NORMAN LEBRECHT

GLI ESORDI DI FRANZ WELSER
-MÖST

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[...] Rattle ha appoggiato diversi direttori più giovani e ha esortato le orchestre a seguire l'esempio di Birmingham e a correre qualche rischio con i talenti da sgrezzare. «Non ci sono mai sufficienti direttori abili», ha detto. «I direttori devono crescere con un'orchestra, devono avere una possibilità di crescere. E io sono stato molto fortunato. Lo so. Gran parte di ciò che ho imparato è il risultato dell'esperienza di Birmingham.» Per mancanza di coraggio o per convinzione, le orchestre non hanno raccolto il suo consiglio se non offrendo serate come ospiti ai suoi principali protetti, Paul Daniel e Sian Edwards. Dietro di loro si estende un panorama privo di direttori riconosciuti, e la crisi si aggrava di anno in anno, via via che gli anziani si ritirano e non è possibile rimpiazzarli.
Soltanto Franz Welser-Möst, tra i rari frutti del prossimo raccolto, sembra tagliato per fare qualcosa di straordinario. Il suo nome, tanto per cominciare, è fasullo, come il suo vantato patrimonio austriaco e quella serenità che ha indotto i critici a paragonarlo a Karl Böhm e ad accreditarlo come un'autorità naturale per quanto riguarda Mozart e Bruckner. Welser-Möst ha detestato Böhm e tutto ciò che ha rappresentato; ha rinunciato alla cittadinanza austriaca; e ha trascorso il tempo con i bizzarri compositori della Terza Scuola di Vienna come Gruber e Schwertsik, che scrivono musica dissidente su versi rozzi. «Molti dicono che è musica primitiva. Non lo è», insisteva. «Hanno qualcosa che molti dei compositori di oggi hanno perduto, il legame con le loro radici. A Vienna non sono affatto amati.»
Non lo è neppure Welser-Möst. Ha avuto la sfrontatezza imperdonabile di piantare i Wiener Symphoniker perché uno dei musicisti aveva detto: «Dobbiamo suonare questa merda?» nel vedere l'Ouverture beethoveniana Leonore I. «Più tardi», disse il giovane direttore, «vennero a sostenere che non dovevo essere tanto idealista da pretendere di poter far musica con tutti i componenti dell'orchestra. Io risposi: «Vi darò due biglietti per il mio prossimo concerto con la London Philharmonic, e vedrete che è possibile.» Quando, dopo che ebbe salvato all'ultimo momento un'opera di Rossini, Vienna si offrì di ricompensarlo con un Flauto magico senza prove, rifiutò seccamente, esasperato da quegli atteggiamenti di condiscendenza. «Sono giovane e austriaco e ho successo all'estero, e questo era sufficiente perché qualcuno mi causasse problemi», protestò.
Nel 1986 restituì il passaporto e lasciò il Paese. La grande occasione della sua carriera venne nell'aprile di quell'anno, quando il direttore spagnolo Jesus López-Cobos abbandonò un Requiem di Mozart a Londra quando mancavano due giorni all'esecuzione perché la moglie stava morendo. La London Philharmonic, con le spalle al muro, puntò su un ragazzo venticinquenne che l'agente Martin Campbell-White non aveva mai ascoltato ma di cui aveva sentito parlare bene. Si seppe che Welser-Möst conosceva il Requiem avendolo cantato da bambino. Quando entrò nella sala appena sceso dall'aereo, i burloni dell'orchestra decisero di metterlo alla prova. A metà della sessione, uno strumentista alzò la mano. «Sì?» chiese Welser-Möst. Il musicista mosse le labbra senza emettere suoni. Il direttore chiese a tutti di fare silenzio e invitò lo strumentista a ripetere ciò che aveva detto. Quello mosse di nuovo le labbra: un vecchio trucco che ha lo scopo di mettere a disagio un novellino. Welser-Möst lo fissò e disse: «Vuol dire che non parlo abbastanza forte? Parlo a voce bassa perché mi ascoltiate tutti». La risata che seguì fu rispettosa, e ben presto gli orchestrali cominciarono a dire che valeva la pena di tenerlo d'occhio. «È un tipo molto equilibrato che sembra sapere esattamente dove sta andando... molto sicuro di sé ma in un modo quasi ingenuo», disse di lui David Nolan.
A trent'anni, Welser-Möst aveva un lavoro regolare a Londra e con la Deutsche Oper di Berlino, e nel contempo imparava il mestiere con un'orchestra svedese a Norrkoeping. Nascondeva le sue evidenti capacità dietro una fatalistica mancanza di ambizioni. «La mia filosofia, quando si tratta di far musica, è fare il meno possibile», diceva con calma. «Nella musica come nella vita, la mia preoccupazione principale consiste nel mettere da parte il mio ego e lasciare che le cose accadano.» Data l'attuale scarsità di talenti, era inevitabile che accadessero molto in fretta.
Figlio di un indaffaratissimo specialista di malattie polmonari di Linz e di un'attivista politica, era cresciuto come Herbert von Karajan in una famiglia del ceto medio dominata dalla madre. Il padre «era sempre all'ospedale, lontano, e lavorava come un pazzo; non lo vedevo quasi mai». Quando Franz aveva dodici anni, la madre fu eletta al parlamento nelle file del Partito Popolare e rimase lontana, a Vienna, per gran parte dell'adolescenza del figlio. A quattordici anni questi fu mandato a studiare musica in mancanza di un'alternativa avvincente, «e scoprii all'improvviso che poteva essere la mia vita». Incominciò dirigendo Messe di Bruckner nell'abbazia di Sankt Florian ma abbandonò il corso di direzione al Conservatorio di Monaco e sembrò deciso a entrare nelle file dei violinisti d'orchestra fino a che, come ebbe a dire lui stesso, «la decisione di dedicarmi alla direzione fu presa senza il mio intervento».
Il19 novembre 1978, esattamente centocinquant'anni dopo la morte di Franz Schubert, stava andando con alcuni amici a suonare il Quintetto La trota a Steyr, dov'era stato composto, quando la loro macchina ebbe un grave incidente. Il diciottenne Franz si fratturò tre vertebre e non fu più in grado di tenere in mano un violino. Ma poteva ancora dirigere. «Quando ho un'opera lunga come il Tristano, o devo battagliare con un'orchestra per ottenere un buon risultato, a volte sento dolore», ammette. «E questo può forse spiegare il mio modo di lavorare che consiste nel lasciar fare il più possibile ai musicisti.» Mentre addestrava l'Orchestra Giovanile Austriaca il suo nome fu segnalato a un appassionato... e la sua vita cambiò da un giorno all'altro. Il barone Andreas von Bennigsen apparteneva alla più antica famiglia di Hannover ed era lontano parente della regina d'Inghilterra. Da bambino si era seduto sulle ginocchia di Wilhelm Furtwängler che per sottrarsi ai nazisti si era rifugiato presso il suo nonno materno, lo scrittore elvetico Johann Knittel. Le due famiglie erano abbastanza intime perché Bennigsen venisse battezzato con lo stesso nome del figlio di Furtwängler. Bennigsen aveva fondato un'agenzia musicale e aveva creato in Austria un'orchestra da camera in cui suonava il violino. Quando sentì parlare di un direttore del posto, lo invitò a fare due chiacchiere con lui. «Arrivò con il treno alla nostra casa in Svizzera, molto taciturno e umile... ma io intuivo che aveva qualcosa di speciale. Parlammo per tre ore e io gli dissi: «Deve procurarsi tutti i dischi di Wilhelm Furtwängler, perché il mio sogno è trovare il suo successore.» Dopo averlo sentito dirigere la Quinta Sinfonia di Bruckner, il barone si offrì di fargli da agente; la proposta fu accettata.
Per prima cosa cambiò il cognome del ragazzo, dal modesto Most al più solenne Welser-Möst. «La sua famiglia aveva parentele nella città di Wels fin dal sedicesimo secolo », notò il barone. Qualche mese dopo gli cambiò di nuovo il cognome in von Bennigsen, adottandolo come figlio ed erede. Però era tardi per sostituire il nome sui primi dischi. «Ero troppo pigro per mettere al mondo figli», diceva ridendo il barone, «e avevo sempre desiderato averne uno molto dotato, un principe. Quando conobbi Franzi... fu molto naturale. Anche per mia moglie.» Il direttore andò a stare con i Bennigsen e li seguì in Svizzera e nel Liechtenstein, dove prese la cittadinanza del famoso paradiso fiscale. Il barone gli fornì abiti nuovi e occhiali perché avesse l'aspetto del direttore affermato. «Non somiglia affatto a Furtwängler, e questo è strano», ammise alla fine. «La sola cosa che hanno in comune è che portano la musica a tanta gente che non capisce perché ne viene affascinata. Quando dirige, Franzi diventa di vetro. La musica passa attraverso il suo corpo e si diffonde nel mondo.., eppure la fa sembrare nuova.»
Welser-Most continuò a mantenere la linea della minor resistenza. «Non vado mai a caccia di qualcosa», insisteva. «Il mio unico scopo è fare musica, o meglio lasciare che la musica si produca nel miglior modo possibile. Il suo lancio nella massima divisione avvenne nel settembre 1990 quando la London Philharmonic lo scelse, preferendolo a Mehta e ad altri candidati di lusso, come direttore musicale stabile al South Bank Centre. Gli fu data un'autorità senza precedenti sulla scelta dei programmi e il diritto incontestato di scritturare e licenziare gli strumentisti. «Abbiamo scoperto un talento colossale con doti musicali e politiche», disse il manager dell'orchestra, John Wiilan, «e intendiamo lasciarlo fare. Quando comincerà a rendersi conto di ciò che può fare, sarà travolgente.»
Welser-Möst, però, era più circospetto. Aveva intenzione di mantenere un posto nella provincia tedesca dove avrebbe potuto perfezionare il suo repertorio in una relativa tranquillità. «Mi darà la possibilità di lavorare su me stesso, lontano dai riflettori.., e questo è ancora necessario», disse. «Il mio scopo principale è servire la musica studiandola nel modo giusto. In quanto a eseguirla, cerco di mettere in disparte il mio ego e di lasciare che le cose vadano a modo loro.»
Fra i suoi pochi coetanei emergenti, Flor abbandonò il complesso berlinese per una fragile posizione a Londra, Mark Wigglesworth lasciò impressioni contrastanti dopo aver vinto il Concorso Kondrashin; e il ciclo di Sibelius che avrebbe dovuto consacrare il nome di Jukka-Pekka Saraste parve anemico in confronto con le sfolgoranti incisioni di Birmingham di Simon Rattle. Una o due possibili promesse brillavano nelle terre liberate dell'Europa orientale, ma tutto sommato la vetrina dei direttori era più spoglia che in passato. Mentre saliva sul podio da concerto con un sorriso mite sul viso modesto, Franz Welser-Möst sembrava un po' un gatto prigioniero in una latteria con tutte le zangole piene di panna a sua esclusiva disposizione.[...]