PLINIO MARTINI



I FUNERALI DI ZIA DOMENICA

Nella grande cucina di zia Domenica, Marco aveva ritrovato l’atmosfera di quando a sei anni lo trascinavano alle veglie dei morti. Allora la salma del defunto, composta sulla barella comunale e ricoperta di un lenzuolo in attesa che il falegname finisse d’inchiodare la cassa, era posata in mezzo a una stanza da cui era stato tolto il povero mobilio, in modo che tutt’intorno potessero disporsi i parenti i vicini di casa e gli amici; gli adulti seduti su seggiole prese in prestito e ordinate contro le pareti, sotto le foto di famiglia e i ricordi della prima comunione; i ragazzi accucciati su sgabelli a pochi palmi dal morto. Quello spazio esiguo, riscaldato da tanti corpi, graveolente degli odori che i contadini portano dai campi e dalle stalle, non era sufficiente per la gente convenuta, e pertanto erano occupati anche i corridoi e le scale, di donne soprattutto, che magari si erano portate da casa il cuscino da aggiustarsi sotto il sedere in un angolo di scalino; e dal suo posto tra gli altri ragazzi, Marco, che all’entrare aveva inutilmente pregato chi l’accompagnava di metterlo altrove, lontano dal cadavere, le invidiava. La veglia cominciava con la recita del rosario e il canto delle litanie della Madonna; poi veniva declamato l’uffizio dei morti, tre interi notturni intercalati dalle lezioni tolte dal libro di Giobbe; a questo punto si distribuiva un bicchiere di vino, operazione che richiedeva parecchio tempo sia per la difficoltà di muoversi in quella ressa, sia per la scarsità dei bicchieri; quell’interruzione, che per i grandi doveva essere gradita, per Marco era soltanto un prolungamento di pena; egli era quindi contento quando la veglia riprendeva con le lodi, il Dies irae, lo Stabat Mater, l’inno alle Vergini, quello dei Martiri, le litanie dei Santi eccetera: si tirava avanti così fin verso le undici, quando tutto il villaggio avrebbe già dovuto essere immerso nel sonno sotto le immobili rocce circostanti, non ci fosse stata quell’unica casa accesa a diffondere un ronzìo d’arnia gremita nel buio della notte.
Le lunghe nenie, le parole del latino ecclesiastico vagamente intuite come minacciose riempivano Marco di sgomento, accresciuto dalla presenza del cadavere rigido sotto il lenzuolo, scostato, questo, da ogni nuovo venuto a scoprirne il volto dagli occhi e la bocca chiusi, ma che a lui sembrava dovessero aprirsi ancora: cercava di non guardare e di non pensarci, di fissare la sua attenzione ai chiodi e ai nodi del pavimento di legno, senza tuttavia riuscire a dimenticare quella presenza; i chiodi che legavano gli assi dovevano trafiggere il trave che era sotto a sostenere tanta ressa e che magari avrebbe potuto schiantarsi, sprofondando nella caduta i vivi con il morto, lui abbracciato e schiacciato contro quel corpo ripugnante. Orribili morti vivi levitavano poi nei suoi sogni, con altissime cadute centrate sul suo capo, lui con le manine protese a evitare l’impatto, a respingere quegli occhi e quella bocca spalancati in un urlo; la mamma lo scoteva dal sonno per portarlo in cucina a bere la camomilla, lo fasciava d’attenzione e di affetti, e tuttavia al prossimo mortorio il ragazzo era ancora costretto a nuove veglie e a nuovi incubi, perché doveva farci l’abitudine, e anche perché la preghiera degl’innocenti, o il loro intenso patire a testa china, è particolarmente gradito a Dio.
Agli dei, pensava ora Marco, che collegava quella tradizione a più antico dolore.
Più tardi, quando da studente e da giovane insegnante credeva ancora alla comunione dei Santi e alla necessità delle preghiere  e delle messe di terzo di settimo di trigesimo d’anniversario, pagate a tariffe diverse a seconda della solennità del rito, il culto dei morti aveva continuato a essergli di molestia non disgiunta da un turbamento che sconfinava con la paura. Certo è che quelle interminabili liturgie, quei paramenti macabri, croci stendardi stinchi incrociati teschi catafalchi, oro e nero, argento e nero, tutto un macchinoso guarnimento barocco, erano giornalmente presenti allo sguardo dei fedeli per messe funerali veglie rosari visite al camposanto dall’ave dell’alba a quella della sera, che era detta appunto avemaria dei morti, non tanto a richiamare la malinconica memoria di chi ha lasciato questo mondo, quanto piuttosto a riproporre con misurato stillicidio il pensiero e la paura della morte. La Morte era passaggio dalla misericordia alla giustizia, salto nel buio di un’eternità che si apriva con l’apparizione del Rex tremendae maiestatis, in un giorno calamitatis et miseriae, di pianto e stridor di denti, dove c’è da tremare e da temere: ora che la salma di zia Domenica stava in corridoio fra quattro candelabri, Marco ritrovava e respingeva dentro di sé quelle terrificanti immagini, elucubrazioni di secoli diversi e contrastanti, di mistiche pazzie, d’oppressioni, di paure antiche quanto l’uomo. «Considera che da quel momento dipende la tua eterna salute, o la tua eterna dannazione. Vicini a morire, vicini a quell’ultimo chiuder di bocca, al lume di quella candela, quante cose si vedranno!» Chissà quali, cercava di ricordare: messe tralasciate, bestemmie proferite, atti impuri, scandali dati.» «Oh, Dio! tutto vedrai in quel momento, nel quale ti s’aprirà dinanzi la via dell’eternità: Momentum a quo pendet aeternitasll. E qui zia Domenica sollevava il lungo naso da Il Giovane Provveduto, libro scritto da San Giovanni Bosco per la pratica dei doveri e degli esercizi di Cristiana Pietà dei giovani, e commentava: questo è proprio scritto in latino, con una sospensione di deferenza per la magica lingua che in mente sua, chissà, doveva essere stata la lingua di Gesù e degli Apostoli, quella ufficialmente parlata in Paradiso. A Sonlerto, terra di venti casette abitate durante la buona stagione e raggruppate ai piedi dell’enorme massiccio che porta sulle spalle il ghiacciaio del Basodino, quando la pioggia impediva le quattro chiacchiere serali degli adulti davanti l’oratorio e le ultime corse dei ragazzi nei vicoli intorno, zia Domenica era solita leggere quello e altri libri di devozione, La Giovane Cristiana, La Filotea dei Defunti, La Storia Sacra, L’Imitazione di Cristo, o brani dei bollettini parrocchiali conservati con cura a completare una devota biblioteca sul ripiano dell’unica finestra della cucina; il nonno silenzioso nell’angolo del camino, zia Maria dall’altra parte che sferruzzava, e lui, Marco, semiaddormentato su uno sgabello ai piedi della lettrice, intimità illuminata dalla luce del fuoco e da una lampada a petrolio la cui altezza era regolabile da ingegnoso appenditoio di legno costruito e ornato dalla mani pazienti del nonno.

Quella era per zia Domenica l’ora della meditazione, non della preghiera, già recitata nell’oratorio con il rosario comune; e leggeva quindi sotto la lampada le storie d’Abramo e di Giuseppe d’Egitto, oppure le meditazioni sui mezzi necessari per divenire un giovane virtuoso, i rimedi contro le astuzie del demonio, i mezzi per conservare la bella virtù, la fuga dall’ozio e dai cattivi compagni, i novissimi: il tutto nell’aulico linguaggio di quegli autori, che essa scandiva con scolastica diligenza: «La prima cosa che i dannati patiscono nell’inferno si è la pena dei sensi, i quali sono tormentati da un fuoco che brucia orribilmente senza mai diminuire. Fuoco negli occhi, fuoco nella bocca, fuoco da ogni parte. Ogni senso patisce la sua pena. Gli occhi sono accecati dal fumo delle tenebre, atterriti dalla vista dei demoni e degli altri dannati. Le orecchie giorno e notte non odono che continui urli, pianti e bestemmie... la bocca è crucciata da ardentissima sete e fame canina: Et famen patientur ut canes». Chissà dove vagava intanto il pensiero del nonno silenzioso che da giovane aveva costruito case in Corsica e in Valtellina, e poi aveva fatto l’alpigiano, cacciato lungo le piste spericolate dei camosci, e doveva pur aver amato la sua più giovane e bella sposa, a credere al giudizio di zia Maria, più attenta alle cose di questo mondo che ai mistici pensieri della sorella maggiore. Nella mente del ragazzo già intontito dal sonno, quelle parole prendevano invece dimensioni e deformazioni conturbanti, che la descrizione del paradiso, letta in seguito o rimandata alla sera appresso, non riusciva a cancellare. «Per fartene un’idea considera una notte serena. Quanto è mai bello a vedersi il cielo con quella moltitudine e varietà di stelle! Quali sono piccole, quali più grandi: mentre le une nascono sull’orizzonte, le altre già tramontano; ma tutte con ordine e secondo la volontà del lor Creatore. Aggiungi a ciò la vista di un bel giorno, ma in modo che lo splendore del sole non impedisca di veder bene le stelle e la luna».

Marco, fra i tanti cugini e parenti convenuti per il funerale, cancellò con fatica dal proprio volto un sorriso che avrebbe potuto essere male interpretato, e ancor più si discostò dagli altri per avvicinarsi alla finestra e osservare la gente che, fuori, si era radunata in due gruppi, lasciando nel mezzo il libero passaggio per il prete che fra poco sarebbe dovuto arrivare con la confraternita a portar via la salma. Il brusìo degli altri, il solito brusìo di chi aspetta e non sa cosa fare, le parole che ricordavano gli ultimi momenti di vita della poveretta, cosa aveva detto, cosa sperava ancora di fare, quanto aveva sofferto e come aveva presagito la propria fine, da quella santa donna che era, o le parole usuali di chi s’incontra e per obbligo civile deve pur dire qualche cosa, la salute il tempo il lavoro i figli, tutto questo, che in fondo gli riportava suoni e immagini consuete, nel contempo le metteva a disagio, accresciuto dal comportamento dei parenti, che senza volerlo quasi lo evitavano come estraneo; alcuni poi gli davano del lei, goffamente.

Eppure non era passato molto tempo da quando aveva lasciato il paese. Al pari degli altri era cresciuto lì, aveva fatto gli stessi lavori, amato i prati puliti, le bestie, sopportato le dure fatiche dell’alpe e della fienagione, dei sentieri interminabili sotto il carico che diventa sempre più greve; ma ricordava pure il profumo del larice bruciato nelle baite, e certi risvegli estivi riempiti dal solo fragore dell’acque condiscendenti a valle, !’immenso che gli entrava dalla finestra spalancata; quando viaggiava fra nordiche nebbie il rullìo cadenzato dei treni gli portava quelle sensazioni e lo immergeva in quei ricordi. Anche se ora possedeva pensieri diversi, usciva dallo stesso mondo pastorale, che poteva essere identificato nell’odore dei cibi, nel profumo dei fienili, dello stallatico sparso sui campi, nello stesso modo di raccontare o di accennare a un aneddoto; quella era la sua gente, con la quale in fondo gli sarebbe piaciuto poter condividere i semplici pensieri, gli affanni e le speranze.
E guardava suo padre, silenzioso davanti al camino; lo guardava scuotere la cenere della sigaretta con attenzione, in modo che cadesse sulla cenere del fuoco, o rispondere tranquillo a chi gli chiedeva qualcosa a proposito di una corona di fiori; cercava di immaginare quali potessero essere i suoi pensieri e l’urgenza dei suoi ricordi in quella casa dove egli era nato e cresciuto; erano in dieci una volta a mangiare attorno a quel tavolo; dieci ciotole di minestra, dieci fette di polenta o di pane, e poi nove dopo la morte di Angela, otto dopo il decesso prematuro della nonna, e poi sette, sei, cinque, sempre meno, matrimoni e funerali, fino a quest’ultimo di zia Domenica, lui il solo superstite di tutti quei ragazzi che appena ieri erano lì, pieni di salute e di voglia di vivere, ad amarsi attaccar briga e divorare il cibo dei poveri. Così poco dura una vita. E si stupiva, Marco, di vedere suo padre tanto sereno; forse la stanchezza del corpo e il rallentamento delle funzioni vitali aiutano l’uomo a rassegnarsi al pensiero della fine; forse le stagioni dei vecchi sono come quelle dei bambini, ampie, senza l’affanno delle scadenze e la schiavitù dell’orologio, tutte da godere, o ancora da godere come un dono inaspettato.

Finalmente Marco vide dalla finestra arrivare la confraternita preceduta dallo stendardo, un gruppetto di uomini vestiti di bianco, e dietro il prete in paramenti neri con quattro ragazzi in funzione di chierichetti. Guardò l’uomo solennemente bardato alzare il capo e scrutare al modo dei miopi la gente che attendeva, assai più numerosa di quanto ci si poteva aspettare per una qualunque zia Domenica; e, divertito di vedere avverarsi in modo esatto le proprie previsioni, lo guardò rallentare il passo a maggior solennità, raccogliere il lembo del piviale con gesto che a lui doveva sembrare regale, atteggiare il viso a maggior compunzione, e modulare attentamente la voce per il Si iniquitates observaveris Domine, che era l’antifona del De profundis, salmo con il quale iniziava la funzione. Tutti in cucina zittirono movendosi verso la porta che dava in corridoio; il canto dei confratelli si dilungò in quel silenzio e si spense; il prete ripetè l’antifona, si udì il rumore del fornello del turibolo battere contro le catenelle nell’incensazione della bara; l’odore dell’incenso vagò per la cucina; un nuovo scalpiccìo annunciò la partenza della confraternita che iniziò il canto del Miserere, e i parenti mossero dietro, Marco in mezzo a loro con la testa china. Ma, avendola sollevata per scoprire il motivo di un arresto, fra i tanti volti che gli stavano intorno s’incontrò con gli occhi di Giovanna.

Marco stava vivendo un periodo di sconforto; si sentiva incerto, sguarnito, bisognoso d’affetto, perciò, appena intravisti gli occhi di Giovanna, scuri sotto l’arco perfetto dei sopraccigli e carichi, così gli era sembrato, di una paurosa dolcezza, o almeno del ricordo di un’intimità vissuta insieme e non dimenticata (mio Dio, quel corpo robusto e gentile doveva pur essere vivo in mezzo alla piccola folla, con il suo segreto tepore), cercò precipitosamente di sottrarsi ai pensieri che gli venivano incontro, come se la vita non avesse potuto offrirgli altro che sofferenze. Alzò gli occhi alle sue montagne: neve intatta ne levigava i profili, ma ancor meglio metteva in evidenza terrazzi forre dirupi e le contorte vene dei riali, disordine apparente e ritrovato ogni volta con affetto; le nuvole del mattino, le ultime di una settimana di pioggia, si erano disciolte in un sereno pulito; una corona di bianchissime nebbie, per uno strano fenomeno atmosferico stava tutto in giro posata all’altezza dei larici; la neve fresca era caduta fino alla zona del faggio, e, sotto, la vallata aveva acquistato un aspetto primaverile, le robinie i castagni i nocciòli ancora spogli, ma già gonfi di gemme e di linfe, i prati velati di un tenero verde.
E la testa del funerale entrava nel sole.
Cor mundum crea in me Deus cantava in armonia con tanto splendore: le parole almeno, non la nenia malinconica e scoraggiata, ammortita dall’aria distratta e mite, implorazione subito dispersa nella grande chiarità del cielo, per lasciar posto allo scalpiccìo degli accompagnatori in attesa del versetto seguente. E Marco già lo ritrovava nel fondo della memoria: Ne proicias me a facie tua; quante volte si era appeso a quelle parole con la disperazione del naufrago. Se Dio avesse ascoltato le preghiere degli uomini, certo non avrebbe potuto negargli una pace chiesta con tanta violenza di fede e purezza di sentimenti. Ma gli tornò in mente il volto di Giovanna, e s’arrestò meravigliato a pensare ciò a cui nella sua prima confusione non aveva badato: Giovanna non l’aveva mortificato dal velo monacale, ma la sua testa era libera, i capelli annodati sulla nuca e coperti di un fazzoletto di seta non senza civetteria: gli sembrava impossibile che la bontà del papa felicemente regnante avesse concesso tanto alle suore. Dunque si era liberata dal voto impostole chissà con quale autorevole carità dalle inamidate madri che l’avevano educata in collegio: e rimase sognante a pensarci, ma lo scompiglio della fila lo ripotò alla realtà del funerale, e si rimise disciplinatamente in fila.
La cassa d’abete di zia Domenica, bianchissima di sole, Marco ora la vedeva per l’ampio giro della confraternita e del prete sempre solennemente officiante, stava per essere inghiottita dalla bocca spalancata della chiesa. Tunc acceptabis sacrificium iustitiae, oblationes et holocausta: nella penombra d’incenso, sotto l’arco della volta sacra Marco, ancora fuori, ricordava - il canto, non più disperso dalla mobilità dell’aria piena del fragore dei riali gonfi di disgelo dentro le loro gole, avrebbe ripreso lena e robustezza, un coro di voci contadine use a trovare nell’ antico gregoriano le loro scorciatoie collettive e individuali come lungo sentieri alpestri. Rigida dentro la cassa, le calze nere puntate avanti, il nero grembiule a coprire il corpo minuto, le mani intrecciate alla corona del rosario, il pallido volto dormiente, il fazzoletto da messa in testa, zia Domenica, portata a spalla da quattro nipoti, entrava ora per immersione in quel canto e in quella penombra che avrebbe subito riconosciuti, avesse potuto ricordare di essere stata viva, per nuove incensazioni e preghiere, durante le quali sarebbe stata presentata a Dio, accorrenti gli angeli suoi, offerentes eam in conspectu Altissimi, eam, e cioè l’anima bella e monda della famula dal solenne nome latino di Dominica. Domenica, su questa povera terra, luogo di lazzi crudeli, di piccole grandi cattiverie che fanno soffrire anche il cuore dei più puri, detta comunemente zia Giaculatoria, per via della sua abitudine, durante le lezioni di dottrina che impartiva nelle sere invernali ai più piccoli della scuola, come usava allora e usa forse ancora oggi, chissà, di insegnare e raccomandare la recita di quelle brevi preghiere: «Dolce cuor del mio Gesù, facchiotami sempre più» per esempio: e che voleva dire facchiotami? Le giaculatorie, spiegava zia Domenica, e con ragione, pensava Marco, da iaculare o iaculari, non so più, comunque gettare, sono come frecce lanciate al cuore di Gesù, della Madonna e dei Santi a ottenere le grazie attuali, tanto necessarie per i nostri bisogni quotidiani; e se la grazia non è concessa, pazienza, la giaculatoria è comunque corredata del suo bel fagotto di giorni d’indulgenza, la quale, «a dir dei Teologi, è la remissione della pena temporale che resta da scontare davanti a Dio per i peccati commessi dopo il battesimo, e già rimessi, accordata fuori del Sacramento, dal legittimo Superiore, coll’ applicazione del Tesoro della Chiesa, ai fedeli che ne adempiono le condizioni»; zia Domenica non soltanto sapeva citare a memoria la definizione, ma si dilungava a spiegare ciascheduna di quelle arabe parole affinché i suoi discepoli ne avessero la nozione più compiuta. Opportuno quindi recitar giaculatorie in ogni occasione, costa così poco: se s’incontra la cappella lungo il sentiero dell’ alpe, perché le vipere siano da angeliche mani sviate e intimidite; quando si sta per cadere in tentazione, a scacciare il demonio; se si ode bestemmiare, in riparazione; quando si entra nella stalla per rigovernare la vacca, che non rovesci con brusco movimento la secchia del latte appena munto; oppure all’inizio della semina di un campo, perché le patate crescano bene anche se messe in scorpione e in luna bassa; o ancora se si comincia a falciare una chiappa, cioè un prato, e non importa se di mezzo gerlo solo (ma in questo caso il fieno non farebbe più in tempo a crescere, osservava il solito impertinente; zitti zitti, adesso finiamo la dottrina, dopo se state buoni vi racconterò l’esempio. L’esempio, attesissimo, era quasi sempre di un morto ritornato vivo a dire e testificare quant’è bello o terribile di là. Adesso lo sapeva anche lei quanto).
Con altro rito settant’anni prima zia Domenica era stata purificata dall’acqua battesimale, e da quella chiesa era uscita verso la sua vita di provvida formica, una delle tante del formicaio, sempre di corsa per prati gerbidi campi boschi a raccogliere fieni castagne patate rape legna strame, radunare ammucchiare portar via riporre in solai cantine fienili, null’altro in mente che il santo timor di Dio e quell’interminabile lavoro per la sopravvivenza; Marco la ricordava a Sonlerto, sollecita a grandi falcate, lei così piccola sulle magre gambe, i piedi calzati di larghe pedule di stoffa a darle un aspetto palmipede, lungo gl’innumerevoli sentieri che dalla frazione conducevano alla campagna e ai boschi circostanti; lei davanti, e poi zia Maria che era la sorella più giovane, pure palmipede poverina, poi lui, Marco, tutti e tre con la gerla il rastrello o la falce fienaia sulle spalle, a seconda del lavoro che avrebbero fatto; lei sempre con un occhio attento al passo da mettere avanti, all’arbusto da troncare con rapido gesto, alla vipera da uccidere senza pietà; l’altr’occhio invece puntando al cielo, alle nubi, alla direzione del vento, teso l’orecchio a cogliere anche il colore dei suoni, per calcolare quanto fieno si sarebbe potuto arrischiare sul prato, o che altro lavoro si sarebbe dovuto scegliere a non sprecare la giornata. E ora l’immobilità, a dire che niente vale a questo mondo, salvo il fatto di essere vivi.
Proprio a Sonlerto, dove suo padre lo mandava ogni estate ad aiutare le due zie nella fienagione (il nonno, più che ottantenne, di solito stava sulla loggia ad aggiustar gerle e rastrelli o a prepararne dei nuovi), Marco aveva conosciuto Giovanna. Era l’anno in cui la pazzia di Hitler era giunta alla sua tragica conclusione e l’Europa ascoltava incredula la guerra spegnersi sulle isole del Pacifico. Marco si spaventò calcolando che erano passati quasi vent’anni; sarebbero stati diciotto in estate: molti per la vita di un uomo, pochi a pensare ai cambiamenti avvenuti nella sua valle che, proprio grazie alla guerra, la quale accelera il volgere e rivolgere delle umane cose, aveva cominciato a uscire dalla sua antica immobilità; la penuria di combustibile aveva trasformato quei caprai in boscaioli, lavoro altrettanto duro e pericoloso, ma pagato. Pagato, e quegli scudi d’argento, quei bigliettoni che prima erano stati tanto rari da poter dire che la valle viveva di economia naturale, salvo l’emigrazione, erano sembrati una ricchezza, la felicità a portata di mano; nelle case del paese (non della valle che si apriva alle sue spalle e dove c’erano una decina di frazioni come Sonlerto ) era entrata l’acqua potabile; qualcuno aveva persino messo la vasca da bagno e comprato la radio, con grande preoccupazione del prete di allora, che nei corpi più puliti e nei facili ritmi del Trio Lescano fiutava perniciose tentazioni carnali.

Se questi cambiamenti cominciavano a mutare il volto del villaggio e le abitudini degli uomini, Sonlerto continuava però a distare due ore e mezza di cammino lungo una mulattiera le cui pietre erano levigate dalla transumanza degli uomini e delle bestie meglio che i ciottoli del fiume; inoltrarsi in quella strada voleva dire uscire dalla storia verso un mondo antico, dove la vita ritrovava il suo ritmo solare e la fatica non era compensata con danaro. Le grandi notizie che milioni di uomini attendevano di ora in ora giungevano là dentro con giorni di ritardo, affievolite, come cose irreali e senza importanza, buone per le chiacchiere di zio Clemente che ogni tanto riceveva un pacchetto di giornali vecchi; là dentro ci si poteva credere immutabili nel ritmo delle stagioni, e le nuvole erano più importanti che le notizie della guerra o della pace, visto che avrebbero potuto scatenare la pioggia sul fieno ammucchiato nei prati.
Non che Marco, il quale aveva appena compiuto sedici anni, fosse in grado di apprezzare la quiete di Sonlerto e le meditazioni religiose di zia Domenica, la quale in mezzo al piccolo popolo della terra trovava la sua giusta collocazione di diaconessa sollecita della salvezza altrui; egli avrebbe anzi preferito trascorrere le vacanze in paese, dove avrebbe trovato più facilmente compagnia; a Sonlerto d’estate vivevano soltanto i vecchi le donne e i bambini, una settantina di persone in tutto, forse meno, visto che gli uomini e i ragazzi dai quattordici in su, o erano sugli alpi, o erano rimasti in paese per i loro mestieri. Così Marco, troppo adulto per il gioco dei bambini, e non ancora accolto dalla compagnia dei due soli giovani della frazione, Celso, figlio unico che aveva dato le bestie a un alpigiano e si occupava come gli altri dei fieni, e Aldo, che doveva sostituire in quel lavoro una sorella malata, restava solo e immalinconito nel suo vago sognare l’amore, come fanno o meglio facevano tutti i ragazzi della sua età. E si era anche portato, per i giorni piovosi, un’edizione scolastica dei canti leopardi ani, commento Biondolillo, dove andava vagheggiando la sua sventura, con profondissimi sospiri per Silvie e Nerine inesistenti, come pure un’antologia di autori latini, dove rileggeva Passer, deliciae meae puellae, immaginando un romantico Catullo sognare la casta Lesbia amante dei passeri.

L’attacco di ben altro latino del Dies irae risvegliò Marco da quelle fantasticherie, e la gente, atteso il solenne insediamento sacerdotale nel trono in cornu evangelii con relativa guardataccia ai ragazzi irrequieti, si sedette con rumore scorrente dall’ abside alla navata alla porta di fondo detta delle donne; ma Giovanna aspettò un buon istante prima di accomodarsi come gli altri, e trovandosi dall’ altra parte del corridoio centrale e un po’ più avanti che Marco, si voltò a guardarlo; Marco questa volta ricambiò lo sguardo, che fermò sui seni e sui fianchi, fin che la donna fu seduta, teste David cum Sibylla, e per fortuna testi soltanto loro di ciò che stava ricordando e desiderando proprio davanti alla bara della povera zia. La quale non era stata personaggio di poco conto, tanti anni prima, nell’avventura amorosa dei due ragazzi, e chissà quanto ne aveva sofferto.
La notizia della venuta di Giovanna a Sonlerto era stata comunicata una sera da Leonilde, in piazza, dopo la recita del rosario, con il rilievo che una comare sa dare all’annuncio di un avvenimento insolito davanti alle amiche sorprese e ingelosite: sarebbe arrivata ad aiutarla una ragazza di Locarno, di nome Giovanna, anni quindici, figlia unica di un contabile che aveva sposato una sua lontana parente, allieva di un collegio di suore. Di Locarno. Chissà come le sembrerà brutto Sonlerto, loro con le strade asfaltate e noi con le nostre bovine. E i sassi. Quella ti scappa subito. Però, un collegio di suore, chissà che brava. E che bel nome Giovanna, nome cristiano, noi non avremmo mai pensato di darlo alle nostre ragazze, sempre Angela Mariangela Anna e Maria. Adesso però cominciano a cambiare, Alma Nives Stella Mara. Che nomi. - Bella? chiese d’improvviso Marco, e poiché Leonilde visibilmente preoccupata prima di pronunciare un suo sì incerto e sospensivo, aveva atteso qualche istante, fu interrotta da pronta e sbrigativa risposta di zia Domenica: aspetta e vedrai, ha proprio da essere bella per farti compagnia? La gente si prende come è.
Ma lui su quel nome aveva già trasferito tutti i suoi pensieri soavi, le speranze e i cori, e fervide preghiere, la sera appena entrato nel letto, per non cadere in tentazione. Scrivevano e insegnavano infatti i contemporanei di Marx e di Freud, e naturalmente zia Domenica leggeva a Marco, anche se l’accorata raccomandazione era diretta alle femmine: «Non provate voi, tutte le sere, una tal quale oppressione al pensiero di quel silenzio lugubre in cui vi troverete fra breve? Quel letto in forma di tomba, quel sonno che vi separerà dal mondo intero... l’occhio di Dio che vi sta gardando... Tutto ciò non vi fa forse impressione? .
Vi sono di quelle che, salendo al dormitorio, recitano a bassa voce la corona per mettersi sotto la protezione della SS. Vergine; esse gettano l’acqua benedetta sul loro letto per iscacciare il demonio e i cattivi pensieri...»

Desiderata e temuta in quel modo, Giovanna era comunque arrivata a Sonlerto, e Marco se l’era trovata davanti un meriggio, inaspettatamente, sotto un portico buio che sta fra due case, e dove non ci si può scansare senza toccare; udita più che vista, e sentita per il profumo del corpo fresco di saponetta, così insolito allora; guardata poi controluce la sagoma snella vestita di una gonna più corta del normale, anche perché la ragazza doveva essere cresciuta. Tu sei Giovanna.
E tu sei Marco. Uscirono alla luce, lei un gradino più su a mostrarsi come era, le gambe brune, la gonna a strisce rosa un po’ stinta, la camicetta a maniche corte che gli sembrò di raffinata eleganza, ed era stata certamente portata a Sonlerto, come il resto del vestiario, perché già lisa. Nessuno può dire quanto siano lunghi gl’istanti in cui gli occhi di due ragazzi s’incontrano e si provano a vicenda, in un reciproco sublime imbarazzo che non si potrà più ripetere. Né Marco poteva ricordare cosa si fossero detti poi, mentre l’accompagnava a casa di Leonilde, dove si era fermato a guardare devotamente le sue chiacchiere e i suoi silenzi, dimenticato il resto del mondo fino all’arrivo di zia Domenica: ma Marco, e il nostro fieno?
Il taglio dei fieni procedeva infatti con la solerte tenacia che i contadini di montagna dovevano produrre al momento dei raccolti, ben sapendo che un mutamento del tempo poteva significare il disastro collettivo delle cantine e dei fienili semi vuoti, la mensa quotidiana ancor più misera, la vacca venduta a chi sa profittare delle disgrazie altrui. Benché il terreno prativo intorno alla frazione fosse vasto e percorso da cento sentieri, che si diramavano e ricongiungevano sempre meno marcati man mano che

si allontanavano dall’abitato, fino a perdersi nei boschi, la disuguale maturazione delle erbe obbligava i contadini a scelte di priorità; perciò era facile che la fienagione
li vedesse raggruppati negli stessi luoghi: combinazione che Marco apprezzò moltissimo in quei giorni. La sua preoccupazione, il dolcissimo pensiero dominante era naturalmente diventato Giovanna, Giovanna al centro di tutto il verde di Sonlerto, una grande e varia campagna divisa da muricciòli, filari di frassini e motterelle, o brughe come erano chiamate, con cespugli di nocciòli e d’altri arbusti, e tutto in giro il bosco, in modo da non capire se fosse questo ad allungare in mezzo ai prati le sue propaggini frondose, o se non fossero invece i prati a penetrare nel suo ombroso segreto, creandovi piccole radure invitanti al sogno di agresti amori; e Marco non cessava di inventare stratagemmi e scappatoie per incontrarsi con lei, favorito non soltanto dall’innocente stupidità delle zie e dalla versatile e gentile conformazione del terreno, ma anche da un’altrettale cura della ragazza di indovinare i suoi spostamenti per lasciarsi sorprendere nei posti più impensati: cosa che però Marco non sapeva e non indovinava, e nel suo inquieto struggimento sfoglia va margherite, m’ama non m’ama. Una la sfogliò pure durante uno di quegl’incontri, e giunto con delusione all’ultimo non m’ama, la ragazza allegramente rise e disse: ma certo che ti ama! e ne era nato il primo bacio, in punta di labbra e dietro un folto di nocciòli indulgenti.
Un’altra volta l’aveva vista su uno dei grossi macigni che s’incontrano in quella valle, e sui quali la fame di un tempo aveva portato gerlate di terra, per ricavarne magri praticelli di poche manciate di fieno quasi sempre bruciato dal sole: Giovanna era lassù, e gli gridò di aspettarla sotto, che ormai aveva finito; e scese infatti senza fretta lasciandosi guardare dal sotto in su, lungo le cosce fino al nastro bianco che nascondeva a malapena l’oggetto ultimo e inconfessato dei desideri suoi, mio Dio perdonami, peccato ormai avvertito e sempre più vicino e conturbante, fin che la ragazza toccò terra; allora, posate le gerle, unirono non più timide labbra e i corpi tremanti, peccato non soltanto di desiderio, ma di parole e di opere.
O sospiri, e aiuto reciproco, proprio con una ragazza, per il soddisfacimento dei sensi.
Sonlerto aveva una sua piazzetta, grigia di pietre antiche abitate da lucertole nonché adorna di licheni e di muschi vari, e non più vasta di una comune sala borghese; chiusa dall’oratorio con il campanile a lato, dalla casa di zio Clemente, da un antico edificio a tre piani, inspiega bile per la sua altezza e per la forma di fortilizio con finestrelle simili a feritoie, ora adibito a fienile; di fianco a questo completavano il quadrilatero una stalla quasi preistorica e la casa di zia Domenica, divise da un vicolo; altri tre vicoli cui confluivano le stra dette provenienti dalle case e dai campi sboccavano in quel piccolo centro, in modo che se qualcuno avesse camminato con gli occhi bendati nel capriccioso groviglio di strade sentieri vicoli portici pertugi che formavano la rete delle comunicazioni della frazione, o prima o poi sarebbe stato condotto lì a sua insaputa. Fra l’oratorio e il campanile, staccati, dalla porta seminascosta di una stanza destinata alle visite in loco del curato, una scala piegata a gomito scendeva sul sagrato, piccolo piazzale sopraelevato di tre scalini sui pochi metri quadrati di piazza vera e propria, rudemente selciata con ciottoli portati chissà quando dal greto del torrente; una seconda scala pure a gomito scendeva dal primo piano al pianterreno della casa di Clemente, e una terza cadeva diritta come una sentenza regale dal fortilizio in mezzo alla piazzetta, che diventava così una magnifica ciotola, un anfiteatro in miniatura sulle cui gradinate potevano trovare da sedere tutti gli abitanti della frazione.
Il che succedeva regolarmente ogni sera, se si escludono dall’adunanza i piccoli già messi con un ultimo segno di croce sulla fronte nei loro lettini di foglie di faggio, quando all’imbrunire suonava la campana del rosario, segnale atteso a indicare l’ora del riposo e a chiamare il piccolo popolo nell’oratorio per la preghiera comune. Nell’oratorio, come nelle altre case, non c’era luce elettrica, e vi si accendevano due candele di cera, che illuminavano poco, ma intensamente profumavano la pace del luogo.
Di solito era l’anima buona di zia Domenica che iniziava la recita del rosario, diritto che le era tacitamente concesso per essere lei maestra di dottrina; a meno che qualche ragazza intraprendente l’avesse preceduta per fare più in fretta, visto che zia Domenica, oltre al rosario che scandiva in tutte lettere. aveva sempre un mucchio d’altre preghiere da aggiungere in coda: per la propizia stagione pater ave gloria; per gl’infermi pater ave gloria; per gli assenti, per i moribondi, le anime purganti, i peccatori, coloro che ci hanno fatto del bene, coloro che ci hanno fatto del male, coloro che aspettano bene da noi, in riparazione alle bestemie e ai peccati della carne, perché i giovani conservino la bella virtù, secondo le intenzioni del Sommo Pontefice e del nostro Vescovo, per la conversione degl’infedeli, per la pace, per tutti i vivi e i defunti ancora un pater ave gloria: non la finiva più. Poi, con la sua voce sottile e tagliente intonava:

Dal tuo stellato soglio
Maria rivolgi a noi
Pietosa i guardi tuoi
Per una volta sol.
E se a pietade il core
A mover non ti senti,
Allor noi siam contenti
Che non ci guardi più.

Marco, ricostruendo a memoria le due strofette di sapore metastasiano, ricordava di aver capito assai tardi che la pietade cui sarebbe stata costretta la Madonna rivolgendo a noi i suoi sguardi spiegava il «Per una volta soln della prima strofa, senso che da ragazzo non era riuscito ad afferrare, e ne aveva chiesto spiegazione alla dotta zia: tu vuoi proprio sapere tutto, sei peggio che San Tomaso; non ti basta la buona intenzione? E ciò ricordando volse gli occhi alla bara dove l’innamorata di questa e di altre ariette non udiva più nulla, nemmeno il Dies irae, con un malinconico e postumo tributo di affetti: Tantus labor non sit cassus. Quello di zia Domenica s’intende.
Finito quel canto (delle due strofette, non del Dies irae, che iniziato con voce tonante come conveniva a sì gran testo, ora calava sensibilmente di tono e sarebbe finito con un estremo e frettoloso mugolare a bassa voce) la gente di Sonlerto usciva sulla piazza, le cui pietre stemperavano nell’oscurità incipiente il calore assorbito durante il giorno. Era l’ora più bella della giornata, di riposo e di confortante contatto umano, meritato e atteso piacere di lasciar posare il corpo sulla pietra cercando con voluttà l’appoggio migliore, gustando quel terrestre calore, piacere fatto più intimo e sottile per l’aria che dalle bocche fumose del ghiacciaio soprastante, scorrendo per maggior gravità lungo le gole dei riali si spandeva per la campagna e giungeva in piazza, già più morbida ma conservando tuttavia qualche traccia dell’alpestre frescura, penetrando fra pelle e camicia come carezza leggera; e poi c’era la presenza degli altri e il suono delle loro chiacchiere, delle quali capitava di perdere il filo come per improvvisa lontananza in un primo sonnecchiare a occhi aperti. Le quali chiacchiere, salvo particolari contingenze, erano sempre soporifere meditazioni sui fieni e sulla stagione, o meglio sugl’instabili equilibri e complicate relazioni che esistono fra le condizioni atmosferiche e i lavori dei contadini: la siccità favoriva la fienagione, ma impediva la crescita del recidivo e induriva l’erbe degli alpi; il caldo faceva fermentare il formaggio nelle cantine e spingeva le capre verso le creste; un tempo più fresco sarebbe stato di refrigerio a Sonlerto ma odioso lassù; si facevano previsioni, si ricordavano proverbi vecchi come Noè e si citava «Il Pescatore di Chiaravalle», lunario diffuso in tutte le case, il quale cercava di prevedere il tempo dell’annata e di consigliare ai contadini il momento buono per le semine e i raccolti; alla fine si rimandava però tutto alla Provvidenza, con la solita rassegnazione dei poveri e suggello finale della zia. Ma poteva anche darsi che si parlasse di guerra, in modo fiabesco, o di emigrazione, per ricordare persone che avrebbero potuto essere lì, ed erano invece perdute di là del mare, chissà dove.
Giovanna e Marco se ne stavano in un angolo, zitti e vicini, diritto acquisito la prima sera e loro benignamente indulto dalle pie donne, per la comune età e lo studio che li staccavano dagli altri; e profittando dell’oscurità si tenevano le mani, muto colloquio di piccole strette, di sospiri, e carezze tentate, da Marco, sui ginocchi della ragazza e anche un po’ più su, con respinte gentili e tacite dispense a riconquistare il terreno perduto. Ormai Marco era rassegnato a considerarsi in uno stato continuo di peccato mortale, disperando di potersi mai pentire «con dolore sommo, vale a dire il più grande di tutti i dispiaceri, perché il peccato mortale è il più grande di tutti i mali» di quel suo intenso desiderare il peccato totale, possesso del corpo di Giovanna: desiderio che, dopo diciotto anni, riprovava intatto mentre la guardava alzarsi in piedi per il prefazio. No, nessuno guardandola avrebbe potuto credere che anche lei s’era vestita di nero, il volto chiuso da soffocante soggolo e coperto dall’arcigno e scostante conopeo delle suore di Menzingen. Si alzarono tutti, di malavoglia pensò Marco dando un’occhiata all’orologio, ma poi la chiesa risonò di un Vere dignum et iustum est cantato come per una messa di Quarantore; e il ricamo gregoriano sulle tre note evocò nel suo cuore mura sonore di conventi antichi e una fede pura: nonostante la guerra e la fame, i pregiudizi e le paure che guidano la mano degli oppressori e piegano gli oppressi all’obbedienza, nonostante la morte qui presente sotto le spoglie della tua serva Domenica, è degno e giusto che Ti rendiamo grazie, onnipotente eterno Dio, sempre e dovunque, insieme agli Angeli e Arcangeli tuoi, per il dono della vita che sempre si rinnova... Ma il Sanctus fu da morto, fiacco e sbrigativo. Il sole era rimasto di fuori, e Giovanna inginocchiandosi questa volta non si girò più.

L’avventura di Sonlerto sarebbe probabilmente finita lì, sull’orlo del cotone appena sfiorato nel buio della piazza, peccato ancora confessabile al tribunale di Don Carlo che regnava sulla parrocchia con l’inquisitoria autorità di chi antepone Dio agli uomini, se i due ragazzi non fossero incappati un giorno in una di quelle occasioni che il Maligno, profittando di poteri misteriosamente concessigli, sa tendere agli umani perché cadano in peccato; contro il quale essi avrebbero dovuto combattere con maggior coraggio che contro qualsiasi altro male del mondo, bombe al napalm comprese, avessero dato retta agl’insegnamenti ricevuti: e ciò mediante l’aiuto formidabile delle giaculatorie, del rosario devotamente recitato insieme, di aspersioni d’acqua benedetta, bagni freddi digiuni tuffi nei roveti footing scalate di sesto grado o, estremo e sconsiglia bile rimedio, sacrificio dell’arto scandalizzante. La morte piuttosto. Quel giorno la gente di Sonlerto stava falciando il fieno di una campagna detta Serta, situata oltre il torrente e collegata alla frazione da un ponticello di legno, abbastanza distante dall’abitato perché esistessero sul luogo delle stalle con relativi fienili da ammucchiarvi il fieno e portarvi le vacche in primavera. Mutato improvvisamente il cielo per veloce accorrere di lividi addensamenti nuvolosi con sottofondo di giallo itterico annuncianti l’indubbio esplodere di un temporale pomeridiano, i sonlertesi, consumato in piedi un boccone, erano accorsi sul posto sgobbando con frettoloso raspio di rastrelli e corse a fiato corto sotto gerle spettinate, per mettere a tetto il fieno secco e ammucchiare sui prati quello appena tagliato; in quei momenti ci si aiutava l’un l’altro con la generosità che nasce spontanea di fronte alle catastrofi, e Giovanna e Marco, ciò sapendo, con calcolati contrattempi e opportuni recuperi erano riusciti a rimanere ultimi su un prato, o chiappa grande di Leonilde, gli altri ormai tutti fuggiti: restate voi per le ultime due gerle, aveva gridato Maria con il piede già sul sentiero di Sonlerto, e alla titubante sorella aveva intimato che non si lamentasse poi dei reumatismi; ai ragazzi un po’ d’acqua non poteva far male. I quali rimasero dunque soli, e non avevano ancora finito di riempire le gerle che, preceduta da un dirompere di tuoni con sussulto delle rocce circostanti e scotimento generalendel cielo e della terra, l’acqua si era scatenata con incredibile irruenza, un liquido muro che i due ragazzi attraversarono correndo, soffocati spaventati e tuttavia felici, verso il riparo del fienile.
Si sedettero sulla porta, fradici e sudati; l’uragano con nuovi bagliori e detonazioni e rimbombi, e violenti piovaschi, rovesciava la fronda del bosco vicino, staccava foglie e rami interi, sbattuti sui prati, l’erbe sprimacciate e appiattite da invisibili mani furiose. Impossibile tentare il rientro, e, bagnati com’erano, cominciavano a sentire brividi di freddo. - Sarà meglio spogliarci e salire sul fieno. Prima tu Giovanna, prometto che non ti guardo. - E fu tanto minchione da non guardarla davvero, finché non si sentì chiamare dall’alto del mucchio, donde Giovanna allungava il braccio con l’ultimo straccetto: prendi anche queste da strizzare; Marco vide e guardò, con vuoto improvviso allo stomaco, la bella forma del seno più pallido delle braccia e del collo pendere sul fieno con dolcezza. Lo straccetto gli cadde sul viso. Strizzò con diligenza gli abiti e le mutandine e si accucciò contro il mucchio a ripararsi in qualche modo dal freddo. - Vieni su Marco. - Ma siamo nudi. - Non ti guarderò Marco, vieni, si sta così bene qui. - E Marco era salito, affondando in quel profumo di trifogli e di potentille cedevole e sostenitore, lontano però da lei, ma allungando una mano a cercare la sua. Ed erano rimasti così, due, tre ore, ascoltando lo scroscio della pioggia che li teneva prigionieri, spaventati della situazione in cui si trovavano non proprio per caso.
Spiovve verso sera e d’improvviso; Marco prima e Giovanna dopo si rimisero malinconicamente i vestiti umidi, come dopo una festa non riuscita, e uscirono silenziosi sotto il cielo giallastro percorso da nuova nuvolaglia minacciosa, per raggiungere il ponte. Non avevano immaginato che in così poco tempo il torrente avesse potuto radunare tant’acqua; era una veloce livida fiumana che trasportava alberi interi; il fragile ponte, urtato da questi e investito dagli spruzzi, traballava come se da un momento all’altro dovesse partire; per fortuna sull’altra riva c’erano zia Domenica immobile sotto l’ombrellone e Leonilde a far segno di non attraversare, ma di aspettare sul posto. Poco dopo giunse infatti Celso che, salito su di un masso, lanciò ai ragazzi un fagotto che riuscì a malapena ad attraversare: conteneva pane e formaggio, e un biglietto: non andate a dormire nel fieno nuovo. Saggio consiglio, ma chi l’aveva scritto non poteva immaginare l’effetto liberatore che esso avrebbe avuto per i ragazzi, i quali, ritornati correndo e sotto un nuovo scroscio di pioggia al loro rifugio, riappesi gli abiti ad asciugare, reggiseno e straccetto compresi, si erano poi amati per tutta quell’incredibile notte con tenerezza e felicità totale - salvo il risveglio e l’obbligo, la mattina dopo, di tornare in mezzo agli altri.
L’inchiesta sull’avventura fu condotta con discrezione e fermezza, per Marco, dal naso a picchio di zia Domenica, e, per Giovanna, dal tondo faccione a pappagorgia di Leonilde. Le due virtuose bruttezze, angosciosamente chine ciascuna sull’anima del proprio pupillo con esplorazioni e scandagli pieni di sottintesi su ciò che sarebbe potuto succedere in tante ore trascorse dai ragazzi soli, maschio e femmina, sotto lo sguardo di Dio va bene, ma lontani dagli occhi degli uomini, non nascondevano la fatica di una notte insonne trascorsa buona parte nell’oratorio a recitare Viae Crucis: affannosa implorazione per la salvezza dell’ anima dei due assenti, e nel contempo riparazione penitenziale per la soverchia premura avuta di salvare il fieno, che è soltanto un bene materiale, e di non arrischiare - seppur con interiore conflitto - la vita corporale dei due sul ponticello pericolante, permettendo loro il rischio teologicamente più grave della notte nel fienile.
Le due anime inquisite, che in quella notte a dar retta ai manuali della loro educazione avrebbero dovuto aver perdute insieme alla virtù bella tutte le qualità che fanno una persona onesta, avevano invece per naturale miracolo conquistata l’umana saggezza già concessa ai progenitori sorpresi dal Padreterno trascorrente per il giardino alla brezza giornaliera; e memori delle tre ore passate in quasi completa castità tenendosi per mano, risposero senza titubanza e con simulato candore al minuzioso interrogatorio. Fin che i due diversi e pur simili volti della verginità stagionata si sollevarono a guardarsi, quasi convinti che vana non fosse stata la loro veglia notturna, ma tuttavia non del tutto tranquilli. Questo almeno è ciò che pensava ora Marco, visto che pochi giorni dopo era capitato a Sonlerto Don Carlo, sceso dall’alto della sua scala, la sera, quando la campana del rosario era già suonata, quasi schiacciando con l’ombra nera il piccolo gregge che stava sotto aspettando di entrare nell’oratorio. Scese, e stavano zitte anche le pietre a guardarlo: si sarebbe fermato un paio di giorni comunicò: domani a disposizione per le confessioni, e la mattina dopo per una bella comunione generale. Dalla quale, pensò Marco con ribellione, tutti avrebbero potuto contare gli assenti.
Il rosario, recitato dal prete, fu lunghissimo, con insistite preghiere perché la Vergine volgesse benigna gli occhi alla nostra gioventù onde conservarne la purezza; zia Domenica quella sera pensò bene di cambiare l’arietta finale, per dedicarla a San Luigi Gonzaga, giovanetto di nobile stirpe, principe delicato d’angeliche virtù adorno, protettore della gioventù e modello in modo particolare nella virtù della purità:

Luigi onor dei vergini
Dei secoli splendor
Dolce speranza amor
De’ tuoi divoti,
Propizio, ah! Tu dal Ciel
D’un ceto a Te fedel
Accogli i voti.

Poi si uscì sul sagrato, senza più i frivoli discorsi stagionali; si parlò invece dell’angelico Papa Pacelli, pure di nobile stirpe, del suo alto ministero e grandi meriti per la pace, e dei colloqui che pareva avesse regolarmente con Gesù: nulla di strano, vero, che il Capo invisibile della Chiesa conferisse in privato con il suo Vicario in momenti così difficili, trattandosi poi di tanto dotta e santa persona: zia Domenica commossa e rinverdita da mistiche linfe immaginava certo di essere sul Monte Tabor, e alzando gli occhi alla chiappa di cielo stellato che si poteva vedere sopra i tetti, certo ricordava la descrizione del paradiso fatta da San Giovanni Bosco, o forse recitava a se stessa i versi più famosi del più nobile poeta d’Italia:

Dovunque il guardo giro,
immenso Dio, ti vedo:
nell’opre tue t’ammiro,
ti riconosco in me.
La terra, il mar, le sfere
parlan del tuo potere:
Tu sei per tutto;
e noi tutti viviamo in te.

Non così Marco, già tutto preso dall’odio del tribunale che lo aspettava, e ancor più dalla previsione degli effetti che avrebbe avuto la sua confessione, visto che il prete aveva un modo tale da impostare le preghiere e le prediche, da far capire anche ai passeri, i liberi passeri del cielo, quali peccati si commettessero in parrocchia; tentato quindi di fuggire, o, visto che ormai aveva imboccata la strada del peccato brutto, che è poi la più bella avventura concessa all’uomo in questa vita terrena, di osare la confessione sacrilega; il quale Marco fu però il primo a udire uno scalpiccìo e a vedere una lanterna che si avvicinava; l’estasi, liberazione e palpitante felicità, questa volta fu sua mentre ascoltava la notizia, da parte del nuovo arrivato, che a Fontana c’era un vecchio moribondo che sperava ancora di potersi confessare prima del trapasso. La morte è morte, e il prete, certo a malincuore, dovette ritirarsi, non senza prima aver impartita una generale benedizione ai sonlertesi inginocchiati nel buio della piazza.

Un altro e troppo lieto annuncio doveva giungere il giorno dopo a zia Maria, proprio a lei poveretta, quasi quarantenne e palmipede, che da vent’anni aspettava l’arrivo di un certo Giacomo a lei promesso sposo prima di emigrare in America. Ora questo Giacomo aveva scritto ai suoi, da Genova, che sarebbe arrivato a casa in pochi giorni, tanti saluti a tutti, anche a Maria, vostro figlio e fratello. La quale Maria, risuscitata da ventennale letargo, illuminata da tanta gioia, pareva illuminare le vecchie pietre di Sonlerto quando passava per i vicoli, a corse, a salti sghembi, alzando e allungando di sotto la veste a mezzo polpaccio le sue difformi caviglie e sopra allegramente canterellando con voce un po’ stonata; zia Domenica e il nonno invano a richiamarla a maggior riserbo e prudenza. Le due donne; dopo accese discussioni, tu ti fai delle illusioni, e tu non pensi che ai tuoi oremus, decisero infine di scendere in paese: Maria perché voleva invitare a casa per un bel panettone e vino, ho diritto anch’io di godermela una volta in vita e non moriremo di fame per quella spesa, il neo arrivato americano; Domenica per dovere, perché non sarebbe stato decoroso lasciarli soli, e perché in paese bisognava pure tagliare il recidivo. Marco invece sarebbe rimasto alcuni giorni solo con il nonno a fargli compagnia, con tante raccomandazioni per un buon comportamento, intesi? e per la preghiera serale. E tornò ancora indietro dieci passi, zia Domenica già avviata sulla mulattiera che portava in paese, per riprendere da capo, da sola a solo, l’accorato fervorino.
Marco tuttavia aveva già preso i suoi accordi con Giovanna, e gli fu facile, visto che il nonno era vecchio e sordo, e non attento per antica onestà ai possibili peccati degli altri, uscire dalla stanza a piedi nudi e raggiungere nottetempo la casa di Leonilde; come tutte le camere di Sonlerto, anche quella della ragazza dava su un loggiato esterno, lei già dietro l’uscio socchiuso tremante di desiderio e di paura.
Chiamato in ginocchio dal campanello dell’elevazione, Marco ricordò come zia Domenica lo stringesse al petto, quando da bambino lo portava a messa, per insegnargli le giaculatorie proprie all’intima solennità del momento, e immaginò pure quanto lei dovesse aver sofferto la sera in cui egli era salito al letto di Giovanna. Perché, proprio nelle ore da lui trascorse nella cricchiante materassa di foglie di faggio della ragazza, il ricevimento dell’ americano aveva uno svolgimento ben diverso dall’immagine che doveva essersene fatta zia Maria, con esito finale disastroso. Certo, Giacomo era venuto, aveva gustato il panettone, bevuto il vino (ancora una fetta, ancora un goccio, doveva aver detto zia Maria con voce carezzevole e gesti devoti, e magari qualche adescatore ma caduto a vuoto «ti ricordi?» ... da infastidire zia Domenica), e chiacchierato generosamente dell’ America, ma soltanto di quella, così grande da non trovare qui termine di paragone. Locarno? Ma se gli abitanti di Locarno ci stanno tutti in un grattacielo di New York! Yes, ye ye, proprio così. E i bisnes di là dal mare! Qua non si rischia, neanche le scommesse; là uno va rotto due tre volte e la quarta tiene, e fa moneta. Volete sapere quanto l’è lunga la mia Chèdelac? Well: da qua a fuori nel corridoio, ye, forse di più. Questi cars qua, mio Dio, quei due o tre che vedi in giro sono come i giocattoli che si montano con la chiavetta. Ah! l’America! E adesso qua l’è tutto così piccolo, con queste montagne addosso ... così, come devo dire, miserevole. Cars piccoli, case piccole, strade strette, solo montagne. Mi pare di avere ancora messo su i pantaloni di panno, quelli a fisarmonica: li ricordate, eh, quei calzoni di una volta, così duri che l’era fatica a fare il passo. Certo, mi fermerò un poco, ye, ci vedremo. Proprio buono il panettone, ma adesso - orologio, sospiro è meglio che me ne vada. Well, bene, ci vedremo, buona notte, grazie e ci vedremo, adesso per un poco sono qua.
Così, a un di presso, dovevano essersi svolte le cose: e poi zia Maria che resta seduta, nemmeno più la forza di alzarsi per quel po’ d’ordine che le donne di casa fanno meccanicamente a ospiti partiti, e zia Domenica in piedi a guardarla: ecco, te l’avevo detto che non dovevi farti delle illusioni! Marco ora sapeva che Giacomo si era poi confidato con un amico: stai vent’anni in un ranch a sognare la ragazza che hai lasciato in paese, e quando torni trovi l’asse degli gnocchi e la dentiera. Zia Maria, povero automa ricaricato a chiavetta per tre giorni di vita, doveva spegnersi pochi mesi dopo all’ospedale, di pleurite dissero; ma poiché le ragioni di vivere e di morire possono anche essere banali, pensava Marco, o almeno parere tali, è più probabile che l’avessero uccisa, oltre al dolore per la delusione sofferta, la paura di dover affrontare Leonilde e le altre donne di Sonlerto, e la scelta inconscia di mostrarsi loro in uno stato tale da destare prima la pietà che l’ironia.
E tuttavia zia Domenica, più che dal disgraziato ricevimento, doveva essere stata sgomentata e sconvolta, il giorno dopo, dalla notizia che il prediletto Marco, figlioccio di battesimo e tanto bravo a scuola in chiesa e a dottrina, uscito, Vergine Santissima! dalla stanza di Giovanna, proprio dal suo letto, oh Signore, di notte, si era trovata tra i piedi Leonilde, cocciutamente acculattata sul primo gradino della scala, certo perché qualcosa doveva pur aver udito da non parere bisbiglio di preghiera, e magari anche visto una fessura di luce della candela accesa dai due peccatori per guardarsi nudi in quel tiepido chiarore tremolante d’ombre leggere, in una dedizione totale, e gli occhi, ah la profondità degli occhi penetrata fino all’origine della paura e del dolore, contro tutti i novissimi e le loro bocche spalancate a inghiottire per l’eternità! Marco, dopo tanta sfida era vilmente fuggito, via da Leonilde, via da Sonlerto prima dell’ alba, per correre in paese a chiedere l’aiuto della madre, che lo mandessero subito in collegio per l’amor di Dio, con il suo struggente ricordostruggente ancora oggi, Giovanna - da confessare: meglio i padri benedettini che il terribile Don Carlo. Giovanna non l’avrebbe rivista più, a ben più lunga espiazione destinata.
La messa era finita. Il prete, scendendo dal coro verso il cataletto, ebbe nuovi intimi rigurgiti d’imponenza: Non intres in iudicium cum servo tuo, declamava con impeto trattenuto, e trattenendo a malapena la stizza per la spensierata indisciplina dei ragazzi invano elevati dall’abito nero e dalla cotta bianca a un primo gradino di sacerdotale dignità. Il priore della confraternita intonò il Libera me Domine: pater noster, aspersione, incensazione: Marco ricordava quelle preghiere e quei riti man mano che si succedevano; poi tutti al canto del Benedictus diressero i loro piedi verso il luogo della pace, dove in tenebris et in umbra mortis sedent coloro che la luce del sole non può più illuminare; e per far ciò i portatori girarono la cassa, in modo che zia Domenica, o coloro che la guardavano o la portavano, chissà, avessero ancora l’illusione di un ultimo volontario procedere verso l’attesa resurrezione dei corpi: che splendido terribile giorno zia, pensava intanto Marco, quando gli storpi e i lebbrosi, i deformati dall’artrosi, i mutilati i guerci i paralitici, i pazzi i colon· nelli gli abortiti, i negrieri gli schiavi gli evirati, le monache dal chiuso dei conventi, le prostitute dalle case chiuse, i prefetti che spia vano i letti dei collegi e i sacerdott con sott i fer de muj, i seviziati alle ruote di tortura, gl’impiccati alle forche, i fucilati da France le adultere lapidate, le streghe bruciate con la pulzella che ascoltava gli angeli, i digerii dai cannibali, Himmler e i suoi, i tre Re Magi col pirata Silver, Cleopatra con il povero Antonio Selva che pativa di reumi, Catullo e San Francesco, Leonilde che ti ha preceduta, Elia restituito, Geronimo con Socrate e Marilyn Monroe, Abramo con Freud e con me Nefertari; quando i dodicimila segnati di ciascuna delle dodici tribù dei figli d’Israele, centoquarantaquattromila in tutto, le mummie incaiche ed egizie, i minatori del Neaderthal, i pitecantropi gli australopitechi i marziani e le meno pelose future generazioni, i protagonisti i gregari e i sette consiglieri in mezzo al volgo disperso che nome non ha, la magna turba la qual dinumerare nemo poterat ci sveglieremo tutti in glorioso assetto, nudi o vestiti chi lo sa, meglio vestiti per il gusto tuo, tuba mirum spargens sonum per i sepolcri di tutti i tempi e le disperse regioni, noi sursi su alla vista scoperchiati e immantinenti alla valle di Giosafat chiamati (forse un po’ stretta, ma, spiegavi tu, nulla è negato all’onnipotenza) per la gran scelta irrimediabile, da questa parte i buoni e da quell’altra i grami: le ingiustizie e i torti raddrizzati, le malattie guarite, le pene consolate, le contraddizioni chiarite, gl’inquisitori finalmente rei, le vittime riabilitate, la tua povera vita camminata su larghe pedule fino a questa fossa, finalmente proposta nel suo valore giusto: e come sarà bello, allora, zia Domenica, mirarti palpitante e splendida, col naso a picchio rimediato, estirpati i tuoi calli per donarti i piedini di una geisha, le tue pupille diventate stelle del coro verginale nella candida rosa del Doré, arpeggiare in eterno le tue ariette metastasiane e sciocche!
Finalmente Marco poté spingersi avanti fra gli altri parenti e toccare con le mani la terra da gettarne una brancatella nella fossa sopra la cassa già affondata nella buia dimora, i becchini già pronti con le pale. Quante gerle portate, zia, quante castagne raccolte, quante meditazioni, preghiere recitate, confessioni sussurrate, e quante pene, per te e per gli altri, perché le cose non erano compiute secondo la volontà di Dio, e ora questa terra che promette al tuo corpo il compimento del suo ciclo organico per altri più facili destini: humus foglia vento: oh tutto il dolore umano sciogliere nella felicità del vento insieme alla tua estrema angustia per aver troppo ceduto a pigrizia e debolezza... (Mea culpa, zia, anche colpa mia, e dei tuoi santi non sempre generosi).
Giovanna lo aspettava fuori, e la prese per un braccio, tremante ma non rigida, per scostarla dagli altri e indirizzarla verso la campagna soprastante. Si fermarono, lei si lasciò guardare senza dir nulla; era diversa di come la ricordava, il volto teso e dimagrito, gli occhi più pensosi, forse più bella; poi si voltarono entrambi a guardare il camposanto che era ormai vuoto: l’ultimo gruppetto di persone stava avviandosi all’uscita, lasciando alle spalle quattro ragazzi intorno ai becchini che riempivano la fossa.

Da PANE E COLTELLO - CINQUE RACCONTI DI PAESE - ARMANDO DADÒ EDITORE - 1975 - PP. 75-92