WILLY LEOPOLD GUGGENHEIM

VARLIN

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VITTORIO SGARBI

VARLIN E L'ITALIA

La rivelazione della grandezza di un artista si ha al cospetto della miseria di chi gli sopravvive; degli immediati congiunti e nostra, di noi estatici e immobili spettatori.

La grandezza passa come un vento di tempesta, punta alla distruzione; e soltanto si impiglia in qualche ramo un filo di cui ci resta il capo; orfani, ne seguiamo la traccia fino ad arrivare, inerti e vani, all’altro capo: era un frammento, un segmento che in se stesso si esaurisce. Quel filo è come il sacro cingolo che la Vergine abbandona sulla terra a testimoniare l’assunzione del suo corpo; è come il sandalo di Empedocle lasciato per provare la distruzione e l’incinerimento del proprio. Sandalo e cingolo sono le opere, che tanto si intridono del corpo assente da restituirlo, infine, tutto, riscattando la loro astratta natura di frammenti e di reliquie.

Reliquie – e cosa c’è di più vivo e fradicio di morte di una reliquia che, anche quando mente la sua origine, affabula di sé tutta la inimitabile vicenda umana di una grande anima? Ma la nostra miseria e tutte le miserie potranno mai essere dette senza vergogna? Chi c’era intorno a Pontormo mentre gemeva i suoi ultimi sospiri nel disordine e nell’abbandono? Miseria e vuoto è nel volto di chi resta; nulla che prenda luce dal fuoco che arde, dell’anima che parte. Solo un filo, un cingolo, un sandalo. A poco serve la pietà dei pellegrini che corrono dove resta la cenere di quel fuoco: non la vita si è persa, ma l’anima da cui tutto prende vita; restano i commerci, gli affari, i cataloghi, le mostre. Né so perché ci ostiniamo a ripetere questo inutile gioco, mostrando il mostrabile, ma rinunciando all’indimostrabile che non si vuole mostrare e che vorrebbe essere morto anche nelle sue resistenti sopravvivenze, aver spento in esse pure ciò che è spento in lui. Dovrebbero marcire e morire anche le nostre carte, i nostri monili e manuali, e come le grida le tele, i colori, i segni. Nessun artista nel momento decisivo, credo , ha voluto che durassero a parlarci le sue opere. E a parlarci di che? Nascoste e non mostrate dovrebbero essere queste scintille di vita che è stata e che perdura in un tempo troppo lungo, irrelato, spaventoso, schiacciato, smisurato e infine disumano. A stimolare queste generali osservazioni è la visita a Bondo, il piccolo paese svizzero dove un grande pittore, sempre reticente anche in vita all’esibizione di sé, ebbe casa e studio: Willy Varlin.

Il paese sta acquattato contro il monte, cercando di non farsi vedere. Sulle strade le case sono strette e non sai se qualcuno vi si annidi o se siano deserte. Di pietra e di legno, di natura quindi, son fatte e stanno nella montagna verde come alberi e sassi. In una di queste case, piccola, troviamo Franca, la moglie di Varlin, gioviale e calda; e, magra, astratta e un po’ rigida, una ragazza triste e sospirosa che lavora al catalogo generale delle opere del pittore. Con lei andiamo in una capanna dove stanno accatastate decine di opere di Varlin, senza ordine, senza data e molte senza telaio; le più grandi disposte in rastrelliere. La mostra è lì, in quel disordine, in quella miseria della carne di cui la tela è incomparabile specchio. E ci guardiamo noi, la ragazza, un suo giovane amico, Alain Toubas e io, improvvisamente divenuti, da quelli che eravamo nell’aria fresca e cittadina del mattino, personaggi di Varlin, mute apparizioni delle sue tele. Quando questa trasformazione ha inizio forse nessuno di noi se ne rende conto; ma intanto Alain, che già più volte è entrato nelle tele di Varlin, è più se stesso in sé o in loro? E noi siamo ancora noi stessi? Alain lo crede e guarda senza indulgenza la ragazza, mutando in una smorfia il suo sorriso, ed escludendo dalla mostra che veniamo preparando tutti i quadri che non hanno riferimento con l’Italia; mentre io, agitandomi, continuamente invoco eccezioni, nel timore di rinunciare proprio alle opere che più mi emozionano. In fondo una veduta è sempre una riflessione, un ripiegamento, un compiacimento, anche, mentre un ritratto può essere una confessione, un dialogo, una tortura, uno scontro con la coscienza e le sue urgenze.

Cosa furono i grandi pittori della realtà se non ritrattisti? E infatti Varlin, come osserva Giovanni Testori, fa ritratto di tutto, dà volto e “persona” a ogni cosa, a sedie, letti, finestre, poltrone; tutto ha un corpo, e se ha forma ha respiro. Ma insieme «on est tous des fantômes», e «tous» vale per «toutes les choses». Difficile è immaginare un mare o una collina dipinti da Bacon, cui convengono sempre gli ambienti interni, le stanze chiuse; il suo prato è una moquette, il suo sole è una lampadina. Varlin esce all’aperto, come Bonnard, come De Pisis, come Soutine. Ma assai difficilmente incontra giornate limpide; nei suoi quadri si sente il caldo, l’afa, la foschia, un tempo sempre incerto, come in attesa della pioggia, o subito dopo la pioggia, quando i colori sono più smorzati. E qualche volta, cosa assai rara in pittura, e mai tentata neanche da Soutine, nei suoi quadri piove: sulla superficie della tela, come sopra un vetro, lunghe striature bianche e grigie fanno filtro ai nostri occhi, deformando l’immagine delle cose. Ma è vera deformazione poi? O non è forse deforme l’aspetto stesso, vero, delle cose? A Bondo camminiamo. L’Italia è vicinissima, ma stiamo inseguendo l’Italia di Varlin. Nel grande albergo del paese cerchiamo una camera dove “abitano”, come profughi, altri dipinti dell’artista. Lungo l’ampia scala luminosa villeggianti e camerieri si agitano senza scopo, entrano ed escono dalle stanze, indifferenti alla nostra ricerca: nessuno sa quale sia la stanza dei Varlin, e a quale piano; la chiave che ci è stata data è inutile. L’albergo diviene così un labirinto dal quale usciamo a mani vuote. Finalmente una piccola cameriera portoghese, inconsapevole creatura varliniana, ci indica una porta e si allontana. Dall’altra parte sembra rispondere alla nostra impazienza l’accordo stridulo di Petruchka: è il suono che mandano zingari, gitani, giocolieri e altri nomadi, baraccati in quei pochi metri quadri, fra reti, materassi e attaccapanni. Li guardiamo, rassegnati a sentirli più vivi di noi, nella fragile trama delle canape trasparenti, cui Varlin ha dato volto ed anima. E ancora siamo sopraffatti. Ma non c’è traccia d’Italia. Più tardi ci avviamo al terzo Santuario di Varlin: la scuola del paese, che d’estate si fa scuola di restauro: è questo l’estremo ospedale dove giungono piegati, arrotolati, deformi, informi, sbrecciati, raggrumati e irriconoscibili i dipinti di Varlin che non l’incuria, ma la volontà dell’artista ha ridotto a fragili corpi malati, residui d’esistenza destinati a sparire, dimenticati.

Legnano, 3 maggio 2007

Estratto dal saggio in catalogo Silvana editoriale - FONTE WEB: CPL