TESTO BASE
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L'intervento di Roullet e di Tschudi sull'originale di Calzabigi doveva tradursi in esiti complessivamente positivi. Mutato in tragédie lyrique, il dramma nulla perdette dell'originaria, fiera tragicità (della quale Calzabigi era ben consapevole, nella sua sarcastica stroncatura dell'Ipermestra metastasiana) molto acquistando in concisione e rapidità drammatica. La vicenda delle sciagurate figlie di Danao, accentrata nelle figure di Hypermnestre, Danaus, Lyncée e nel coro (quest'ultimo con importanza e funzioni di vero protagonista) scorre rapida sino al tableau finale, un Gruppe aus dem Tartarus carico di un orrido senechiano affatto estraneo agli spiriti del tradizionale melodramma settecentesco ma chiaramente consono a quelli della drammaturgia calzabigiana, intrisa di autentiche suggestioni classiche:

Si vede il Tartaro grondante fiotti di sangue sui lati e in mezzo al palcoscenico. Danao compare incatenato su una roccia; le sue interiora sanguinolente sono divorate da un avvoltoio e la sua testa è colpita dal fulmine a colpi reiterati. Le Danaidi sono, le une, incatenate a gruppi, tormentate da dèmoni e divorate da serpenti; le altre, perseguitate dalle furie che riempiono il teatro con i loro moti e le loro grida; una pioggia di fuoco cade incessantemente.

Tali le immagini che calano in un bagno cruento il tradizionale décor della tra gédie lyrique, ne esasperano in ritmi violenti e convulsi il gestuale plasticismo, ne vanificano ogni possibilità di epilogo consolatorio in una catastrofe terrificante dove il Laokoon di Lessing prevarica sulla composta trascendenza del tragico secondo Winckelmann, non meno che sulle buone maniere di un codice aulico. Accuratamente sterilizzato in Metastasio, il mito delle figlie di Danao era stato recuperato da Calzabigi in tutta la sua orgiastica e ritualistica atrocità. Un pessimismo tragico, significativamente maturato in coincidenza dell'avvento della produzione alfieriana (da Calzabigi, come è noto, attentamente letta e commentata nella nota lettera indirizzata all'Astigiano nel 1783), che costituisce una cupa parentesi aperta nei casi della nuova, morbida tragedia borghesizzata di Piccinni e Sacchini.
Il precedente progressivo dell'Europa riconosciuta indicava con chiarezza quali fossero gli orientamenti di un compositore per il quale l'affermare di aver composto la musica delle Danaïdes «sotto gli occhi e la direzione del famoso cavaliere Gluck, genio sublime, creatore della musica drammatica che ha innalzata al più alto grado di perfezione» significava tutt'altro che servile piaggeria o eccesso di zelo diplomatico. In effetti, l'incontro con la tragédie lyrique degli anni Ottanta fu per Sahen un evento del tutto consentaneo alla sua natura artistica e destinato a riverberarsi in modo palese od occulto sulla sua intera produzione futura. Si comprende come il tono della muscolatura drammatico-musicale sia qui alquanto più sodo e asciutto che in Piccinni e Sacchini, e come le strutture formali, sottraendosi alla fluente coniugazione melodico-armonica e ai rimandi simmetrici della melodrammaturgia italiana di tipo corrente, mostrino una concisione e un'incisività più propriamente gluckiane, o, se più piace, francesi appunto; e come anche il coro vi assurga a ruolo di protagonista in una misura che non ha precedenti se non in Alceste, giustificando pienamente il nuova titolo - Les Danaïdes, e non Hypermnestre - apposto all'opera. Ma v'è di più, a qualificare con tratti di notevole originalità un lavoro che non fu certo quello di un qualsiasi «élève de Gluck». Tra le intuizioni drammatiche più peculiari e gravide di futuro riscontrabili nell'ultimo Gluck (pensiamo soprattutto a Iphigénie en Tauride) spicca quel possente plasticismo che, sottraendo al tradizionale air de ballet le sue proprie prerogative e immettendolo nel vivo dell'azione teatrale, ne fa lievitare la pasta in una sorta di fremente bassorilievo sinfonico-corale. Sarà la strada perseguita da Spontini e, alla lunga, da Berlioz: quella che maggiormente varrà a qualificarli come gli autentici eredi di Gluck nell'Ottocento. Tale visualizzazione, per così dire, stereoscopica dell'evento scenico impressiona profondamente Salieri, che ne fa uno dei punti di forza della propria drammaturgia, mediante l'impiego sistematico del recitativo corale in alternanza dialogante con quello dei soli (ciò che avviene ovunque, ma in modo impressionante nella grande scena del tempio di Nemesi, posta all'inizio dell'atto II): un procedimento gradualmente intensificato fino al climax della catastrofe, costituita dagli episodi concatenati dalla strage degli sposi, dell'orgia delle Danaidi invasate da Dioniso e dal citato, terrificante tableau tartereo sul quale cala il sipario.
Se alle radici di tutto questo sta pur sempre l'aulica gestualità tragica del vecchio Rameau e di Noverre, sublimata da Gluck, affatto nuovo è il dinamismo che Salieri vi sa infondere, ricorrendo a due mezzi non specifici dell'arte gluckiana. Il primo è un recitativo di un'agilità e duttilità singolari, mutuate da quell'opera buffa assiduamente coltivata dal maestro di Legnago: egli lo inserisce con bella spregiudicatezza nelle architetture della tragédie lyrique, sortendo esiti sorprendenti. Alleggerito dal peso delle convenzionali strappate o note tenute o altri risaputi formulari strumentali, questo recitativo scorre via rapido e icastico in arcate spesso gettate su lunghi vuoti orchestrali, introducendo un'alacre pulsazione nel grave ritmo scenico e discorsivo dell'opera francese. Si ponga mente alla bruschezza quasi verdiana con la quale, al termine del giuramento di sangue delle figlie sull'altare di Nemesi, Danaus apostrofa la renitente Hypermnestre: «Quand tes soeurs ont juré /de servir ma vengeance, je t'observai/tu gardais le silence », ecc. («Quando le tue sorelle han giurato/di servire alla mia vendetta, io ti osservai/tu serbavi il silenzio», ecc.).
Ovviamente Salieri non rinuncia affatto a percorrere anche la via maestra dell'opera francese, offrendo altrove esempi di un declamato tradizionale tra i più meditati, vari e intensi mai udibili nella globalità di quella stessa tragédie lyrique dove alto è il livello medio qualitativo correntemente raggiunto. Il secondo elemento che immette altro sangue nuovo nelle vene del melodramma francese, è il mélos che sostanzia gli episodi lirici dell'opera: di una specie che, aggirando i connotati del coevo canto di matrice italiana, affonda le radici nella stessa falda freatica che alimenta la più autentica melodia gluckiana, quella intrisa di linfe liederistiche austro-tedesche. Salieri aggiorna codesti materiali melodici, inserendoli in un sobrio corredo sonatistico anch'esso di stampo viennese e avvertibile nelle espressioni tenere o accorate di Hypermnestre e di Lyncée. Altrove, il codice retorico della concitazione tragica fa spostare l'ago della bilancia verso una nervosità di segno e una tensione dinamica già presaghe di Cherubini: espressioni quali il recitativo e aria di Hypermnestre «Ou suis-je? - Foudre céleste!» (II, 3) o l'aria «Père barbare» (V, 1) attendono soltanto un più ani'pio respiro sonatistico (di conseguenza, un più complesso itinerario armonico) e un'innervatura sinfonica più propriamente tale per poter degnamente figurare nel Démophoon cherubiniano quale premessa alle incandescenti esecrazioni di Médée.