglio che lo facessero ora?».
Se Debussy non sapeva ancora perché mai quella sera all'Opéra Comique si dovette addirittura respingere la gente che voleva entrare, glielo spiegava Pierre Louÿs con un breve biglietto il mattino successivo:

Devi essere contento dell'articolo di Lab. Leggo i giornali da quindici anni, ma nessun musicista ha mai visto niente del genere scritto su una sua opera. Non ho mai visto un giornalista attaccare tutti per fare piazza pulita dinanzi ai piedi di qualcuno. Critici, pubblico, musicisti: non ha tralasciato nessuno.

Le rimanenti sette rappresentazioni delle quattordici date durante i mesi di maggio e giugno videro il teatro sempre esaurito, ma i proventi non bastarono a coprire il deficit. E l'immediata reazione di Debussy all'articolo di Lab fu quella di iniziare a lavorare a un nuovo progetto, un'altra opera lirica. Scelse il Diavolo nel campanile di Edgar Allan Poe; non era un capriccio, perché quanto più si buttava sul soggetto, tanto più si faceva strada in lui l'idea di musicare il racconto. E la scelta non richiede un'analisi psichiatrica, perché è di per sé evidente.
Nel racconto di Poe, con la città di Vondervotteimittis, «il più bel paese del mondo», dove «quei buoni diavoli di abitanti erano affezionati ai loro crauti ed erano orgogliosi dei loro orologi», ed erano convinti che la loro felice esistenza non sarebbe cambiata mai, Debussy vedeva un'allegoria del mondo musicale francese. E la stampa e i colleghi che colpivano le sue opere, evidentemente gli sembravano dipinti in maniera perfetta nei «buoni diavoli di abitanti» della storia fantastica, che in «assemblee speciali» giungevano a tre importanti soluzioni: «che è sbagliato alterare il vecchio corso delle cose; che non vi è nulla di sopportabile al di fuori di Vondervotteimittis; e che si rimarrà fedeli ai crauti e agli orologi». Il musicista vedeva se stesso «nell'uomo d'aspetto straniero», che era venuto attraverso i colli fino a Vondervotteimittis per rovesciare l'antico ordine delle cose.
Scrisse a Messager per sapere la sua opinione:

Da questo racconto si potrebbe trarre qualcosa in cui la realtà si mescola alla fantasia. Si può trovare anche che il diavolo ironico e crudele è molto pii «diavolo» che quella specie di rosso clown che ci è conservato così illogicamente dalla tradizione. Voglio distruggere l'idea del diavolo come spirito del male. Il diavolo è semplicemente io spirito della contraddizione, e forse è lui a ispirare quelli che non pensano come gli altri. Sarebbe difficile dimostrare che quelle persone non siano necessarie.

Ma Debussy era stanco. Aveva una gran voglia che le repliche del Pelléas finissero perché a suo avviso trattavano l'opera come un vecchio brano del repertorio classico; i cantanti improvvisavano, e l'orchestra diventava pesante, «un fatto che sembra quasi incredibile e fantastico, e presto saremo costretti a preferire La Dame bianche [di Francois-Adrien Boïeldieu (1775-1834)]. Sapete che non sono abile a fingere e a imbrogliare la gente per ridare vita al loro coraggio».
E c'era un'altra decisione da prendere. Perier non avrebbe cantato la stagione successiva, e non era facile trovare qualcuno che lo sostituisse; alcuni dicevano che Debussy aveva scritto la parte di Pelléas per la propria voce, troppo alta per un baritono, e troppo bassa per un tenore. Carré propose una soluzione del problema: avrebbero assunto Jeanne Raunay, una cantante al culmine della popolarità, per la parte di Pelléas. «A Carré è venuta questa idea», scriveva il compositore a Messager, col quale si era mantenuto sempre in relazione, «quando Madame Raunay gli confessò un l'amore leggermente irregolare» per Pelléas, che fa pensare a un onanismo lirico, ovvero, in termini meno scientifici, a un narcisismo. Ebbene, in fondo, il comportamento erotico di Pelléas non è certo quello di un ussaro e le sue manifestazioni virili sono improvvisamente frustrate dalla spada di Golaud, perciò non vi dovrebbe essere nessun inconveniente in questa sostituzione».
Debussy voleva che Messager lo consigliasse sul da farsi. Certo non si preoccupava dell'inversione di sesso, bensì del suono della voce della cantante; affermava di essere guidato più dalla curiosità che dal gusto in tale esperimento. Pochi giorni dopo, comunque, udì la signora Raunay cantare alcuni frammenti dell'opera «con la voce di un vecchietto passionale sfiatato», e il progetto fu subito abbandonato. Venne assunto per la stagione 1902-1903 il giovane baritono Rigaux.
«La nevrastenia è una malattia di lusso, e io non ci credo», diceva il compositore. Ma intanto era sfinito e aveva un gran bisogno di riposo. Così si recò a Londra per far visita a Messager. Mary Garden, «la nostra Garden», come egli la chiamava, stava riscuotendo un successo enorme al Covent Garden; non c'era da stupirsi, tanto era il fascino della sua voce: «Non posso immaginare un timbro di voce più garbatamente insinuante. Fa pensare quasi a un'ossessione, tanto è difficile dimenticarla».
Dopo pochi giorni lieti trascorsi in compagnia degli amici, dovette tornare a casa: Lily si era ammalata molto gravemente e decisero di partire immediatamente per la campagna. «Sinceramente, quel dio ironico e crudele che governa il nostro destino ci fa pagare cara la gioia più pura», diceva Debussy.