Marcella Matacena
Comicità e satira di un re da opera buffa

All'attività di poeta melodrammatico l'abate Giambattista Casti (1724-1803) approda soltanto all'età di sessant'anni, a Vienna, dopo una lunga esperienza di narratore e versificatore condotta durante una carriera di instancabile viaggiatore. A Firenze nel 1769 viene nominato poeta della corte lorenese dal granduca Pietro Leopoldo, fratello dell'imperatore Giuseppe II, a cui viene presentato, grazie all'amicizia stretta con il conte Orsini - Rosenberg, nel corso di una visita nella città medicea. Nel 1772, spinto dal Rosenberg a seguirlo a Vienna, entra nelle grazie del figlio del principe Kaunitz che accompagna nei suoi viaggi in Europa dall'autunno di quell'anno in qualità di membro del corpo diplomatico austriaco.
L'esordio del Casti come autore melodrammatico risale al suo secondo soggiorno a Pietroburgo alla corte di Caterina II, fra il 1777 e il 1780, con l'"operetta a cinque voci" Lo sposo burlato, rappresentata a Peterhof il 24 luglio del 1778 per la musica di Paisiello. Nella speranza di ottenere l'ambita carica di poeta cesareo, vacante dalla morte di Metastasio nel 1782, Casti ritorna a Vienna dove conquista la fama europea di grande librettista con l'enorme successo della rappresentazione al Burgtheater il 23 agosto 1784, del Re Teodoro in Venezia, melodramma anch'esso musicato da Paisiello.
Il protagonista che ispira le vicende del Teodoro in Venezia è un personaggio realmente esistito, le cui imprese erano state registrate dalle cronache dell'epoca e avevano attratto la curiosità e l'interesse del pubblico europeo: il barone Theodor di Neuhoff, avventuriero tedesco originario della Westfalia, nato nel 1694, fu dapprima in Svezia al servizio del ministro di Carlo XII, poi in Spagna al seguito dei ministri Giulio Alberoni e Johan Willem Ripperda, e in Francia dove fu coinvolto nel fallimento del sistema di John Law. Riuscì a farsi incoronare primo re di Corsica nel 1736 per soli otto mesi, fu in seguito costretto ad abbandonare l'isola in cerca di aiuti militari per sfuggire alla reazione della Repubblica di Genova. Dopo due tentativi falliti di tornare nell'isola, abbandonato dagli stessi partigiani corsi, si rifugiò a Londra dove morì nel 1756 dopo sette anni di prigionia per debiti.
Ma prima suggestione per Il re Teodoro in Venezia fu per il Casti il XXVI capitolo del Candide di Voltaire del 1759, come precisa il poeta stesso nella lettera del 1784 e nell'"Argomento" che precede il libretto della prima rappresentazione al Burgtheater: "Teodoro si fa comparire in Venezia, come lo rappresenta uno dei più ameni tratti sortiti dalla penna d'un celebre scrittore in una delle sue più leggiadre, e bizzarre produzioni, generalmente conosciuta". La fonte letteraria non è esplicitamente citata, visto che era ben nota al pubblico aristocratico e altoborghese, perfettamente padrone del francese e dell'italiano. L'episodio narrato da Voltaire, dal titolo "Di una cena che Candido e Martino fecero con sei stranieri, e chi erano questi", si svolge in una locanda a Venezia dove sono alloggiati sei sovrani spodestati, accompagnati dai rispettivi servi, ivi giunti per trascorrere il carnevale e ben si presta alla trasposizione teatrale in chiave giocosa.
Il primo dei sei re è Acmet III, il sultano ottomano che, succeduto al fratello Mustafà II nel 1703, regnò fino al 1730 e morì avvelenato sei anni dopo in una prigione turca:

sono stato gran sultano per parecchi anni; detronizzai mio fratello; mio nipote mi ha spodestato; han tagliato la testa ai miei visir; termino i miei giorni nel vecchio serraglio.

Casti, da questo breve accenno offerto da Voltaire, introduce Acmet nell'intreccio mediante l'episodio con Belisa che gli impartisce una lezione di civiltà occidentale.
Fra le presentazioni che ognuno dei sovrani offre di se stesso emerge la triste testimonianza del sesto re:

Signori, - disse - io non sono un gran signore come voi; ma in fin dei conti sono stato re anch'io; sono Teodoro; mi hanno eletto re di Corsica; mi chiamavano Vostra Maestà; e adesso mi dicono a stento Signore; ho battuto moneta, e non possiedo un soldo; ho avuto due segretari di stato, e adesso ho appena un servo, mi son visto su di un trono e sono stato lungo tempo in prigione, a Londra, steso sulla paglia; temo proprio che mi tratteranno allo stesso modo anche qui, benché sia venuto, come le Maestà Vostre, a passare il carnevale a Venezia.

Gli altri cinque re ascoltarono quel discorso con nobile compassione. Ciascuno di loro diede venti zecchini a re Teodoro perché si comprasse abiti e camicie; Candido gli fece dono di un diamante di mille zecchini.
Casti desume dal racconto di Voltaire l'ambientazione veneziana e le linee fondamentali del melodramma. Ma per la caratterizzazione della figura di Teodoro il librettista mette in risalto nell'"Argomento" del dramma quei tratti derivati dalla storia che poteva utilizzare:

Era [...] di spirito fervido e intraprendente, e d'indole romanzesca [...]; avendo per così dire esaurito e svaporato il cervello in tanti raffinati pensamenti e artificiosi ritrovati, restò stupido; e indi a poco morì
Secondo la critica otto-novecentesca, primo fra tutti Foscolo, sulla figura di Teodoro si innesta quella di Gustavo III re di Svezia, già derisa nel Poema Tartaro per la scarsa corrispondenza tra le velleità di fasto e di grandezza che nutriva e le sue reali disponibilità finanziarie. Gustavo III, che regnò dal 1771 al 1792, a causa della sua politica bellicosa che finiva per dissipare le ricchezze e i privilegi nobiliari, fu assassinato da una congiura di nobili nel marzo del 1792.
Sostanzialmente innovativa è la scelta di Casti - forse motivata dalla destinazione cortigiana dei suoi melodrammi - di utilizzare un soggetto ispirato ad un evento di cronaca politica contemporanea. Nella lettera del 20 luglio 1796 indirizzata a Paolo Greppi, il poeta apparirà consapevole della novità dei suoi libretti:

Dieci o dodici drammi eroicomici di genere affatto nuovo. Ove trattandosi temi e soggetti seri, eroici, tragici vi si traspongono dei tratti comici ove la circostanza della cosa o della persona lo richiede, seguendo in ciò la natura stessa. Si è procurato inserirvi ciò che di più importante e di più piacente può somministrare una fine critica del costume e una lunga esperienza e cognizione del mondo, con ragionati argomenti, prefazioni e dissertazioni analoghe al genere del dramma, e altre poesie di genere pur drammatico.

Alla ricerca di strade nuove, Casti non seguì la struttura serio-giocosa fissata da Goldoni, ma sfruttò il contrasto tra serietà dei ruoli seri e comicità grottesca delle situazioni storiche, risentendo inoltre dell'influsso dell'opéra comique - che non prevedeva distinzione fra "parti serie" e "parti buffe" - in direzione di un maggior realismo psicologico dei personaggi, che troverà compimento nelle Nozze di Figaro di Da Ponte-Mozart del 1786.
Fin dal primo atto del Re Teodoro in Venezia la comicità, in Teodoro, deriva dal contrasto fra l'eroismo melodrammatico che ispira le sue dichiarazioni e la grigia prosaicità delle contingenze, fra la passata gloria del vanitoso ex-re e la sua grande presente miseria. Teodoro non è un eroe, ma un avventuriero, un arrivista, un sovrano già da burla, un re da opera buffa: affetta malinconia, mestizia, ed assume atteggiamenti malinconici e lamentosi con il preciso intento di commuovere. Nel dialogo iniziale fra Gafforio e Teodoro, sconsolato per la mancanza di denaro, l'intero lessico degli "affetti" seri, coi suoi riferimenti storici magniloquenti, è posto in contrasto con il soggetto prosaico del denaro: [G.] "Scaccia il duol, mio Re, che degno / Quel tuo duol di te non è". / [T]. "Senza soldi e senza Regno / Brutta cosa è l'esser Re." [G] "Deh sovvengati di Dario, / di Temistocle, di Mario, / E il destin di quegli eroi, / Grandi anch'essi, e pari tuoi, / Ti dovrebbe consolar." [T.] "Figliuol mio, coteste istorie, / Io le so, le ho lette anch'io, / Ma vorrei nel caso mio / Non istorie, ma danar". (I,1). Numerose sono le espressioni di autocommiserazione di Teodoro: "De' miei nemici alle ricerche esposto / Ramingo, vagabondo / Per sì bella cagion erro pel mondo. / Pur tutto soffrirei: ma esausti sono / Non sol gli erari pubblici del Regno / Ma delle borse nostre, / E quest'è peggio assai, / Il privato tesoro è voto omai. /E intanto invan dalle potenze amiche / I promessi sussidi attendo ognora"; esse sfociano in un'aria il cui incipit - "Io Re sono, e sono amante" - è una parodia dell'aria metastasiana "Son regina, e sono amante", dalla Didone abbandonata (I,5) (Gabriele Muresu rileva una precedente contraffazione di questo verso nella novella di Casti L'arcivescovo di Praga nelle parole "Son papessa e sono amante" in cui si narra dell'amore per la musica e il melodramma da parte dell'Arcivescovo). Il discorso di Teodoro, dopo l'incipit metastasiano, prosegue, secondo Muresu, "con la considerazione contenutisticamente e stilisticamente volgare della propria condizione, e che tenta poi di sollevarsi nel rimpianto di aspirazioni canoniche quali l'amore e la gloria, fino a piombare definitivamente nel gretto e realistico epilogo".
Nel corso del dramma Casti conserva al personaggio di Teodoro quel grado di credibilità regale che, messo in contrasto con la prosaicità della sua situazione, garantisce un efficace risultato satirico. Quando lo scaltro Gafforio propone a Teodoro di sbarazzarsi della sua veste regale per ottenere un po' di denaro, la risposta di Teodoro è un nuovo pezzo di ironia "malinconica": "Oh Dio! t'accheta, / Dunque tor mi vorresti / Del mio regio splendor l'unico avanzo / Che in mirarlo talor sul dosso mio / Mi risovvengo ancor, che Re son io".
Per risolvere i problemi finanziari del suo re Gafforio escogita l'espediente di fargli contrarre un matrimonio con Lisetta, figlia dell'oste Taddeo. Secondo la tradizione comica Taddeo rappresenta la figura del padre vanaglorioso, del borghese che vuole nobilitarsi con un matrimonio di lustro, mentre Gafforio, nella classica funzione di "servo", tratta la materia quotidiana, intriga e costruisce l'intreccio: il suo comportamento ha spesso lo scopo di ricondurre alla quotidianità il suo re portato ai voli lirici e fantastici. Ma nella materia comica si intrecciano osservazioni satiriche: il diverso valore delle leggi nelle classi sociali risalta laddove il ministro, secondo gli insegnamenti dei giuristi Pufendorf e Grozio, nota che "pel volgo", la "gente bassa", il matrimonio costituisce un legame indissolubile, mentre ai regnanti è possibile recidere il contratto con un divorzio o un ripudio, senza preoccuparsi di quanto diranno i posteri.
Dopo l'epilogo della vicenda, con l'imprigionamento del protagonista, il coro conclude il melodramma coi versi: "Ma se la ruota gira, / Lascisi pur girar, / Felice è chi fra i vortici / Tranquillo può restar". Mentre il distico finale costituisce la condanna di ogni apparente eroismo, la ruota della fortuna diventa la ruota del mondo: il meccanismo ruotante traduce quella visione della vita non identificabile né nella tragedia né nella commedia, visione riassunta nell'etichetta di "giocoso" attribuita al dramma comico per musica all'altezza degli anni Ottanta. Teodoro, nel succedersi degli eventi che lo vedono coinvolto, da giocatore diviene giocato, battuto dalla fortuna, dal caso, dalla natura e dai propri stessi desideri. Una concezione della vita che anche per consonanza biografica Casti fa propria.
Accanto alla satira dell'eroismo melodrammatico rappresentata nel personaggio di Teodoro, Casti introduce nell'intreccio comico, manifestando una particolare abilità inventiva, la satira sociale dell'arte di amare propria della civiltà occidentale con il personaggio di Belisa. Singolare e comico è il rapporto che si instaura tra Belisa e Acmet Terzo, il sultano detronizzato ma assai ricco che alloggia in incognito nella stessa locanda. Acmet, riconosciuto da Sandrino, che lo aveva incontrato a Costantinopoli, gli rivela di essersi innamorato di Belisa, e le parole del mercante introducono una prima lezione di convenienze sociali sulla maniera civile di amare propria della cultura del mondo occidentale: "[...] fra noi permessa / È una gentil dichiarazion d'affetto; / Ma l'altura, e l'orgoglio / Sorte fra noi non fa: fra noi l'uom colto / Con cortese linguaggio / Presta alle belle omaggio; / Piace il cor dolce, e la gentil maniera, / S'odia il tuon minaccioso, e l'alma fiera."; lezione seguita dall'aria di Sandrino, "Se stride irato il vento", che, come notava Paolo Gallarati, "dopo l'incipit metastasiano [...] sembra imboccare la strada della solennità aulica (in bocca ad un mercante!) ma tosto si inflette nella più aggraziata leggerezza anacreontica, a sua volta ironicamente incorniciata, e quindi oggettivata [...] dalla comica conclusione del turco Acmet che manifesta il suo stupore critico di fronte a tanta eleganza retorica: "Che nuovo stil di mendicar affetto! / Pur m'è forza obbliar chi son, che fui; / Ed adottar le stravaganze altrui". Al personaggio di Sandrino, Casti affida anche la satira della psicologia femminile, con la tirata misogina che costituisce uno dei momenti obbligati del libretto comico; si tratta di un recitativo e aria costruiti in forma di appello indirizzato direttamente al pubblico degli ascoltatori in cui si descrive la volubilità delle donne ("Voi semplici amanti", II, 7).
Proprio con la complicità di Sandrino, Belisa vuole assoggettare il fiero, collerico, dispotico, rissoso sultano Acmet all'arte d'amare delle donne europee, proposito che ella esplicitamente dichiara esaltando i comportamenti amorosi della nostra civiltà: "[...] Vo' che conosca / Qual differenza passa / Fra una schiava circassa, / E una donna europea, / E di questo cervel vo' dargli idea". Segue una vera e propria lezione di galateo amoroso che prevede delicatezza e amabilità nei modi, rispetto ed educazione; lezione che culmina nell'aria di Belisa "Se voi bramate", ritenuta anche dal Croce come uno dei momenti artisticamente più felici dei melodrammi giocosi del Casti. L'originalità e la stravaganza dei modi di Belisa - una donna dall'amore e dal cervello bizzarro secondo Sandrino, una "ragazza indocile" secondo Acmet - riescono progressivamente a conquistare il sultano.
Sebbene l'episodio tra Acmet e Belisa abbia una funzione puramente decorativa nell'intreccio, esso introduce nel libretto il gusto per l'esotismo tipico dell'epoca, che in Casti si colora di riferimenti molto più concreti e attuali. Tra i libretti di quegli anni ambientati in luoghi immaginari e lontani, nell'Oriente favoloso, ricordiamo alcuni testi di Bertati, come L'inimico delle donne (eseguito per la prima volta nel 1771, su musica di Galuppi, al Teatro San Samuele di Venezia; rappresentato poi a Vienna nel 1775 al Teatro dei Privilegiati) e Azor re di Kibinka (rappresentato nel 1779 su musica di Anfossi al Teatro San Moisé di Venezia). Esemplare di questo gusto turchesco è il Singspiel di Mozart Il ratto dal serraglio rappresentato al Burgtheater di Vienna il 16 luglio 1782, due anni prima dell'esecuzione del dramma di Casti. Nel Singspiel - come ha evidenziato Hermann Abert - "Blondchen [cameriera di Konstanze] vuol insegnare al rozzo orientale [Osmin] che in Occidente si usa far la corte alle ragazze con grazie e buone maniere", proprio come Belisa: "Lusinghe e tenerezze, / Facezie e gentilezze, / San conquistare i cuori / Delle brave ragazze. / Ma il comandar arcigno, / Gli strepiti e i rimproveri / In pochi giorni uccidono / Amore e fedeltà". Ma rilevante in Casti è il fatto che lo stesso Acmet sia un personaggio tratto dalla storia, proprio quando la minaccia dell'impero ottomano era ancora fortemente presente nel contesto politico. Il contrasto tra le due civiltà viene soltanto evocato, come scontro tra due culture sul piano più tradizionale del galateo amoroso, che costituiva in sé un topos teatrale illustre. Precedenti celebri in questa direzione sono le commedie e i melodrammi di Goldoni, come La locandiera, soggetto ripreso anche da Domenico Poggi per la musica di Salieri e rappresentato al Burgtheater l'8 giugno 1773, o la trilogia L'amor contadino, L'amor cortigiano e L'amore in caricatura, e ancora La calamita de' cuori (soggetto anch'esso ripreso per una rappresentazione, sempre per la musica di Salieri, al Burgtheater nel gennaio 1774), in cui i personaggi femminili si divertono a sottomettere alla "scuola amorosa" i vari pretendenti rendendoli schiavi e alquanto ridicoli. Con la sua femminilità intraprendente e paritaria Belisa è un personaggio non stereotipato, "libero" in tutti i sensi dalle leggi dell'intreccio e dalle convenzioni sociali, una figura di donna sola, indipendente, priva di significativi legami familiari e ambientali.
Lisetta appartiene invece alla coppia di amanti contrastati tradizionale nell'intreccio comico; non certo una donna semplice e ingenua, come ella stessa si dipinge all'amato, bensì una donna scaltra che acconsente, per delusione e ripicca, al matrimonio con il presunto re Teodoro sollecitato dal padre Taddeo. Lisetta è veicolo di topoi scenici e verbali di collaudata tradizione: all'inizio del dramma è intenta a versare il caffè a Teodoro nel gabinetto della locanda, immagine che ha i tipici caratteri della commedia goldoniana. Un altrettanto tipico quadretto borghese la ritrae (I, 4) occupata nell'attività di stiro insieme ad altre giovani "donzelle" che danno vita ad una delle due scene corali del Re Teodoro: Lisetta si interroga, rivolgendosi alle compagne, sulla natura dell'amore, che genera i sentimenti contrastanti di piacere e dolore legati alla presenza o alla lontananza dell'amato Sandrino - un topos lirico consunto ironizzato dalla diminuzione sociale. Lisetta "salva" il lieto fine: quando Teodoro viene arrestato per debiti, la giovane rinuncia al matrimonio con l'ex-re dei corsi e sposa l'antico amante Sandrino, risolvendo così con il matrimonio la commedia.
Le due situazioni corali di questo dramma offrono un esempio di struttura scenica complessa: entrambe le scene - Lisetta con le "donzelle" (I, 4) e il coro dei gondolieri (II, 8) - sono caratterizzate, come osserva anche Gallarati, dall'alternarsi di strofe solistiche a strofe corali: struttura che mostra l'influsso dell'opéra comique francese.
La struttura nodale dell'opera buffa è il finale d'atto, che nel Re Teodoro in Venezia raggiunge proporzioni molto ampie con una articolazione plurimetrica - strategia fondamentale di questa forma - che sottolinea i mutamenti scenici e l'avvicendarsi dei personaggi. I due finali si articolano in cinque e quattro scene. Non ha precedenti la conclusione del primo atto, in cui Taddeo viene lasciato solo sul palcoscenico dopo che tutti i personaggi hanno cantato uno alla volta e si sono allontanati dalla scena ("Tutti son andati al diavolo / M'han piantato, come un cavolo, / E Taddeo cosa farà! / E Taddeo se n'anderà"). Il movimento scenico, che procede per diminuzione, è quindi anomalo, mentre è tipico il procedimento inverso dell'accumulo dei personaggi, come avviene nel secondo finale (anche se una parentesi solistica è affidata a Teodoro solo all'interno del carcere).
Nel Re Teodoro, infine, la struttura dell'aria subisce una diversificazione connessa al superamento della caratterizzazione differenziata tra personaggi comici e personaggi seri a livello drammatico. Il progressivo abbandono dell'impiego della forma col da capo viene sancito dall'opera comica fin dalla metà del Settecento con i libretti buffi di Goldoni: l'aria si trasforma nella rappresentazione musicale di un discorso rivolto alternativamente al pubblico o agli interlocutori presenti sulla scena. Casti scrive arie di forma variabile, alterna arie "metastasiane" (due strofe di quattro o cinque versi), arie di tre o più strofe di ugual metro, arie estese fino alla lunghezza di trenta e più versi e le cosiddette arie in due tempi, in cui il testo poetico è diviso in due parti di metro diverso tali da orientare la forma musicale in una struttura bipartita.

Nota bibliografica

E. Bonora, I melodrammi giocosi di Giambattista Casti e il "Teodoro in Corsica" [1957] in Parini e altro Settecento, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 207-22.
G. B. Casti, Epistolario, a cura di Antonio Fallico, Amministrazione Provinciale di Viterbo, 1984.
A. Einstein, A "King Theodor" Opera, in Essays on Music, New York, Norton, 1956, pp. 191-96.
P. Gallarati, Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, Torino, EDT, 1984, pp. 154-61.
G. Muresu, Le occasioni di un libertino (G.B. Casti), Messina-Firenze, G. D'Anna, 1973.