ALBERTO IESUÈ

L'OPERA NEL SETTECENTO EUROPEO

STORIA DELLA MUSICA
FRANCO MUZZIO EDITORE
PADOVA 1988
pp. 142-154



1. L'opera seria

La cosiddetta opera seria, che rimase in auge per tutto il secolo XVIII, si rifà alla riforma dei libretti operata soprattutto da Apostolo Zeno (1668-1750) e da Pietro Metastasio (1698-1782).
I tentativi di Zeno, favorevole ai soggetti storici e contrario a intrecci realisticamente poco attendibili, ebbero piena realizzazione, in seguito, nei libretti di Metastasio.
Il successo di Metastasio nell'opera del Settecento fu enorme: i contemporanei paragonarono la sua importanza letteraria addirittura a Omero e a Dante; i suoi libretti, o meglio, i suoi «drammi per musica» e le sue «azioni teatrali» vennero musicati, pare, più di mille volte. Fra i compositori che si servirono dei testi di Metastasio furono Albinoni, Händel, Hasse, Jommelli, Piccinni, Cherubini, Paisiello, Vivaldi, Gluck, Cimarosa, Pergolesi, Mozart, Porpora, Spontini.
Rispetto ai melodrammi del Seicento, nei quali recitativi, ariosi e arie si alternavano secondo il gusto dell'autore o le esigenze dell'azione, Metastasio stabilì delle regole ben precise.
La scena metastasiana è innanzitutto costituita da due parti: prima il recitativo, con il quale viene esposta l'azione drammatica, e poi l'aria, attraverso la quale l'attore principale dava voce all'espressione dei sentimenti. In una scena così impostata, l'attore assume due facce: personaggio del dramma, nella prima parte in cui dialoga con gli altri personaggi; individuo che esprime sentimenti ed emozioni proprie, nella seconda parte. Il dramma musicale, pertanto, si alterna in momenti dinamici e statici: nel recitativo i motivi del dramma letterario, nell'aria le espressioni della musica. È importante notare che un tale schema, in cui si avvicendano momenti di tensione e di quiete, prestabilisce che la tensione emotiva accumulata nel recitativo trovi il suo definirsi, il suo acquietarsi, il suo sfogarsi naturale nell'aria. Con questa specie di compromesso vengono salvaguardate le posizioni sia dell'azione che della musica, che riescono a convivere all'interno del melodramma, in quanto ciascuna si sviluppa liberamente potendo usufruire di un proprio ambito espressivo. È chiaro che, dal punto di vista musicale, la protagonista del melodramma è
l'aria, mentre i recitativi, i brani d'insieme e strumentali rimangono elementi di contorno e sostegno. L'importanza dell'aria come unità fondamentale del dramma porterà a diverse conseguenze: vedranno la luce i più svariati tipi di aria; la predominanza dell'aria porterà allo sfaldamento di quelle caratteristiche che facevano dell'opera una forma unitaria; aumenterà sempre più l'importanza del cantante, il quale, oltre ad essere interprete, giungerà ad affiancare il compositore nella creazione-esecuzione del brano musicale.
Senza entrare nel merito di definizioni troppo sottili, fra i vari tipi di aria ricorrenti nel melodramma settecentesco ricordiamo l'aria cantabile, l'aria di portamento, l'aria di mezzo carattere, l'aria parlante, l'aria di bravura o di agilità. Il recitativo era invece di due tipi: il recitativo semplice, detto poi recitativo secco, era accompagnato solo dal basso continuo, e aveva la funzione di far progredire l'azione del dramma mediante un dialogo senza accompagnamento musicale; il recitativo accompagnato, o stromentato, era accompagnato, oltre che dal basso continuo, anche dagli archi o da tutta l'orchestra.
La predominanza dell'aria all'interno della forma melodrammatica portò ad assegnare al cantante una posizione di prevalenza all'interno dello spettacolo: il virtuosismo e la libertà dei cantanti giunse a eccessi tollerati solo in quel tempo. C'è da dire che la tecnica vocale del secolo raggiunse livelli eccezionali, ampiamente sfruttati per abbellire la linea melodica o addirittura per improvvisare sulla frase musicale originale.
Inoltre, bisogna tener presente che questo 'boom' settecentesco del virtuosismo canoro era legato all'istituzione, che già datava dal secolo precedente, del
castrato. Da un lato, la fortuna dei castrati derivava sia dalla carenza di voci femminili sia dal fatto che per molto tempo, specialmente a Roma, fu vietato alle donne di esibirsi in teatro; dall'altro, è da sottolineare che le loro 'voci bianche' erano più potenti e flessibili di quelle femminili e mantenevano intatte le loro qualità per un tempo molto più lungo. Qualcuno ha raffrontato la posizione del virtuoso di canto nel Settecento con quella del pianista dell'Ottocento e del direttore d'orchestra nel Novecento. Fra i castrati più famosi furono Francesco Bernardi, detto il Senesino (1680 ca. -1750 ca.), Carlo Broschi, detto Farinelli (1705-1782), Gaetano Majorano, detto Caffarelli (1710-1783), Gioachino Conti, detto Gizziello (1714-1761), Gaspare Pacchierotti (1740-1821), Gerolamo Crescentini (1762-1846). Nella cappella pontificia, i cantanti castrati sopravvissero fino al pontificato di Pio X, il quale ne decretò l'abolizione nel 1903: nella seconda metà dell'Ottocento i più famosi furono Domenico Mustafa (1829-1912) e Alessandro Moreschi (1858-1922), del quale rimangono circa dieci dischi, incisi nel 1902 e 1903.
La richiesta di musica nuova da parte del pubblico settecentesco fu enorme, e questo spiega la grande prolificità dei compositori dell'epoca, che ovviamente andava a scapito della qualità. Questo potrebbe spiegare, almeno in parte, la nascita dei cosiddetti 'pasticci', opere in cui il compositore usava spregiudicatamente materiali vecchi e nuovi e opere alla cui composizione partecipavano vari autori con musiche personali. Esempi famosi di questi pasticci sono Muzio Scevola (1721), in tre atti, scritti rispettivamente da F. Mattei, G. B. Bononcini e Händel; Giunio Bruto (1709), di C. F. Cesarini, A. Caldara, A. Scarlatti; l'oratorio L'onestà combattuta di Sara o Sara in Egitto (1708), con musica di ventiquattro autori diversi fra cui A. Scarlatti, D. Zipoli, F. Veracini, F. Gasparini, A. Caldara.

2. L'opera buffa

L'opera buffa fu certamente di matrice italiana, e Napoli fu la città dove questo nuovo genere si sviluppò con una fecondità particolare, anche se non bisogna sottovalutare l'apporto dato da Venezia. Proprio a Napoli si fa generalmente risalire il luogo di nascita del genere, con La Cilla di M. Faggioli (1706) e Patro' Calienno de la Costa di A. Orefice (1709), opere entrambe perdute.
È bene precisare che i compositori delle più riuscite opere buffe erano gli stessi che si cimentavano nel genere serio; in pratica, però, ogni aspetto dell'opera buffa era in antitesi con quelli dell'opera seria. L'opera seria era il teatro degli eroi mitologici e della storia greco-romana, mentre l'opera buffa metteva in scena la borghesia e il popolo contemporanei, rappresentati nei momenti più reali del vivere quotidiano con uno stile vocale, soprattutto agli inizi, semplice e non infiorettato da virtuosismi belcantistici. Gli evirati, tra l'altro, non erano nemmeno accolti nell'opera buffa, tranne i casi in cui le disposizioni locali vietavano alle donne il palcoscenico. L'opera buffa tendeva più all'azione che all'espressione lirica, e questo portò a conseguenze musicali decisive per la sua stessa struttura: il dialogo fu reso più rapido, quasi parlato, con la riduzione del recitativo a recitativo secco (non accompagnato da strumenti); l'accrescersi della dialettica fra i personaggi portò ad accogliere insieme alle arie, fondamento dell'opera seria, pezzi d'insieme che acquisffirono sempre più importanza soprattutto nei finali dell'opera. Nella seconda metà del secolo emerse poi la funzione dell'orchestra, come portatrice dell'idea musicale; finalmente, il contenuto realistico e la rinuncia agli evirati portarono a un'incipiente distinzione dei caratteri drammatici sulla base della vocalità: nell'opera buffa il basso, il tenore, il soprano, il mezzosoprano rappresentano la psicologia del personaggio e ad ogni voce corrisponde, generalmente, un ruolo preciso.

La funzione storica dell'opera buffa, che consiste nell'annettere progressivamente alla sua poetica fondata sull'azione e sui caratteri psicologici i più vari assunti sentimentali, togliendo con ciò il terreno sotto i piedi all'opera seria, si svela compiutamente nei due massimi capolavori italiani di W. A. Mozart, entrambi su testo di L. Da Ponte: Le Nozze di Figaro (1786) e Don Giovanni (1787); nei quali ogni elemento stilistico e formale appartiene alla tradizione del genere, e tuttavia tutti sono trascesi sul piano incomparabilmente più alto della grande commedia, ricca di implicazioni drammatiche, con largo uso di personaggi e forme desunti dall'opera seria. Una gamma espressiva illimitata si compone in queste opere in una dialettica infallibile di contrasti e rispondenze, a caratterizzare situazioni e personaggi d'ogni genere. [F. D'Amico].

3. L'opera in Italia, Inghilterra e Francia

Delineati i caratteri generali dell'opera seria e buffa del Settecento, ci accingiamo ora a districarci nell'immenso patrimonio italiano del genere, per l'esplorazione del quale occorrerebbero

l
avori di équipe, un preciso, capillare schema di ricerca, un'intesa disciplinata, una seria organizzazione onde evitare sprechi di tempo e di energie; un'istituzione, meglio se statale, che abbia l'autorità di suddividere con raziocinio determinati incarichi da affidare a specialisti versati e dotati in particolari discipline [mentre in Italia] esiste un'inflazione di parole scritte su libri, riviste, giornali, relazioni, cataloghi ed elenchi, o pronunciate in seminari, congressi e convegni ma, fatta eccezione per qualche isolato, coraggioso editore, questa musica non si pubblica [...]. È necessario che lo Stato, finanziatore di numerose attività teatrali e concertistiche, e non certo tutte indispensabili, provveda a beneficiare (meglio creandola in proprio) un'editoria che riporti nel mondo, testimoniandole con musica stampata, le glorie dei nostri musicisti del passato. [L. Bettarini].

Gli autori che costituiscono questo patrimonio sono tanti: ci sono quelli bravi, quelli da non dimenticare comunque, e quelli giustamente da dimenticare. Più è vasto un patrimonio musicale, più è facile trovare qualche capolavoro in mezzo a grattacieli di routine. Compositori tradizionali e conservatori furono Nicola Antonio Giacinto Porpora (1686-1768), Francesco Feo (1691-1761) e Leonardo Leo (1694-1744): validi musicisti apprezzati dai contemporanei fino a quando ebbe successo in Italia e in Europa l'opera metastasiana, costituita da una serie di arie e priva di una vera azione drammatica, che cessò di ricevere i favori del pubblico con l'affermarsi della nuova opera napoletana. Più attenti alle novità portate dall'opera buffa e assimilate dall'opera seria furono
Leonardo Vinci (ca. 1690-1730) e Johann Adolf Hasse (1699-1783). Molti fanno coincidere l'inizio della scuola napoletana proprio con Vinci. Autore di opere serie e di commedie dialettali, trasmise gli effetti della canzone popolare all'aria dell'opera: l'importanza di questo autore consiste soprattutto nella sua abilità di trasformare in melodia «non solo il contenuto, la forma e la struttura del verso nel complesso, ma tutte le finezze del contenuto e della declamazione». Le sue commedie dialettali, rappresentate sempre con grande successo al Teatro dei Fiorentini di Napoli, sono andate tutte perdute tranne Li zite 'ngalera (Gli sposi sulla nave): riportata sulle scene alcuni anni fa, ha messo in luce la convivenza strana e stimolante di elementi buffi con elementi seri.
Hasse, compositore tedesco noto in Italia come «il caro Sassone», prolifico e versatile, incentrò la sua produzione sull'opera seria italiana. Gli dettero fama «l'eleganza, l'appropriatezza e il gusto fine che manifestava la sua produzione». Assai legato ai testi del Metastasio, del quale mise in musica praticamente tutti i drammi, Hasse si inseri perfettamente nel contesto dell'opera italiana, un po' come Lulli nell'opera francese; sposò il celebre contralto Faustina Bordoni, allieva di Benedetto Marcello e di Francesco Gasparini all'Ospedale della Pietà a Venezia. Caratteristica del suo migliore comporre sono le melodie sostenute da strutture tonali semplici e da un accompagnamento strumentale trasparente: in tal modo al centro dell'attenzione rimane costantemente la linea vocale. Autore anche di oratori, cantate, mottetti ecc., Hasse compose oltre settanta lavori teatrali: ricordiamo solo l'intermezzo Rimario e Grillantea, riproposto alcuni anni fa.
Con
Niccolò Jommellj (1714-1774) la figura del compositore si attesta su nuove conquiste, tutte a beneficio della storia del melodramma. Il musicista non si limita a tradurre «in termini sonori» il «meccanismo librettistico», ma diviene più responsabile creatore della stessa opera, in quanto è lui a decidere di dare rilievo o meno ad una scena piuttosto che ad un'altra: «in questo modo la declamazione trova con Jommelli, e laddove egli lo ritiene opportuno, accentuazioni inedite, anche cercando di rilanciare la pratica dell'arioso e di sviluppare dal corpo strumentale le energie di cui è capace». [R. Zanetti]. Nell'impegno di migliorare entrambe le componenti del melodramma (realismo del dramma e qualità della musica), Jommelli si giovò delle esperienze sinfoniche della Scuola di Mannheim (specialmente di J. V. A. Stamic e di Christian Cannabich) e di quelle della tragédie-lirique dell'opera francese contemporanea, accentrata intorno alla forte personalità di Rameau. Nello sviluppo delle scene solistiche, nelle quali trova maggior approfondimento l'analisi psicologica dei personaggi, e nella ricerca di coloriti orchestrali che meglio rendano il senso del dramma, Jommelli sembra intuire la possibilità di allontanarsi dalle convenzionalità del dramma eroico per addentrarsi negli aspetti più complessi di una moderna tragedia. Didone abbandonata, Fetonte, Clemenza di Tito, Armida abbandonata, Il trionfo di Clelia, sono solo alcuni titoli della sua abbondantissima produzione teatrale, della quale è difficile tenere l'esatto conto giacché Jommelli spesso riscriveva le proprie opere.
I lavori teatrali di
Tommaso Traetta (1727-1779) vengono spesso indicati come opere di avanguardia rispetto alla produzione del Settecento italiano, e lo stesso compositore è a volte accomunato a Gluck nell'aver contribuito alla famosa 'riforma' dell'opera, nonché accostato a Mozart per il linguaggio della sua produzione meno tradizionale. Più realisticamente, Traetta, «musicista dalla grande linea melodica e dall'ardita concezione armonica» in questo ipotetico tentativo di riforma poté avvalersi della collaborazione di un moderno poeta e drammaturgo quale Marco Coltellini (la figlia, Celeste, fu una famosa cantante per la quale Mozart compose un quartetto e un terzetto inseriti nell'opera La villanella rapita di Francesco Bianchi).

Le architetture del Coltellini, larghe e unitarie, e lo spiccato senso di differenziazione ch'egli conferiva, nei suoi drammi, ai vari piani agogici in svolgimento simultaneo o quasi, poterono trovare una adeguata estrinsecazione nei vasti piani tonali di Traetta e nelle diverse sfumature di pathos con cui questi attuava i richiami tematici. [A. Bossarelli-Mondolfi].

Ifigenia in Tauride, riproposta anche recentemente, è forse il lavoro che meglio rispecchia le migliori qualità del compositore pugliese.
Senza lasciare nella penna i nomi di musicisti di valore quali Gianfrancesco De Maio (1732-1770), Antonio Sacchini (1730-1786) e Antonio Salieri (1750-1825), che sono da inserire nella strada presa dall'opera seria, è comunque a Jommelli e Traetta che sono dovuti i maggiori progressi verso l'organicità della concezione drammatica del melodramma. Essi attenuarono il netto contrasto fra recitativo secco e aria, sostituendo spesso al 'secco' il recitativo accompagnato espressivo, inserendo talvolta recitativi nelle arie e trasformandone variamente lo schema. Inoltre, nelle loro opere introdussero cori drammatici, concertati e ampi brani strumentali anch'essi in funzione del dramma, senza allineare questi pezzi, alla vecchia maniera, «sul filo di un arido recitativo secco», ma riunendoli in grandi scene drammatiche mediante vivaci 'accompagnati'. La crescente autonomia e la raffinatezza dell'orchestra nelle arie, nei recitativi accompagnati e nei brani puramente strumentali denotano l'influsso della musica strumentale tedesca. La sinfonia iniziale, finallora considerata un brano strumentale indipendente, fu posta tematicamente in rapporto con l'opera o fu fatta confluire nella prima scena dell'opera stessa.
Nell'ambito dell'opera buffa le raffinate caratterizzazioni dei personaggi, l'attenzione dei compositori ai tipi e alla loro individuazione, favorita anche dai libretti di Goldoni, verranno affiancate da un nuovo elemento: il sentimento. «L'elemento buffo si disposa con quello patetico e affettuoso, una malinconia che preannuncia il romanticismo, tempera e ingentilisce la comicità farsesca.» [Mila]. I compositori che arricchirono questo genere di autentici capolavori furono Pergolesi, Piccinni, Galuppi, Paisiello, Cimarosa.
Il vero cognome di
Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) era Draghi. Solo di recente, distinguendo fra opere vere e falsamente attribuite, si è giunti a porre ordine nella produzione musicale di Pergolesi, con un programma di edizione critica dell'opera omnia in diciotto volumi. Ma fintanto che tale lavoro non sarà disponibile, per poter effettuare un giudizio complessivo sull'arte, la fama, e i meriti di Pergolesi, ci si può basare su ben pochi titoli: alcune opere serie, le semiserie Lo frate 'nnamurato e Il Flaminio (dal quale Strawinski trasse molti temi per il suo balletto Pulcinella), gli intermezzi La serva padrona e Livietta e Tracollo, lo Stabat Mater, capolavoro della musica sacra del Settecento.
L'eleganza della scrittura musicale, la vivacità della melodia e la finissima caratterizzazione dei personaggi sono alla base della validità artistica de La serva padrona, forse l'intermezzo più famoso del repertorio napoletano (l'intermezzo era un pezzo comico destinato appunto a fare da intermezzo fra gli atti di un'opera seria). La purezza dello stile e la vivacità della scrittura caratterizzano del resto tutti i lavori citati, la cui vitalità è attestata da una continua ripresa in tempi odierni:

La musica del Pergolesi, per altro, appare di particolare interesse perché, nell'impianto tradizionale dell'epoca, si evidenziano alcuni passaggi chiaramente dissonanti che sembra fossero dei momenti sperimentali introdotti dall'autore proteso nella ricerca di una musica nuova e più avanzata e che fanno fantasticare sino a che punto sarebbe potuto giungere il genio marchigiano se non fosse morto così giovane. [D. Tieri].

Niccolò Piccinni (1728-1800) fu al centro di una famosa sfida artistica svoltasi a Parigi: sostenitori dell'opera italiana contro sostenitori della riforma di Gluck. In realtà, dietro la questione estetica le musicale vi erano contrasti di interessi estranei al mondo dell'arte. Nella storia dell'opera comica ha un peso fondamentale La Cecchina ossia La buona figliola: oltre all'abilità con cui sono scolpiti i contrasti fra i personaggi, possiamo dire che da questo lavoro prende le mosse la ècomédie larmoyanteè, ovvero l'opera comica di fine Settecento, di stile patetico e sentimentale. Di Piccinni sono state recentemente riproposte Il cavaliere per amore e Ifigenia in Tauride, l'opera che avrebbe dovuto sfidare l'omonimo lavoro di Gluck.
Con
Baldassarre Galuppi (1706-1785) si afferma l'opera comica veneziana, alternativa alla moda napoletana. Il Buranello (Galuppi era nato nell'isola di Burano) era già famoso intorno alla metà del secolo come compositore di opere serie. Si accostò all'opera comica in un primo momento rielaborando i drammi giocosi di Gaetano Latilla (1711-1788) e Rinaldo da Capua (ca. 1710-ca. 1780; autore del famoso intermezzo La zingara); poi, con L'Arcadia in Brenta, iniziò la collaborazione con Carlo Goldoni, collaborazione che portò a felici e fecondi risultati artistici. La sua opera buffa più famosa è Il filosofo di campagna: gli elementi più importanti sono la caratterizzazione del personaggio larmoyant e l'elaborazione del concertato «come quadro emblematico della comunità che sta alla base della commedia». Fra le opere scritte su libretto di Goldoni sono da ricordare Il mondo della luna, Il paese della cuccagna, Il mondo alla roversa.
Prolifico autore di opere serie, di musica vocale sacra, di varia musica strumentale (fra cui otto splendidi concerti per pianoforte e orchestra), la genialità del tarantino
Giovanni Paisiello (1740-1816) eccelse particolarmente nell'opera buffa. Il Socrate immaginario, classico esempio, riuscitissimo, di parodia della letteratura operistica, è tra l'altro una satira delle riforme introdotte da Gluck; al Barbiere di Siviglia, che venne poi messo in disparte dopo l'apparire dell'omonima opera di Rossini, si deve comunque riconoscere la squisitezza delle melodie, la fattura elegante, la perfezione dell'equilibrio; lo splendore degli 'insieme' e la formula dei 'crescendo', che prelude proprio quella che rimarrà famosa in Rossini, caratterizzano Il re Teodoro in Venezia. Ma forse, nel genere dell'opera buffa, il capolavoro di Paisiello rimane Nina o sia La pazza per amore, in cui egli

estese i confini dell'opera comica tradizionale fino a comprendervi un certo sentimentalismo e un'atmosfera pastorale a scapito delle situazioni tipiche della 'commedia', seguendo il filone iniziato da Piccinni nel 1760 con la sua Buona figliola. La partitura è immersa in un clima patetico e melanconico piuttosto raro nell'opera del XVIII secolo, e prelude, con la sua scena della pazzia e l'uso espressivo dei corni e dei fiati, alla Sonnambula di Bellini e alla Linda di Chamounix di Donizetti. [D. Di Chiera].

La famosa aria di Nina, «Il mio ben quando verrà», fu uno dei brani preferiti dalle cantanti, da Celeste Coltellini, che ne fu la prima interprete, a Isabella Colbran e Giuditta Pasta, fino, ai giorni nostri, a Graziella Sciutti e Teresa Berganza.
La strada dell'acquisizione del sentimento nell'opera buffa, iniziata da Piccinni,
continuata da Galuppi e Paisiello, prima di compiersi definitivamente con Le nozze di Figaro e Don Giovanni di Mozart, giunge ai culmine con
Domenico Cimarosa (1749-1801). Autore fecondissimo di oltre settanta melodrammi, di varia musica vocale sacra e profana, di musica strumentale (fra cui circa novanta sonate per forte-piano), la sua fama rimane tuttora legata a quello che è considerato il suo capolavoro: Il matrimonio segreto, l'unica sua opera ancora in repertorio internazionale, a parte sporadiche riprese de Le astuzie femminili. Ma molta musica di Cimarosa è ancora dispersa nelle biblioteche europee (recentemente è stata rinvenuta l'operina Amor rende sagace, considerata perduta). Il matrimonio segreto è considerato il modello dell'opera comica settecentesca: a farne un esempio di perfezione sono l'equilibrio e la simmetria, l '«esemplare trattazione» di terzetti e quartetti, il grande amore per i personaggi, appena attenuato da un velo di ironia;

priva di punti morti, con arie (in particolare quella famosissima di Paolino) e pezzi d'insieme, che non soffocano la struttura complessiva, [...] si presenta con un'unitarietà quasi unica nel XVIII secolo (forse con la sola eccezione di Mozart). L. Gherardi].

4. La riforma di Gluck

Nel parlare dell'opera settecentesca italiana abbiamo più volte accennato alla cosiddetta 'riforma del melodramma' operata da Gluck. Ma bisogna intendersi. Tenendo sempre ben presente che qualsiasi cosiddetta riforma, specialmente nel campo dell'arte, non nasce nell'arco di tempo di un sorgere e calar del sole, dobbiamo costantemente ricordare che il melodramma non è fatto solo di musica ma di musica e di dramma, ovvero musica e azione scenica. La costituzione stessa dell'opera quindi, sostenuta dalle note musicali e dalle parole, ha fatto sì che nel corso dei secoli alternativamente abbiano prevalso le une o le altre (la fusione totale di poesia, musica e scena, raggiunta da Wagner, è per ora ancora lontana), cosicché quando la parola prendeva il sopravvento c'era chi riformava l'opera a favore della musica, e quando il virtuosismo musicale schiacciava il significato della parola c'era chi riformava l'opera a favore di questa. Con tali sintetici assiomi, naturalmente, non vogliamo affatto sminuire l'importanza di Gluck nella storia del melodramma, anche perché i risultati artistici conseguiti dal musicista bavarese furono di ben altro peso che non l'aver semplicemente restituito al dramma la parte che gli spettava nell'insieme del contesto di quel genere musicale.
La riforma di Christoph Willibald Gluck (1714-1787) è espressione della logica dei razionalismo settecentesco. Ecome in altri casi (Traetta e Coltellini, Galuppi e Goldoni, Verdi e Piave) decisivo fu l'incontro con un librettista-poeta che aveva sposato le stesse idee dei compositore. Nel livornese Ranieri de' Calzabigi (1714-1795) Gluck trovò un artista che, animato dagli stessi ideali, contribuì a dare un indirizzo preciso alla sua riforma operistica. Nelle prefazioni delle opere Alceste (1767) e Paride ed Elena (1770), scritte appunto in collaborazione con Calzabigi, Gluck espone i princìpi estetici della riforma: «la composizione al servizio dell'idea drammatica, l'approfondimento psicologico del recitativo mediante la rinuncia al recitativo secco, il restauro della scena corale nel senso della tragedia antica, e la concezione dell'ouverture come prologo dell'azione». E a questo punto lasciamo alla limpidissima penna di Dieter Lehmann il compito di riassumere l'importanza'll Gluck nel campo teatrale:

Rinnovatore dell'opera seria nel segno della verità espressiva, della semplicità e dell'unità drammatica, egli è nel XVIII secolo l'esimio rappresentante musicale del neoclassicismo ideale di bellezza, teorizzato nell'arte figurativa da J. J. Winckelmann e da G. E. Lessing, ed è insieme il primo musicista tedesco che abbia impresso al teatro d'opera un impulso di portata europea. Con Calzabigi tratta nelle sue opere argomenti di grandezza classica, e ritorna in vita grazie a lui l'ideale che aveva animato gli iniziatori dell'opera (Jacopo Peri e Monteverdi): la rappresentazione cioè del pathos universale e degli avvenimenti che avevano costituito l'essenza della tragedia classica antica, in un'opera d'arte alla quale concorrono in pari grado parola, suono, mimica e azione drammatica. Da questa concezione derivano naturalmente i caratteri musicali del suo teatro: subordinazione della musica all'espressione drammatica - cioè la musica intesa al servizio del dramma -, esatta visione musicale dei personaggi, chiarezza di declamazione, restituzione al coro della funzione che aveva nel dramma antico, compenetrazione psicologica del recitativo e conseguente limitazione del recitativo secco, introduzione della danza e della pantomima come mezzi di espressione drammatica nell'azione, arricchimento della tavolozza orchestrale, l'ouverture, intesa come introduzione tematica e psicologica di tutta l'opera. I principi riformistici di Gluck stanno in stretta relazione con l'estetica operistica di F. Algarotti e con i tentativi compiuti da T. Traetta alla corte di Parma.

Compositore anche di musica vocale sacra e profana e di musica strumentale, fra le opere di Gluck ricordiamo ancora Orfeo ed Euridice, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauride.

5. In Inghilterra

In Inghilterra i vari tentativi per porre le basi di un'opera nazionale non ebbero successo: il motivo principale potrebbe essere la mancanza di un musicista di statura veramente geniale. In questo periodo i compositori inglesi, fra i quali il migliore fu Thomas Augustine Arne (1710-1778), seguivano i modelli musicali italiani tentando nello stesso tempo di rappresentare vicende più credibili e di ricorrere alla lingua inglese e a cantanti inglesi. La 'comic opera' fu un altro tentativo di alternativa all'opera seria italiana: rappresentazione essenzialmente parlata, con dei songs, si distingueva dalla 'ballad opera' poiché spesso la musica della comic opera era composta appositamente per il testo e non faceva uso di motivi popolari preesistenti. L'unico compositore di un certo talento che verso la fine del secolo XVIII scrisse per il teatro lirico inglese fu Stephen Storace (1762-1796).

6. In Francia

Dopo la morte di Rameau il Settecento operistico francese è rappresentato dall'opéra-comique di Philidor, Monsigny, Grétry, Dalayrac.
Tipico rappresentante della scuola francese fu François André Philidor (1726-1795), il più famoso di una numerosa famiglia di musicisti. Non citiamo nessuno dei suoi lavori teatrali, ma diamo come notizia di ambientazione storica il fatto che collaborò alla messa a punto dell'opera-balletto Les Muses galantes, la cui musica era stata scritta da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778): forse non tutti sanno che il filosofo e scrittore francese fu anche compositore.
Pierre Alexandre Monsigny (1729-1817) passò dal vaudeville alla comédie à ariettes e infine all'opéra-comique: fu tra i creatori della commedia lirica francese e, come detto, rimane nell'ambito stilistico di Philidor e Grétry, pur se in alcuni coloriti strumentali si assaporano tinte preromantiche.
Musicista di maggior talento, per il senso della melodia e del ritmo, per l'istinto teatrale e la sicurezza nel centrare la caratterizzazione dei personaggi, fu André Ernest Modeste Grétry (1741-1813): alcuni lavori della sua abbondantissima produzione rimasero in repertorio anche nell'Ottocento.
Nicolas Marie Dalayrac (1753-1809) seguì le orme di Grétry. Fecondo compositore, fra i maggiori rappresentanti, con i precedenti, dell'opéracomique, ebbe la fortuna di veder durare la popolarità di alcuni suoi lavori in virtù di un'abile strumentazione e di una ispirazione fresca e vivace.

7. I teatri di Roma

Lo sviluppo in Italia del melodramma, tra il XVII e il XVIII secolo, fu naturalmente favorito dall'istituzione di numerosissimi teatri.
Nell'arco di tempo in questione, Roma fu la città in cui più che altrove proliferarono i teatri pubblici. Per avere un'idea del fenomeno basti pensare che, in alcuni periodi, ne furono attivi contemporaneamente ben trentatré, un numero davvero straordinario per una città che contava allora meno di duecentomila abitanti. Per non parlare, poi, delle decine e deciie di chiese che agivano con una propria cappella musicale, delle case private dell'aristocrazia, degli oratori, delle sale dei collegi.., ma questo sarebbe un altro discorso musicale.
Per una particolare condizione politico-culturale, però, i teatri pubblici nacquero a Roma solo nella seconda metà del XVII secolo, cioè in ritardo sia rispetto a città come Venezia, sia rispetto alla nascita stessa del melodramma, peraltro fiorente nella città papale fin dai primi decenni del secolo. La presenza della corte papale e di
una folta aristocrazia più o meno a essa legata, unitamente alla disciplina imposta dalla Controriforma (divieto alle donne di presentarsi sulla scena, norme atte ad impedire licenziosità e irriverenze dei testi), ostacolarono in buona parte l'immediato sviluppo dei teatri pubblici, teatri cioè in cui lavorassero attori profesitnisti e fossero aperti a qualsiasi pubblico, purché pagante.

8. Caratteristiche generali dei teatri

La costruzione dei teatri era in legno, un fattore che, se da una parte esponeva gli edifici a frequenti incendi, dall'altra offriva la possibilità di facili e continue modifiche e ristrutturazioni. Le prime costruzioni in muratura sono della fine del XVIII secolo e si completarono intorno alla metà del XIX secolo.
Inizialmente, la forma dell'interno era a "U", ma progressivamente in tutti i teatri si adottò quella a ferro di cavallo, migliore per visibilità e acustica. La platea disponeva originariamente solo di posti in piedi, per accettare poi nel tempo prima le panche di legno e poi le sedie. Gli ordini dei palchi arrivarono fino a sette: il secondo ordine era quello "nobile", in genere riservato all'aristocrazia. In un primo tempo i teatri non avevano nemmeno una vera e propria facciata perché, o almeno così si diceva allora, essendo i teatri mal visti dal Vaticano, rimanevano in tal modo meno in evidenza.
Fino all'avvento del gas prima, e dell'elettricità poi, l'illuminazione era costituita da candele poste fuori dai palchi e sul bordo del palcoscenico, mentre nei corridoi i bracieri davano un po' di calore.
È noto anche il comportamento del pubblico: la confusione era notevole, e chiunque parlava a proprio piacimento; si mangiava e si beveva tranquillamente durante la rappresentazione; i palchi erano considerati alla stregua di salotti per ricevimento; nei teatri non erano rari i rinfreschi e, alle volte, vere e proprie cene, mentre nei palchi c'era anche chi giocava a dadi.
Per un lungo periodo, a Roma le rappresentazioni teatrali coincidettero con il carnevale, che iniziava il 17 gennaio e terminava il martedì prima delle Ceneri. L'inizio fu poi anticipato al 26 Dicembre, e gradualmente si giunse ad avere spettacoli per tutto l'anno, con varie "stagioni" più o meno in uniformità con le stagioni dell'anno.

9. La voce: storia e classificazione

Quando si parla di voci e di vocalità, solitamente l'unica distinzione che si è portati a fare è quella che indirizza le voci o alla musica lirica o alla musica leggera. In realtà, la voce umana si è espressa e si esprime in contesti musicali ben più vasti, che, basta pensarci, vanno dal canto gregoriano ad oggi. In breve rassegna ricordiamo il canto gregoriano, le canzoni di trovatori e trovieri, l'Ars nova, il Rinascimento, la polifonia sacra e profana, il Seicento e la nuova forma musicale del melodramma, il belcanto del Settecento, la grande stagione operistica dell'Ottocento, la liederistica - per finire alle scoperte vocali di questo secolo nell'ambito della musica classica, e poi il blues, lo spiritual, il jazz.
Mancando le condizioni di riproducibilità tecnica, tutto il patrimonio vocale che va dalle origini al XIX secolo è naturalmente affidato alla scrittura musicale, ai testi teorici o, nel caso del gregoriano, al rispetto di una tradizione continuata fino a noi pur tra continue mutazioni. E dunque non avremo mai la certezza completa del modo in cui un trovatore intonasse la sua canzone, o di come venissero eseguite altre forme musicali: in nessun caso abbiamo le condizioni per essere sicuri di riprodurre oggi, con esattezza, quanto avveniva allora.
Nel gregoriano possiamo rilevare un tipo di canto completamente sillabico con intervalli ristretti e un altro di tipo ornato, con intervalli larghi più frequenti: possiamo ipotizzare che il primo tipo fosse eseguito dai fedeli e il secondo dai cori istruiti nelle Scholae cantorum.
Dalle musiche trobadoriche giunte fino a noi notiamo che l'estensione richiesta alla voce per l'esecuzione non supera mai l'intervallo di un'ottava, il che potrebbe far presuppone l'uso di una voce senza cambi di registro e uguale per colore e per timbro per tutta l'estensione.
Per quanto riguarda la polifonia sacra, sappiamo del divieto di far cantare le donne: le voci quindi del superius e dell'altus (in termini moderni: soprano e contralto) venivano affidate a pueri cantores e a uomini falsettisti.
Nel Cinquecento, le voci si differenziano più per la diversa altezza del registro che per il colore; nel Seicento, con l'avvento del "recitar cantando", la voce, facendosi portatrice di concetti, tende ad esprimere il sentimento delle parole.
La vocalità belcantistica esplode nel Settecento. La necessità di affidare ad uomini le parti femminili operistiche - sempre per quel divieto che proibiva alle donne di calcare i palcoscenici - dette luogo all'affermazione dei castrati. Sicuramente il successo dei castrati dipese dalle loro capacità vocali straordinarie: talvolta potevano abbracciare l'estensione di tre ottave, coprendo così tutti e quattro i registri della voce umana (soprano, contralto, tenore e basso), e avevano capacità polmonari di tale ampiezza da poter esprimere agilità e potenza superiori a quelle della voce femminile. I castrati più famosi del tempo furono Carlo Broschi (detto Farinello o Farinelli), Baldassarre Ferri, Gaspare Pacchierotti, Gerolamo Crescentini. L'epoca dei castrati si chiuse con il Romanticismo, nel cui melodramma la caratterizzazione di personaggi era basata sulla contrapposizione fra carattere maschile e carattere femminile.