Gian Giacomo Stiffoni

L'opera italiana a vienna all'ombra di Giuseppe II

1.
L'opera italiana a Vienna durante gli anni Ottanta del XVIII secolo si presenta come un fenomeno a sé nel contesto del teatro per musica di fine Settecento. Grazie all'apporto di librettisti come Giambattista Casti e Lorenzo Da Ponte, e di musicisti come Mozart, Paisiello, Salieri e Martín y Soler (detto Martini lo Spagnolo), il genere del "dramma giocoso per musica" [1] fu al centro di una serie di innovazioni stilistiche e drammaturgiche tali da portarlo probabilmente al grado più alto della sua evoluzione strutturale. Le Nozze di Figaro, Don Giovanni (messo in scena in prima assoluta a Praga nel 1787, ma portato subito a Vienna l'anno dopo) e Così fan tutte rappresentano senza alcun dubbio il risultato più eclatante di questo processo. Ma l'affievolirsi di una netta separazione tra lo stile serio e quello comico e il superamento di una ormai consolidata frantumazione episodica, [2] caratteristiche, come si sa, dei capolavori mozartiani, non furono prerogativa esclusiva di questi ultimi: al contrario, furono patrimonio comune a tutta la produzione viennese dell'epoca.
Prima di entrare nel dettaglio delle ragioni e degli avvenimenti che diedero origine a questa "nuova" stagione dell'opera buffa italiana, credo sia opportuno fare un breve salto indietro nel tempo e dare uno sguardo generale al singolare sviluppo a cui fu soggetto il genere operistico - nel contesto della capitale imperiale - già a partire dalla metà degli anni Sessanta del Settecento, al fine di capire meglio le ragioni profonde che portarono gli artisti presenti a Vienna a operare determinate scelte stilistiche e formali.

2.
Come sempre accade, la nascita e lo sviluppo di ogni fenomeno artistico è reso possibile da una serie di fattori di ordine sociale, culturale e politico ai quali è associata il più delle volte l'azione determinate di personalità di spicco. Nel caso viennese, prima che Giuseppe II, soprattutto dalla fine degli anni Settanta, dedicasse maggiore attenzione allo sviluppo della vita culturale e teatrale della capitale, fondamentale fu l'operato del conte Giacomo Durazzo, dal 1753 direttore dei Teatri Imperiali (Generalspektakeldirektor). [3]
Grazie all'opera di questo brillante "impresario", legato a una cerchia di nobili dalle evidenti tendenze francofile, la vecchia corte di Maria Teresa, ancora imperniata su modelli ancien régime, iniziò a trasformarsi lentamente in un ambiente socialmente più composito dove incominciarono a farsi spazio valori sociali, morali, politici e artistici provenienti dalla più viva cultura illuminista contemporanea.
Due furono i punti centrali del progetto riformistico di Durazzo nei primi anni Sessanta: favorire un rinnovamento del "dramma per musica", ancora imperniato sul modello metastasiano, e aprire i palcoscenici viennesi al nuovo repertorio teatrale, musicale e pantomimico proveniente dalla Francia. Ambedue le operazioni avevano uno scopo comune: tentare di approdare ad un nuovo tipo di teatro in prosa e di melodramma che, attraverso una decisiva rivalutazione di fattori come il sentimento e la spontaneità, si affrancasse dalle convenzioni auliche e dagli artifici retorici del razionalismo arcadico. Un modo insomma per seguire quel retour à la Nature che veniva promosso dalle nuove idee illuministe transalpine - in particolare di Rousseau - e che in campo musicale era stato uno dei temi al centro della celebre querelle de bouffons (1752). Quest'ultima aveva originato una frattura rilevante nel mondo culturale francese che si era diviso in due posizioni contrastanti. Da una parte coloro che, prendendo a modello l'opera buffa italiana (principale pietra dello scandalo furono, come è noto, le rappresentazioni parigine della Serva padrona di Pergolesi), promuovevano un'opera ispirata a criteri di semplicità drammatica e naturalezza melodica - di qui la nascita dell'opéra comique, genere basato sull'alternanza di parti parlate e momenti musicali dalla struttura formale semplificata, il più delle volte canzoni strofiche -; dall'altra i difensori della tragédie lyrique, basata sul principio classicistico della verosimiglianza e caratterizzata dall'uso di forme alte di declamazione, da una forte presenza del coro e, non meno importante, da un impianto scenografico spettacolare.
Promuovendo ambedue i modelli drammaturgici al centro della nota polemica, Durazzo prese una posizione, nei confronti della querelle, che potrebbe definirsi intermedia. Sui palcoscenici viennesi incominciarono quindi a vedersi gli ultimi e più famosi opéras comiques, alternati ad affermate commedie francesi, per lo più di carattere patetico-sentimentale (comédies larmoyantes). D'altro canto, proprio il riutilizzo di elementi formali provenienti della tragédie lyrique fu alla base dell'innovativa struttura drammaturgica dell'opera seria riformata di Gluck e Calzabigi che ebbe modo di nascere e svilupparsi grazie appunto al patrocinio di Durazzo. Attraverso il maggior rilievo assegnato al coro e la sostituzione del tradizionale recitativo semplice con un ininterrotto "recitativo accompagnato", titoli come Orfeo ed Euridice (1762) prima e Alceste (1767) poi portarono una vera e propria rivoluzione all'interno del melodramma serio della seconda metà del Settecento. [4]
Il tentativo di Durazzo di far entrare nel repertorio dei teatri viennesi i nuovi generi importati dalla Francia durò però solo lo spazio di poche stagioni. A metà degli anni Sessanta, poco dopo la fine della Guerra dei Sette Anni, responsabile dei teatri di corte divenne Wenzel Sporck (Musique Cavalier und General-Direktor). Con il beneplacito di Giuseppe II, dal 1765 co-reggente al fianco della madre Maria Teresa, Sporck indirizzò le sue scelte di repertorio verso l'opera buffa italiana, che già dal 1763 si era affacciata sul palcoscenico del teatro di corte - il Burgtheater - con alcuni degli ultimi "drammi giocosi per musica" di Goldoni. Pur non mancando qualche sporadica apparizione di opere serie legate all'ambito della "riforma", come ad esempio la già citata Alceste gluckiana o l'Ifigenia in Tauride di Tommaso Traetta e Marco Coltellini, nella programmazione prevalsero così alcuni dei più recenti successi "giocosi" di musicisti affermati quali Giovanni Paisiello, Niccolò Piccinni, Baldassare Galuppi o Pasquale Anfossi, nella maggior parte dei casi su libretti di Goldoni, ma a volte anche di Giuseppe Petrosellini.
Verso la fine del 1771 anche il secondo palcoscenico più importante di Vienna, il Kärntnerthortheater, che fino ad allora aveva rappresentato per lo più opere teatrali e balletti tedeschi, si affiancò al Burgtheater nella rappresentazione di opere buffe. Fu il giovane Antonio Salieri, da poco giunto a Vienna ma già conosciuto grazie ai suoi primi due lavori - Le donne letterate e L'amore innocente -, ad inaugurare questa nuova stagione di opera italiana con La Moda, ovvero i scompigli domestici. [5] Un "debutto" fortunato, poiché nello spazio di pochi anni il musicista di Legnago si guadagnò un fama tale che gli permise di raggiungere nel 1774 - grazie all'appoggio di Giuseppe II - la posizione di Kapellmeister del Teatro Imperiale, sostituendo quello che fino ad allora era stato il suo maestro: il boemo Florian Leopold Gassmann. [6]
Nel 1776 lo stesso Giuseppe II, da sempre interessato ad incoraggiare la cultura tedesca, decise però di accantonare il genere italiano creando nel Burgtheater il National-Singspiel. L'intenzione dell'imperatore era quella di dare vita ad un teatro in musica esclusivamente in lingua tedesca che potesse segnare la nascita di una vera e propria nuova opera nazionale. Alternando parti recitate e parti cantate come accadeva nell'opéra-comique, il Singspiel si presentò invece, soprattutto al principio, come l'adattamento - spesse volte una vera e propria traduzione - di precedenti lavori francesi, come nel caso di Le Déserteur di Pierre-Alexandre Monsigny, già rappresentato sulle scene del Burgtheater nella sua forma originale nel 1771, e riproposto nel 1779 in una nuova versione tedesca realizzata da Johann Gottlieb Stephanie, futuro librettista di Die Entführung aus dem Serail di Mozart. Né mancarono casi di adattamenti di commedie italiane di Goldoni, Gozzi o Pietro Chiari; in definitiva pochi furono i titoli completamente originali.
Forse anche per questo la "nuova opera tedesca" entrò in una profonda crisi già all'inizio degli anni Ottanta. Poco sostenuto della nobiltà austriaca, in gran parte orientata verso il gusto italiano, il National-Singspiel - anche a causa di alcune faide interne al Burgtheater, diretto dal 1777 dal conte Rosemberg Orsini - finì per perdere anche l'appoggio di Giuseppe II. Il riaffacciarsi dell'opera italiana divenne quindi inevitabile. Dopo una prima apparizione nell'aprile del 1782 con La contadina in corte di Antonio Sacchini, a partire dalla stagione 1783/84, il dominio dell'opera buffa sul palcoscenico del Burgtheater fu incontrastato fino quasi alla fine del secolo.
Le nuove circostanze finirono per favorire nuovamente Antonio Salieri, che dal 1776 non aveva avuto più molte occasioni per imporre il suo operato nella capitale austriaca; assieme al conte Rosemberg Orsini, egli ricevette infatti dall'imperatore l'incarico di formare una nuova compagnia di canto italiana. I cantanti furono reclutati da diverse piazze italiane, tra cui anche Venezia, dove fu decisiva l'intercessione di Durazzo, in quel momento ambasciatore imperiale nella città lagunare. Le prime parti erano ricoperte da due dei migliori "virtuosi" dell'epoca, l'inglese Anna Selina (Nancy) Storace, [7] "prima buffa", e Francesco Benucci, "primo buffo caricato".
Il cartellone del primo anno propose per lo più titoli già rappresentati precedentemente in altre città europee, come Il barbiere di Siviglia di Paisiello (San Pietroburgo 1782) o Tra i due litiganti il terzo gode di Giuseppe Sarti (Milano 1782) [8] che a sua volta era la rielaborazione del libretto di Goldoni Le Nozze musicato da Galuppi nel 1755.
L'ambiente era artisticamente vivace e non si fecero attendere nuove produzioni locali. Il re Teodoro in Venezia, scritto appositamente da Paisiello, su libretto del famoso letterato Giambattista Casti, durante il suo passaggio per la capitale austriaca, di ritorno da San Pietroburgo, fu solo il primo di una lunga serie di successi andati in scena in prima assoluta a Vienna: oltre a Le nozze di Figaro e a Così fan tutte, i più volte rappresentati Una cosa rara, o sia bellezza ed onestà e L'arbore di Diana di Martín y Soler e l'Axur re d'Ormus di Salieri.
Nel periodo che va dal 1783 al 1790, furono rappresentati a Vienna una settantina di titoli. Di essi ventisette erano nuove commissioni o opere rielaborate appositamente per il Burgtheater, diciannove delle quali su libretto di Lorenzo Da Ponte, dal 1783 "Poeta dei Teatri Imperiali". Giuseppe II esercitava un controllo regolare sia finanziario che artistico sull'attività operistica dei teatri imperiali (dal 1785 sino al 1787 il Kärntnerthortheater si incaricò tra l'altro di riproporre alcuni Singspiel in un nuovo tentativo, più modesto rispetto a quello del 1776, di ridare linfa all'opera tedesca). Un'ampia raccolta di memoranda denominati Handbiletts, per la maggior parte indirizzati al conte Rosenberg, testimonia il particolare interesse dell'imperatore per l'opera in quegli anni. Il personale del teatro di corte, come altri cittadini "illustri", godeva del privilegio di esporre le proprie lamentele direttamente in presenza del sovrano. Per Giuseppe II l'eccellenza artistica e le buone prestazioni della compagnia d'opera stavano ad ogni modo al di sopra di qualsivoglia capriccio individuale. Per questo stabilì delle regole di comportamento che dovevano essere seguite da tutto il personale artistico legato al teatro, sia durante le prove che nel corso delle rappresentazioni. Furono impediti i bis e il ballo, le opere non dovevano superare una determinata lunghezza e fu incoraggiata una maggiore presenza di pezzi d'assieme. Non è escluso inoltre che i cantanti fossero meno liberi che altrove di fare modifiche alle arie - men che meno di importarle da altre opere - senza il consenso non solo del direttore del teatro, ma anche del musicista o del librettista. [9]
I costi enormi della nuova guerra contro i Turchi spinsero però Giuseppe II a sciogliere la compagnia italiana alla fine della stagione 1788/89. Grazie ai fondi ricavati da una sottoscrizione privata promossa da Da Ponte, si riuscì a finanziare ancora un'altra stagione; dopo di che il periodo "dorato" del dramma giocoso giunse al suo termine. Con la morte di Giuseppe II, avvenuta nel febbraio del 1790, e con l'arrivo del nuovo imperatore Leopoldo II si tornò infatti a una panorama operistico molto meno innovativo, legato per lo più a vecchi modelli drammaturgici. Ricomparve così il dramma serio di impronta metastasiana cui si affiancarono nella programmazione un numero considerevole di balletti, e anche lo stesso dramma giocoso finì per ritornare a strutture drammaturgiche più convenzionali, dimenticando parzialmente quelle innovazioni che erano state apportate al genere durante la decade degli anni Ottanta.

3.
Alla luce degli avvenimenti a cui si è fatto riferimento durante questo breve excursus attraverso la Vienna operistica del secondo Settecento, non sorprende che molti degli elementi innovativi riscontrabili nella produzione giocosa degli anni Ottanta siano la diretta conseguenza della pluralità di esperienze teatrali che caratterizzarono la vita teatrale della capitale austriaca. Il passaggio per Vienna dell'opéra-comique e del Singspiel nonché dell'opera seria riformata, avevano abituato il pubblico viennese ad un modello di spettacolo dalle strutture formali più elastiche, capace di risolversi in soluzioni drammatiche sempre più vicine alla rappresentazione realistica delle situazioni, e delle "passioni" ad esse legate. Quello che, nell'idea di Durazzo, doveva essere il modo migliore per giungere a un'evoluzione dell'opera seria nella direzione di un più ampio rinnovamento del teatro tragico tout court, si dimostra oggigiorno un processo che, al contrario, fu soprattutto utile all'evolversi delle strutture drammaturgiche del già affermato dramma giocoso.
Tutte le diverse fasi che contraddistinsero la vita operistica e teatrale a Vienna nella seconda metà del Settecento contribuirono infatti a modificare la maniera stessa di intendere l'opera comica. È infatti caratteristica peculiare dei drammi giocosi scritti per la capitale austriaca nel periodo 1782-90 l'essere infarciti di elementi eterogenei presi a prestito da generi estranei alla tradizione giocosa italiana. Del resto, come ha notato Reinhard Strohm, [10] già nel 1770 Gassmann si era mosso in questa direzione con La contessina, su libretto di Goldoni. In quest'opera sono infatti ravvisabili, oltre a tratti stilistici e strutture formali derivate dalla ormai codificata opera buffa di scuola veneziana e napoletana, elementi provenienti dall'opéra-comique, dal Singspiel e dall'opera seria, compresa quella "riformata" di Gluck e Calzabigi.
Il dramma giocoso, così come si era definito inizialmente a Venezia con Goldoni durante gli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento e, più avanti, con il suo più abile continuatore, Giovanni Bertati, rimase anche a Vienna il modello indiscutibile di partenza. La struttura drammaturgica dei libretti di questi autori ruotava intorno a due punti centrali: una divisione dei personaggi in parti buffe, serie e di mezzocarattere e, soprattutto, una nuova organizzazione formale dei grandi finali d'atto. Questi ultimi, ampliati rispetto alle chiuse della vecchia commedia per musica napoletana, furono concepiti e costruiti in modo tale da divenire un articolato organismo scenico-drammatico disposto in musica; cosa che fu possibile proprio grazie alla varietà dei "caratteri" presenti sulla scena e conseguentemente alla maggiore articolazione dei conflitti emozionali. Non casualmente Da Ponte, in un noto passo delle sue Memorie, definirà i finali d'atto come una sorta di "commediola o di picciol dramma da sé". [11]
Proprio su questi due punti si fonda il rinnovato dramma giocoso viennese. Il Re Teodoro in Venezia, messo in scena il 23 agosto del 1784, presenta già dei tratti distintivi di cui farà tesoro lo stesso Da Ponte nella sua produzione per Vienna. Al di là delle critiche, a volte condividibili, che Da Ponte rivolse all'incapacità del collega Casti di comporre un dramma "caldo", "interessante" e soprattutto "teatrale", [12] l'apporto di quest'ultimo fu fondamentale per l'uso innovativo del tessuto linguistico-letterario. Grazie all'impiego di sottili forme di ibridazione tra i diversi "gradi" della lingua, Casti giunse infatti ad una ridistribuzione dei "caratteri" all'interno dell'organismo drammatico. Se fino ad allora i diversi modi di espressione verbale di ciascun personaggio erano serviti unicamente per definire lo stato sociale di quest'ultimo - linguaggio alto e serio per i nobili, basso e comico per i servi -, con il Re Teodoro incominciarono ad essere utilizzati come veicoli utili a delineare determinati momenti scenici. In altre parole era la "situazione" che ora spingeva il librettista ad utilizzare o meno un determinato linguaggio, una specifica scansione metrica, e non il fatto che il personaggio appartenesse o no a un determinato ceto sociale. Ciò poteva avvenire anche all'interno di una stessa scena. Si pensi per esempio alla prima aria di Teodoro (I, 3); il recitativo che la precede è impostato su tratti di stile caratteristici dell'opera seria:

O miei tristi pensieri, che vergognosi
Dentro il sen v'ascondete, or che siam soli
Uscite fuor dall'affannoso petto.

ma già più avanti esso si inflette verso termini più "bassi" e realistici - "E a quel birbon della più vil canaglia / Genova pon sul capo mio la taglia?" - tanto che l'aria finisce per avere un incipit che ricalca chiaramente modelli buffi: [13]

Io Re sono, io sono amante.
Il mio amor è un brutto affanno;
Il mio regno è un bel malanno;
Ma la taglia è peggio ancor.

e più avanti, dopo due quartine dal tono più serioso:

Ma la solita paura
Smorza amor la gloria oscura
E aver parmi sulla groppa
Il sicario che mi accoppa.

Nella prospettiva storica che abbiamo delineato in precedenza, appare ragionevole pensare che ad indirizzare il librettista verso determinate scelte sia stato anche e soprattutto il tentativo di aderire al gusto di un ambiente culturale come quello viennese formatosi, come abbiamo visto, negli anni Sessanta e Settanta sulle comédie larmoyante di un Nivelle de La Chaussée o sui testi di Marivaux o Favart, ma anche sull'opéra comique di Grétry e Monsigny. Il modello fu dunque un teatro di ambientazione il più delle volte medio borghese, capace di superare le fissità dei "tipi" tradizionali e di spingere la drammaturgia verso una rappresentazione organizzata attorno alla mutevolezza delle psicologie. Il tutto per mezzo di un nuovo modo di disporre i rapporti tra i personaggi, in relazione cioè alle determinate condizioni originate dal plot, come ebbe modo di scrivere Diderot nel 1757 nel suo scritto De la poésie dramatique, allorché dovette teorizzare la sua idea di un nuovo "dramma serio". [14]
Non sorprende di conseguenza che il passo seguente al Re Teodoro in Venezia sia stato l'adattamento di due commedie appartenenti proprio al genere della "commedia borghese": Le Nozze di Figaro (1786), da Beaumarchais, e Il burbero di buon cuore (1786) di Martín y Soler, tratto dal Bourru bienfaisant di Goldoni. Due "riduzioni" che in alcuni momenti furono quasi una vera e propria traduzione delle piéce originali e che portarono il librettista Da Ponte verso una più complessa e articolata strutturazione drammaturgica della situazioni sceniche.
Con ciò dovette fare i conti anche l'organizzazione musicale. Di qui un aumento considerevole dei brani concertati ma anche delle cosiddette arie d'azione; momenti solistici ormai completamente svincolati dal modello statico dell'aria tripartita e organizzati - grazie a una struttura più mobile, spesso in due parti - come una vera e propria piccola scena. Serva a titolo d'esempio l'aria di Susanna Venite inginocchiatevi nel secondo atto delle Nozze di Figaro, allorquando la servetta con l'aiuto della Contessa, si incarica del travestimento femminile di Cherubino.
Anche i finali d'atto divennero più articolati e assunsero dimensioni maggiori rispetto agli originali goldoniani. I musicisti di conseguenza furono portati a disporre l'ossatura drammatico-musicale di detti finali in una successione ciclica di diversi blocchi scenico-musicali, ossia in una struttura organizzata intorno all'alternanza di momenti dinamici, dove l'azione avanza, e di altri statici in cui i personaggi commentano gli avvenimenti o più semplicemente danno voce ai loro sentimenti. [15]
L'ampliamento dei finali e l'aumento dei numeri a più voci, dal duetto al concertato, spinse gradualmente musicisti e librettisti anche verso la ricerca di una più generale continuità drammatico-musicale; il che portò al parziale alleggerimento della tradizionale separazione tra aria e recitativo. I confini fra recitativo semplice - cioè accompagnato dal solo cembalo - e pezzo chiuso infatti, pur non essendo eliminati del tutto, furono in parte sfumati, facendo sí che l'azione procedesse anche attraverso recitativi accompagnati o brevi episodi cantabili. Tutta la parte iniziale di Una cosa rara di Martín y Soler (1787) - per fare un esempio - benché presenti brevi passaggi in recitativo semplice, è di fatto una successione abilmente orchestrata di diversi numeri collegati quasi senza soluzione di continuità. La duplice occorrenza del coro di cacciatori all'inizio dell'opera e alla fine della scena quarta, racchiude una successione quasi ininterrotta di brani tutti alquanto brevi: un recitativo strumentale della Regina Isabella, un terzetto, una brevissima aria della contadina Lilla che giunge ansimante sulla scena, e infine una cavatina ancora della Regina. La coesione e il continuum drammaturgico originato dall'accostamento di questi pezzi chiusi era per l'epoca qualcosa di realmente inedito.
È però sicuramente Axur Re d'Ormus, "dramma tragicomico" di Salieri e Da Ponte (1788), il lavoro che, sotto l'aspetto della continuità drammatico-musicale, si dimostra maggiormente significativo. In esso vengono infatti ridotti radicalmente i recitativi semplici e l'azione procede il più delle volte in un ininterrotto susseguirsi di recitativi accompagnati e momenti cantabili che spesso non arrivano a configurarsi in vere e proprie arie. L'Axur era la rielaborazione in forma di dramma giocoso dell'originaria tragedie-lyrique Tarare, sempre di Salieri, rappresentata a Parigi nel 1786. Il musicista di Legnano tentò quindi di riapplicare nella nuova versione l'omogeneo trascolorare dal declamato all'arioso presente nell'originale francese. Ma l'Axur Re d'Ormus è qualcosa di più di un semplice adattamento di un genere. Esso è il risultato, si potrebbe dire, estremo di quelle innovazioni a cui fu soggetto il dramma giocoso durante la sua stagione viennese. Ciò che risulta oltremodo originale nell'opera di Salieri è infatti come la struttura si renda permeabile a quasi tutti i generi passati all'epoca per i teatri imperiali. Dramma per musica, opera seria riformata, tragédie-lyrique, opéra-comique, ma anche Singspiel nell'uso di arie impostate nella struttura strofica del Lied o della canzone viennese, sono infatti gli elementi di un vero e proprio crogiolo di stili che indirizzano la struttura portante - in pratica da dramma giocoso - verso un linguaggio così innovativo da farne a volte un precursore di forme che si imporranno solo nel secolo successivo. Non sorprende quindi che l'Axur, nell'ambito culturale cosmopolita della Vienna di quegli anni, fosse uno dei titoli più amati dal pubblico del Burgtheater: 51 repliche dal 1788 al 1790, un numero notevole alla luce ad esempio delle 55 che ebbe il Re Teodoro, a partire però dal 1784.
L'eclettismo dell'ambiente viennese e il confluire delle più diverse tradizioni drammatico-musicali non furono però elementi utili solo alla nascita di quello che si potrebbe definire un ragguardevole prodotto di ibridazione. Essi furono alla base anche di un diverso atteggiamento degli autori nei confronti dello spettacolo operistico. Quest'ultimo, con i suoi meccanismi drammatici e con le sue strutture formali, divenne infatti fonte di alcuni dei nuovi soggetti. Non si trattò però solo di un semplice ricorso a temi metateatrali, quanto di un sottile riutilizzo, in ambiti diversi e all'interno di plots più o meno tradizionali, di elementi stilistici fortemente codificati e quindi facilmente riconoscibili dal pubblico dell'epoca. Il risultato fu quello di un teatro, per così dire, al quadrato, dove la citazione, anche quella letterale di titoli circolanti o conosciuti a Vienna in quegli anni, diveniva lo spunto per un atteggiamento di distacco critico nei confronti del testo - anche e soprattutto da parte dello spettatore - con risultati non poche volte ironici. In tal senso il Così fan tutte (1790) con le sue evidenti simmetrie, portatrici di un raffinato "esercizio a tema" da parte di librettista e compositore su diverse forme sia letterarie che musicali, si presenta come il punto più alto di questo modello di teatro. Nel suo apollineo e lucido distacco - che altro non è che lo specchio di quella, a volte amara, disillusione che permea i rapporti tra i personaggi dell'opera - il Così fan tutte può essere visto infatti come una sorta di arguto e disincantato riassunto di quasi un secolo d'opera italiana.
Pur non raggiungendo i vertici dell'ultimo dramma giocoso mozartiano, altri titoli ruotano con esiti più o meno alti attorno a tematiche simili. È il caso della manipolazione di generi "altri" che si riscontra nell'Arbore di Diana (1787) di Martín y Soler e Da Ponte - forse uno dei più bei libretti dell'epoca -, arguta e a volte raffinata parodia della serenata teatrale cortigiana d'argomento mitologico-pastorale, intrisa di una sensuale e maliziosa comicità. Non bisogna poi dimenticare l'uso di soggetti in parte metateatrali dove sono messe alla prova le capacità mimetico-attoriali dei cantanti della compagnia; come ne Il Finto cieco di Da Ponte-Gazzaniga (1786), tratto da una pièce teatrale di François Legrand, dove una burla giocata al personaggio principale dà luogo alla messa in scena di una vera e propria "commedia nella commedia" con tanto di riferimenti, più o meno espliciti, ai cantanti presenti allora a Vienna. Non meno importante è infine la rielaborazione, dentro i parametri di una rinnovata drammaturgia buffa, di libretti preesistenti, come nel caso di alcune delle ultime creazioni di Da Ponte prima del suo allontanamento dalla capitale austriaca nel 1791, per esempio de Il Talismano da Goldoni nel 1788 o de La Cifra da Petrosellini nel 1789, libretti ambedue musicati da Salieri.
I cambiamenti avvenuti, durante la breve ma intensa stagione viennese, nel tessuto del dramma giocoso goldoniano, le istanze innovative di cui furono portatori i diversi componimenti, già a partire da Il re Teodoro, sono quindi la cifra di un gusto, di una maniera diversa di intendere il rapporto testo-musica, e lo specchio di una modalità di recezione basata su uno stretto rapporto tra pubblico e repertorio. Ma non solo. Essi in realtà rappresentano anche le premesse di un melodramma capace di alleggerire le barriere tra i generi, nell'ottica di un organismo drammatico non più costruito su parametri prestabiliti, ma capace di trovare impulso proprio nell'assimilazione e nel superamento degli stessi. Una volta giunti ad una "drammaturgia attraverso la musica",16 grazie all'utilizzo del pezzo chiuso come elemento portante del procedere drammatico dell'azione, la strada verso il melodramma ottocentesco era ormai aperta.

NOTE

1 Tale era nel Settecento la dicitura con cui più comunemente si denominava l'opera comica nei frontespizi dei libretti a stampa, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo.
2 Cfr. Paolo Gallarati, Musica e maschera, il libretto italiano del Settecento, Torino, Edt, 1984, pp.162 e ss.
3 Durazzo copriva anche la carica di Hof- und Kammermusik-Direktor, cioè direttore della musica da camera di corte. Cfr. Gustav Zechmeister, Die Wiener Theater nächst der Burg und nächst Kärntnerthor von 1747 bis 1776, Graz-Wien-Köln, Hermann Böhlaus, 1971, ("Theatergeschichte Österreichs", vol. III: Wien, n. 2), p. 397.
4 Cfr. P. Gallarati, Musica e maschera cit., pp. 70-85. Si veda anche del medesimo autore Gluck e Mozart, Torino, Einaudi, 1975, in particolare alle pp. 27-67.
5 Cfr. Volkmar Brauenbehrens, Salieri. Un musicista all'ombra di Mozart, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 29-34. Per avere un esauriente panorama biografico su Salieri si veda anche la fondamentale monografia, ancora oggi purtroppo priva di traduzione italiana, di Rudolph Angermüller, Antonio Salieri. Sein Leben und seine weltlichen Werke unter besonderer Berücksichtigung seiner "großen" Opern, 3 voll., München, Katzbichler, 1971-74.
6 Cfr. V. Brauenbehrens, Salieri. Un musicista all'ombra di Mozart cit., pp. 23-46.
7 La Storace, prima Susanna nelle Nozze di Figaro, era sorella del compositore Stephen Storace che fu l'autore della musica de Gli equivoci, rappresentato a Vienna nel 1786 su libretto di Da Ponte. Gran parte delle notizie documentarie sulla Vienna operistica degli anni Ottanta provengono dal volume di Otto Michtner, Das alte Burgtheater als Opernbühne. Von der Einführung des deutschen Singspiels (1778) bis zum Tod Kaiser Leopold II. (1792), Graz-Wien-Köln, Hermann Böhlaus, 1970, ("Theatergeschichte Österreichs", vol. III: Wien, n. 1).
8 Prova dello strepitoso successo di cui godette I litiganti fino dalla prima alla Scala nel 1782 è la nota citazione che Mozart fece di una delle sue arie nel finale del Don Giovanni.
9 Alcune di queste disposizioni sono riportate in un memoriale indirizzato da Da Ponte alla direzione dei teatri in quegli anni e intitolato: Ordine necessarissimo in una Direzione Teatrale. Scelta ed approvata un'opera dalla Direzione Imperiale. Il manoscritto, conservato nell'Archivio di Stato di Vienna (Haus-Hof und Staatsarchiv) è citato nella sua interezza da O. Michtner, Das alte Burgtheater als Opernbühne cit., pp. 439-440.
10 Cfr. Reinhard Strohm, L'opera italiana nel Settecento, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 288-301.
11 Lorenzo Da Ponte, Memorie, Milano, Garzanti, 19812, p. 92.
12 Ivi, p. 91.
13 Con quest'aria Casti cita, parodiandola, una delle più celebri arie della Didone abbandonata di Metastasio "Son regina e sono amante" (I, 5), come viene confermato pure dall'utilizzo, in chiusura, del medesimo verso - "Della gloria e dell'amor" - con cui terminava anche l'aria metastasiana.
14 Per le opere sul teatro di Diderot si può fare riferimento a Denis Diderot, Oeuvres esthétiques, a cura di P. Vernère, Paris, Garnier, 1959. In traduzione italiana si veda il volume Denis Diderot, Teatro e scritti sul teatro. a cura di M. Grilli, Firenze, La Nuova Italia, 1980.
15 Cfr. John Platoff, Musical and Dramatic Structure in the Opera Buffa Finale, "The Journal of Musicology", vol. VII, n. 2, (Spring), 1989, pp. 191-229.
16 P. Gallarati, Musica e maschera cit., p. 204.