WILLY LEOPOLD GUGGENHEIM

VARLIN

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FRIEDRICH DÜRRENMATT

RICORDO DI VARLIN


 
FRIEDRICH DÜRRENMATT

Non ricordo con esattezza quando conobbi questo pittore straordinario; immagino che fosse nel gennaio del 1961 e che Varlin avesse allora la stessa mia età di oggi. Fu nella Kronenhalle, il pittore si rivolse a me chiamandomi «Simenon svizzero», un confronto che mi sorprese. Infatti, in quel periodo ero talmente preso con la scrittura di opere teatrali da non essere più tanto informato sul mondo della pittura. Per me Varlin non era più di un vago nome e non avevo particolari motivi di interessarmi di lui. Passava per essere un originale e siccome a quei tempi le scene pullulavano di tipi originali, io ne avevo davvero abbastanza. Così soltanto mesi dopo cedetti all’umore del momento e andai a fargli visita nel suo atelier: caddi in una trappola per topi e il topo, naturalmente, ero io. Da allora l’interesse per Varlin non mi lasciò più, anzi, potrei dire che ormai vivo in sua compagnia: sulla parete lunga del mio studio sono appesi il suo Esercito della Salvezza, il Gruppo di chitarristi del Central di Zurigo, dei ritratti, tre uomini e sei donne, tutti devoti e decisi a combattere per il Bene, eppure non sono mai riuscito a scandagliare gli abissi che si celano dietro i loro volti; in taluni, di tanto in tanto pare affacciarsi un’espressione sinistra tanto è contratta e dissimulata, tutti dipinti su legno di abete. Quando fuori è buio, li vedo lassù nel cielo stellato, riflessi dalla mia finestra. Tuttavia queste non sono le uniche creazioni di Varlin che mi circondano. Per esempio di fronte a me ho la coppia di amanti che si annoiano, l’uomo col cappotto marrone che a malapena riesce a trascinarsi fino al vespasiano, la napoletana che non volle andare a letto con Varlin perché lui non era cattolico, la poliziotta al telefono in una cabina rossa da qualche parte vicino a una spiaggia della Scozia, le donne vestite di nero riunite per un funerale. Se conto tutti i personaggi che popolano i suoi quadri appesi nel mio studio, arrivo a trentaquattro, senza contare l’imperatrice Elisabetta. Eppure è la sua tomba a Territet che Varlin ha dipinto. Assomiglia a Romy Schneider, mentre il fiero giardiniere in primo piano potrebbe essere il suo assassino (quello dell’imperatrice, s’intende). Così io sono solito scrivere davanti a un pubblico che Varlin mi ha distribuito intorno. Il mio amico Hugo Loetscher, dipinto da Varlin, mi rivolge uno sguardo scrutatore e pieno di pensieri inespressi ogni volta che lascio il mio atelier. È stato necessario accorciare la tela di venti centimetri perché ci stesse nel corridoio in fondo al quale si trova. Hugo diceva di Varlin che era il «realista più ossesso» che conoscesse ed è con questi termini che inizia l’essay più pregnante che, a mio avviso, sia mai stato scritto su Varlin. Quanto a me, mi ero ripromesso di iniziare con la frase «Varlin dipingeva ciò che lo colpiva ». Non è lampante il fatto che Loetscher e io intendiamo dire la stessa identica cosa. Chi crede che la realtà sia aproblematica o è convinto che oggi la pittura non abbia niente a che vedere con essa poiché il suo campo è l’astratto, costui non potrà mai comprendere ciò che Loetscher e io intendiamo dire anche se partendo da presupposti opposti. Loetscher è uno scrittore che prende spunto da quello che lo colpisce più che da quanto gli viene in mente, e questa è la sua forza. Io, invece, sono più portato a farmi venire in mente le cose che a farmi colpire da esse e questa è la mia debolezza. Se per Loetscher Varlin è una conferma di se stesso, nel mio caso egli è complementare. Varlin mi ha insegnato a osservare. Grazie all’esempio di Varlin, Loetscher ha compreso come nessun altro la difficoltà insita nella realtà. «Il reale che Varlin affronta, si dimostra inquietante per un altro motivo: è impossibile coglierlo con la stessa intensità con la quale egli seppe maneggiarlo e fissarlo sulla tela... La disperazione di non riuscire a catturare il reale con lo stesso rigore totalizzante che egli applicava anche a se stesso si tramuta in quel coraggio di ricominciare sempre da capo e di ritornare continuamente a rivolgersi alla tela abbandonandosi a essa». Il reale è contorto, spesso terribilmente volgare. Esso non “è”, semmai “era” o “è in divenire”. Anche la fotografia con le sue esposizioni di centesimi di secondo è un equivoco. Il reale ci attraversa sfrecciando e può essere afferrato solo quando ci colpisce. Tuttavia ci può colpire soltanto a posteriori, quando ormai è già immagine della memoria. Siamo sorpresi, stupefatti, e soltanto allora prendiamo coscienza del reale: torniamo a guardarlo ma ecco che tutto è già svanito. La sorpresa e lo stupore se ne sono andati. Varlin fu uno degli ultimi capaci di meravigliarsi del reale, del fatto che esso sia come è e non diversamente. Ciò che noi riteniamo essere il reale non è che il passato. Ciò che noi chiamiamo il reale sono a ben vedere dei relitti, relitti che Varlin sapeva dipingere raffigurando insieme anche lo stupore che provava per essi. Dipingeva quello che lo colpiva: era la nostra epoca che lo colpiva. E mentre me ne sto seduto qui dietro la mia scrivania e scrivo questa frase, mi pare di essere io stesso uno dei suoi ritratti. Il paradosso nel caso di Varlin consiste nel voler catturare il presente nella sua essenziale atemporalità. Si tratta del terzo paradosso di Zenone d’Elea, ovvero che la freccia in moto è ferma: «Se, infatti,... sempre ogni cosa è in quiete o in moto e niente si muove quando occupa uno spazio uguale a sé, e il mobile occupa sempre in ogni istante uno spazio uguale a sé, la freccia che si muove è ferma» (Trad. Reale da DielsKranz 28 A27). Questo paradosso, in fondo, è identico a quello della pittura: essa è condannata all’istante (nunc) e con ciò stesso è senza nè tempo nè moto. La freccia dipinta è ferma, non vola. Se la fotografia ha reso cosciente alla pittura il proprio paradosso, se il surrealismo ha cercato di rappresentare il reale esagerandolo, il cubismo geometrizzandolo (e con ciò entrò in conflitto con se stesso), la pittura non è soltanto atemporale ma anche “non-spaziale” (il cubismo è planimetrico, la sua stereometria è fittizia). Così la pittura astratta ha risolto il paradosso della pittura in generale dileguando e fuggendo nella logica pura, e con ciò si mise al sicuro. Varlin non fuggì, senza alcuna protezione alle spalle egli rimase un vivente anacronismo pittorico. Nel 1970 Max Bill, papa dell’arte zurighese, organizzò una mostra sulla pittura e scultura figurativa ed espose, contro il volere di Varlin, il suo ritratto di Max Daetwyler, il popolare apostolo svizzero della pace; nel catalogo scrisse che il quadro non era che un aneddoto, che i suoi agganci ed effetti sul sociale non erano stati messi in risalto. Ebbene, Varlin andò alla mostra e tagliò la tela, una delle sue più belle, più misurate e perturbanti al tempo stesso. La città di Zurigo la fece restaurare e grazie a quel quadro Daetwyler sopravviverà insieme al suo impegno e impatto sociale. Robert Musil ha scritto: «Se esiste il senso del reale deve esserci anche il senso del possibile». In Varlin questi due sensi erano altrettanto forti, sicché egli coglieva tutto quello che nel reale è possibile. «Un artista», scrive Varlin che come scrittore era altrettanto sconcertante, «basta che faccia il giro di un isolato di case, che lo riempia, ed eccolo già ammobiliato. Cézanne era un poveraccio che si tormentava con un paio di mele su una tovaglietta pulita. A New York gli avrebbero imposto tutt’altro genere di nature morte, un frigorifero piazzato in mezzo al traffico con accanto un ratto morto, un assorbente accanto a un mandolino». Questo tipo di possibile, che a dire il vero sarebbe dovuto essere impossibile, lo spinse davanti alla tela, al cartone o a quello che aveva per le mani. Dietro la mia scrivania si trova il quadro di una bottiglia di Cinzano dipinta su un vassoio da tè giapponese. Varlin diventava schiavo dei soggetti che lo colpivano: pietrificazioni e incrostazioni, mucchi di rottami ancora parzialmente riconoscibili come autoveicoli, ciarpame come soltanto l’uomo, e non la natura, è capace di produrre e che per questo ci sembra ancora più impossibile delle più bizzarre conformazioni naturali, caserme, hotel, ospedali, orinatoi, autobus, telefoni, ombrelli, la sua poltrona e il suo letto, e una serie di uomini impossibili, ovvero ciò che di più inverosimile esiste nel creato. Alla radice del suo umorismo c’era la tensione tra il suo senso del reale e del possibile: dipingeva gli uomini perché li amava così come erano e come potevano essere, li dipingeva insieme nella loro realtà e possibilità. L’ho visto pochi giorni prima che morisse. Per un suo espresso desiderio, mia moglie, che gli piaceva molto, e io eravamo andati a Bondo e alloggiavamo in un paese vicino presso una parente di Alberto Giacometti. Gli ultimi anni di Varlin erano stati una rivolta continua, egli sapeva quale malattia lo stava consumando, anche se parlava di reumatismi. Molte delle sue ultime opere sono paragonabili a quelle che Goya dipinse sui muri della sua casa di campagna. Tuttavia non credo che fosse spinto da un horror vacui o persino dalla forza d’attrazione del Nulla, come scrive Paul Nizon. Lo spazio vuoto e il Nulla sono costrutti logici, non sono costruzioni, non sono delle realtà; per quanto impalpabile ci possa apparire il reale, esso è comunque esistente come la vita. Il fatto che siamo in grado di pensare uno spazio vuoto che, in quanto spazio, è possibile solo perché contiene delle cose (stelle, uomini e atomi) oppure che parliamo di un Nulla che viene confutato da qualunque Essere, non è che un abbaglio del linguaggio. Varlin non era un pittore analitico bensì un pittore che guardava, dunque ogni teoria dell’arte gli era sospetta. Nelle sue ultime opere la vita si ribellava, esse contenevano una forma di ribellione in sé contro l’entropia, contro la tendenza della materia di decadere nel suo naturalissimo ordine, ovvero nel suo disordine. Sulla tela egli fissava la propria decadenza, questo è tutto. Quello che dipinse nel modo più commovente era il suo cagnetto Lappi, la sua poltrona e il suo letto. Con essi egli prendeva congedo dalla vita, poi non riuscì più a lasciare il letto. Quando andammo a fargli visita, lui era disteso su un paio di lenzuola color verde erba. Anche la coperta era dello stesso verde, come pure il cuscino che però era anche ricoperto di fiori rosa. Pareva che fosse disteso su un prato di montagna. Lo si riconosceva a malapena, tanto era dimagrito, e siccome si era fatto crescere i baffi, mi ricordò mio padre. Quella sera, tornati nella pensione, mia moglie mi disse che gli rimanevano ancora pochi giorni di vita. Aveva detto la stessa cosa di mio padre quando io lo vidi per l’ultima volta. Anche questa volta non le credetti più di tanto; dopo il primo momento di sconcerto, l’umorismo e la presenza intellettuale di Varlin mi avevano ingannato. Il pomeriggio seguente andai a fargli visita da solo e mi accorsi subito che mia moglie aveva ragione. Non trovavo le parole. Varlin era stremato, bianco, ancora disteso sulle lenzuola e sul cuscino verdi. Chiese un bicchiere di vino, bevve qualche sorso, parlò di pittura, sostenne che Matisse era il più grande pittore della nostra epoca, forse in contrapposizione a se stesso, precisò che la più grossa stupidità della sua vita era il suo nome d’arte: un Guggenheim non avrebbe dovuto chiamarsi Varlin. La cosa più difficile in pittura, disse poi, è sempre l’inizio, la prima pennellata: ecco che la tela è subito imbrattata. Raccontò una grottesca storiella ebraica di suo nonno. Un po’ più tardi cercò di disegnarmi, firmò lo schizzo e me lo regalò: Varlin, 22.10.77. Dovetti scrivere sotto che lo schizzo raffigurava me. Quindi insistette perché anch’io gli facessi un ritratto, perché voleva dormire. Quando si svegliò, dovetti mostrargli il mio disegno a carboncino. Lo osservò. «Sono così?» mi chiese, ma era più una constatazione che una domanda. Poi disse a Franca: «Stanno ritornando i cosacchi», intendeva i dolori. Sua moglie gli diede un farmaco. Lui si appisolò. Accompagnai in cucina Franca, la coraggiosa, e quando ritornai, lui stava dormendo tranquillo; accanto, sul letto di Franca, era disteso il suo cagnette Lappi con un uovo crudo tra i denti e ringhiava. Nemmeno una settimana dopo ci ritrovammo di nuovo a Bondo. Varlin era morto. Ci sedemmo in cucina con Franca. Nascosto chissà dove Lappi guaiva. Un medico di Lugano mi condusse nella camera mortuaria. Varlin giaceva nella bara, il medico levò il lenzuolo. Un volto selvaggio mi guardava fisso, la bocca spalancata, gli occhi sprofondati nelle orbite scure. Mi sembrò che la vita, congelata nell’istante della morte, ghignasse del creato. Poi qualcosa mi sgusciò tra le gambe, scomparve nell’oscurità della stanza; era il cane. Il giorno seguente Varlin fu sotterrato. Erano arrivati molti suoi amici, eminenze in elicottero, tanti scrittori, pittori, l’intero villaggio partecipò. Le campane suonarono quando la bara fu portata fuori dalla casa dove il cane stava di nuovo guaendo, e si fermarono solo quando la bara venne calata nella fossa. Il giorno dopo il funerale passai da solo per il paese. L’entrata principale del cimitero era chiusa e non riuscii a trovare quella secondaria. Andai all’atelier; anche qui non fu possibile entrare. Sulla porta era affisso un biglietto con la calligrafia di Varlin: «Chiuso per ferie».

* Estratto dal testo in catalogo Silvana editoriale
FONTE WEB: CPL