I dizionari Baldini&Castoldi

Re Teodoro in Venezia, Il di Giovanni Paisiello (1740-1816)
1ibretto di Giovanni Battista Casti

Dramma eroicomico in due atti

Prima:
Vienna, Burgtheater, 23 agosto 1784

Personaggi:
Teodoro (B), Gaforio (T), Acmet III (B), Taddeo (B), Lisetta (S), Sandrino (T), Belisa (S), il messer grande (B); donzelle, gondolieri



Grande appassionato di musica, Giuseppe II conosceva e ammirava le opere di Paisiello, fin da quando, nel 1769, aveva ascoltato a Napoli ? L’idolo cinese , rappresentato in suo onore al teatrino di corte di Palazzo reale. È molto probabile che negli anni Settanta abbia ascoltato i diversi lavori del maestro tarantino arrivati fino a Vienna. Nel 1780, poi, un’altra visita di stato, questa volta in Russia, gli offrì l’opportunità di conoscere I filosofi immaginari diretto dallo stesso Paisiello, allora al servizio della grande Caterina. Tanto gli piacque l’opera, che più tardi la fece tradurre in tedesco e rappresentare a Vienna (nel 1781: erano gli anni in cui l’opera italiana era stata momentaneamente spodestata a favore del Singspiel ). Quando Paisiello lasciò la Russia per tornarsene a Napoli, e si trovò così a passare per Vienna, l’imperatore non si lasciò sfuggire l’occasione di avere da lui un’opera nuova per la compagnia di canto italiana recentemente ricostituita. A quell’epoca si trovava a Vienna l’abate Casti, una delle penne più taglienti dell’illuminismo internazionale; incaricato di fornire il libretto a Paisiello, egli scelse di portare sul palcoscenico un personaggio realmente vissuto: l’avventuriero tedesco Teodoro di Neuhoff, che circa mezzo secolo prima si era posto a capo di una rivolta dei Corsi contro Genova e nel 1736 era riuscito a farsi incoronare re di Corsica con il nome di Teodoro I, salvo dover fuggire dopo pochi mesi. Falliti due successivi tentativi di recuperare il trono, si era rifugiato in Inghilterra, dove aveva conosciuto il carcere per debiti ed era morto in miseria nel 1756. Nel 1741 si era diffusa la voce di una sua presenza a Venezia in incognito. Carlo Goldoni, che tra i tanti mestieri fece anche quello di console per la repubblica di Genova, fu incaricato di rintracciarlo e farlo uccidere a tradimento. Naturalmente l’ingrato compito gli fu risparmiato, perché dell’ex sovrano non si trovò traccia. La leggenda di Teodoro a Venezia fu comunque raccolta da Voltaire, che nel capitolo XXVI di Candide immaginò la cena di sei re detronizzati giunti sulla laguna durante il carnevale. Per sua stessa ammissione, in una lettera del 1784 Casti riconosce di aver preso spunto proprio dal conte voltairiano – anche se sarebbe improprio parlare di un libretto tratto da Candide , poiché il nucleo originario della cena viene dilatato fino a formare una trama in sé compiuta. La molla della vicenda è l’interesse amoroso di Teodoro per la figlia del locandiere, Lisetta. Quest’ultima ama il mercante Sandrino, ma credendolo a torto infedele accetta la corte di Teodoro, allettata anche dall’idea di diventare regina. Forzando la realtà storica, Casti fa finire Teodoro in prigione già a Venezia (su denuncia del geloso Sandrino) e non a Londra. Tutti i personaggi vanno a trovarlo e proclamano la morale della storia: «Come una ruota è il mondo/ chi in cima sta, chi in fondo/ e chi era in fondo prima/ poscia ritorna in cima»; fino all’ultima disincantata affermazione: «felice chi tra i vortici/ tranquillo può restar», alla quale si ispirerà Da Ponte nel finale di Così fan tutte . I debiti di Teodoro sono in realtà i veri protagonisti di una commedia fortemente radicata nella realtà sociale del Settecento e ricca di allusioni al commercio internazionale, a cambiali e titoli di banca. Pare poi che, con la figura di Teodoro, Casti volesse alludere a re Gustavo III di Svezia, le cui manie di grandezza non sostenute da entrate adeguate egli aveva già deriso nel Poema tartaro , scritto in Russia e completato nel 1783.

Pur presentando notevoli elementi di originalità rispetto alle convenzioni dell’opera buffa, il libretto ripercorre alcuni luoghi comuni tradizionali, primo fra tutti la parodia dell’opera seria, quale si trova nell’aria di Teodoro “Io re sono e sono amante”, dove l’ incipit di stampo metastasiano (imita l’aria celeberrima della Didone abbandonata , “Son regina e sono amante”) viene contraddetto dallo scivolamento successivo verso i toni comico-realistici; e più avanti, nell’aria-racconto “Non era ancora sorta l’aurora”, che rievoca l’apparizione dello spettro raffigurante il debito e fa il verso alle ‘arie d’ombra’ della tradizione seria. Una simile presa in giro del sublime melodrammatico giustifica l’appellativo di ‘eroicomico’ attribuito da Casti al dramma. Paisiello si limita per lo più a un’intonazione di stampo eroico, lasciando che il ridicolo emerga dal contrasto tra musica e situazione teatrale, sebbene qualche passo in sillabato buffo, e l’accompagnamento strumentale ammiccante accentuino a tratti l’effetto caricaturale. Anche il personaggio di Acmet, sultano spodestato, suscita il riso con la sua pompa vuota, felicemente sottolineata dalla musica. Le punte più acute di comicità sono però concentrate nella parte del locandiere Taddeo, smanioso di nobilitarsi grazie al matrimonio regale della figlia. Oltre alla sua esilarante comparsa nel secondo atto, in divisa da generale e al suono di una marcia, merita una citazione l’aria “Che ne dici tu Taddeo?”, una girandola di motivi nel più schietto stile buffo. L’interpretazione del grande basso comico Francesco Benucci (il primo Figaro mozartiano della storia) suscitò alla ‘prima’ un entusiasmo tale che l’aria dovette essere bissata. All’elemento buffo Paisiello affianca una vena di tenera soavità (cori di donzelle e di gondolieri, qualche episodio polifonico nei concertati) e persino di malinconia nella scena del carcere, accompagnata da morbide figurazioni del clarinetto solo. L’opera dovette però la sua fortuna europea soprattutto ai concertati e ai finali d’atto, che occupano uno spazio molto consistente all’interno della partitura (si pensi che le dimensioni di ognuno dei due finali rappresentano circa un terzo dell’intero atto). Paisiello aveva sempre attribuito grande importanza ai concertati d’azione, e nel Re Teodoro si avvalse di un’esperienza ormai ventennale in questo campo. Nel finale primo, ad esempio, la piccola commedia degli equivoci e dei riconoscimenti incrociati tra i diversi personaggi – presenti sotto falso nome nella locanda – è realizzata con infallibile vis comica , sfruttando al meglio i pirotecnici giochi di parole predisposti da Casti con fini dissacratori. Il grandioso settimino conclusivo (“Che sussurro, che bisbiglio”), dall’estensione di oltre duecento battute, costituisce poi un esempio tra i più entusiasmanti di quello sfrenato vitalismo che Paisiello è solito suscitare con le sue ‘strette’ polifoniche (e lo stesso si può dire del sestetto “Come una ruota è il mondo”, in forma di canone, con cui l’opera si conclude).

Il Re Teodoro incontrò grande favore a Vienna, ma l’anno dopo a Napoli non ebbe lo stesso successo (sebbene su questo punto le testimonianze siano controverse); conobbe comunque una vasta circolazione in tutta Europa (anche in traduzione tedesca e francese), come comprova la ragguardevole messe di stampe e manoscritti pervenutaci. La prima ripresa moderna avvenne a Roma nel 1965, sotto la direzione di Renato Fasano e con Sesto Bruscantini nella parte del protagonista.

f.b.

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