GIOVANNI CARLI BALLOLA

ANTONIO SALIERI

UTET I -
VOL. I, 2 121-128

con integrazioni da

UTET II

VOL. II, 233-240
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A metà strada dell'esperienza francese di Piccinni e di Sacchini si colloca il singolare «caso» de Les Danaïdes: un'altra tragédie-lyrique d'un terzo operista italiano, questa volta di estrazione non napoletana e appartenente alla generazione immediatamente successiva a quella dei suoi due competitori già francesizzati. Senza precedenti e assai indicativo, oltre che degli orientamenti estetici, della formazione e del carattere del nostro personaggio, è il modo col quale egli tentò le proprie fortune sulle scene parigine, più che mai roventi pei casi della querelle célèbre: non come competitore di Gluck, secondo quanto era avvenuto, loro malgrado, per Piccinni

e Sacchini, ma come devoto seguace di quell'uomo autoritario e potente. Nel 1784 Antonio Salieri contava trentaquattro anni e una carriera operistica di livello complessivamente mediocre, per nulla paragonabile ai geniali exploits dei quasi coetanei Paisiello e Cimarosa. Pochi esordi, peraltro, potrebbero dirsi favoriti da più benigne congiunture d'astri. Allievo e protetto, a Vienna, di Florian Gassmann, come prima, a Venezia, di Giovan Battista Pescetti e dei più bei nomi del patriziato, nella sua nuova patria elettiva Salieri si era trovato prestissimo introdotto nella cerchia di quanti detenevano il potere musicale: Metastasio, Gluck, Giuseppe Scarlatti, Bonno, oltre al già ricordato Gassmann, e ne aveva largamente fruito dei favori; aiutato in ciò dal carattere duttile del «carrierista» nato e dall'ingegno vigile e riflessivo, più incline a captare e ad assimilare disparate suggestioni che ad imporsi con la forza spontanea di una inconfondibile individualità.
Nell'ambito di un gradevole e generico decoro vive la prima produzione di genere comico, per lo più destinata alle scene viennesi, del giovane maestro veneto: Le donne letterate (libretto di Gastone Boccherini e Ranieri Calzabigi, 1770); La fiera di Venezia (libretto di G. Boccherini, 1772); La secchia rapita (libretto di G. Boccherini, 1772); La locandiera (libretto di Domenico Poggi, da Goldoni, 1773); La scuola dei gelosi (libretto di Caterino Mazzolà, Venezia, 1779) e qualche altro titolo, dove gli umori dell'opera buffa italiana di tipo corrente (non ci sembra il caso, per precise ragioni cronologiche e stilistiche, di fare il nome di Galuppi, solitamente tirato in ballo a sproposito quale matrice di una «venezianità» che in Salieri ci sembra più un dato anagrafico che un carattere linguistico-formativo), appaiono depurati della nativa sensualità ed esuberanza e come criticamente rigenerati da una vivida intelligenza analitica, da un'essenziale asciuttezza di tocco, da un'oculata parsimonia di mezzi musicali lontane dalla feracità dei napoletani.
Ancora più indicativi, al proposito, sono i due melodrammi seri di maggior impegno, precedenti l'esordio francese, ossia un'Armida, su testo di Marco Coltellini (Vienna, 1771) e quell'Europa riconosciuta, su libretto d Mattia Verazi, con la quale, il 3 agosto 1778, venne inaugurato il nuovo Teatro di Santa Maria alla Scala in Milano. Entrambe le opere partecipano dell'esperienza gluckiana, ma solo parzialmente: nell'Armida, di gran lunga la migliore, la lezione di Orfeo, di Alceste, di Paride ed Elena (ma anche, ovviamente, di Jommelli,

Traetta, Hasse) si traduce nell'intensificazione del recitativo con strumenti, teso a un drammaticismo per lo più generico, nella concisione dei pezzi chiusi, nella modellatura e funzionalità drammatica degli interventi corali e coreografici, soprattutto nei ricorrenti tentativi descrittivistici che, tra l'altro, suggerirono a Salieri «l'idea di comporre per sinfonia una specie di pantomima» di raffigurazione musicale dell'arrivo di Ubaldo nell'isola incantata e della sua lotta con i mostri postivi a guardia.

*Anche nell'Europa riconosciuta (dove abbondano i recitativi secchi e il più acrobatico e antigluckiano virtuosismo canoro) un'introduzione orchestrale pretende di «imitare» una tempesta nei suoi effetti tanto naturalistici come psicologici; ma, in entrambi i casi, l'impegno contenutistico del compositore appare vanificato dalla pochezza degli esiti musicali.* [MODIFICA]

Con tali precedenti drammatici, non certo paragonabili, anche dal punto di vista pratico, ai successi popolari dei connazionali che lo avevano preceduto, Salieri giunge a Parigi nelle vesti del gluckiano di stretta osservanza. Il suo intento era di mimetizzarsi il più possibile nell'orbita del «maestro» ed egli lo conseguì non solo rivestendo di note un testo drammatico cedutogli da Gluck, ma altresì rinunziando, almeno fino alla dodicesima replica dell'opera (quando, cioè, il suo successo parve assicurato) a figurarne come unico ed esclusivo autore. L'ingarbugliata storia de Les Danaïdes, che ebbe come conseguenza la definitiva rottura tra Calzabigi e Gluck, è quanto mai indicativa del disinvolto costume operistico settecentesco, dove un uomo di potere come l'autore di Alceste e un suo abile cliente come il giovane Salieri non spiccano, nella fattispecie, come coscienze particolarmente scrupolose. Il libretto italiano di quella che sarebbe dovuta essere - e non fu - l'ultima opera gluckiana scritta in collaborazione con Calzabigi, era pronto fin dal 1778; ma il musicista, visto sfumare il progetto di una «scrittura» per Napoli, dove intendeva rappresentare almeno quattro nuove opere, rinunziò a rivestire di note Le Danaidi senza tuttavia restituirne il testo all'autore. Più tardi, senza preoccuparsi di consultare l'ignaro Calzabigi, Gluck consegnò il manoscritto a François-Louis-Gaud Le Bland du Roullet e a Ludwig Theodor von Tschudi (già suoi collaboratori letterari, rispettivamente per Alceste in versione francese e Iphigénie en Aulide, e per Echo et Narcisse) con l'incarico di rimaneggiarlo e tradurlo. Il 26 aprile 1784 (Gluck, nel frattempo, aveva fatto definitivo ritorno a Vienna) Les Danaïdes, tragédie-lyrique in cinque atti, musica «de M.le chevalier Gluck et Salieri» venne rappresentata con grande apparato all'Académie Royale de Musique. Con bella disinvoltura, du Roullet s'incaricò di spiegare come si erano svolte le cose in una premessa al libretto francese, dove almeno viene detta la pura verità. All'offeso e amareggiato Calzabigi non rimase che la magra rivincita di una protesta, pubblicata il 21 agosto 1784 sul «Mercure de France» e di un allestimento napoletano del proprio dramma, parzialmente rimusicato nella versione originale e col titolo di Ipermestra, da Giuseppe Millico.
* Prescindendo da considerazioni di tipo moralistico circa l'«affaire Danaïdes», va osservato che l'intervento dei signori du Roullet von Tschudi sull'originale di Calzabigi doveva tradursi in esiti complessivamente positivi. Mutato in tragedie-lyrique, il dramma nulla perdette dell'originaria, fiera tragicità (della quale Calzabigi era ben consapevole, nella sua sarcastica stroncatura dell'Ipermestra metastasiana) molto acquistando in concisione e rapidità drammatica. La vicenda delle sciagurate figlie di Danao, accentrata nelle figure di Hypermnestre, Danaus, Lyncée e nel coro (quest'ultimo con importanza e funzioni di vero protagonista) scorre rapida sino al tableau finale, un «Gruppe aus dem Tartarus» carico di un orrido senechiano affatto estraneo agli spiriti del melodramma settecentesco ma chiaramente consono a quelli della drammaturgia calzabigiana, intrisa di autentiche suggestioni classiche, dove le esigenze spettacolari della tragédie-lyrique non fecero che caricare violentemente le tinte:

On voit le Tartare roulant des flots de sang sur ses bords et au milieu du théâtre. Danaus parait enchaîné sur un rocher, ses entrailles sanglantes sont dévorées par un vautour et sa tête est frappé de la foudre à coups redoublés. Les Danaides sont les unes enchainées par groupes, tourmentées par des démons et dévorées par des serpents; les autres poursuivies par des furies remplissent le théàtre de leurs mouvements et de leurs cris; une pluie de feu tombe perpétuellement.

Nulla del resto viene risparmiato, ad accentuare la sanguinosa barbarie dell'azione che sconcertò i piccinnisti, spiacevolmente stupiti di trovare in Salieri, non il solito contraltare italiano di turno a Gluck, ma un suo devoto e dichiarato seguace, per giunta, più realista del re: né il giuramento di sangue, pronunziato da Danaus e dalle figlie; né le invettive di Hypermnestre al padre crudele; né le grida d'orrore e di morte degli sposi trucidati. Alla dodicesima replica dell'opera, come già si è detto, lo stesso Gluck si fece vivo dichiarando per iscritto che Salieri era da considerarsi come il solo autore della musica. Da parte sua, Salieri specificava di avere composto l'opera «sotto gli occhi e la direzione del famoso cavaliere Gluck, genio sublime, creatore della musica drammatica che ha innalzata al più alto grado di perfezione».
Parlare delle Danaïdes, il capolavoro tragico di Salieri, nei termini di una pura e semplice, anche se del tutto degna, imitazione gluckiana sarebbe inesatto, più ancora che ingiusto. Ascoltandola, i contemporanei poterono incorrere in abbagli e travisamenti estremamente improbabili per chi si accosti oggi a tale musica, avvantaggiato da una prospettiva storica che dà rilievo alle affinità e alle diseguaglianze di linguaggio e di stile, come ai particolari di un vasto affresco visto a distanza. Non stupisce pertanto che anche gli ascoltatori più avveduti si ritenessero nell'impossibilità di dare a Cesare quel che era di Cesare, insistendo, nella lode, come nelle riserve, sull'identità stilistica che accomunava maestro e allievo; o, meglio, sulla inconfondibile impronta impressa da Gluck a una partitura composta con la collaborazione di un aiuto.
In realtà, non tanto il personale ductus stilistico di Salieri, né qui né altrove individuabile con convincente sicurezza, quanto piuttosto la sua «contemporaneità» di musicista nato nel 1750 (e non nel 1714 come Gluck) e pertanto provvisto di un medium linguistico non esattamente assimilabile (talento a parte) a quello gluckiano, è ciò che balza in evidenza anche attraverso l'abilissima patina gluckiana e l'orpello «alienante» dei paludamenti alla francese. Non altri che un contemporaneo di Mozart avrebbe, ad esempio, potuto dettare pagine come l'epitalamio corale «Descends du ciel, douce Hyménée» dell'atto I, o il suo degno pendant dell'atto III: «Descends dans le sein d'Amphitrite» col loro arco melodico soffuso d'una tenerezza contenuta e già presaga dei casti ritegni cherubiniani. Anche le effusioni liriche di Hypermnestre e del suo sposo, pur senza tralignare dai rigorosi confini morfologici imposti dall'air e dal duo, sentono di echi liederistici o più genericamente «viennesi» aggirando la langue degli operisti italiani, praticamente assente nel Salieri de Les Danaïdes. Certo l'impronta di Gluck predomina, come era d'aspettarsi, nei vigorosi e accurati recitativi: ma chi, nell'anno 1783 in Francia, non avrebbe saputo fare altrettanto? D'altra parte, nell'ambizioso, grande epilogo corale, i modelli del «maestro» sono resi inattuali da una maniera più concitata e più pittoresca, più articolata e più effettistica: in una parola, più moderna. Del pari più «aggiornata» rispetto a Gluck come a Piccinni e Sacchini, è l'orchestrazione, debitrice, nelle grandi linee, del coevo sinfonismo viennese pur non potendo propriamente ravvisarsi in essa uno spirito sinfonico paragonabile a quello dell'orchestra teatrale mozartiana.
Benché la qualità della sua invenzione musicale, intesa assolutamente, lasci desiderare tanto la sorgiva freschezza dei rivali «napoletani» quanto la potente incisività gluckiana; benché, in altre parole, le nari dell'élève de Gluck si rivelino qui troppo più sensibili di quelle del maestro al puzzo di musica; pure Les Danaïdes rappresentano complessivamente un esito drammaturgico di indiscutibile validità, quale a Salieri, nel corso della sua fin troppo lunga carriera, mai più accadrà di attingere. Ma v'è di più. La dorica asciuttezza della sua architettura, che si nega ad ogni troppo blando lenocinio lirico in nome di un'intenzionalità tragica onnipresente e pertinace; lo sforzo intellettualistico che vi traspare, inteso a realizzare il dramma dietro lo stimolo ideale e l'esempio pratico di Gluck, e l'altrettanto intellettualistico ritegno (così lontano dall'appassionata partecipazione soggettiva che accomunava Gluck a Piccinni nell'attitudine creativa) che presuppone, da parte del compositore, un costante atteggiamento critico e riflessivo nei confronti delle proprie immagini artistiche, fanno, del capolavoro tragico di Salieri, un repertorio di elementi precorritori l'imminente esperienza cherubiniana. Sotto tale aspetto, Les Danaïdes si possono considerare come l'anello della catena che collega la nuova tragédie-lyrique italo-francese degli anni '80 a Démoplioon (1788) e quindi a Médée (1797): un anello senza il quale sarebbe giocoforza attribuire a Cherubini lo sforzo di un saltus stilistico troppo più grande di quello, già sorprendente, che in effetti compì.
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Artista curioso più che perspicace, diligente e versatile più che geniale, mancò a Salieri l'intuito nel vagliare, in quel gran guazzabuglio di idee e di propositi più o meno realizzati che fu l'avanguardia teatrale di fine Settecento, l'oro vero dall'oro matto, l'autentica novità dal vecchiume rimesso a nuovo, l'elemento progressivo da quello conservatore. Affermatosi come allievo di Gluck quando il gluckismo era ormai da considerarsi fenomeno storicamente concluso, l'operista italo-viennese perdurò nell'equivoco per tutto il corso della sua non breve parabola, forzando la propria intima natura conservatrice, non di rado pedantesca, agli estri e alle bizzarrie di un cervellotico anticonformismo. S'illudeva così di riuscire eccentrico, satirico, à la page con i begli spiriti e con le mode culturali: e i suoi parti melodrammatici nascevano vecchi, o morti affatto. Bigotto della tradizionale poetica dei «generi», si piccò di rimescolarne le carte dedicandosi 'toto corde' a un tipo di melodramma, denominato «eroicomico» o «tragicomico» lanciato nell'orbita viennese da Giovan Battista Casti. In esso, «il casto abate» (come veniva chiamato dal suo fiero rivale e confratello 'in sacris' Lorenzo Da Ponte) si proponeva di vanificare la sacramentale dicotomia opera seria-opera buffa mediante l'acido corrosivo dell'ironia, della satira, del grottesco. Il meccanismo, nei casi più semplici, poteva limitarsi a parodiare in chiave comico-satirica personaggi e casi desunti dal più risaputo repertorio «serio»: Catilina, Cublai Gran Can dei Tartari. Più sottile e complessa era l'operazione dissacrante (ci si conceda l'abusato termine) quando l'affilato sarcasmo del Casti si esercitava nei confronti dei valori costituiti politico-sociali o dei miti culturali, morali e ideologici del tempo in intrecci da commedia a libero svolgimento: è il caso di Re Teodoro in Venezia (musicato da Paisiello per Vienna nel 1784), e de La grotta di Trofonio, toccata un anno dopo a Salieri.
Il tema della volubilità femminile, ne La grotta di Trofonio, è garbatamente intrecciato con quello della fatuità degli affetti umani (con i quali il mago Trofonio par giocare a carte), e con quello, più propriamente satirico, dello scientismo e del filosofismo settecenteschi, presi a gabbo dallo stralunato andirivieni delle due coppie d'innamorati per entro i meandri del magico speco. Né poteva mancare, di scorcio, lo sberleffo a Gluck nell'invocazione parodistica degli spiriti infernali; luogo, peraltro, sempre più frequente nella satira mossa dalle schiere dell'opera buffa contro i bastioni dell'opera seria. È inutile tentar di immaginare la veste musicale ideale per questa favola lieve ed acre, giocata sulle punte di un cinismo disincantato che sa evitare le secche del moralismo in grazia di una sua ridente sventatezza; ed è sleale, anche se inevitabile, trascorrere col pensiero ai sublimi giochi proibiti di Così fan tutte. Salieri non intese umorismo, parodia, gioco, accontentandosi, secondo il suo solito, di puntualizzare a tavolino il «carattere» dei singoli personaggi e delle situazioni, badando bene a mantenersene coerente. Lo specchio deformante dell'ironia era tanto poco affar suo, che fraintese completamente le allusioni parodistiche dell'invocazione agli spiriti, prendendo l'episodio terribilmente sul serio. Scrisse così una serie di brani, preceduti da una bellissima ouverture, in diligente rispondenza con gli stati d'animo autentici o fittizi dei personaggi, ma privi affatto, per così dire, dei suoni armonici allusivi invocati dalla surrealistica vicenda. Brani di musica comunque bella; forse la migliore mai inventata da Salieri, e in una veste strumentale di rara eleganza.
Il suo singolare destino di uomo e d'artista legato come pochi altri, per educazione e formazione, all'ancien régime, e tuttavia stranamente coinvolto in deludenti sperimentalismi sul fronte delle avanguardie, doveva di nuovo portare Salieri a Parigi, dove il rovinoso fiasco della «tragédie» Les Horaces, su libretto di Guillard ( dicembre 1786) veniva compensato dai duraturi successi di Tarare «opera nello stile tragicomico» - secondo la definizione dello stesso compositore - su testo di Beaumarchais (8 giugno 1787). Al creatore di Figaro non parve vero di inzeppare la pièce «d'une grande idée philosophique» con gli argomenti prediletti della propria tematica ideologica politica sociale. La vicenda di Tarare, prode e leale guerriero, amato dal popolo ma odiato dal suo sovrano Atar, che ne invidia la gloria e ne insidia l'onore e la vita, è ambientata in un Oriente di maniera, luogo deputato dalla favolistica «filosofica» settecentesca per dibattervi idee pericolose e sottoporvi a processo persone e fatti del giorno, mal dissimulati dal travestimento esotico.
Beaumarchais volle fare le cose in grande: i cinque atti del dramma vero e proprio sono preceduti da un ampio prologo, nel quale la Natura e il Genio del Fuoco sono protagonisti di una sorta di cosmogonia illuministica che ha per scopo la proposizione della principale tra le tesi dibattute nel corso dell'azione: gli uomini vengono creati liberi ed eguali, e la Natura (leggi, le qualità individuali), non la nascita, è arbitra della loro grandezza. Tarare, di oscuri natali ma di virtù degne di un trono, regnerà, infatti, al posto dell'indegno Atar, per volere dei sudditi. Né potevano mancare, a corollari di codesta «grande idée philosophique» la contrapposizione del vizio dei potenti alla virtù degli umili, il tarlo anticlericale, il libertinismo sessuale proclamato, sia pure in un contesto ironizzante, sotto la finzione di 'fetes galantes' dalla matrice arcadica. Loquacissimo come sempre, anche questa volta Beaumarchais si dilungò in una prefazione dove si compiacque di esporre le proprie idee sul melodramma in genere e sui rapporti tra parola e musica in particolare. Come era da aspettarsi, fece proprie le teorie dei «riformatori» in un senso assolutamente restrittivo per quanto riguarda le funzioni e i poteri dell'elemento musicale, collocato al terzo posto della scala gerarchica, dopo «l'invention du sujet» e «la beauté du poème» come «un expression nouvelle ajoutée au charme des vers»: troppo poco, in verità, anche per il cavalier Gluck. Convenuto che «trop de musique dans la musique ést le défaut de nos grands opéras», Beaumarchais si profondeva in elogi a Salieri, che da tale perniciosa prodigalità inventiva si dimostrava alieno al punto da «renoncer, pour me complaire, à une foule de beautés musicales dont son opéra scintillait, uniquement parce qu'elles allongeaient la scène, qu'elles alanguissaient l'action...
Tale rinunzia non dovette in realtà costare eccessivamente a Salieri: anche senza pericolosi scintillii inventivi, Tarare non risulta affatto più disadorna di valori musicali rispetto a Les Danaïdes o ad altre partiture italiane di minor impegno. La sfaccettatura della sua gamma, che trascorre vivacemente dalle espressioni eroiche ed appassionate dei personaggi «seri» a quelle giocose, idilliche, pastorali delle parti «leggere»; la concisa eleganza, di spirito e gusto tutti francesi anche se di suono piuttosto viennese, dei singoli episodi musicali possono anzi offrire un'illusoria impressione di ricchezza e di varietà, laddove non è che un incresparsi superficiale d'acque sostanzialmente immobili. Incapace di superare lo stadio primitivo di una diligente, episodica puntualizzazione espressiva dell'evento scenico, scambiata per «verità» drammaturgica, Salieri non riuscì ad attingere all'umanità dei personaggi o meglio, a conferire in proprio un plausibile volto d'uomo o di maschera a quelle marionette imbottite di «idées philosophiques» e affette da insopportabile logorrea; né seppe o volle colorire di tinte fiabesche quegli aridi battibecchi da gazzetta letteraria. Il suo rispetto per l'illustre collaboratore era troppo assoluto, ed egli si guardò bene dal contrastarne la vanità intellettuale, non esitando a rivestire di note spiritosaggini del genere:

Dans nos vergers délicieux
Le mal, le mieux tout se balance
Et si nos jeunes gens sont vieux
Tout nos veillards sont dans l'enfance

né avvertì quanto di ovvio, di convenzionale, di trito sussisteva sotto tanto spolvero d'illuminismo da 'boudoir'; o forse, lo avvertì tanto bene dal tradurlo puntualmente in immagini musicali del più scontato formulano «serio» o «buffo» di tipo corrente.
Salieri rimaneggiò per due volte consecutive il suo Tarare: divenuto dapprima
Axur re d'Ormus grazie all'adattamento italiano di Da Ponte (Vienna, 8 gennaio 1788); ritornato col titolo originario e con ulteriori ritocchi di Beaumarchais sulle scene parigine il 2 giugno 1790. Nel primo caso, il testo venne opportunisticamente espurgato «di tutte quelle perniciose teorie che pochi anni dopo suscitavano le alte e distruggitrici fiamme della Rivoluzione» (sono parole, dettate nel 1827, dal confidente e biografo ufficiale di Salieri, Ignaz Franz von Mosel); nel secondo, al contrario, vieppiù impregnato di virus giacobini come l'abolizione del celibato sacerdotale, la dissolubilità del matrimonio, l'autogoverno del popolo sovrano, ecc.
In seguito, Salieri perseverò nell'ibrido «genere» eroicomico con lavori come Pamira regina di Persia, su testo di Giovanni De Gamerra (Vienna, 14 ottobre 1795) o Cesare in Farmacusa, versi di C. P. De Franceschi (Vienna, 2 giugno 1800): due opere mancate, dove la scipitezza del soggetto si accompagna all'inconsistenza inventiva, più che mai asservita ai luoghi comuni della retorica «seria» o «buffa» applicati con razionalistica pedanteria a questo o a quel personaggio, a questa o a quella situazione, senza il riverbero della allusività ironica o della deformazione parodistica. Ad esiti incomparabilmente migliori doveva pervenire Salieri le poche volte che rinunciò ai suoi ambiziosi quanto fallimentari sperimentalismi per ripercorrere i vecchi tracciati dell'opera buffa di stampo tradizionale: con Prima la musica, poi le parole, su testo di Giovan Battista Casti (Schönbrunn, 7 febbraio 1786); Il mondo alla rovescia, testo di Caterino Mazzolà (Vienna, 13 gennaio 1795); Eraclito e Democrito, testo di De Gamerra (Vienna, 13 agosto 1795); Il moro, testo di De Gamerra (Vienna, 7 agosto 1796); Falstaff, ossia Le tre burle, libretto di De Franceschi, da Shakespeare (Vienna, 3 gennaio 1799); Angiolina, ossia Il matrimonio per sussurro, versi di De Franceschi, da Ben Jonson (Vienna, 22 ottobre 1800). Soprattutto in questi due ultimi lavori, tra i migliori dell'intera produzione del musicista, brillano, non illanguidite da velleitari conati intellettualistici, le doti native di Salieri; inconcepibili, certo, al di fuori della troppo luminosa orbita mozartiana o quanto meno, della civiltà strumentale viennese che si riflette beneficamente nelle squisite eleganze della scrittura; pure, vivide di una propria saporosa, arguta stringatezza quasi aforistica di figure e di immagini, capace di contrapporsi con caratteri di indubbia autenticità stilistica ai tratti tipici di Cimarosa, Paisiello, Anfossi, Guglielmi e degli altri maestri dell'opera buffa neo-napoletana.