E VARLIN TAGLIO' I SUOI QUADRI CON LA LAMETTA
Repubblica — 05 giugno 1992 pagina 37 sezione: CULTURA

Lugano - Quando nel 1954 alla Kunsthalle di Berna si tenne la prima mostra personale di Willy Varlin, il pittore aveva cinquantaquattro anni ed era già, senza che quasi nessuno se ne fosse accorto, un grande artista d' Europa. Allora Manuel Gasser, tra i pochi ad averlo capito, scrisse un articolo e lo intitolò "Perché Varlin non è conosciuto?". Sono passati quasi quarant' anni, le cose appaiono un po' cambiate, si sono fatte altre mostre, pubblicata una monografia, assegnato qualche premio, Varlin è morto; ma quella domanda sembra aver resistito, non aver ancora avuto risposta. Noi facciamo nomi, di continuo, Picasso, Matisse, Bonnard, Kandinskij, Klee e tanti altri; i nomi ci assillano, ci perseguitano; ma non facciamo mai quello di Varlin. Forse è il destino degli artisti che non hanno immediato e ampio accesso alla storia, alle storie, alla società, alle comunicazioni; o che vi entrano per una porta stretta. Le ragioni sono molte, e si accumulano, si confondono, si rinforzano a vicenda. Nella Svizzera, che è la patria di Varlin, e anche fuori dalla Svizzera, un pittore come Max Bill ha avuto grande successo e notorietà. Ma tutta la sua opera non vale un frammento di quella creata da Varlin. La Svizzera è un paese misterioso, come ci ha ricordato di recente Pietro Citati, ricco di artisti difficili, rari, folli, umani e diversi, che sfuggono alle nostre abitudini, alle apparenze, ai luoghi comuni. Max Bill rappresenta perfettamente i luoghi comuni sulla Svizzera. Varlin è genio misterioso della Svizzera; come Giacometti e come Walser. Come loro anche nella vita. Amo conoscere la vita dei grandi artisti; non soltanto per mettere in rapporto la biografia con l' opera; vorrei sapere tutto di un autore, i suoi vizi, i suoi amori, le sue parole, la sua morte; leggere le sue lettere, ascoltare le testimonianze degli amici. Mi emoziona moltissimo che Soutine sia morto per la difficoltà di soccorrerlo durante la guerra, che de Stael si sia buttato dalla finestra, che Pollock sia finito contro un albero guidando a 200 all' ora. Mi annoia la critica fatta per costruire una trama di nomi, di rapporti, di discendenze, di rimandi, entro cui l' opera e la vita restano irretite, compresse, soffocate. I quartieri più poveri Con buona pace dei critici puri, rigorosi, conviene mettere in rapporto l' opera con la vita; e, rimanendo a Varlin, vedere quanto esse coincidano. So bene che l' opera contiene tutto e si può indagare infinitamente; ma gli atti, i sentimenti, le miserie e ogni altra cosa, ci servono a rompere certe barriere, a penetrare nell' opera per cammini più segreti, a offrire alti spazi agli spazi senza fine dell' opera. L' uomo che crea e l' uomo che vive non sono due esseri diversi, come invece riteneva Proust, che forse aveva bisogno di molti nascondimenti; ma due modi di proporsi dello stesso; in ognuno dei quali si possono scoprire frammenti dell' altro. Tentiamo di avviarci alla comprensione di Varlin partendo da alcune sue dichiarazioni e da un episodio scandaloso della sua vita. Nel 1969, tornando da un soggiorno a New York, aveva scritto: "Quando giungo in una città straniera, ho l' abitudine di chiedere del penitenziario, del manicomio e delle macellerie equine; lì ci sono i quartieri più poveri, ossia i più pittorici. Lì circolano uomini, non manichini. Piega dei pantaloni, cravatte, ricercatezze leziose non sono la mia specialità". Parole non molto diverse leggiamo in molti tratti dell' Autobiografia, scritta per il catalogo della mostra personale alla Kunsthalle di Basilea, nel 1967. Irregolare e perduto Varlin lo è per natura; tragico e ironico allo stesso modo nel vivere e nel dipingere. Dopo aver vinto il premio Città di Zurigo scrive in una lettera: "Non capisco per quale motivo, se si dipinge qualcosa alla bell' e meglio, bisogna salire su un podio e stringere delle mani". Ma ancor più l' episodio in cui culmina il suo contrasto con Max Bill ci serve a capire e ci affascina: il campione svizzero dell' astrattismo, essendo membro della giuria selezionatrice, aveva esposto alla mostra annuale degli artisti zurighesi tre quadri di Varlin, contro la sua volontà. Varlin, in risposta, si reca all' esposizione e con una lametta taglia le proprie tele. Il gesto è drammatico e bello, carico del consueto sarcasmo varliniano; non è un gesto iconoclasta, né dada, ma il contrario, gesto d' amore, di violenza amorosa sull' opera; è la stessa violenza amorosa che Varlin compie teneramente con le donne e con gli amici, forsennatamente con la pittura. E poi quei quadri potevano essere ricuciti; non ne avrebbero sofferto, avrebbero acquistato delicatezza e mistero; come a volte una sottile cicatrice rende più attraente il corpo di una donna. Ma conviene ascoltare il commento di Varlin stesso: "Cézanne, si sa che in preda alla collera gettava i suoi quadri dalla finestra sull' albero che stava davanti all' atelier; la cuoca, con l' aiuto di una scala, andava poi a ricuperare i quadri bucati dai rami. Munch, il grande norvegese, riteneva che i buoni quadri si possono calpestare senza che subiscano alcun danno importante. Provate un po' a calpestare una croce o un quadrato di Bill...". Come quelli di Cézanne o quelli di Munch, i quadri di Varlin hanno una resistenza interna che si riflette, rinforzandola, su quella materiale; nello chalet sopra Bondo, che accoglie i quadri lasciati da lui, alla morte, grandi tele se ne stanno ripiegate, arrotolate, impolverate, e protette da quella forza d' arte che, quando si svolgono, rivela splendidamente i suoi tesori intatti. Alcune di quelle tele, insieme a molte altre provenienti da raccolte private e da musei, si trovano ora riunite a Lugano, per una grande mostra di Varlin. Rudy Chiappini, direttore dei Musei, l' ha progettata e organizzata, con Paola Pellanda, che sta curando il catalogo generale dell' opera, e con Alain Tubas. Ma dietro tutti sta Giovanni Testori, che di Varlin fu amico, da lui ritratto, e da più di vent' anni ne va proclamando la grandezza (Varlin - Villa Malpensata di Lugano; fino al 13 luglio; ottimo catalogo Electa, da cui sono tratte le citazioni). Chiappini ha fatto una mostra bellissima, che, per la prima volta, parte dagli inizi di Varlin, quando ancora si chiamava Guggenheim (fu Leopold Zborowski a fornigli il nome d' arte Varlin, in ricordo di un martire anarchico della Comune), e dai pochi quadri rimasti degli anni francesi, per seguire tutta la sua storia, con le fitte diramazioni dei vari soggiorni e viaggi, fino alle ultime prepotenti e drammatiche tele, che segnano non il declino, come di solito avviene, ma uno sprofondamento libero e pauroso entro le zone più oscure dell' esistenza. Vediamo un pittore stralunato e geniale, che segue solo i battiti della vita, dove sono più violenti e più puri, tra i miserabili, tra i semplici, tra gli squallori delle stanze deserte, dei corridoi d' ospedale, dei cimiteri, tra i giorni di pioggia, i muri corrosi di una Venezia nascosta, i nudi prepotenti e tranquillamente offerti di una serva o di una cucitrice; un pittore allegro, ironico e disperato, visionario per troppa realtà, incurante di ogni cosa che non sia la violazione della forma affinché quei battiti si ripercuotano e continuino a risuonare entro la tela; disposto a usare tutto, colori frantumati, materia spessa, neri di carbone, oggetti, scatole di fiammiferi, pezzi di stoffa, zone di tela non preparata e non dipinta, per ottenere il suono forte della verità e di una poesia irritata e umana. Miracolosamente, in queste tele la sgangheratezza della forma diventa sublime. Non c' è natura nell' arte di Varlin; ma uomini e donne, interni di stanze e di atelier, corridoi squallidi, strade di città, paesi, facciate di palazzi e di negozi, oggetti consumati; i rari paesaggi non esistono per se stessi, sono sempre abitati dall' uomo, dagli episodi del suo vivere, dalle sue opere; ogni cosa è buona da dipingere, fuorché la natura; ogni cosa che sia umana. Varlin dice: "suonerà patetico, ma io nella pittura cerco sempre l' umano". Nei suoi quadri l' umano è trovato, schiacciato sulla tela, rotto nelle sue fibre, nelle sue impronte, nella sua miserabile sacralità, e trasformato in poesia. Una pleiade tragica E se a questo punto volessimo anche noi fare nomi, potremmo pensare a una linea che unisce pittori lontani e isolati attraverso l' Europa: Richard Gerstl in Austria (ricordato già da Chiappini nell' introduzione al catalogo); Constant Permeke in Olanda; Abraham Mintchine in Russia e poi in Provenza; Chaim Soutine in Francia (ricordato da tutti per Varlin); infine Varlin in Svizzera. Formano una pleiade tragica ed errante; quasi sempre misconosciuta, a volte disprezzata o lasciata in disparte entro i rivoli più torbidi della storia; sono pittori che si rispondono a distanza, senza conoscersi; dolorosi e solitari, attaccati alla figura, alla forza espressiva, al desiderio di vita; pittori che usano la materia come mezzo primario; che rompono la forma per volontà forsennata di espressione; che possono risalire quasi tutti a Courbet. Varlin è cronologicamente l' ultimo della fila; e appare il più indifeso, il più teatrale, il più miserabile e il più allegro. Trovo affascinante e giusta l' interpretazione "in chiave di cultura yiddish" che, verso la fine del suo bel saggio in catalogo, avanza Francesco Porzio. Il quale saggio, oltre questa, apre altre prospettive, che potremo tutti con utilità seguire. E per adesso continuiamo ad aggirarci, emozionati e instancabili, entro le sale della Malpensata, davanti alle sessanta tele di Varlin. - di ROBERTO TASSI