TESTO BASE
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[21] Protagonista della storia è un valoroso soldato, a nome Tarare, che gode di enorme popolarità presso la popolazione tanto da provocare l'ostilità del re. La perfidia di questi dà luogo ad agguati che però non riescono a togliere di mezzo il valoroso. Alla fine Tarare deve accettare, per volere del popolo, la corona regale, anche se nel suo intimo preferirebbe non assumere un così difficile ruolo ma continuare a servire la patria come soldato. Protagonisti ne sono Tarare (tenore), Atar (basso), la moglie di Atar Astasie (soprano), Calpigi e Spinette, il gran sacerdote Arthenée, nonché personaggi allegorici quali la Natura e il Genio. Interessante è rileggere quanto Salieri scrisse a proposito dei due personaggi maschili in un lungo e dettagliato progetto d'inscenatura dell'opera. Di Atar dice che dovrà essere «vestito nobilmente, ma senza fasto. La parte sua è un misto di eroico e di sensibile. Tutto ciò ch'egli canterà di lamentevole, o di dolce in altro genere, deve aver sempre un fondo d'energia, per non cader nell'effeminato, il qual difetto farebbe languire tutta quella bellissima parte». Per Axur, che definisce «uomo feroce e senza freno» raccomanda di vestirlo «se si vuole, anche tutto alla turca. L'abito deve essere magnifico, ma d'una unione di colori che servano il più ch'è possibile caratterizzare un tiranno. Non porterà barba, ma cercherà se l'attore non lo è di natura, di comparire di pelo folto, nero e molto barbuto».

[22] Salieri è la voce più interessante e progredita che si leva a Parigi all'epoca gluckiana, segnata, com'è noto e come s'è visto altrove (ultimo capitolo del primo volume), dalla presenza di altri operisti italiani. Primo tra questi, cronologicamente, fu Nicolò Piccinni, chiamato in Francia dalla fazione contraria a Gluck nel 1776. Il suo esordio parigino avvenne nel 1778 con Roland, un libretto che Marmontel [Jean François], uno dei suoi principali sostenitori, aveva tratto da Quinault. «Trapiantato, isolato in un paese dove tutto era nuovo per me, intimidito da mille difficoltà, io avevo bisogno di tutto il mio coraggio e il mio coraggio mi abbandonò». Così scriveva Piccinni nella prefazione al Roland, lavoro che rivela, con l'adattamento al mondo stilistico francese, i limiti del musicista, inadatto al conflitto con Gluck che i suoi protettori invece gli avevano riservato. L'impari confronto continuò con Phaon, libretto di Watelet (Choisy, 1778), con Atys, libretto di Marmontel ancora da Quinault [Philippe] (Parigi, 1780), e con Iphigénie en Tauride, libretto di Alphonse du Congé (Parigi, 1781). Con quest'ultima opera Piccinni accettò la volontà dei suoi protettori di sfidare direttamente Gluck sul suo stesso terreno, ma non poté prevalere sull'Iphigénie en Tauride di quello (rappresentata la prima volta nel 1779). E ciò nonostante il suo lavoro ottenesse risultati musicali e drammatici di rilievo, talora pari per efficacia a quelli gluckiani. Altrettanto si può dire per Didon, forse il miglior parto picciniano del periodo (di questo lavoro abbiamo già trattato nel capitolo conclusivo del primo volume). A Didon - scritta su libretto di Marmontel e rappresentata a Fontainebleau nel 1783 - Piccinni fece seguire Pénélope, libretto ancora di Marmontel, nel 1785, opera con cui ebbe termine la sua avventura parigina, sfortunata per quanto riguarda i risultati pratici, interessante al contrario per gli esiti artistici che gli propiziò.
Altro musicista italiano attivo a Parigi nel periodo in oggetto fu Antonio Sacchini che vi giunse nel 1783 con una lettera di raccomandazione di Giuseppe II per la sorella Maria Antonietta. Sacchini esordì nella, capitale francese adattando due proprie opere precedenti, Rinaldo e Il Cidde, per poi affrontare con Dardanus (1784) il suo primo libretto in lingua francese. Tutti questi lavori ebbero modesta accoglienza da parte del pubblico francese e soltanto il suo Oedipe à Colone, rappresentato postumo nel 1786, lo impose come valido successore di Gluck. Di diritto l'Oedipe - che rimase nel repertorio del teatro parigino fino al 1844 - figura tra i capolavori della tragédie francese fine Settecento, unitamente alle opere di Gluck, di Salieri e di Cherubini. Quest'ultimo - che aveva esordito come operista nel 1779 ad Alessandria con Quinto Fabio dando nei successivi nove anni 8 opere serie e due buffe nei teatri italiani - esordì a Parigi nel 1788 facendo rappresentare il 5 dicembre all'Opéra Démophon, tre atti su libretto di Jean Francois Marmontel. L'esito poco brillante di quest'opera tenne lontano per qualche tempo il Cherubini da nuovi impegni creativi teatrali, mentre invece collaborava col Viotti al Théâtre de Monsieur scrivendo «arie aggiunte» e pezzi d'assieme per opere giocose di Paisiello, Cimarosa, Anfossi, Guglielmi e altri. Spostatosi il Viotti, dopo la rivoluzione, al Théâtre Feydeau, Cherubini poté affrontare nuovamente il giudizio del pubblico e, stavolta, riportare un successo strepitoso. L'opera, la prima dei grandi lavori francesi cherubiniani, era Lodoïska, libretto di Filette-Loraux dal romanzo Vie et amours du Chevalier de Faublas, portata sulla scena del Feydeau il 18 luglio 1791.

[23] Al ritorno a Vienna, dopo la parentesi parigina, Salieri approntò, assieme al Da Ponte, la ripresa locale del Tarare, qui rappresentato col titolo
Axur, re d'Ormus, in lingua italiana, il 7 gennaio 1788. In seguito Salieri diede i seguenti lavori: il tragicomico Pastor fido del Da Ponte, desunto dal Guarini, al Burgtheater, l'11 febbraio 1789; il dramma giocoso Il mondo alla rovescia del Mazzolà, Burgtheater, 13 gennaio 1795; il dramma filosoficomico Eraclito e Democrito del De Gamerra, Burgtheater, 13 agosto 1795; la commedia per musica ancora del De Gamerra Il moro, Burgtheater, 7 agosto 1796. Inoltre compose alcune opere non rappresentate (Catilina, 1792; I tre filosofi, 1797, che lasciò incompiuta assieme a due altre) o rappresentate più tardi (La princesse de Babylone, tragédie-lyrique di Martin da Voltaire, trasformata poi in Palmira regina di Persia, dramma eroicomico del De Gamerra, rappresentata al Kärntnertortheater viennese il 14 ottobre 1795). Notiamo, per inciso, che nella sinfonia dell'Eraclito e Democrito Salieri s'impose una sorta di «programma» psicologico volendo appunto descrivere i caratteri antitetici dei, due antichi filosofi.

[24] Dopo Falstaff Salieri fece rappresentare ancora: Cesare in Farmacusa, altra opera eroicomica del De Franceschi (il librettista appunto del Falstaff), dato ai Kärntertortheater, il 2 giugno 1800; Angiolina o sia Il matrimonio per susurro opera comica del De Franceschi, desunta da Epicoene di Ben Johnson, messa in scena ancora al Kärntnertortheater, il 22 ottobre 1800 (ripresa con teto modificato dal Da Ponte e col titolo Angelina, a Londra, il 29 dicembre 1801); L'Annibale in Capua, dramma serio del Sografi, rappresentata per l'inaugurazione del Teatro Nuovo di Trieste nell'aprile 1801. Inoltre lasciò incompiuta La bella selvaggia opera comica del Bertati a cui lavorò nel 1802. L'ultimo lavoro che Salieri riservò al teatro risale al 1803: un'«Ouverture, Zwischenspiele und Chöre», cioè musiche di scena per Die Hussiten vor Nauburg del Kotzebue, Schauspiel eseguito al Burgtheater il 2 marzo; di quell'anno.

[25] All'opera del Papavoine seguirono poi Die lustigen Weiber von Windsor di Peter Ritter (Mannheim, 1794) e il singspiel dall'omonimo titolo di Karl Ditters von Dittersdorf (Oels, 1794). È evidente dunque che soprattutto il mondo tedesco riguardò con interesse alla vicenda scespiriana e Salieri desunse appunto da qui io stimolo per trattario in proprio, in lingua italiana e secondo le forme dell'opera comica.