GUIDO GUERRINI - PAOLO FRAGAPANE

CONCEZIONE TEATRALE
E STORIA DEL «DOKTOR FAUST»

ANALISI

da «Il Dottor Faust», Firenze, Monsalvato, 1942, pp. 19 ss.


Giunto a 44 anni di età e dopo aver largamente dedicato la sua attività di compositore a tutti i «generi» musicali; dopo aver scavato e sondato il ciclopico Bach e il divino Mozart sino a farli diventare sangue dei suo sangue; dopo essersi appassionato a tutto il melodramma italiano da Monteverdi a Cimarosa, da Rossini a Verdi; dopo aver cercato attraverso tormentose meditazioni e esperienze il suo vero Io artistico e averlo sentito finalmente passibile di completa espressione in un'arte maturatasi in un quotidiano travaglio più che trentenne, Ferruccio Busoni sentì ch'era venuto il tempo di incidere in un'opera grandiosa e definitiva i caratteri peculiari della sua arte.
Da quel grande italiano ch'egli era, pensò sùbito che questa sua decisiva e forse ultima fatica dovesse svolgersi intorno a un soggetto italiano. Osservando il panorama musicale contemporaneo, forse il Maestro sperava che dal destino fosse commesso proprio a lui, al nomade, all'esiliato, di proclamare il verbo nuovo da cui potesse trovar nuova vita il decadente melodramma italiano. Aveva in proposito, come sempre, idee ben nette, già in parte passate felicemente al vaglio di esperienze pratiche («La sposa sorteggiata», «Turandot», «Arlecchino») e teoricamente dichiarate, oltre che in un breve scritto sul «Futuro dell'opera», in uno «Schizzo per una introduzione alla partitura del 'Dottor Faust' con alcune considerazioni sulle possibilità dell'opera». Idee ardite ma solide e coerenti, modernissime ma non sovvertitrici, originali ma attuabili. Tentiamo di riassumerle qui, rapidamente, seguendo da vicino il pensiero busoniano.

1] Affermazione del concetto di unità della musica e conseguente negazione della distinzione di essa in generi (chiesa, teatro, camera) forme (danza, fuga, sonata, ecc.), mezzi adoperati (voce umana, strumenti, ecc.). La musica sì distingue invece per contenuto e qualità. Non esiste quindi, secondo Busoni, una musica per se stessa teatrale; anzi ciò che comunemente riceve tale denominazione fa parte il più delle volte di quegli abusati espedienti nei quali la musica, entra solo in minima parte. (Ed effettivamente, quante volte nelle vecchie opere, alle situazioni più drammatiche, a quelle che danno i brividi all'ascoltatore grossolano, non corrispondono i momenti di maggiore povertà musicale?)
L'opera quindi può e deve accogliere in sé tutti i mezzi e tutte le forme musicali, da un semplice motivo di canzone, al più elaborato contrappunto, senza aprioristiche esclusioni.
La partitura di un'opera, pure adattandosi completamente all'azione, deve costituire un quadro musicale completo, anche separata da questa, e nella quale, cadendo ogni elemento illustrativo, troveranno espressione soltanto i componenti organici della musica. Musica pura e assoluta: altro che teatrale!

2] Netta distinzione e separazione in antitesi con l'estetica wagneriana del Wort-ton-drama tra opera musicale e dramma parlato.
L'opera deve svolgersi rigorosamente nell'àmbito musicale e abbandonare quei drammi, (Busoni cita «La Signora delle Camelie» o la «Tosca») che, buoni o cattivi, nella loro forma originaria bastano a se stessi e non hanno bisogno di chiedere alla musica il soccorso delle sue proprietà magiche, trasfiguratrici della realtà. Al contrario, la musica preferirà quei soggetti che senza il suo aiuto non potrebbero sussistere o non potrebbero raggiungere la loro piena compiutezza. Se la parola cantata è e rimarrà sempre sulla scena, dal punto di vista della veridicità un assurdo, Busoni pensa che tutto lo spettacolo teatrale debba evadere il più possibile dalla realtà e trasferirsi tutto sul piano dell'incredibile, dell'irreale, dell'inverosimile.
«L'opera - afferma testualmente Busoni - dovrebbe impossessarsi del soprannaturale o del non-naturale, come del campo dei fenomeni e dei sentimenti che solo naturalmente le compete, e creare così un mondo apparente che rifletta la vita in uno specchio magico o in uno specchio esilarante; un mondo che vuol dare consciamente ciò che non si trova nella vita reale».
È chiaro, quindi, che la concezione teatrale di Busoni si trovi esattamente agli antipodi con l'opera verista, e che questa, insieme al «concetto di divertimento a buon mercato e all'attrattiva e alla pretesa del pubblico di assistere allo svolgimento di vicende sensazionali che lo eccitano psichicamente e a cui vorrebbe partecipare senza pericoli, s'intende, dal suo posto dì platea», ripugnano a Busoni, gli sembrano cosa insensata, indegna e, se pure non lo dice, immorale.
Procedendo in quest'ordine di idee, Busoni giunge naturalmente ad abolire dall'opera tutto ciò che sia falso sentimento, sdolcinatura, specie nel campo amoroso. Condanna perciò «senza remissione» il duetto d'amore, che alla sua sensibilità. appare non solamente impudico, ma anche falso e ridicolo.
«Chi, è incline all'amore - consiglia Busoni - lo provi ma non lo descriva, non lo legga descritto e soprattutto non lo metta in musica. Ognuno che sia stato, come terzo, in compagnia di una coppia di innamorati, si sarà sentito a disagio. Di fronte al duetto d'amore, tutto il pubblico si trova in simile condizione».

3] La convinta e più volte ribadita affermazione che il libretto d'opera come era impostato dagli antichi maestri, Cimarosa o Mozart o Rossini, la cosiddetta opera-concerto fatta di recitativi e di pezzi chiusi, rappresenti ancora il miglior modo - l'unico anzi - di risolvere il problema dell'opera in musica. Esso lascia alla musica, che per Busoni deve rimanere lo scopo primo della rappresentazione, ampia libertà dì espandersi, secondo l'ispirazione o il capriccio del compositore, in forme finite, armoniosamente equilibrate, secondo un principio di economia musicale.
«Né la concezione né la ricettività umana - afferma Busoni con evidente riferimento a Wagner - possono reggere a uno svolgimento ininterrotto della durata di tre o quattro ore. Gli antichi mostravano apertamente questa divisione in pezzi; i moderni cercano invano di nascondere tale divisione sopprimendo le «chiuse», e in questo modo va perduta l'articolazione ritmica, necessità organica della struttura musicale, paragonabile alla funzione respiratoria negli uomini e negli animali. («Più aria!» esclamerebbe un Goethe della musica)».

Riassumendo, Busoní concepisce l'opera come una specie di cerimonia al di fuori della vita quotidiana, semi-religiosa; formata da elementi che tengono un po' dell'educativo e un po' dello spettacolare, un po' del sacrale e un po' del divertente; il tutto unificato e dominato dalla musica [Queste caratteristiche riconosce Busoni al «Flauto magico» di Mozart, «un esempio che si avvicina moltissimo al mio ideale».] Rifiuta assolutamente il dramma d'intreccio o verista, dove «il godimento estetico viene abbassato a compassione umana». Preferisce soggetti grandiosi e fantastici, rappresentati per successione di quadri sintetici e suggestivi e svolgentisi in un piano di assoluta irrealtà, di «simulazione manifesta e dichiarata». Evita, naturalmente, la catastrofe e riconduce immediatamente alla serenità e al sorriso (cioè al senso della finzione scenica) la situazione che appena tenda a drammatizzarsi o, a scivolare nel patetico. Così in «Turandot», dove Adelma, proprio nel momento in cui si vede portar via l'amato, se n'esce con la filosofica frase: «Pazienza, ne troverò un altro». C'è tutto Busoni in queste trovate spiritose e caustiche, di un «cinismo» che è la naturale difesa di chi troppo ha vissuto e compreso.
Un che di simile avviene nel «Dottor Faust», dove la morte del protagonista viene - diciamo - alleggerita dall'entrata del Guardiano Notturno (Mefistofele) che illuminando con la sua lanterna il corpo inanimato di Faust, dice semplicemente: «Deve essergli capitato una disgrazia.» Ironia amara sulla sorte del «perpetuo volante».
Infine, Busoni vede l'opera in musica come la più alta prova che un musicista possa affrontare, e nella quale esso ha il dovere di versare il meglio di se stesso e delle sue esperienze, «come alla forma unica e universale dell'espressione musicale». Busoni crede fermamente - da uomo e da artista morale quale è - che il musicista non debba trasformarsi in uomo di teatro, e non debba scendere a compromessi con la scena. «L'opera si basa sui motivi, più profondi e più morali per evocare a se questo diritto».
E a questi punti fondamentali della poetica busoniana, un altro si può aggiungere, o meglio anteporre, condensato in una parola che rappresenta il credo dell'arte busoniana: originalità. «Solo chi guarda innanzi ha lo sguardo lieto».

Nel gennaio del 1913, durante uno dei suoi interminabili viaggi, concertistici, ch'erano per lui un eterno supplizio dorato di gloria, Busoni scriveva alla moglie, la fedelissima e adorata Gerda:

«Considerando la mia età e il mio, sviluppo musicale, penso che potrei, senza esitazione, intraprendere il mio lavoro principale e monumentale verso cui tutti i miei lavori precedenti hanno mirato. Vorrei però indirizzare il mio torrente verso la sua vera foce, tentando che la mia opera principale sia importante anche per l'Italia. Ma occorre che il potere di presa sia molto evidente, se si vuoi raggiungere cervelli e cuori con unico strale. Questo è ciò che Wagner intese fare coi «Nibelungi», opera però relativamente estranea al popolo tedesco.... L'Italia ha Dante, che è ugualmente apprezzato da tutti ed è popolare nonostante la sua grandezza, anche fuori d'Italia. Il cinema mi diede l'idea, vedendovi l'Inferno di Dante... Ma io non mi fermerei all'Inferno, come pure non azzarderei il Paradiso, ma giungerci solo all'ascensione di Beatrice... E, beninteso, in italiano.»

Come primo soggetto, dunque, per questa sua opera definitiva e grandiosa, Busoni pensa a un Dante. Già immagina la successione degli stupendi quadri (la lettera parla anche di vari episodi: «Ugolino» - «Paolo e Francesca» - «qualche altra scena di masse»), e sogna di poter realizzare con ciò una cosa ciclopica che possa giungere e toccare tutti gli strati sociali. Poi, forse spaventato dalla immensità dell'argomento, lo abbandona per un «Leonardo», di cui anzi, non solo traccia un intero canovaccio, ma lo sviluppa attraverso numerosi appunti, anche nella speranza che
Gabriele D'Annunzio voglia un giorno essergli poeta su questo soggetto.
Ma l'incontro dei due uomini (a Parigi, nel giugno del 1913) proverà poi a Busoni essere troppo divergenti le loro finalità estetiche, per potere sperare di unificarle in opera d'arte. (Né, d'altra parte, D'Annunzio sembrò approvare nemmeno il soggetto, tanto che ebbe a dire in quell'occasione: «Né a Gesù Cristo, né a Leonardo oserei prestare le mie, parole.»
È proprio rovistando tra le sue carte alla ricerca di appunti per «Leonardo» che Busoni trova vari spunti musicali composti per il «Faust». Faust è dunque un antico sogno, sempre ricacciato dal terrore di un confronto, col capolavoro goethiano.
«A meno di fare cosa completamente diversa».
E la cosa completamente diversa sorse come un lampo, nel cervello del Maestro, assistendo un giorno a una rappresentazione di «Faust» in un teatro di marionette. Un «Faust» (come ancora oggi si recita in Germania in tali spettacoli popolareschi) di pretto carattere leggendario e completamente derivato dalla fantasia folkloristica. Da questa rappresentazione Busoni ebbe immediata visione del suo libretto, che in sette giorni, da Natale a Capodanno (1914), stese in abbozzo, che poi sviluppò in magnifici versi e in lingua tedesca, facendone un Poema che è considerato anche oggi tra i più elevati e importanti della letteratura germanica.
Povero Maestro! Il Faust fu il sogno degli ultimi dieci anni della sua vita. Ogni più elevato pensiero fu dedicato a quest'opera; ad essa furono rivolte ogni sua attività, ogni sua vibrazione. Il suo diario e le sue lettere ne traboccano. È come un delirio di felicità e di fede. Egli vi lavorò con immutata passione, con immutato ardore, fino a quando la mano ebbe la forza di reggere la penna. Poi, non soltanto le forze fisiche, ma anche il preciso presentimento che, insieme alla fine di Faust, in cui egli aveva immesso tanti tratti dell'anima sua, egli avrebbe decretata la sua stessa fine. Non dimenticava, il Maestro, che anche Goethe era di poco sopravvissuto al compimento della sua grande opera.
Fino agli ultimi giorni, egli vagheggiò soltanto di poter compiere l'opera e vederla realizzata:
«Oh! Potessi assistere al levar della tela!».
La morte non glielo concesse. La mano gli cadde proprio alle parole di Faust: «Oh! Pregare.... Pregare!... Ma come trovare le parole?...»
La partitura, come è noto, fu portata a termine dal fedelissimo suo discepolo Filippo Jarnach, il quale, avendo seguito tutto lo svolgersi del lavoro, potè assimilarne profondamente lo stile e servirsi anche del materiale tematico esistente. Ma... come avrebbe terminato il Maestro?
«Doktor Faust» fu rappresentato nel maggior teatro di Dresda il 21 maggio 1925, precisamente a soli 10 mesi dalla morte dell'Autore. E l'opera destò un interesse di così vasta risonanza da valerle la rappresentazione in quasi tutti i maggiori teatri tedeschi. Dopo 17 anni potremo finalmente anche noi avvicinarci a quest'opera monumentale, che rivelerà agli italiani l'ultima e compiuta visione d'arte di questo nostro Grande.


ANALISI

Una vicenda, quella del «Dottor Faust», ricca, fantastica, profonda, originale; che abbandona ogni convenzionalità melodrammatica, per seguire quasi esclusivamente una successione di quadri e di situazioni di potente suggestività, di densa significazione, raffinatamente vari tra loro, così che l'uno si alterna all'altro come l'ombra alla luce. Una vicenda intensamente sentita da Busoni che porse a Faust non poche volte le sue parole, e in Faust, nel suo spirito insonne, nella sua ansia di comprendere, nella sua volontà di operare, nella sua eterna giovinezza, sembrò riconoscere se stesso. Giustamente perciò nota Alfred Baresel: «Il 'Faust' di Busoni si trova alle soglie del nuovo orientamento, del melodramma; e l'autore vide la figura di Faust quasi come un suo proprio ritratto. Cioè l'uomo che cerca, che eternamente cerca....». E che - si potrebbe aggiungere - giunto alla fine della sua vita, lascia alle generazioni venture un sublime retaggio di ideali.
Altrettanto originale e profonda è la musica che riveste il poema. Non più la mozartiana levità di «Turandot», né la sottile e briosa ironia di «Arlecchino», ma una possanza, polifonica muscolosa e forte che sviluppa una capacità drammatica insospettata. In questo Faust l'Empolese si dimostra un eccezionale dominatore dell'arte dei suoni e un costruttore come non se ne vede altri sino ad oggi nell'arengo della musica moderna; così che non appare esagerato affermare che proprio nella logica sonora della costruzione, in questa suprema ratio busoniana, dove ogni residuo di realtà e di sensualità viene consumato, - spiritualissima astrazione, raggiungimento dell'«illimitato nella espressione musicale», come lo stesso Busoni precisò - va ravvisata la parte migliore, la più interessante e significativa, della personalità busoniana.
Quale armonista poi Busoni: sembra voler tendere fino allo spasimo le corde di tutte le più ardite possibilità, tanto che ancora oggi quest'opera, esaminata dal punto di vista tecnico, rivela un'arditezza e un'originalità addirittura sbalorditive.
Di vivide bellezze rifulgono i cori del «Dottor Faust», altrettanti «momenti» ai quali più schiettamente aderisce la sensibilità busoniana: il mistico, il parodistico, il meraviglioso. Il canto - un quid medium tra la melodia e la declamazione e in molti punti liricamente disteso - aderisce con mirabile incisività e spesso con potente efficacia espressiva alla parola. L'orchestra, naturalmente, non accompagna e neppure svolge compiti che definiremo wagneriani, anche in questo, Busoni, rimanendo fedele alla non mai abbastanza lodata maniera italiana di far servire ogni motivo musicale a un solo, determinato momento dell'azione scenica. La partitura orchestrale - stupenda partitura, originale e interessante - generalmente assai folta, ma chiara nella individualità espressiva degli strumenti, sembra alcuni momenti trascolorare in sonorità irreali e immateriali, veramente magiche, alla cui realizzazione non è estraneo anche l'elemento virtuosistico. Ma poco giova, del resto, la distinzione dei mezzi adoperati , in quanto la musica del «Dottor Faust» è un fascio di linee sonore che tutte concorrono a determinate un particolare «contenuto» espressivo, una particolare «configurazione» musicale. « Una musica nella quale vocalità e timbri si compongono sostanzialmente, la quale, s'è determinata dalla concezione del poema, ne determina a sua volta l'emozione e lo commenta in profondità. La musica è sempre al primo piano, classicamente sicura; non aderisce all'azione, perdendo in questa adesione autonomia di stile, ma essa stessa l'azione assorbe sì che il poema si manifesta quale un'azione essenzialmente e primamente fatta di musica».
Ma è tempo ormai di seguire un po' da vicino l'interessantissima trama; senza tuttavia addentrarci nell'analisi del linguaggio musicale dell'opera che esorbiterebbe dai limiti e dallo scopo di questa «Guida» destinata alla generalità degli ascoltatori.

L'opera si inizia con una
SINFONIA, abbastanza sviluppata, che l'autore chiama «Vespero di Pasqua e germogli di Primavera»; sinfonia soffusa tutta di mistica dolcezza e di delicato senso pastorale e che si chiude con la parola «Pax», intonata da un coro interno in una atmosfera di poetica solennità, intima e calda, cui fa luminoso sfondo il tocco delle campane.
Alla sinfonia segue una specie di premessa (
IL POETA AGLI SPETTATORI) nella quale l'autore spiega in versi (recitati) la genesi del suo lavoro, le sue predilezioni, i suoi ideali estetici. Egli vuole che la scena rifletta la vita come in uno specchio magico, e ribadisce la sua convinzione che non alle cose comuni debba volgersi la musica, ma all'irreale, al meraviglioso. Perciò egli si è sempre sentito attratto con forza alle creature - buone o cattive, maledette o sante - che da tale Mondo di fantasia e di prodigio fiorirono.
Tre figure, nella sua ricerca, lo avevano particolarmente colpito: quelle del mago Merlino, di Don Giovanni e di Faust. E la sua scelta sarebbe certamente caduta sul secondo, se non sì fosse trovato di fronte l'opera di Wolfango, (Mozart). Allora si è fermato a Faust, non già per rivaleggiare con Goethe la canzone del mortale nulla potendo al confronto di quella divina - ma per risalire a quelle fonti da cui Goethe aveva tratto il suo miracolo. L'autore si è perciò attenuto alla versione delle marionette, convenientemente ritoccata, arricchita e fatta viva.
E lo spettacolo incomincia.

PRELUDIO I. - A Wittenberg. Faust è nel suo studio, intento allo svolgersi di un processo chimico. Wagner, il suo famulo, entra ad annunziargli che tre studenti di Cracovia desiderano offrirgli un libro raro e curioso, la «Clavis Astartis magica». Faust, acconsente con entusiasmo, e il primo studente gli offre infatti il libro, il secondo una chiave, il terzo un foglio. E prima che Faust abbia tempo di ringraziare, i tre studenti spariscono misteriosamente.

PRELUDIO II. - Stessa scena, a mezzanotte. Faust inizia la sua magica evocazione. Apre il libro, si scioglie la cintura che dispone in cerchio sul pavimento nel quale entra tenendo alta in mano la chiave. Indi invoca gli spiriti infernali. Un invisibile coro chiede a Faust quali siano i suoi desideri. Faust risponde gli siano mandati i servi di Lucifero. Sei lingue di fuoco si librano allora nello spazio. Faust ne rimane inorridito e sgomento; poi, fattosi animo, chiede ad esse chi siano. Sono Gravis, tardo come sabbia nella clessidra, Levis, leggero come foglia che cade, Asmodus, che corre come ruscello. Belzebù, veloce come palla d'archibugio, Megäros, che uguaglia l'uragano. Ma nessuno riesce a soddisfare le esigenze di Faust, ed egli congeda a una a una le «vane luci» ricacciandole agl'inferi. Rimane la sesta fiamma, la più splendida e alta, che chiama Faust per nome. È Mefistofele, veloce come il pensiero umano. «Come il pensiero umano? Che più voglio io?» esclama Faust, e chiede alla fiamma di rivelarsi. A Mefistofele, che subito è apparso, Faust chiede l'adempimento d'ogni suo voto.

Trascorrere vo' la terra, l'oriente, l'occidente
che mi chiama, m'attrae;
fa' ch'io le azioni umane tutte comprenda,
la lor grandezza accresca.
Il genio dammi e pure le sue pene;
dà il genio a me, si ch'io felice sia
più ch'ogni altro! libero io sia!

Mefistofele chiede in cambio la sottomissione di Faust nell'altra vita. Faust si ribella e non vorrebbe adire al patto.
Ma fuori i creditori picchiano alla porta, il fratello della ragazza ch'egli ha sedotta è pure lì per ucciderlo, i preti stanno in agguato per mandarlo al rogo. Faust, chiuso , ormai nella diabolica morsa, non vede altra salvezza che in Mefistofele, e gli si arrende, mentre dalla cattedrale giunge il canto del Credo. Una disperata angoscia coglie Faust:

Non v'è redenzione, non v'è carità, né v'è castigo;
né cielo, né gli orrori dell'inferno! L'eterno sfido!

Poi tremante sottoscrive il patto, e cade svenuto. Mefistofele scompare. È il lunedì di Pasqua. I raggi dei sole mattutino, penetrando vivamente dalle finestre, inondano di luce la stanza. Le campane suonano a distesa, mentre il coro inneggia: «Gloria in excelsis, Deo et in terra Pax. Alleluja». Lo straordinario interesse di questi due «preludi», che insieme formano una specie di prologo all'azione vera e propria, risulta evidente anche dal breve riassunto dato. Seguire la musica passo passo, nel continuo svolgersi e rinnovarsi dei suoi lineamenti espressivi, sarebbe impresa presso che impossibile. Basterà dire che musica, parola e azione si presentano come un tutto inscindibile, a tal segno che un riferimento melodico isolato è immancabilmente destinato. a perdere gran parte del suo significato.
Nel primo «preludio» l'azione si svolge rapida, serrata, in una atmosfera carica di eventi. Da notarsi il tema della «Clavis Astartis Magica», coi suoi aspri intervalli, che resterà nell'opera come espressione dello spirito infernale.


EX. 1

Nel secondo «preludio» tutta la scena dell'evocazione degli, spiriti va citata come una delle parti più felici dell'opera. Il preludio si inizia con un motivo della viola


EX. 2

che riudremo più tardi, quando Faust vedrà quasi fallire la sua diabolica esperienza. Motivi cupi, stridenti, guizzanti, sorgono via via dall'orchestra, in una atmosfera sonora notturna dilatata e misteriosa. Alla musica è affidato il còmpito di alimentare l'interesse dell'episodio, caratterizzando in maniera appropriata e sempre nuova il manifestarsi di ciascuno spirito; così che l'episodio, lungi dal riuscire monotono, si risolve in una progressione di drammaticità e d'interesse: dalle risposte di Gravis, grave come sabbia nella clessidra, su su fino a quelle di Megäros, che uguaglia l'uragano, mentre voci invisibili ripetono paurosamente «Megäros, Megäros, che uguaglia l'uragano».
La musica è ancora in primo piano quando. Faust, svanite, già cinque fiamme, esita a interrogare la sesta, non osando distruggere l'ultima speranza e paventando il vuoto nauseante che dovrà seguirne («mir bangt vor der ek'len Leere, die folgen muss»). Allora, nel silenzio, il violino intona il tema dell'introduzione (EX. 2) esprimente l'intima angoscia di Faust. Poi egli sogna di immergersi nel lavoro come in onda risanatrice: ed ecco un motivo squisitamente lirico, che riudremo più tardi nella più bella pagina dell'opera: la «Sarabanda».


EX. 3

Infine, tutto l'episodio del patto, che si inizia in una atmosfera di calda liricità sulle parole di Faust anelante al sapere, all'azione, al genio, alla libertà (l'aspetto «buono» dì Faust: i momenti di più schietto fervore lirico dell'opera)



EX. 4

si svolge con crescente animazione, in un brillantissimo tempo di scherzo [si inizia col tema della «Clavis magica»], quando Mefistofele va stringendo le maglie della sua diabolica rete; culmina nella scena finale, sfarzosamente concepita, dove il mistico canto del Credo, la cinica volontà di Mefistofele, la disperazione di Faust, messe a contrasto, mantengono alla musica, e quindi alla rappresentazione, una tensione drammatica veramente impressionante. In questa parte, quando la scena comincia a rischiararsi ai raggi del nuovo sole, riappare il motivo «pastorale» della sinfonia, ma variato e reso ancora più diafano. Infine, il «Preludio» si chiude nella luminosa coralità del Gloria.

INTERMEZZO. - Antica cappella gotica nella cattedrale. Un soldato completamente chiuso in un'armatura è inginocchiato e prega Dio - Dio che non è sempre un Dio di misericordia ma anche un Dio di vendetta e di castigo - di fargli ritrovare, colui (Faust) che ingannò sua sorella. Entrano Faust e Mefistofele. Questi si offre di uccidere il soldato ma per conto di Faust, il quale, dopo breve esitazione, acconsente, pur che le sue mani non si lordino di sangue. I due si ritirano, e poco dopo Mefistofele rientra vestito da frate. Egli chiede al soldato se desidera confessarsi, ma il soldato rifiuta seccamente. Allora, fra terribile strepito, irrompe nella chiesa un gruppo di armati che si gettano sul soldato, credendolo l'assassino del loro capo, e dopo breve lotta lo uccidono. Mefistofele ha in tal modo conseguito una triplice vittoria: la chiesa è profanata; il soldato è morto dannato meditando un delitto; Faust ta sulla coscienza il peso dei due peccati. Nella chiesa un raggio di luna cade freddo sul cadavere del soldato.
L'intermezzo - breve - è inquadrato su uno sfondo di organo, che accompagna solo o con l'orchestra la più parte dell'azione, dando ad essa un colore austero e quasi di lontananza. Il motivo dell'organo - specie di corale figurato - riappare nell'ultimo quadro, quando Faust si volge di nuovo alla chiesa, ma con ben altro animo.


EX. 5

Un grande fragore di trombe, di tamburi e di timpani accompagna invece l'irrompere degli armati in chiesa e la breve lotta che ne segue col soldato pregante.

Segue quindi lo spettacolo principale, costituito da tre quadri.

QUADRO I. - Il parco granducale a, Parma nel giorno delle nozze del Granduca. Corteggi, danze, grande fervore di feste.
Il Maestro di cerimonie comunica, tra la curiosità e il giubilo generale, di avere invitato alla festa il Dottor Faust, il quale terra spettacolo di magia. Ed ecco un Araldo (Mefistofele) annunciare l'entrata di Faust; il quale avanza come principe, circondato da un sèguito fantastico.
Egli chiede alla Granduchessa di esprimere un desiderio, e questa domanda di vedere l'aspetto di antichi regnanti. La scena si trasforma per incanto in una notte stellata e, fra lo
stupore di tutti appaiono il re Salomone assiso in trono e poco dopo la Regina di Saba. Salomone si inginocchia alla Regina ed insieme poi salgono il trono. (Ma Salomone ha i lineamenti di Faust e la Regina di Saba quelli della Granduchessa). Seguono altre apparizioni: Sansone e Dalila (Sansone col volto di Faust, Dalila col volto della Granduchessa), Giovanni e Salomè (e sempre la stessa illusione visiva). In quest'ultimo quadro poi appare anche il carnefice, che ha le sembianze del Granduca. Faust propone di fare eseguire la decapitazione, ma la Granduchessa si tradisce gridando: - No! non deve morire! (Dunque amami, le risponde Faust). - La Granduchessa è già vinta dal magico fascino di Faust, quando il Granduca, non riuscendo più a contenere la sua gelosia e la sua collera, ordina di cessare lo spettacolo. Con malcelata ira, il Granduca ringrazia Faust e lo invita alla sua mensa; quindi, porgendo il braccio alla sposa, si ritira col sèguito.
Mefistofele rivela a Faust che i cibi saranno avvelenati e lo consiglia a fuggire. Ma Faust dichiara che fuggirà soltanto con la Granduchessa. I due escono.
In una atmosfera crepuscolare, si vede la Granduchessa avanzare come in sogno con le braccia tese.

Mi chiama... m'attrae...
Mi chiama come con mille voci
con mille braccia a sé m'attira,
in un istante mille istanti io vivo
ed ogni istante sol di lui mi parla.

Poi, come attratta da una forza ipnotica, traversa la scena per seguire Faust.
Si fa giorno di nuovo. Il Granduca entra insieme col Cappellano (sotto le cui spoglie si cela Mefistofele), il quale racconta al suo Signore la fuga di Faust con la Granduchessa. Nessun inseguimento è possibile, i due amanti cavalcando per le vie del cielo su cavalli alati. Il Cappellano consiglia quindi il Granduca a non disperarsi e a sposarsi di nuovo con una principessa di Ferrata, che gli recherà anche vantaggi politici. (E poi Venezia li inghiotte entrambi, commenta cinicamente Mefistofele tra sè). - Figlio abbi speranza! - esorta il diabolico Cappellano. Commosso dell'affettuoso consiglio, il Granduca si china a baciare la mano al Cappellano, il quale leva l'altra mano in atto benedicente: ma il suo pugno si adunca in artiglio.

Ai due «preludi» e all'«intermezzo» di colore cupo e drammatico, fa contrasto il primo quadro chiaro e festoso, ricco di un suo profondo palpito lirico.
Si inizia con un «Corteggio», che è tra le pagine sinfoniche di Busoni una delle più citate, cui seguono vari altri episodi sinfonico-corali, che accompagnano l'entrata dei contadini, zampognari, cacciatori, paggi, damigelle. La musica si svolge animatissima, in un festoso rigoglio di sonorità e di ritmi. Il «Corteggio» - in carattere d'una polacca - un coro di contadini, che si rimandano allegre voci, l'entrata dei cacciatori, al suono dei corni e quindi il caratteristico coro dei cacciatori, l'entrata dei paggi e delle damigelle al ritmo di un valzer, sono altrettanti elementi che contribuiscono ad accrescere vivacità e ricchezza al quadro sonoro.
Ed ecco l'entrata di Faust. La musica ne accompagna l'incedere con un tema tassativo, misterioso e solenne, intonato inizialmente dal trombone e dal contrabbasso e in seguito dal clarinetto basso, fagotto e contrabbasso insieme, sopra un pedale ritmato del corno, controfagotto e timpano, che acuisce il senso drammatico di aspettazione. Siamo a una delle più belle pagine dell'opera. Il coro s'è fatto immobile, e circonda l'entrata di Faust da una atmosfera di trepida ammirazione e di stupore. (Da notarsi il bellissimo effetto e la sorprendente efficacia del sottovoce)

Ei vien. Con lui stupore e mistero
ansia, timor, tremar ci fanno.
Intorno ascosi genietti stanno
e d'illusione si vela il vero...
Un'ombra par che sfiori pallida il sole già,
si che l'attesa muti e tremanti ci fa.
Ah sì, superbo e bello ci appar,
la bizzarria è in lui natura,
fiera e leggiadra appar la sua figura
intimorir e affascinar ei sa.


EX. 6

Segue la scena dei sortilegi dove la musica riesce ancora una volta ad assorbire l'azione attingendo veramente al favoloso quadro il senso dell'«illimitato» nell'espressione musicale.
L'episodio della fuga della Granduchessa si inizia in una atmosfera di sogno. Sopra un armonioso arpeggiare, la voce di un violino (interno) sembra far da richiamo e guidare i passi della fuggitiva. Quindi il clarinetto intona un tema dolorante nella sua dolcezza:


EX 7

La Granduchessa inizia il suo canto con frasi interrotte, poi con sempre maggior calore, sino a raggiungere un'enfasi passionale che si manifesta in curve melodiche di accentuata ampiezza e fa pensare a Wagner.
La scena del Granduca col Cappellano è condensata in poche pagine finali. (Da notarsi il tema della Clavis Magica alle parole del Cappellano «La forza del male non va disprezzata».)

INTERMEZZO SINFONICO (Sarabanda). La più bella pagina dell'opera, che il Pannain giudica «una delle più belle e dense della musica contemporanea» I due motivi fondamentali di Faust (ex. n. 4 e n. 3), isolati e accostati in un profondo nesso ideale, vivono di intensa vita lirica arricchendosi di nuovo, più ampio significato. Altri elementi della «Sarabanda» appariranno alla fine del II Quadro.

QUADRO II. - In una taverna a Wittenberg, studenti discutono sulle teorie di Platone. Fra essi è Faust, al quale gli studenti chiedono di volere essere lor giudice. Ma egli risponde che nulla può essere provato poiché una cosa sola è certa: che noi veniamo e che noi andiamo. La discussione degenera in diverbio sulla religione tra protestanti e studenti cattolici. Questi intonano il Te Deum, mentre quelli, cantando il corale luterano «Ein feste Burg», escono furiosi. I rimasti chiedono a Faust di narrare le sue avventure amorose, e questi racconta che la più bella donna che lo abbia amato era una Granduchessa italiana fuggita con lui il giorno delle nozze. Ciò avvenne appena un anno fa, ma tutto sembra estremamente lontano. Si ricorderà ella di lui?
Sotto le spoglie di un Corriere polveroso, Mefistofele viene ad annunziare che la Granduchessa di Parma è morta, lasciando un ricordo per Faust. Eccolo: e gli getta ai piedi il cadavere di un neonato. Orrore e raccapriccio degli studenti, che vorrebbero gettarsi su Mefistofele. Ma questi li placa col brioso racconto (Ballata) dell'avventura di Faust con la Granduchessa. Poi, per tranquillizzarli completamente, solleva da terra il corpicino, mostrando non essere altro che un fantoccio di paglia, e lo getta nel fuoco.

Ecco, io brucio tutto ciò che fu,
in fumo muto ciò che più non è.

Un essere più bello, aggiunge Mefistofele, sorgerà a conforto di Faust. La colonna di fumo che esce dal fantoccio si condensa infatti in figura umana, mentre inavvertitamente la scena si trasforma in paesaggio greco. Gli studenti sgusciano via, e anche Mefistofele si ritira. Faust invoca Elena, che appare tra i canti di un invisibile coro. Ma quando egli inebriato le si avvicina e fa per toccarla, essa scompare e con lei il paesaggio. Faust è di nuovo solo e rassegnato.

Non puoi, uomo, raggiungere la bellezza.
Secondo le tue forze crea ed agisci in
questa vita tua, come all'uomo è dato.
Fui prodigo, fui pazzo, fui leggero! La
vita mia oggi ha principio: fanciullo nuo-
vamente mi sento. Guardo innanzi a me;
chiare distese e solitari colli, splendide terre
guidano a nuove mete. Come serena ride la
vita nel ridestarsi di un radioso giorno!

Faust è a questi, pensieri, quando si trova tre figure al fianco. Sono quelle della prima scena (Studenti di Cracovia) che gli domandano la restituzione del libro, della chiave e del foglio. Faust dichiara di aver distrutto ogni cosa. I tre gli annunziano che il termine è scaduto e che a mezzanotte egli rientrerà nel nulla. Quindi si dissolvono in nebbia. Faust, liberato, esclama:

Partiti, alfine!, sgombra è la via.
Sentiero del mio tramonto, benvenuto tu sei per me!

Una musica briosa, vivace, spiritosissima, fa del lungo episodio della disputa studentesca nella taverna di Wittenberg uno dei più divertenti dell'opera. Busoni appare qui impareggiabile nel senso e nel gusto della caricatura. La scena è tutta un susseguirsi di trovate umoristiche genialmente risolte in musica: dalla discussione sulla dottrina platonica. alle pompose sentenze degli scienziati, dagli allegri motteggi degli studenti, sino alla disputa religiosa, culminante in quel comico Te Deum profanamente intonato da due gruppi di studenti cattolici, e nel quale la musica riesce a una gustosa caricatura dello stile imitato. I due gruppi di studenti cattolici ripetono senza prender fiato le lodi a Dio «creatore de vino e della donna» accentando comica le parole latine (e si pensa allo spirito degli antichi Goliardi) mentre gli studenti, protestanti contrappongono urtando il loro «Ein feste Burg», aiutati da poderosi sforzati dei corni e dei tromboni.


EX. 8

Ed ecco il frastuono placarsi, e Faust narrare la sua vicenda amorosa. L'orchestra rievoca i motivi del Corteggio (Polacca) e il tema d'amore della Granduchessa (EX. 7) e in questa atmosfera di poetica lontananza la narrazione si svolge. Con l'arrivo di Mefistofele la musica si rianima, culminando nella caratteristica Ballata di Mefistofele. Una nuova atmosfera di stupore circonda l'apparizione di Elena; ma quando tutto si è dissolto nel nulla e Faust si ritrova solo con, se stesso, allora veramente sembra avere inizio la sua vita di uomo. C'è nelle sue finali considerazioni sul limite delle possibilità umane e nella sua visione rivelatrice del Bene, un respiro lirico nuovo, accorato e augusto, che fa pensare agli accenti più umani del Wotan wagneriano. Quando appaiono i tre studenti di Cracovia, la musica riprende un motivo ansioso già apparso nella Sarabanda; e sul motivo finale della stessa Sarabanda, in un'atmosfera sonora purificata, Faust canta il benvenuto al «sentiero del suo tramonto».

ULTIMO QUADRO. - Strada sotto la neve a Wittemberg. A destra, quella che era stata la casa di Faust; a sinistra uno degli ingressi della cattedrale. All'angolo dello stesso muro, un Crocifisso a grandezza naturale con inginocchiatoio. La voce del Guardiano notturno annunzia la decima ora.
Uno dopo l'altro vari gruppi di studenti vengono a porsi davanti all'ingresso della casa. Giunge Wagner, ex famulo di Faust e ora Rettore Magnifico, circondato dai suoi turiferari. Questi lodano in Wagner il vero successore di Faust, ma Wagner respinge la lode affermando che Faust era «come scienziato incompleto: una mente fantastica».
Gli studenti accordano gli strumenti e intonano una Serenata, ma vengono interrotti dal Guardiano notturno che annunzia l'undecima ora. Gli studenti scappano cantando: «Fugam! Fugam!
La scena è vuota e buia. Faust entra. Egli riconosce la sua casa e sa chi è il «pedante» che siede sul suo seggio. Ma egli ha ormai superato tutte le amarezze.
Dalla chiesa giunge un coro sommesso che ricorda ai tristi la condanna eterna. (E la voce della coscienza che parla in Faust). Faust tenta allora di riscattarsi compiendo qualche opera pia. come, fanciullo, gli insegnava la madre. Scorge allora, accoccolata sui gradini della Chiesa, una mendica con un bimbo in braccio. Mentre sta per offrirgli i suoi ultimi averi, riconosce nella mendicante la Granduchessa che gli porge il figliuolo esortandolo a compiere il suo dovere prima della mezzanotte. Poi sparisce lasciando a Faust il bimbo. Faust crede tutto ciò opera di spiriti maligni, e vuole entrare nella chiesa, che tutt'a un tratto si è illuminata. Ma sulla soglia il Soldato (il fratello della ragazza ch'egli ha ingannato!) che gli vieta l'ingresso con la spada sguainata. Dall'interno della chiesa, il coro ripete la preghiera del Soldato al Dio che non è sempre un Dio di misericordia ma anche un Dio di vendetta e di castigo (vedi Intermezzo) Svanita anche questa apparizione, Faust si trascina col bimbo in braccio fin sui gradini del Crocifisso:

Pregare! pregare! Ma dove le parole?
Parole di scongiuro ho solo in mente.
Come una volta guardare io voglio a te...

Fa per alzare lo sguardo sul Crocifisso, ma il Guardiano notturno (Mefistofele), che gli e giunto improvvisamente alle spalle, proietta la luce della sua lanterna sul volto del Crocifisso, che si trasforma così in quello di Elena. Faust tenta ancora una volta di ribellarsi al maligno potere. Poi, in preda alla disperazione, compie l'ultimo suo esorcismo. Depone il bimbo in terra, lo ricopre col suo mantello, poi, fatto il cerchio magico con la cintura, vi entra. Al sangue del suo sangue egli trasfonderà la vita, in esso volendo egli continuare a vivere,

A te mio sangue, a te mia carne, puro
ancora, non ridesto e fuor dei tempo ancora
e pure tanto vicino a me, lega a te la mia
vita. E giunga dalle più misteriose radici
di quest'ora fuggente sino al chiaro nuovo
fiorire dell'esistere tuo. Così io opero in te
e tu crea per me; fa più profondo il solco
ch'io già tracciai, ancora e sempre in eterno.
Ciò che ho segnato devi eseguire, ciò che ho
negletto còmpilo tu. Così mi pongo sopra la
legge, comprendo in uno tutti i tempi e mi
unisco alle ultime generazioni, Io Faust,
volontà eterna!

La voce del Guardiano notturno annunzia la mezzanotte. Faust cade morto, ma dal luogo dove era deposto il morto, un giovane adolescente si leva nudo tenendo nella destra un ramo fiorito. Egli incede, con le braccia levate, nella notte, verso la città...
Entra il Guardiano notturno (Mefistofele) che illuminando con la sua lanterna il corpo di Faust, dice semplicemente,

Che mai è accaduto a questo pover'uomo?

Il sipario si apre dopo una breve introduzione orchestrale, la quale, esaurendosi a poco a poco, introduce un disegno melodico caratteristico dei bassi, derivato dal tema dell'ideale fallito (EX. 3), che serve ad accompagnare la voce del Guardiano notturno. riprodotta internamente da un corno prima ch'esso appaia sulla scena ad annunziare l'ora decima. Il colore notturno dell'episodio viene poco dopo ravvivato dall'entrata degli studenti, che rendono omaggio al Rettore Magnifico, riempiendo la scena di voci e di canti. Particolarmente riuscita, per la sua grazia appena sfiorata da un vago senso di umorismo, una Serenata, che uno studente (tenore) canta, in tempo di minuetto, accompagnato dal coro. Di nuovo la voce del Guardiano notturno risuona cupamente l'ora undecima. Gli studenti si sparpagliano, mentre gli ultimi echi della Serenata si perdono nella notte. Ritorna la solitudine e il silenzio. Faust appare. Riconosce la sua casa dov'altri ora abita. Lo stesso basso che è servito ad accompagnare la voce del Guardiano notturno, ma ostinatamente ripetuto, quasi a significare una fatale decisione, accompagna il canto di Faust: una melodia intensa, accorata e stanca, ma nobile e severa, che sembra veramente racchiudere il e dramma di Faust e portare il peso delle sue esperienze.
Dalla chiesa giunge un coro di voci maschili accompagnate dall'organo. Faust scorge la mendicante accoccolata sui gradini della chiesa. Dall'orchestra, agitata da un movimento drammatico dai bassi, sorge il canto d'amore della Granduchessa. La voce del clarinetto, dolorante (EX. n. 7) fa eco alla voce della Granduchessa, che scongiura Faust a «compiere l'opera» prima di mezzanotte. L'apparizione è appena cessata, che l'orchestra riprende il tema del corale figurato dell'Intermezzo. L'invisibile coro ripete la preghiera del Soldato (vedi Intermezzo) imitata dai tromboni e accompagnata questa volta da un violento rullare di timpani. Il senso drammatico di queste reminiscenze, già acuito dai precedenti annunzi del Guardiano notturno e dall'imminenza dell'ora, è naturalmente impressionante. L'atmosfera musicale si fa sempre più agitata. Faust si trascina ai piedi del Crocifisso per pregare. A questo punto, come è detto, la morte colse il Maestro.
Il finale, compiuto da Jarnach, appare ben degno dell'opera e di quel delicatissimo momento in cui l'Autore la lasciò.
Jarnach ha mantenuto alla musica la sua progressione drammatica e la sua fisionomia, impiegando parte il materiale tematico esistente, sviluppandolo e intessendo con esso abbondantemente la partitura: in misura - è lecito pensare - anche maggiore di quanto Busoni avrebbe fatto, e dando quindi al finale una fisionomia in un certo senso wagneriana. Ma dal punto di vista della fedeltà, non c'era da fare diversamente. Ha dato alla chiusa un respiro ampio e commosso, volgendo in lirica gli alti concetti.
Così finisce quest'opera straordinaria, dove palpita l'anima di Faust, coi suoi slanci, le sue aspirazioni, la sua ansia di rigenerazione, il suo amore per l'impossibile e, anche, con la malinconia delle sue ombre, col terrore delle sue cadute.
Non meno mago di Faust, Busoni ha soffiato la vita alle sue marionette, facendole andare tra gli uomini. E, come Faust, si è unito - volontà eterna - alle ultime, generazioni.



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