PRIMA SVIZZERA DI 'POLIUTO' ALL'OPERNHAUS DI ZURIGO


TESTO INTEGRALE

Il 7 dicembre 1960 fu una data importante nella storia dello spettacolo operistico: in scena al Teatro alla Scala di Milano l’opera di Donizetti Poliuto, composta nel 1838, ma rappresentata, per motivi legati alla censura borbonica, solo nel 1848, pochi mesi dopo la morte del compositore. Il compositore ebbe comunque la possibilità di ascoltare la sua musica a Parigi nel 1840, ma nella versione rivisitata in chiave grand opéra, intitolata Les Martyrs.
Nel ruolo di Paolina, Maria Callas, attesissima dal pubblico poiché assente da tre anni dal teatro milanese per diverbi con il sovrintendente Ghiringhelli. Nel frattempo la cantante (una vera e propria leggenda vivente, «ormai imbalsamata in una gloria alla quale hanno contribuito ragioni estranee all’arte», come scrisse
Eugenio Montale) si era separata dall’imprenditore Meneghini per convivere con l’armatore greco Aristotele Onassis, presente alla serata insieme ai Principi di Monaco, Grace e Ranieri.
Si è trattato di uno «spettacolo superbo, indimenticabile», scrisse Franco Abbiati sul Corriere della Sera. Il successo fu «iperbolico» e «l’entusiasmo sembrava arroventare gli ori e gli stucchi della splendida cavea piermariniana». Montale concluse la sua recensione riferendo di un «diluvio di fiori» e di «scene di tregenda sul palcoscenico e fuori».
Della serata esiste un’ottima registrazione live che documenta l’eccelsa bravura di quasi tutti gli interpreti: oltre alla Callas, cantavano Franco Corelli, Ettore Bastianini e Nicola Zaccaria. Sul podio Antonino Votto.

La regia fu affidata a Luchino Visconti. Ma, per protesta contro la censura democristiana che impose dei tagli ad alcune scene di Rocco e i suoi fratelli e sospese le recite dell’Arialda di Testori da lui diretta, il grande regista abbandonò le prove. La regia dello spettacolo fu portata a termine da Herbert Graf.
«La Callas - scrisse Abbiati - è parsa superarsi per la plastica essenziale evidenza dei gesti rivelatori e per la vibrante commozione del lirismo canoro.»
Nello Santi, che da oltre un anno sta lavorando a questo progetto, intende proporre l’opera di Donizetti nella versione (e quindi con i tagli e le integrazioni) concepita da Antonino Votto per gli spettacoli scaligeri. Un omaggio a un direttore d’orchestra che Santi stima profondamente e considera, insieme a Toscanini, Mitropulos e Molinari Pradelli, un maestro e un punto di riferimento artistico.
Damiano Michieletto, a cui è affidata la regia (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti) traspone la vicenda di Poliuto, martire della fede cristiana, in una dimensione futuristica e atemporale al contempo, ambientandola (si legge nelle Note di regia) «in una sorta di sotterraneo industriale, senza aria né luce, dove gli uomini vivono come topi.

Il gran sacerdote di Giove, Callistene, è una sorta di capo d’industria, colui che ha creato il sistema di dominio capace di schiavizzare l’umanità. Severo è il suo braccio armato, capo di una “milizia” che controlla tutto e tutti con la violenza.»
In un tale contesto oppressivo, in cui l’uomo è «ridotto alla condizione di automa-manichino, replicante e clone di un modello sempre identico e prodotto in serie», Poliuto, con il sostegno della moglie Paolina, sceglie di diventare un martire per riscattare l’umanità da questa condizione terribile. «Una conclusione - afferma lo stesso Michieletto - dominata proprio dall’amore, che qui si sostituisce al Dio della religione, ed è l’unica forza in grado di distruggere la malvagità del potere dispotico e di ripristinare la libertà».
Nel rôle en titre
Massimiliano Pisapia, mentre Fiorenza Cedolins sarà Paolina. A Massimo Cavalletti è affidato il ruolo di Severo. A Riccardo Zanellato quello di Callistene. Infine Jan Rusko e Boguslav Bidzinski interpreteranno rispettivamente i ruoli di Nearco e Felice.
La première avrà luogo domenica 6 maggio alle ore 19.00. Sono previste altre otto rappresentazioni fino al 9 giugno. Info: www.opernhaus.ch


VITA DA PALCOSCENICO
INTERVISTA A DAMIANO MICHIELETTO


ALLE RADICI DI UNA PASSIONE
INTERVISTA AL REGISTA DAMIANO MICHIELETTO
E ALLO SCENOGRAFO PAOLO FANTIN



DAMIANO MICHIELETTO:
“L’OPERA DOVREBBE RACCONTARE IL PRESENTE”

BY COURTNEY SMITH

Il regista d’opera veneziano Damiano Michieletto, non ancora quarantenne, ha già firmato dozzine di nuove produzioni di lirica. Il suo ultimo lavoro lo riporta nella sua città natale, al Teatro La Fenice, per Così fan tutte di Mozart, la cui prima si terrà questo mese. È l’ultima parte della trilogia di Wolfgang Amadeus Mozart/Lorenzo Da Ponte commissionata a Michieletto dalla Fenice. Il primo episodio – una versione sexy e innovativa del Don Giovanni – è andato in scena lo scorso settembre, seguito il mese successivo da una provocatoria produzione de Le nozze di Figaro.
Con solide basi accademiche, acquisite con un diploma in regia teatrale presso la Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” di Milano e una laurea in lettere moderne all’Università di Venezia, Michieletto ha avuto il suo debutto internazionale nel 2003 al Wexford Opera Festival con l’opera Svanda Dudák di Weinberger. Pur lavorando in tutto il mondo, molte delle sue collaborazioni sono con teatri d’opera italiani: tra queste troviamo Die Entführung aus dem Serail al Teatro San Carlo di Napoli, Un Ballo in maschera al Teatro alla Scala e Il Barbiere di Siviglia al Maggio Musicale Fiorentino. Mentre si prepara per Così fan tutte, Michieletto ha condiviso con noi le sue riflessioni sulla regia d’opera moderna.

Lei lavora spesso a Venezia e alla Fenice ha già diretto due opere di Mozart/Da Ponte. Ora arriva Così fan tutte. Può parlarci della sua regia? C’è un approccio specifico per Mozart che non applica ad altri?

Così fan tutte è la storia di una scommessa: due ragazzi scommettono che le loro fidanzate siano fedeli, e alla fine finiscono uno nel letto dell'altro! Uno scambio di coppie. È la seconda volta che porto in scena quest’opera: a prima vista sembra un gioco innocente e spassoso, e invece rivela delle profondità inaspettate e delle sottigliezze crudeli. Ho ambientato la storia ai giorni nostri, in un hotel, il cui proprietario è Don Alfonso, un uomo cinico e solo. Lui avverte i due ragazzi che sarà una scommessa molto rischiosa e “in lacrime dee terminar”. Questo è il finale che ho scelto: le relazioni si spezzano tra tutti i personaggi e quella che doveva essere una bella vacanza nell’hotel si rivela una dura esperienza che lascia delle cicatrici. Da Ponte è geniale: le sintesi fulminanti e la precisione psicologica dei suoi versi forniscono un materiale strepitoso per un regista. Mozart possiede la capacità di toccarti sul vivo e di farti ridere e piangere, insieme. Del resto, in queste tre opere la trama è sempre molto complicata, la presenza del Coro è quasi nulla e i personaggi hanno delle psicologie con moltissime sfumature. È quasi fare del teatro di prosa, infatti a volte durante le prove leggiamo e diciamo i recitativi, senza accompagnamento.

Quale opera vorrebbe dirigere in futuro? In quale teatro?

Non ho un'opera preferita. Mi piace il Barocco e mi piacciono i musical del West End. Mi piace Monteverdi e Bernstein. Mi piacerebbe abbattere certi pregiudizi tra quello che viene inteso come arte e quello che viene inteso come intrattenimento. In Italia l’offerta teatrale è abbastanza stereotipata eppure i cervelli in giro ci sono, eccome. Ecco, a me piacerebbe dirigere un’opera con scrittori e compositori capaci di raccontarci il presente. In quale teatro? Nel teatro che non si accontenta di far rivivere il passato ma ha voglia di provare a dare qualche colpo per scolpire il futuro.

Cosa pensa dei registi che stravolgono il testo e le intenzioni di compositore e librettista?

Penso che se il risultato è buono hanno fatto bene, se invece il risultato è banale e noioso allora hanno fatto male. Sta al pubblico giudicare! E sta ai Sovrintendenti dei Teatri decidere se affidare il lavoro a quei registi oppure no. La regia è nata per rispondere a una crisi del linguaggio e per ragioni di business: oggi nessun sovrintendente si sognerebbe di riproporre sempre lo stesso allestimento, no? Quindi per forza di cose, quando a un regista si chiede una nuova produzione, è naturale che si proponga una lettura personale.
GRAZIA.IT]