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OPERNHAUS
ZÜRICH
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CACCIATORI DI TESTE SENZA
PIETÀ
Magistrale «Hommage à Strawinsky»
di Heinz Spoerli
La prima rappresentazione
del balletto di Igor Strawinsky Le Sacre du Printemps (Parigi, 29
maggio 1913) fu un fiasco clamoroso, ma segnò nel contempo,
come scrisse Alfredo Casella (spettatore d'eccezione, profondo
conoscitore delle avanguardie artistiche che pullulavano in
quell'effervescente ed esuberante periodo prebellico a Parigi),
«una data decisiva nella storia della musica e non è
certo esagerato paragonare la sua importanza storica a quella della
Nona sinfonia di Beethoven». Le sonorità
«spaventose e dissonanti» e la 'folle' coreografia di
Vaclav Nijinsky, che, scardinando la cosiddetta «danse
d'école», inventava un nuovo linguaggio espressivo,
scatenarono la «feroce bestialità» del pubblico.
«Era impossibile udire qualcosa» - riferisce ancora
Casella. «Ogni tanto, il baccano infernale del pubblico
accennava a placarsi. Ma allora emergevano fuori dall'orchestra
sonorità così spaventose, terrificanti e dissonanti che
il chiasso riprendeva peggio di prima.» Tuttavia sulle
«poche persone» in grado quella sera di comprendere la
grandezza della «ciclopica e terrificante musica»
strawinskiana, l'impatto dello spettacolo fu dirompente e le
successive repliche segnarono in modi diversi, ma indelebilmente, il
percorso artistico di molti compositori.
Ancora oggi la formidabile potenza espressiva
del Sacre, mai affievolitasi nel corso dei decenni, può
sconcertare il pubblico, ma in un senso quasi sempre positivo, almeno
per quanto riguarda l'aspetto musicale.
Quando un coreografo del valore e del
prestigio di Heinz Spoerli, a trent'anni (!) dal debutto, decide di
cimentarsi per la prima volta con il capolavoro strawinkiano, lo
spettacolo, ancora prima di andare in scena, diviene un evento
artistico di risonanza mondiale. E le attese di pubblico e critica
non sono state certo tradite.
Com'è noto, il sottotitolo di questa
composizione è «Quadri della Russia pagana».
Modificandolo in «Headhunting» [il cacciare teste umane],
Spoerli ha consegnato ai fortunati fruitori del suo lavoro la
più importante chiave di lettura. Il termine inglese va inteso
sia in senso proprio, riferito quindi ai popoli primitivi che, per
motivi magici o rituali, conservavano le teste dei nemici vinti, sia
in senso figurato. Infatti, se da una parte il coreografo basilese
rispetta il carattere originario del Sacre, ricreando anche sulla
scena quel mondo primordiale e barbarico evocato dalla lussureggiante
partitura strawinskiana, dall'altra, servendosi degli elementi
scenografici di Florian Etti (una enorme putrella che lacera due
contorte lamiere laterali), comunica allo spettatore che la vicenda
si snoda identica ancora ai nostri giorni, o meglio che la sostanza
non è mutata nel corso dei secoli. Anche gli odierni
cacciatori di teste (headhunters), alla spasmodica ricerca di
personale altamente qualificato (dirigenti e top manager) in grado di
incrementare sempre più produttività e utili delle
aziende, agiscono spietatamente, con ogni mezzo e anche al di fuori
delle leggi etiche, pur di raggiungere i loro obiettivi connessi
unicamente al lucro.
Il cumulo di polvere grigiastra posto a
ridosso del fondale, continuamente alimentato da una copiosa pioggia
che vi cade sopra a mo' di clessidra sembra simbolizzare proprio il
lucro: da questa polvere tutti i danzatori traggono vigore (ma non
purificazione!) e in essa, alla fine, sembra dissolversi la vittima
femminile prescelta per il sacrificio estremo: sul demoniaco
Todestanz dell'esile étoile dello Zürcher Ballett (la
cinese Yen Han) confluiscono tutti i riti coreografici precedenti in
un climax di incandescente pregnanza espressiva e di disperato (e
inaspettato) vigore fisico.
In conclusione, un'interpretazione pregevole
e stimolante del Sacre («lavoro magistrale» è
l'espressione che ricorre con maggiore frequenza negli articoli della
critica specializzata internazionale), con dotte citazioni della
coreografia storica di Nijinsky e nel rispetto delle indicazioni di
Strawinsky stesso, che si raffigurava questo balletto come una serie
di movimenti ritmici di estrema semplicità eseguiti da
compatti blocchi umani - uomini e donne separati e contrapposti - di
effetto immediato sullo spettatore.
Nella prima parte della serata, altre due
splendide composizioni strawinskiane che instaurano col Sacre una
volutamente violenta antitesi: Pulcinella e Duo concertante,
quest'ultimo con la coreografia ricostruita di George Balanchine.
Improntato a una leggiadra levità e lepidezza, maliziosamente
ironico e ironicamente macabro, delicatamente turbinoso e convulso
Pulcinella (magnifica la prova di François Petit nel
rôle en titre); sublime 'art pour l'art' la coreografia di
Balanchine, il «poeta della linearità e della
luce», come è stato autorevolmente definito.
Eccellenti le performaces dello Zürcher
Ballett (dall'avvento di Spoerli è ai vertici mondiali sul
piano tecnico-artistico, un vero e proprio fiore all'occhiello del
teatro zurighese) e dell'orchestra (soprattutto nel Sacre); di buon
livello le prove dei tre cantanti (in Pulcinella) e dei due solisti
nel Duo concertante per violino e pianoforte.
Il pubblico internazionale della
première ha tributato ovazioni a tutti gli
interpreti.
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UN CAPOLAVORO
COREOGRAFICO
All'Opernhaus di Zurigo nuovo allestimento
di «Schiaccianoci» firmato da Heinz
Spoerli
Tchaikovsky è
unanimemente considerato uno dei più grandi musicisti che si
siano dedicati al teatro di danza. A lui si devono infatti tre capolavori
popolarissimi e mai usciti dal repertorio: "Il lago dei
cigni", "La bella addormentata nel bosco" e
"Schiaccianoci". Quest'ultimo, rappresentato a San
Pietroburgo nel 1892, fu composto in stretta collaborazione con
Marius Petipa, le cui minuziose (e geniali...) indicazioni
coreografiche e drammaturgiche risolsero al compositore non pochi
problemi strutturali ed espressivi della partitura.
Sul manifesto che annuncia il nuovo
allestimento zurighese di questo celebre balletto campeggia uno
scoiattolo (uno schiaccianoci... vivente) sorpreso in una
inequivocabile e buffa posizione di... danzatore classico. L'ironia
dell'immagine è un segnale per il pubblico, una anticipazione
della sottilissima, garbata ironia che pervade tutto il balletto: uno
spettacolo di grande suggestione ("perfetto e semplicemente
bello" è stato definito da un prestigioso quotidiano
svizzero-tedesco) che fa dimenticare i bolsi allestimenti di routine,
stucchevolmente olezzanti di naftalina.
In questo allestimento, la coesione
tra orchestra e palcoscenico è improntata a una tale mirabile
naturalezza da dare l'impressione che coreografia, scene e costumi
siano suscitati dalla musica stessa, dai suoi originalissimi colori
armonico-timbrici, dai suoi ritmi non di rado sbilenchi e bizzarri.
Una musica che descrive la favola dal punto di vista dell'infanzia e
che quindi si presenta come un'acuta e affascinante esplorazione
sonora della psiche infantile. Spoerli ha valorizzato con estrema
delicatezza questo aspetto fondamentale, dando tra l'altro grande
rilievo, con una superba coreografia, al ruolo del ragazzo discolo
Fritz (interpretato da un fantastico François Petit) e dei
bambini suoi amici, non solo a quello della protagonista Marie
(l'étoile Yen Han).
Moltissimi i momenti memorabili dello
spettacolo. Tra questi, il poeticissimo Valzer dei fiocchi di neve e
il rutilante Valzer dei fiori. Ma l'elenco potrebbe essere molto
lungo...
L'imponente compagnia di ballo
(compresi gli allievi della Schweizerische Ballettberufsschule) e i
numerosi solisti hanno impressionato per l'elevata qualità
tecnico-artistica della loro prestazione. Magnifici i costumi e le
scene di Berner e Schavernoch. Di buon livello anche l'esecuzione
musicale affidata al maestro Jacek Kaspszick. Pubblico... rapito e
alla fine rumorosamente entusiasta.
Spettacoli finora esauritissimi,
quindi occorre prenotare per tempo. [GdP]
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STANDING OVATION PER HEINZ
SPOERLI
Tre
prime assolute e una prima svizzera
per uno spettacolo di grande suggestione
Dal 1996 Heinz
Spoerli, coreografo basilese di fama mondiale, è direttore
dello Zürcher Ballett, ormai diventato, sotto la sua guida, tra
i migliori del mondo: lo attestano gli elogi della critica
specializzata internazionale e i trionfi di pubblico non solo a
Zurigo, ma anche durante le frequenti tournée europee ed
extraeuropee.
Sabato sera il Teatro dell'Opera di
Zurigo, gremitissimo, ha tributato a questo artista, tra i più
profondi e creativi sulla scena svizzera, una lunghissima e
simpaticamente rumorosa standing ovation dopo una serata
coreografico-musicale di altissimo livello. Ben tre le prime assolute
proposte da Spoerli: «Phase» su musica di Steve Reich,
«Approaching Clouds», coreografia basata su un capolavoro
della musica del Novecento, la Sonata per violoncello e pianoforte di
Alfred Schnittke e «Folks Songs» sulle suggestive musiche
omonime di Luciano Berio. Quanto alla prima svizzera, si tratta di
«Szenen» («Kinderszenen» per pianoforte di
Schumann è la base musicale) presentato nel 1994 a
Düsseldorf.
Quattro parti apparentemente senza
legami, suscitate da musiche diverse per non dire antitetiche, sia
per ciò che evocano a livello emotivo, sia per gli strumenti
che vengono impiegati, nell'ordine: violino e banda magnetica;
violoncello e pianoforte; pianoforte solo; piccolo ensemble
orchestrale con una mezzosoprano quale solista. La diversità
è poi sottolineata sul piano cromatico-scenografico dalle
splendide scene di Florian Etti.
Tuttavia alla fine dello spettacolo
si ha un'impressione di granitica unità, non solo sul piano
della cifra stilistica (coreografica e scenografica), ma anche su
quello strutturale e simbolico, come se i quattro momenti fossero
paesaggi diversi di una stessa anima. Scene e coreografie
contribuisco a dare unità, sorprendentemente, anche ai quattro
pezzi musicali che, separati dall'aspetto visivo, non avrebbero, come
detto, punti in comune.
«Approaching Clouds»
(«Nuvole che si avvicinano») dà il titolo a tutto
lo spettacolo e questo lo si capisce soprattutto alla fine quando con
spettacolari effetti di vapore e lame di laser sul fondo della scena,
i ballerini sembrano materializzarsi da nuvole inquiete di colore
verde in cui poi svaniscono e da cui ricompaiono più volte,
dando l'illusione di una magia. Di grande sapienza drammaturgica in
quest'ultimo spezzone la commistione tra balletto e teatro, preludio
forse a una nuova fase della sperimentazione spoerliana.
Lo straordinario virtuosismo
coreografico non è mai fine a se stesso, come sempre avviene
negli spettacoli di Spoerli, ma sempre connesso a ciò che la
musica suscita sul piano delle emozioni e del significato.
Encomiabile la prestazione di tutti gli interpreti, ballerini e
musicisti.
Da vedere assolutamente per chi ama
il balletto moderno. [GdP]
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UN
MONOPATTINO PER IL CONTE
Nuovo allestimento del Barbiere di Siviglia di
Rossini
Com'è noto, il ricchissimo Conte di
Almaviva, per non farsi riconoscere dal diffidente, bisbetico dottor
Bartolo e dalla sua spasimante Rosina, si traveste da povero e si fa
chiamare Lindoro. Nello spettacolo zurighese, per rendere più
credibile il travestimento, compare sulla scena spingendo, con la
consumata perizia e disinvoltura del ragazzo discolo, un monopattino.
Un vero e proprio coup de théâtre, ma anche una chiave
di lettura. Figaro sopraggiunge subito dopo alla guida di un elegante
sidecar nero, targato Sevilla 74, simbolo della sua sfrontatezza e
del suo status, raggiunto esercitando soprattutto la professione di
sensale in questioni di cuore, piuttosto che quella di barbiere.
Esuberante, a tratti spaccone, scaltrito, sempre ottimista, Figaro
è interpretato dal giovane baritono Manuel Lanza che sfoggia
un ideale physique du rôle, ma soprattutto una splendida,
robusta voce dal timbro chiaro e, nel registro acuto, agevolmente
squillante.La componente adolescenziale del Conte e il vivo desiderio
di Figaro di conseguire un'elevata posizione sociale grazie al denaro
sono gli aspetti che il regista Grischa Asagaroff, in collaborazione
con lo scenografo Luigi Perego, ha voluto porre subito in rilievo in
questo nuovo allestimento del capolavoro rossiniano, ambientato
ovviamente a Siviglia, ma in tempi più recenti rispetto alle
indicazioni del libretto: nei primi decenni del Novecento.L'acerba
personalità del Conte e la sua propensione alla goliardia, ben
evidenziate sul piano scenico e vocale dal tenore Reinaldo Macias,
contrastano in modo sorprendente con la maturità e la
posatezza di Rosina: la figura piuttosto austera, la voce possente e
lo splendido timbro brunito di Vesselina Kasarova conferiscono
infatti alla fanciulla uno spessore psicologico e una
profondità inusitati. Non è esagerato affermare che una
Rosina così matura e amareggiata per la sua condizione di
donna segregata da un vecchio che la vuole a ogni costo sposare
usurpa il ruolo di protagonista a Figaro stesso.La rivisitazione del
ruolo di Rosina è senza dubbio l'aspetto più
interessante e innovativo dello spettacolo. Essa ha avuto a mio
parere un influsso anche sull'interpretazione del direttore
d'orchestra: Nello Santi, conoscitore come pochi del melodramma
ottocentesco, rispetto a precedenti esecuzioni adotta infatti tempi
meno frenetici. Smorzando un poco gli aspetti effervescenti e
spumeggianti della partitura, riesce a meglio evidenziare non solo i
molteplici registri presenti nell'opera (non solo quello
burlesco...), ma anche le preziosità dell'orchestrazione, le
prodigiose architetture sonore, l'inesorabile, stupefacente coesione
drammaturgica, le mille sfumature cromatiche. Nei concertati sa
ottenere inoltre dalle voci effetti di una ricercatezza
strumentale.Di alto livello anche il resto del cast: il luciferino
Don Basilio è impersonato da un ancora autorevole e raffinato
Nicolai Ghiaurov; Don Bartolo è Carlos Chausson, oggi
insuperabile in questo ruolo. Elisabeth Magnuson interpreta con
efficacia vocale e scenica la lunatica e scontrosa serva
Berta.Pregevole la prova del coro: l'esperimento del sovrintendente
Alexander Pereira di affidare la parte corale al Zusatzchor del
teatro è quindi pienamente riuscito. *Numerose le repliche:
14, 16, 19, 21 aprile; 24 maggio, 24 giugno e 4 luglio. Segnalo in
particolare le due Volksvorstellungen a prezzi ridottissimi (da 10 a
59 franchi) il 16 aprile e il 24 maggio. Potrebbe essere un'occasione
ghiotta per avvicinare anche i bambini al fantastico mondo
dell'opera: Rossini non li deluderà di certo. [GdP, 13 aprile]
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VERTIGINOSE SOMMITÀ
WAGNERIANE
Die Walküre secondo Bob Wilson all'Opernhaus di
Zurigo
Il grande direttore
d'orchestra Felix Mottl scrisse nelle sue memorie di non aver saputo
trattenere le lacrime e di aver visto Wagner stesso piangere di
commozione durante le prove per la prima rappresentazione di
Walküre a Monaco nel 1870. In effetti quest'opera,
seconda parte della tetralogia L'Anello del Nibelungo, è una
tra le più strazianti di tutto repertorio. E non è
facile trovare in ambito musicale e letterario un personaggio
lacerato, tormentato, angosciato come Wotan, capo supremo degli
dèi nordici.
Die Walküre è
anche una delle opere più (mis)conosciute di Wagner,
soprattutto per la famigerata «Cavalcata delle
Valchirie», un pezzo roboante (non per caso finito anche nella
pattumiera musicale dei telefonini) che, se staccato dal suo contesto
musicale, risulta volgare e fuorviante: può far credere
infatti che l'opera tutta sia una sorta di kolossal ante litteram.
Essa è invece, sul piano drammaturgico, un'opera per
così dire «da camera», essendo incentrata sui
rapporti padre/figlia: Wotan/Brunilde; marito/moglie: Wotan/Fricka;
fratello/sorella/sorellastra: Siegmund/Sieglinde/Brunilde, figli
gemelli di Wotan e di una donna mortale i primi; di Wotan e della dea
Erda la Valchiria.
Wotan nutre un amore sconfinato sia
per i gemelli-amanti sia per Brunilde, che è anche il simbolo
vivente del suo desiderio nobile e l'interprete del suo volere.
Eppure l'«onnipotente» è costretto a punire
quest'ultima nel modo più severo e spietato a causa di remoti
patti che lui stesso volle per ambizione stipulare e che non
può violare essendone anche il garante assoluto. La colpa
della Valchiria (la protezione di Siegmund nella lotta contro il
perfido e rozzo Hunding, marito imposto a Sieglinde) è
paradossalmente ciò che Wotan desidera con sconvolgente
intensità d'amore paterno. Quando però Fricka, la
gelida, burocratica moglie, gli rinfaccia con cinismo e veemente
protervia il «peccato originale» connesso ai patti e la
grave colpa di Siegmund che ha infranto un ordine sociale (di cui lei
stessa è garante come dea della famiglia) strappando Sieglinde
a Hunding, il dio supremo china il capo compiendo suo malgrado due
sacrifici che lo squassano interiormente: agevola l'uccisione
dell'eroe adorato e, come detto, punisce severamente Brunilde da cui
si staccherà per sempre. Il terzo sacrificio (la morte di
Sieglinde che porta Sigfrido in grembo) gli è precluso dalla
prontezza e dal coraggio di Brunilde, favorita forse da un'apparente,
voluta e quindi colpevole distrazione del padre, convinto che solo
l'eroe libero Sigfrido potrà salvare gli dèi
dall'annientamento.
Nell'«Addio di Wotan»
alla figlia, finale dell'opera, Wagner raggiunge forse la vetta
più alta del suo percorso artistico, riuscendo ad unire con la
musica e con il canto dolcezza e scoramento, amore disperato e
volontaria rinuncia, amara serenità e lacerante tenerezza:
«Addio o fiera, superba fanciulla, santissimo orgoglio del mio
cuore! Addio, addio, addio!»
Quante mises en scène hanno
profanato nel corso degli anni questo momento sublime! Bob Wilson,
regista geniale e pudìco, se ne accosta con l'umiltà di
chi è consapevole di dover rappresentare l'irrapresentabile.
La scena è vuota: in un deserto roccioso, livido e spettrale
Wotan adagia la figlia su una roccia inclinata e la addormenta. Con
un ultimo, perentorio, quasi doloroso sussulto della sua potenza,
ordina poi a Loge, il dio del fuoco, di proteggere la dea divenuta
donna mortale con fiamme impenetrabili ai vili. E tristemente esce di
scena come all'inizio dell'opera, quando, colpevole burattinaio,
guidava la fuga di Siegmund nella tempesta verso la casa di
Sieglinde.
Stupefacente spettacolo sul piano
visivo, impreziosito da un uso parco ma pregnante di gesti, luci e
colori che valorizzano al meglio l'intricata struttura dei
Leitmotive. Orchestra in forma smagliante, guidata con magistrale
padronanza dello stile wagneriano da Franz Welser-Möst. Il cast
è quanto di meglio ci si possa augurare oggi: su tutti il
soprano Gabriele Schnaut, una Brunilde che viene a capo con
disarmante facilità della paurosa tessitura di questo ruolo,
considerato ai limiti delle possibilità vocali umane.
Successo clamoroso per tutti. Una
decina di spettatori, tra cui forse chi considera ancora la musica di
Wagner come una colonna sonora pre-hollywoodiana per paccottiglie
scenografiche abitate da esagitate Valchirie a cavallo di lignei
destrieri che scorrono su cavi sopraelevati e da cui penzolano buffi
manichini di guerrieri uccisi, hanno sonoramente fischiato
l'astratta, rarefatta, tenue e raffinata regia di Bob Wilson, per
nulla rabbuiato (anzi sornionamente divertito) dalla sparuta ma
feroce contestazione.
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DANIEL SCHMID...
ALL'OPERA
Beatrice
di Tenda di Bellini in scena a Zurigo
Poiché contestare le
regie è ormai diventata una consuetudine alle prime zurighesi,
Daniel Schmid non credeva alle proprie orecchie, quando, con
comprensibile ansia, è uscito sul palcoscenico per ascoltare
il verdetto del pubblico: il consenso, questa volta, è stato
infatti plebiscitario. E ben meritato! Una regia pregnante e
profonda, la sua, caratterizzata da una minuziosa, ma mai
soverchiante guida dei personaggi. Con la collaborazione di Bernhard
Kleber, autore di magnifiche scene garbatamente attualizzate, il
regista grigionese è riuscito nell'ardua impresa di conferire
una solida struttura drammaturgica al debole libretto di Felice
Romani senza forzature interpretative, senza introdurre elementi
estranei alla vicenda.
Una vicenda tragica, imperniata sul
personaggio di Beatrice, contessa di Tenda, ingiustamente accusata di
adulterio dal marito (Filippo Maria Visconti) a sua volta fedifrago,
poiché amante di Agnese, una giovane dama d'onore della
duchessa. L'irruento duca di Milano, pur turbato dai rimorsi,
farà condannare a morte la moglie e il suo presunto amante.
Star della serata il soprano slovacco Edita
Gruberova, osannata dal pubblico, anche a scena aperta. Benché
la voce di questa grandissima interprete del belcanto non sia
più impeccabile come qualche anno fa (per esempio il registro
superiore, pur sempre sicuro, è a volte stridente e
metallico), la sua interpretazione, valorizzata da una superba
presenza scenica, è ancora oggi difficilmente eguagliabile per
magistero tecnico, per la purezza della linea vocale, per gli
sbalorditivi passaggi di registro, di una fluidità e
naturalezza veramente uniche... Una degna erede di Giuditta Pasta che
fu la prima interprete di Beatrice nel 1833.
Quanto al resto del cast, eccellente la
performance di Piotr Beczala, tenore lirico tra i migliori del
momento: voce bellissima sostenuta da una solida tecnica. Pure
notevoli interpreti scenici e vocali il baritono Michael Volle nel
difficile ruolo di Filippo e Stefania Kaluza in quello di Agnese.
Marcello Viotti, specialista di questo repertorio, ha saputo
mantenere costante la tensione narrativa dell'opera, assecondando
quindi al meglio il lavoro del regista. Una direzione ricca di
contrasti, ma anche di abbandoni lirici.
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UN MACBETH VERAMENTE...
REGALE
Allestitoa Zurigo il capolavoro verdiano.
Un trionfo sul piano musicale. Qualche dissenso
per la regia di David Pountney
Macbeth fu
rappresentato per la prima volta nel 1847, ma subì una
vigorosa revisione una ventina d'anni dopo, nel 1865, in occasione
delle rappresentazioni parigine dell'opera. In quel lungo lasso di
tempo lo stile di Verdi, la sua visione della realtà e
dell'arte, l'approccio al mondo shakespeariano mutarono
profondamente. E radicalmente cambiato era anche il contesto
storico-sociale in cui il compositore viveva e agiva: essendo Macbeth
un'opera sulla degenerazione del potere, anche la situazione politica
scaturita dall'unificazione dell'Italia non poteva non influire sul
lavoro di riassestamento musicale e drammaturgico. Fu un intervento
singolare, perché non coinvolse tutta la partitura: Verdi
infatti lasciò ampi spezzoni della prima versione,
sostituendone altri che riteneva deboli o stereotipati. In Macbeth il
cosiddetto "primo Verdi" coesiste quindi con il "Verdi
maturo", miracolosamente...
Le leggendarie esecuzioni scaligere
di Claudio Abbado, per nostra fortuna riassunte in una memorabile
registrazione discografica, e la folgorante regia di Giorgio Strehler
ad esse legata, hanno infatti inequivocabilmente provato che questa
commistione stilistica non cagiona squilibrio alcuno; è anzi,
essa stessa, una componente fondamentale dell'opera, soprattutto nel
suo rapporto con il composito testo shakespeariano da cui deriva. In
quel Macbeth i protagonisti, subdoli, efferati e deliranti, si
stagliavano in una dimensione atemporale e in uno spazio semideserto,
plumbeo, dalle linee essenziali e scarne, che conferiva risalto
estremo alla musica e agli intricati rapporti tra i personaggi.
Agli antipodi rispetto alla lineare
concezione strehleriana sta quella del regista americano David
Pountney, estremamente (troppo secondo alcuni) complessa e densa,
basata sulla contrapposizione tra elemento maschile (soldati,
Macbeth) e femminile (streghe, Lady Macbeth), con palesi riferimenti
alle interpretazioni psicanalitiche del dramma shakespeariano. Il re
Duncano in quest'ottica sta... nel mezzo: è infatti un eunuco
informe, malfermo, mellifluo, molle, giallo, vizioso e... arabo,
simbolo di un potere equivoco, debole e malato.
Se per Verdi i protagonisti
dell'opera erano soltanto tre (Macbeth, sua moglie e le streghe), per
Pountney diventano quattro, proprio per l'importanza data al coro dei
guerrieri. E forse cinque, se si pensa all'inusitato rilievo che il
regista assegna al figlio di Banquo, a cui affida la conclusione,
amarissima, dell'opera: il bambino, solo sulla scena, depone sul
pavimento la "regal corona", subito trafitta da un enorme,
lunghissimo raggio rosso-arancione dal significato inequivocabilmente
ferale.
Spettacolo magnifico, a parere di chi
scrive, che però forse non susciterà entusiasmi in quei
fruitori legittimamente legati a scene e a regie più
tradizionali e non trasgressive.
Thomas Hampson ha debuttato nel
massacrante rôle en titre giganteggiando sul piano scenico; la
sua interpretazione è stata stupefacente pure vocalmente,
nonostante qualche (inutile) eccesso, per esempio nella scena delle
apparizioni; eccellente anche la performance di Paoletta Marrocu nel
ruolo impervio della perfida moglie; buoni gli altri interpreti, ad
eccezione del tenore Luis Lima che si è trovato in palese
difficoltà impersonando Macduff.
Superba e illuminante la direzione di
Franz Welser-Möst. Mai vi son state cadute nella routine: tutta
l'opera, anche quelle parti che sotto una direzione scialba
potrebbero sembrare musicalmente volgari o banali, è sostenuta
nella più alta dignità. Un'interpretazione cesellata,
differenziata, limpida, coesa e non di rado sorprendente per i colori
che il direttore austriaco ha saputo sprigionare dall'orchestra. Alla
prima del 7 luglio si è a tratti udito... l'inaudito.
L'entusiastico coro finale, a livelli interpretativi abbadiani,
risulta agghiacciante in antitesi alla visione politica pessimistica
per non dire marcescente di Pountney.
Applausi lunghissimi e fragorosi.
Ovazioni per la coppia regale e per il direttore d'orchestra. Lievi
contestazioni al team di regia.
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