FAUST.
L'originaria esistenza storica del personaggio è fuori di dubbio. Dal disaccordo di talune testimonianze dell'epoca si è voluto anzi desumere che i Faust storici siano stati due - uno, il più vecchio, di nome Johannes, l'altro, il più giovane, di nome Jörg (Giorgio) -; ma lo scambio di nome di battesimo in atti non ufficiali è un fatto non infrequente in qualsiasi tempo e anche le altre incongruenze sono vaghe e senza valore probativo. Il dottor Faust (v.), pseudo umanista e «mago», pseudomedico e alchimista, avventuriero e «philosophus philosophorum», che con la sua vita errabonda e sregolata, con le sue gesta e con le sue vanterie colpì l'immaginazione del popolo è stato quasi certamente uno solo. Nacque, pare, a Knittlingen, nel Wurttenberg, verso il 1480. Secondo Melantone, che era nativo di Breten e, quindi, suo quasi-conterraneo, avrebbe studiato a Cracovia, dove la «magia» alla fine del secolo ancora era compresa fra le materie di insegnamento. Nel 1507 l'abate Johannes Trithemius testimonia la sua presenza a Geluhausen, dove egli si sarebbe presentato spavaldamente come «magister Georgius Sabellicus, Faustus junior, fons necromanticorum, astrologus, magus secundus, chiromanticus, aeromanticus, pyromanticus, in hydra arte (pronostico secondo l'esame delle urine) secundus»! Nel 1513 un noto umanista, Mutianus Rufus, asserisce di averlo incontrato a Erfurt, in un albergo, e di aver udito con le proprie orecchie le sue spacconate: «Audivi garrientem in hospitio - Non castigavi jactantiam. Quid aliena insania ad me?». Ma soprattutto se lo ebbe fra i piedi Melantone, fra il 1525 e 1532, a Wittenberg; e i rapporti fra il severo «praeceptor Germaniae» e l'equivoco spacciatore di pseudoscienze e di magia non devono essere stati i migliori, se Melantone appioppa all'intruso le qualifiche di «turpissima bestia et cloaca multorum diabolorum» nonché di «turpissimus nebulo, inquinatissimae vitae»: il petulante dottore lo aveva infatti minacciato - niente di meno! - di fargli volar via i piatti su per la cappa del camino nel momento in cui egli si sarebbe messo a tavola! Naturalmente però le sue proteste taumaturgiche erano di solito in ben altro tono: affermava che non c'era bisogno alcuno di venerare Cristo perché egli medesimo era in grado di compiere gli stessi miracoli come e quando voleva: affermava che poteva in qualunque momento mettere a disposizione i testi perduti di, Platone e di Aristotele, di Plauto e di Terenzio; prevedeva l'avvenire; «svelava misteri»; «dicebat arcana multa». E bisogna convenire che per lo meno l'arte di impressionare e di «farsi prendere sul serio» non deve essergli mancata, se Franz von Sickingen, nel 1507, a Kreuznach, non esitò ad affidargli l'educazione di ragazzi - con i quali egli presto avviava un «turpissimum fornicationis genus» - e, nel 1520, il Principe Vescovo di Bamberga gli versò ben dieci fiorini d'oro per farsi trarre l'oroscopo, e, nel 1528, il Consiglio Comunale di Ingolstadt, mentre lo metteva al bando dalla città, prudentemente si faceva rilasciare un'impegnativa promessa scritta che non si sarebbe in alcun modo vendicato. Ancor nel 1536 l'umanista Joachimus Camerarius, professore a Tubinga, si rivolgeva a lui per ottenere il pronostico sull'esito della terza guerra fra Carlo V e Francesco I. Ancora nel 1539 Filippo Sergardi, «Stadtphysicus» di Worms, registrava nell'Index Sanitatis un suo soggiorno nella città, dove - dice - «coloro che si fecero ingannare, furono in molti». Verso il 1540, tornato in patria morì oscuramente, pare a Stanfen. Ma, com'era avvenuto nel secolo precedente per Tannhäuser (v.), la leggenda, già spesso mescolata alla sua fama durante la vita, si impadronì rapidamente della sua figura dopo la morte. Lo stesso Melantone - secondo Johannes Manlius che l'avrebbe udito dalla sua bocca - diede credito alla voce che egli non fosse morto di morte naturale, ma a opera del diavolo: «l'indomani, infatti, il cadavere, stecchito, sarebbe stato trovato prono, con la faccia a terra». Secondo le Cronache di Erfurt di H. Schedel, anzi, Faust medesimo sarebbe stato il primo a menar vanto di avere stretto un patto col diavolo (v.), tanto che un monaco francescano - Georg Klinge -, il quale abitava nel convento di fronte, tentò invano di fargli capire ragione e di convertirlo, e infine, non essendo riuscito a nulla, lo denunciò al Rettore Magnifico, ottenendone l'espulsione dalla città. Nella sua irrequietudine vagabonda come nella sua vita depravata, nella sua sicurezza di sé come nella sua falsa scienza, nelle sue arti magiche come nelle sue arti di «cavalier d'industria», egli apparve già agli stessi contemporanei, nel bene e nel male, come un'incarnazione vivente dello spirito tedesco dell'epoca, ricco di forze in fermento ma anche di contraddizioni e di caos, bruscamente oscillante fra gli slanci di un individualismo baldanzoso e battagliero e i ripiegamenti di una coscienza ossessionata dal problema religioso, perennemente conteso fra il sacro e il profano, fra la teologia e la politica, fra l'avidità di vivere e il terrore dell'»al di là», fra l'ostentata libera critica e l'assillante luterana preoccupazione della «presenza operante del Diavolo» nella vita dell'uomo peccatore. Non soltanto elementi vari di leggende in qualche modo affini, come quelle di Cipriano (v.) e di Teofilo (v.), ma spunti fantastici di ogni genere e di ogni origine - biblici, gnostici, cristiani medievali, fiabeschi - ora terrificanti ora burleschi - si aggiunsero presto al nucleo primitivo e conferirono alla leggenda un carattere sempre più favoloso: lo stesso dottissimo Konrad Gessner, il «Plinio della Svizzera», nel 1561, pur essendo Faust «morto da non molto tempo», lo classificava fra gli «scolari vaganti» e definiva questi ultimi come gente equivoca che «continua la tradizione dei Druidi, i quali presso gli antichi Celti ricevevano gl'insegnamenti da diavoli in luoghi sotterranei, trattenendovisi per una serie di anni, come per certo ancora oggigiorno avviene a Salamanca»! Aneddoti si vennero così via via sovrapponendo agli aneddoti, episodi agli episodi. E più di una raccolta - una ne pubblicò da un manoscritto di Wolfenbüttel il Milchsack nel 1892 - deve certamente aver preceduto, in latino o in tedesco, quella che uno stampatore di Francoforte, Johann Spiess, si decise per primo a pubblicare nel 1587 sotto il titolo: Istoria del dr. Johann Faust, il molto famigerato mago e negromante. Com'egli impegnò a fissa scadenza l'anima col Diavolo e quindi singolari avventure vide e corse egli stesso o provocò, finché ricevette finalmente il ben meritato guiderdone [Historia von Dr. Johann Fausten, dem weitbeschreyten Zauberer und Schwartzkünstler. Wie er sich gegen dem, Teuffel auff eine benandte Zeit verschrieben, Was er hierzwischen für seltsame Abenteuer gesehen selbs angerichtet und getrieben, bisz er endtlich seinen wolverdienten Lohn empfangen]. È il famoso volumetto che si suolo per lo più designare senz'altro come Il libro di Faust [Das Faustbuch], perché costituì, direttamente o indirettamente, il punto di partenza per tutti gli ulteriori sviluppi che la leggenda ebbe dentro e fuori dei confini della Germania. È diviso, all'ingrosso, in quattro parti: I, Nascita, studi e patto; II, Avventure, viaggi e soluzioni di quesiti; III, Atti di magia e negromanzia; IV, Morte: e, anche a prescindere dalle aggiunto e amplificazioni di talune successive ristampe, già contiene nelle 227 paginette della prima edizione tutti gli elementi costitutivi intorno a cui la leggenda si è formata. Già il Diavolo con il quale Faust stringe il patto porta un nome assai prossimo a quello che Goethe renderà popolare: Mephistophilis; e già accanto a Faust è anche Wagner (v.), il suo «famulus», e più tardi, con sviluppi di leggenda propria, suo continuatore. Già Faust, chiuso nel suo studio fra i suoi libri e i suoi alambicchi, «si sente crescere ali d'aquila», e vuole con la sua scienza «dar fondo al cielo e alla terra»; e già tocca il culmine della sua avventura e della sua vita con il possesso della suprema bellezza terrena: la greca Elena (v.). Naturalmente Faust soccombe infine alla sua empietà ed è per sempre condannato: la tendenza è infatti moraleggiante: la narrazione è fatta perché serva di «terribile esempio e fedele ammonimento» a «tutti gli uomini empi presuntuosi e caparbi»; e, poiché il clima in cui la leggenda sorse è stato prevalentemente protestante-luterano, la tendenza è spesso anche «antipapista». Ciò non riesce tuttavia a soffocare il popolaresco piacere di favoleggiare e il gusto per il fantastico e il grottesco da cui la leggenda trasse la sua vera origine. E l'osservazione vale anche per le 671 pagine in 4° della nuova rielaborazione della leggenda che Georg Rudolf Widmann pubblicò, in tre parti, ad Amburgo nel 1599. La tendenza moralista e religiosa è ancor più marcata, come mostra lo stesso titolo: Veraci istorie degli orrendi esecrandi peccati e vizi, e anche delle molte mirabolanti strane avventure che il dr. Johannes Faust, il famoso negromante e arcimago, ha avuto a opera della sua negromanzia fino alla sua terribile fine [Wahrhaftige Historien von den grewlichen und abscheulichen Sünden und Lastern, auch von vielen wunderbarlichen seltzamen Ebentheuern: So Dr. Johannes Faustus, Ein weitberuffener Schwartzkünstler und Erztzäuberer, durch seine Schwartzkunst, bis an seinen arschrecklichen End hat getrieben]: tutto ciò che poteva sembrare «pericoloso» dal punto di vista della moralità e della religione è soppresso: sono soppressi persino gli amori di Faust - compreso l'episodio di Elena -: ed è aggiunta invece - insieme a qualche derivazione da altre leggende - tutta un'informe massa di elucubrazioni teologiche e di discussioni e moraleggiamenti. Ma era, per la leggenda, un peso morto; e quando, più di settant'anni dopo, un medico di Norimberga, Johannes Nicolaus Pfitzer, s'accinse finalmente a una nuova edizione del testo - col titolo: La vita scandalosa e l'orrenda fine del molto famigerato arcinegromante Johannes Faus, per la prima volta diligentemente descritta, molti anni fa, da G.R. Widmann, riveduta ora nuovamente da J.N. Pfitzer... [Das ärgerliche Leben und schreckliche Ende desz viel-berüchtigten Ertzschwartzkunstlers Johannis Fausti, Erstlich, vor vielen Jahren, fleissiy beschrieben von G.R. Widmann: Jetzo, aufs neue übersehen... durch Joh. Nicolaum Pfitzerum..., Norimberga 1674] - sciolse nuovamente le briglie alla fantasia e, sfrondato il racconto di gran parte dell'ingombro dottrinario, lo sostituì con nuovi episodi attinti da varie fonti - e particolarmente dalle ultime ampliate edizioni dello Spiess - o aggiunti ex-novo, come il vano amore di Faust per una bella fanciulla povera. Così rimaneggiata, l'opera ritrovò l'antico favor popolare, e continuò per qualche decennio a ristamparsi, fino a quando l'avvento di un nuovo spirito non ne suscitò una nuova rielaborazione. Già fin dal 1683, in sede di studi, il nascente spirito razionalistico aveva posto in dubbio la veridicità di molti dei fatti attribuiti a Faust dalla leggenda (cfr. la dissertazione di C.Ch. Kirchner; Disquisitio historica de Fausto praestigiatore, vulgo von Doctor Faust, discussa a Wittenbeg il 23 maggio); e le voci diffidenti, ispirate a scetticismo, s'erano, d'allora in poi, sempre più insistentemente rinnovate: le 635 pagine in 8° della narrazione del Pfitzer si ridussero così alfine a sole 48 nel nuovo testo che un ignoto autore nascosto sotto pseudonimo di «Buon Cristiano» [»Christlich Meynender» = uomo con cristiane intenzioni] redasse probabilmente nel secondo decennio del nuovo secolo, contraendo - com'egli stesso dice - tutto il materiale leggendario secondo una «conveniente brevità» e limitandolo «a ciò che soltanto può sembrar degno di fede» (cfr. Il patto stipulato col Diavolo, l'avventurosa vita e la spaventosa fine dell'arcinegromante e mago famoso in tutto il mondo dr. Johan Faust: nuovamente riveduto, ricondotto a conveniente brevità e ristampato per gli ostinati e incaponiti peccatori ad avvertimento e monito [Des durch die ganze Welt beruffenen Erz-Schwarz-Kunstlers und Zau berers D. Johann Fausts, mit dem Teufel aufgerichtetes Bundnisz, abenteuerlicher Lebenswandel und mit Schrecken genommenes Ende. Auf's neue übersehen, in eine beliebte Kurze zusammen gezogen, und allen vorsetzlichen Sündern zu einer herzlichen Vermahnung und Warnung zum Druck befördert: Francoforte e Lipsia, s. d.: il primo esemplare datato a noi giunto è del 1725]. I fatti non sono descritti ma quasi soltanto elencati, cosicché ne risulta una narrazione scarna, secca e asciutta, ma appunto perciò - nella sommarietà dei suoi dati - più facile a essere compresa e spiegata ??? un piano razionale: Faust vi appare come uno «scholasticus» che, fin dalla giovinezza, invece di attendere agli studi severi, ama accompagnarsi agli zingari, celebra nelle feste solenni al sorger del sole il rito magico del «Crepusculum matutinum», e finisce con l'allontanarsi dalla retta via tanto che la magia stessa e il patto col Diavolo gli servono sostanzialmente solo per condurre una scapricciata esistenza di gaudente e di burlone. Di fronte al sorridente scetticismo del secolo, il fondo tragico della leggenda appena appena riesce ancora ad affiorare: s'accentuano le invenzioni argute: prevalgono le situazioni comiche e maliziose: Mefistofele (v.), - il cui nome ha finalmente assunto la forma definitiva - scherza sul suo «dannato destino di dover sembrare un uomo per poter fare il diavolo»: Faust, nel firmare col sangue il patto, s'impegna, fra altro, anche a non pigliar moglie; e quando poi cade in tentazione Mefistofele fa fuoco e fiamme: volano dai cardini perfino le porte! È tutto un tono scanzonato, nel quale l'immaginazione popolare e il gusto del tempo si ritrovarono a loro agio. E non soltanto il libriccino continuò a ristamparsi fino alla fine del secolo - l'ultima edizione a noi nota è del 1797 -; ma, ridotto in proporzioni ancora minori, si diffuse per tutta la Germania a migliaia di esemplari, in quei fascicoletti di poche pagine, che si vendevano nelle fiere e che anche Goethe ricorda «stampati sopra una specie di carta asciugante», quando descrive la sua giovinezza in Poesia e Verità (v.). Goethe conobbe anche - probabilmente - il testo intero del «Buon Cristiano» e conobbe - certamente - quello del Pfitzer, che, fra il 18 febbraio e il 9 maggio 1801, tenne a prestito dalla Biblioteca ducale di Weimar. Tuttavia - più che da queste redazioni narrative - le più immediate suggestioni gli vennero dalle elaborazioni teatrali della leggenda, le quali tutte, direttamente o indirettamente, mettono capo al Faustbuch dello Spiesz, attraverso la tragedia di Marlowe. G.Gb.
* La Tragica storia del dottor Faust [Tragical History of Doctor Faustus] del poeta inglese Christopher Marlowe (1564-1593) - dramma in versi e in prosa senza divisione in atti -, fu composta nel 1592, pubblicata anonima nel 1601 e, col nome dell'autore, nel 1604. Faust è il maggior teologo della sua città e nessuno può vantarsi di essergli superiore in sottigliezza dialettica. Ma, non contento di questa superiorità, egli decide di cimentarsi in altra arte, penetrando nel regno del mistero e acquistando poteri magici. Rinnegata la fede avita e chiesto e ottenuto l'aiuto di un diavolo, Mephistophilis, per mezzo del quale stipula col sangue un patto con Lucifero, Faust riceve 24 anni di sicura vita, ha Mefistofele ai suoi servizi, potrà diventare spirito e non sostanza; ma la sua anima, alla sua morte, apparterrà al demonio. Dotato di tale potere, Faust si accinge a compier cose meravigliose che lo renderanno l'uomo più celebre e potente del mondo. Invano l'angelo buono, in eterna lotta con quello cattivo cerca di ricondurlo sulla retta via. Faust va a Roma ove si fa beffe dei cardinali e del Papa e riesce a liberare l'antipapa Bruno; dà quindi spettacolo del suo potere magico all'imperatore di Germania e alla sua corte; fra l'altro fa spuntare un paio di corna sulla testa di un cortigiano che lo beffava. Questi per vendicarsi tende un agguato, da cui Faust esce naturalmente salvo, e dal mago è condannato a dover portare sempre le corna in fronte. Cosi Faust passa la vita, beffandosi a suo piacere e nei modi più strani di tutti: nessuno osa rinfacciargli alcunché, ché con un gesto egli lo può far ammutolire; nessuno può ucciderlo, ché per 24 anni Faust è immortale. Ma lo scadere del termine fatale si avvicina, e nella coscienza di Faust incomincia a sorgere il rimorso. Insoddisfatto di tante esperienze Faust desidera anche il bacio dell'immortale bellezza greca: il bacio di Elena (v.). Famoso il verso con cui egli saluta l'apparizione dell'eroina: «Fu questo il volto che lanciò mille navi?» (»Was this the face that launch'd a thousand ships?»). Arriva l'ora temuta; egli vorrebbe poterla fermare, distenderla, ingrandirla, ma invano, egli muore implorando e i suoi studenti trovano il suo cadavere lacerato dai diavoli. Fonte del Marlowe è una traduzione inglese del popolare Libro di Faust tedesco: il Marlowe dovette vedere questa traduzione in manoscritto prima che fosse stampata (1592) perché a quella data il suo dramma era già composto. Il testo che ci è pervenuto in due principali versioni: quella dell'in-quarto del 1604 e l'altra dell'in-quarto del 1616, è molto corrotto, pieno di interpolazioni dovute ai vari attori e impresari che vi aggiunsero a loro piacimento spunti comici e buffonate. Il concepimento è grandioso come nel Tamerlano (v.): quegli era l'eroe dell'imperialismo politico, Faust è l'eroe dell'eccellenza umana spinta fino ai suoi estremi confini di conoscenza e di godimento. Ma il personaggio e il clima tragico si formano faticosamente raggiungendo solo nella scena in cui è esaltata la bellezza di Elena, e in quella finale della dannazione, una potenza poetica. Trad. di E. Turiello (Napoli, 1898); di V. Panella Milano , (1909); di B.V, Giustiniani (Livorno, 1907); di P. Bardi (Bari, 1907). N.A.
Anticipatore di Shakespeare come il Perugino lo fu di Raffaello, l'autore ci presenta, non il simbolo filosofico di Goethe, bensì l'uomo vivo, sensuale, personale; la creatura primitiva e impulsiva, schiava delle sue passioni, crogiuolo di desideri, di contraddizioni e di follie, la quale, con brividi di voluttà e di angoscia, si lascia deliberatamente rotor lungo la china del suo precipizio. (Taine).
* La supposizione di un autonomo dramma tedesco derivato direttamente in Germania dalla Istoria di Faust dello Spiesz non ha potuto fino a oggi essere dimostrata: fu quasi certamente attraverso il dramma di Marlowe che la leggenda faustiana giunse anche in Germania sulle scene. Lo portarono con sé, nel loro repertorio, i «Commedianti inglesi», le cui recite alla fine del sec. XVI segnarono, in Germania gl'inizi del teatro moderno. La prima rappresentazione di cui si conosca la data è quella del 1608 a Graz; ma altre precedettero e molte altre seguirono fino a quando col sorgere di compagnie tedesche di attori e col formarsi di un autonomo repertorio drammatico, l'opera di Marlowe - già sottoposta d'altronde a rimaneggiamenti di ogni genere da parte dei capocomici, fu sostituita da un dramma popolare tedesco, che - attraverso il tempo - si venne via via rinnovando in tutta una serie di successivi rifacimenti. Da compagnia a compagnia, da sede a sede, il dramma, riplasmato di volta in volta secondo la libertà di trovate propria della «Commedia dell'arte», drogato abbondantemente con le lepidezze e i lazzi di Crispino (v.) o Hanswurt (v.) o di Kasperle (v.) e qualche volta anche di Arlecchino (v.) o di Pulcinella (v.), variamente mescolato di scene comiche e tragiche a seconda del gusto del pubblico, spesso conchiuso con fuochi d'artificio - in mezzo ai quali splendevano in lettere di fuoco le parole: «Accusatus est, Judicatus est, Condemnatus est» -, raggiunse una tale durevole vitalità che, ancora alla metà del sec. XVII, Gottsched se ne preoccupava nella Poetica critica (v.) come di un segno dell'imperante «gusto plebeo» e, più tardi ancora, nel 1767, la facoltà teologica dell'Università di Wittenberg chiedeva e otteneva l'intervento del Ministero del Culto contro il manifesto di una rappresentazione della Compagnia di J. Kurz, nel quale Faust era indicato come «Professor theologiae Wittenbergensis»! Il manifesto intero, del resto, può bastare a dare un'idea del tono a cui lo spettacolo era improntato: Un'antichissima e universalmente nota e spesse volle rappresentata in diverse maniere veduta, spettacolosa grande commedia, la quale tuttavia oggi verrà eseguita da noi in maniera tale che nulla di simile difficilmente è stato offerto mai da altre compagnie, intitolata: «In doctrina interitus, ovverosia la peccaminosa vita e terribile fine del famoso e a tutti noto arcimago Doctor Johannes Faustus». Secondo il canovaccio che il manifesto stesso riproduce nei punti salienti, il dramma incominciava ancora sempre - come in Marlowe - con una «Dissertatio» di Faust chiuso nel suo «Museo» e incerto se debba seguire lo «Studium theologicum» o quello «Nicromanticum»: seguivano - fra l'una e l'altra scena di lazzi di Crispino alle prese con gli spiriti e con i diavoli - l'apparizione di Mefistofele nella foresta, la scena del patto, i viaggi, le stregonerie alla Corte del duca di Parma, alla macabra scena con Faust che, per servirsene in opere di magia nera, scava al cimitero le ossa paterne e si arresta terrificato dinanzi all'improvvisa comparsa dello spettro del padre, una voluttuosa scena di delizie in un giardino incantato nel quale Faust dimentica la terribile emozione; e il tutto terminava, dopo un «balletto delle furie», con la gola dell'Inferno che si spalancava in mezzo alle girandole dei fuochi d'artificio e inghiottiva il peccatore. L'assenza dell'episodio di Elena e la sostituzione della Corte del duca di Parma a quella degli imperatori Carlo V e Massimiliano I - di cui parlavano i Libri popolari - mostrano l'origine meridionale cattolica del dramma: nell'Imperiale Regia Austria non era lecito né scherzare coll'augusta memoria degli Imperiali Avi né disturbar dal sonno millenario le belle peccatrici pagane; anzi Mefistofele stesso dovette anche lui cambiar casacca: non fa più, come nelle vecchie Istorie, un «monaco bigio» a fianco di Faust, ma - già prima di Goethe - un elegante «cavalier vestito alla moda di Spagna». Tuttavia, a parte l'omissione o l'aggiunta di questo o quell'episodio, anche gli altri analoghi drammi popolareschi - tanto i più antichi quanto i più recenti, tanto i tedeschi quanto gli olandesi o i boemi o gli inglesi - presentavano una struttura poco diversa. Non c'era un individuale spirito di poesia che li differenziasse; tutti erano «teatro» e soltanto «teatro»: «ricerca di emozioni o divertimento in un mondo di illusione». E si comprende come abbia potuto, nel medesimo tempo, affiancarsi a essi e trarre da essi sempre nuovo alimento e stimolo anche un'altra forma di teatro: quella in cui la scena ha una sua tradizionale, quasi incontrollata libertà di gioco fantastico: il «Teatro delle Marionette». I testi che ne possediamo - per esempio, quelli editi dal Simrock, dallo Hamm, dal Schade, dallo Engel, dal Bielschwosky, dal Kralik ecc. - sono tarde riesumazioni o ricostruzioni del sec. XIX; ma gli elementi di cui essi si compongono, sono antichi, risalgono in parte al sec. XVII; e il favor popolare fu tale che quando il teatro di prosa, nella seconda metà del sec. XVIII, si venne a poco a poco elevando a forma di letteratura colta, precisamente il teatro dei burattini offerse a Faust il pubblico sempre fedele e le accoglienze sempre festose. Per quasi tutte le città - grandi e piccole - della Germania sono documentate rappresentazioni: quasi sempre l'inizio era un prologo all'Inferno - con Plutone primo personaggio - e la discesa spettacolare all'Inferno era la fine; ma di volta in volta le singole scene mutavano secondo l'estro del burattinaio e i gusti degli spettatori: dietro le spalle di Faust «faceva la controscena» Kasperle - divenuto la «maschera» fissa nel mondo dei burattini tedeschi -: e per tutte le invenzioni e per tutti i ricordi c'era posto per i personaggi della storia e della poesia, da Sansone a Elena, da re Salomone a Lucrezia, così come per i più fantastici esseri, dai cortigiani anche materialmente cornuti ai coccodrilli volanti. E, malgrado ciò, non c'era pericolo che il burattinaio e i suoi spettatori non prendessero più sul serio ciò che avveniva dell'eroe principale, sulla scena: il burattinaio Geiselbrecht, da vecchio, preoccupato delle azioni empie e delle parole blasfeme di Faust e della sua misera fine, non sapeva più decidersi a rappresentarlo perché «lo commoveva troppo». Ed è in questa luce che la figura di Faust, mista di serietà emotiva e di realismo grottesco, apparve ai poeti che negli ultimi decenni del secolo, attraverso un profondo rinnovamento delle coscienze così come negli ideali d'arte, diedero alla Germania la sua nuova poesia. G.Gb.
* Nei suoi tentativi di un proprio dramma su Faust - rimasto frammento - Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781) partì certamente dalla rappresentazione popolare, anche se per qualche tempo coltivò il progetto di trarne una specie di realistico dramma borghese, lasciando in disparte tutti i diavoli e sostituendo Mefistofele con un cattivo amico e consigliere. In realtà, solo del dramma aderente all'impostazione ormai tradizionale esistono tracce concrete, e cioè una scena pubblicata già nella XIX delle Lettere sulla letteratura contemporanea (v.) (16 febb. 1759), significativa perché la gara di velocità che si svolge fra sette diavoli è vinta dai due i quali proclamano di avere l'uno «la velocità del pensiero umano» e l'altro «la velocità del trapasso dell'uomo dal bene al male»; e un gruppo di frammenti del primo atto, trovati fra le carte postume. Il Prologo si svolge in una chiesa: tre diavoli compaiono dinanzi a Belzebù e rendono conto delle loro gesta: il terzo di essi parla di Faust e formula i suoi piani di seduzione: «anche a quest'ora egli siede presso la sua notturna lampada e scruta nelle profondità del vero: troppo desiderio di sapere è una colpa: e da una colpa possono scaturire tutti i vizi»; e, infatti, nelle due scene seguenti - la prima e la seconda del primo atto - ecco Faust fra i suoi libri, accanto alla lampada, nel suo studio, in procinto di evocare un diavolo il quale effettivamente si presenta e dice di essere Aristotele, ma non resiste a lungo entro le spoglie umane e nuovamente scompare, lasciando posto - nella scena quarta - a un nuovo diavolo, la cui evocazione si inizia con accenti drammatici: «Chi è il potente al cui richiamo io devo ubbidire? Tu? Un semplice mortale? Chi ti ha insegnato queste potenti parole?». Tutto il resto del dramma è perduto, ma, secondo le testimonianze dei Blankenburg e dello Engel, era già in gran parte scritto: Faust doveva finire redento: il suo desiderio di sapere lo ha bensì spinto oltre il limite segnato agli uomini; ma «Iddio non può aver dato agli uomini il più nobile dei suoi istinti, per renderlo eternamente infelice». Son pochi cenni, ma bastano a indicare il piano di poesia su cui Faust rinasce: la spiritualità razionale dell'Illuminismo (v.). Anche per la nuova coscienza che si sta formando Faust si svela figura rappresentativa. E non stupisce che la sua leggenda - nota nel testo narrativo, familiare nelle rappresentazioni sceniche e quasi sospesa nell'aria del tempo - «ronzasse nella fantasia» del giovane Goethe, come dice un passo di Poesia e Verità (v.). Anche gli altri poeti, amici suoi e «compagni in ardore», si mostrarono sensibili al fascino della leggenda: Lenz (I giudici dell'Inferno), Klinger (Vita, gesta e viaggio all'Inferno di J. Faust, v. sotto), Maler Müller (Vita di Faust drammatizzata, v. sotto). G.Gb.
* Ma fu soltanto col poema drammatico di Wolfgang Goethe (1749-1832) che la figura di Faust, rapidamente assurto per universale consenso a simbolo dell'anima moderna, si approfondì così da incarnare in sé veramente, nella sua più viva essenza, l'ansia dello spirito nuovo. Fu, del resto, per Goethe medesimo l'opera non di un momento ma dell'intera vita. Già molti motivi della leggenda occupavano la fantasia del poeta giovinetto; e ancora a due mesi dalla morte, più di sessant'anni dopo, la mano stanca del vegliardo s'attardava, con persistente inquietudine, in sempre nuovi tentativi di ritocco al testo definitivo già mandato a stampa. Un primo gruppo di scene - il primo monologo di Faust e il successivo colloquio con Wagner, la scena fra Mefistofele e lo studente, la scena della Cantina di Auerbach e l'episodio di Margherita (v.) (senza la «Morte di Valentino», senza la «Note di Valpurga», con la scena del carcere ancora redatta in prosa e con il finale: - «Sie ist gerichtet! - Essa è giudicata!») - è stato scritto prima del 1775, per la più gran parte nel 1773-74. È il cosiddetto Urfaust (Faust originario) ritrovato in una trascrizione della signorina von Goechhausen e pubblicato da Erich Schmidt nel 1887: espressione tragica del giovanile «Sturm und Drang» del poeta, affermazione impetuosa delle aspirazioni e delle forze creatrici umane e, al tempo stesso, coscienza del dramma che in tale «titanismo» è implicito: slancio irresistibile dell'anima verso «la vita vasta senza fine», e, al tempo stesso, riconoscimento del limite che, nella realtà, è invece posto all'uomo. Dal punto di vista della poesia, il gruppo di scene contiene, forse, le pagine di più caldo passionale accento e di più immediata potenza emotiva in tutto quanto il poema. Tuttavia solo dodici anni dopo la composizione venne ripresa con la rielaborazione ritmico-formale di singoli passi e con l'aggiunta di quattro nuove scene, scritte in Italia - frammento della scena del patto, dalle parole «E ciò che assegnato è in sorte all'umanità» fino alla fine, Cucina delle Streghe, invocazione al «Sublime Spirito» nella scena «Foresta e Caverna» e morte di Valentino nell'episodio di Margherita -; è il testo - interrotto alla scena del Duomo -, che Goethe inserì nel settimo volume dell'edizione Goeschen delle sue Opere, con la nota incisione faustiana di Rembrandt nel frontespizio e con il titolo: Faust, Un frammento [Faust, Ein Fragment, 1790]. Il dramma di Faust vi è assunto sopra un piano spirituale nuovo: le esperienze tumultuose della giovinezza sono divenute lontane: il poeta ha trovato entro di sé, nell'intima armonia del suo spirito, una sua nuova sicurezza e serenità; e lo stacco iniziale della poesia non è più dal basso verso l'alto, con una alterna vicenda di slanci e di abbattimenti: il tono è subito posto in alto e la poesia si svolge in zone di spiritualità che, per la loro consapevolezza, già si trovano al disopra delle tempeste. Il «Titano» non protesta più, non pretende più di «ampliare il respiro della propria anima» così che questa non soltanto rispecchi ma «comprenda in sé l'Universo»: sa che all'uomo - quali che siano le sue aspirazioni - null'altro, in realtà, è dato che di «essere uomo» - nella gioia e nel dolore, nel bene e nel male - come sono tutti gli uomini. E, d'altra parte, anche lo Spirito del Male - Mefistofele - s'è fatto, egli pure, più «umano»: non solo nelle spoglie esterne che, già nell'Urfaust, ingannarono Martha, ma anche nella sua reale sostanza: non è più soltanto il Beffardo, il Maligno, il Cinico, il Seduttore, come nel Colloquio con lo Studente o nell'episodio di Margherita: è l'»emissario dello Spirito della Terra», nei cui regni l'uomo ha la sua naturale sfera di esistenza: è il Compagno [»der Gefährte»], che l'uomo si trova sempre accanto e di cui non «può fare a meno» perché ha in lui una inalienabile parte di se stesso. Tra Faust e Mefistofele si sono annullate le distanze e Faust è diventato maturo per il patto col «suo» demonio. È tutta un'inflessione nuova - meno passionale e più contemplativa - che il dramma assume: con problemi di ordine generale che affiorano nella coscienza e s'impongono al pensiero: con prospettive in profondità che - da problema a problema - si van prolungando indefinitamente. Tuttavia, ancora una volta, occorsero quasi due decenni perché la nuova impostazione si precisasse e chiarisse, con tutta la sua complessità, in concreta poesia. Solo fra il 1797 e il 1801 - dopo la composizione degli Anni di noviziato di Guglielmo Meister (v.) e sotto la diretta suggestione degli incitamenti e delle considerazioni critiche di Schiller - nacquero la «Dedica», il «Prologo sul teatro», il «Prologo in cielo», il secondo Monologo con i Cori di Pasqua, la Passeggiata fino alla prima comparsa di Mefistofele, nonché la «Notte di Valpurga romantica» e i primi 265 versi del «ritorno di Elena». Solo dopo il 1804, sotto lo stimolo delle premure assidue del Cotta per la progettata nuova edizione delle Opere, assunse la sua forma attuale - dopo tante incertezze e così svariati tentativi di ricavarla come risultato finale da una «disputa di laurea» - la scena della stipulazione del patto. E solo il 13 aprile 1806 l'intera «Prima parte» - con i definitivi ritocchi di stile e rimaneggiamenti formali - era compiuta: comparve - con il titolo: Faust. Eine Tragödie - nell'ottavo volume delle Opere, nel 1808. Ma «le parole dall'alto» con cui essa si conchiude - «Ella è salva!» [»Sie ist gerettet»] - mostrano, con il solenne mistico annuncio della redenzione di Margherita, quale lungo cammino il poeta abbia percorso sulla via segnata dal Frammento. Anzitutto, la grande «benedizione della vita», già inserita da Goethe nell'»invocazione di Faust allo Spirito della Terra» - «Tutto tu mi hai dato, tutto mi hai dato, ciò che io da te implorai» (vv. 917-18) - è diventata il clima spirituale in cui il dramma intero si svolge. Insieme con la malinconia propria di tutte le nostalgie che, ricadendo su se stesse, si rassegnano, c'è difatti una dolcezza senza limite di dedizione nelle parole con le quali Faust prende coscienza del terrestre destino dell'uomo: «Da questa terra scaturiscono le mie gioie, e questo sole splende sopra i miei dolori» (v. 1663-64). Certo l'uomo «erra finché cerca» (v. 317), e la vita, che è errore, è possibilità di colpa e di peccato, è sofferenza e dramma; ma «l'uomo buono, nel suo oscuro istinto» è pur sempre «consapevole di quella che è la retta via» (v. 328-29), e la vita - purificata nella fiamma del continuo interno travaglio - è, nel sentimento a cui il poema si ispira, tutta santa. Le due anime che albergano nel petto di Faust - quella che tende a librarsi in volo verso «le plaghe alte e lontane» a cui con la morte sono ascesi i nobili «spiriti degli avi» e quella che invece «s'avvinghia alla terra e al mondo» con tutte le forze, in «avida stretta d'amore» (v. 1114-1117) - contendono senza tregua l'una con l'altra; ma in quella stessa incessante contesa è uno sforzo di elevazione che, impedendo all'uomo di appagarsi nel «godimento di beni passeggeri», conferisce alla vita un suo intrinseco supremo valore. La vita dell'uomo appare così come un'armonia che si spezza per ricomporsi con proprie forze attraverso l'esperienza della realtà; e il fatto che Faust, secondo i termini della scommessa con Mefistofele, non possa mai dire all'»attimo che fugge»: «Arrestati! Tu sei così bello!» [»Verweile doch! Du bist so schön!»], è il segno certo dell'armonia finale in cui il dramma è destinato a dissolversi nuovamente e a risolversi. Cosi, al disopra della terra su cui Faust faticosamente avanza con le sue sempre nuove ansie di vita e con le sue sempre nuove cadute, s'affaccia dall'alto - in mezzo agli osannanti cori angelici - il volto stesso di Dio; e il «dramma dell'uomo e del suo destino» sbocca col «Prologo in cielo» nella più vasta forma di un «cosmico mistero». Tutto ciò però rese inevitabile - nella composizione della «Seconda Parte» - un vero e proprio capovolgimento dell'impostazione dell'opera. - Già dal tono marcatamente individuale e dalla ricchezza di colore dell'Urfaust l'accento della composizione si ora venuto a poco a poco spostando verso un sempre più forte rilievo di ciò che nell'esperienza di Faust è universalmente umano; e il Frammento, e, più ancora, le nuove scene della «Prima Parte» ne avevano derivato il loro particolare stile: ma ora - su cosmici sfondi, entro nuovi illimitati orizzonti - tutto ciò non bastava più ora era la totalità della vita che, d'ogni lato - libera dai vincoli dello spazio e del tempo - irrompeva direttamente nella poesia agitandosi intorno a Faust come le onde si agitano intorno a uno scoglio che le sovrasta; e tutta la struttura interna del poema doveva adattarsi e rispondere a tale esigenza: non più attraverso una realistica analisi delle personali esperienze di Faust ma solo oggettivamente, in larghe visioni di sintesi, la molteplicità inesauribilmente varia degli aspetti della vita nella natura e negli uomini poteva essere rappresentata e solo per mezzo di rapporti allusivi simbolici essa poteva convergere nella figura di Faust così da apparirvi in una riassuntiva espressione esemplare. Non erano problemi di facile soluzione: ancora nello schizzo dell'opera intera dettato da Goethe nel 1816 per Poesia e Verità (v.), lo schema della «Seconda parte» è non soltanto incerto, ma intonato, per molti riguardi, alla vecchia impostazione: solo nel 1826, quando ebbe praticamente inizio il lavoro di redazione della «Seconda parte», la coscienza della necessità di «portare la poesia sopra il nuovo piano» apparve chiara e definitiva: «Faust è da considerare paralizzato e come annientato - dice appunto una conversazione del 12 marzo con Eckermann, a proposito del «Canto di Ariele» - ed è da uno stato di morte apparente che egli rinasce alla vita». Per ritrarre questa «nuova vita» occorsero tuttavia ancora altri cinque anni, durante i quali il Faust assurse spesso a «occupazione principale» e «principale affare» [»Hauptgeschäft»] nelle laboriose giornate del grande vecchio solitario: nel 1827 uscì l'episodio di Elena nel quarto volume delle Opere, col titolo: Elena. Fantasmagoria classico-romantica [Helena, Klassisch-romantische Phantasmagorie]; nel 1828, nel dodicesimo volume, la prima parte del primo atto: il primo gruppo di scene alla Corte dell'Imperatore. La «Notte di Valpurga classica», insieme con la fine del primo atto, fu, in gran parte, opera dei primi mesi del 1830; come il quinto atto, iniziato già nell'autunno precedente e portato a termine nel gennaio, salvo le scene della morte di Faust, che in una prima redazione risalgono la 1800: massima fatica costò, nel 1827 e nel 1830-31, l'elaborazione, in varie successive riprese, dell'atto quarto. I ritocchi e i nuovi sviluppi vagheggiati ancora nel gennaio del 1832 non giunsero più a compimento: il 2 marzo il poeta moriva, e nell'autunno usciva il primo volume delle Opere postume [Nachgelassene Werke] - quarantunesimo delle Opere complete - col titolo: Faust. Seconda Parte della Tragedia in cinque atti [Faust. Der Tragödie zweiter Teil in fünf Aklen]. Ma chiunque s'avventuri nel vasto mondo che l'opera presenta, comprende il sentimento di solenne, quasi religiosa pace interiore da cui l'anima del poeta fu invasa, quando, nell'estate nel 1831, sebbene mancassero ancora «alcune piccolezze», egli poté giudicare l'opera «sostanzialmente compiuta»: «La mia vita ulteriore - disse in quei giorni appunto a Eckermann - può ora essere considerata come un puro regalo: se io faccia o no ancora qualcosa e qualsiasi cosa io faccia, è ora, in fondo, indifferente». In realtà, per diretta rappresentazione o per figurazione simbolica, in «modo disteso» o per accenni, in primo piano o nello sfondo, in calma chiara luce o per lampeggiamenti subitanei, Goethe riversò nel poema tutto ciò che, nel corso della lunga esistenza, gli si era «venuto accumulando nel cuore o dischiudendo nella mente»: lo svolgimento poetico dei grandi temi intorno ai quali l'opera si coordina - il problema dell'uomo in sé e nei suoi rapporti con Dio, il problema della funzione dell'uomo nella natura, il problema dell'individuo nei suoi rapporti con la società, il problema dell'anima moderna nei suoi rapporti con il mondo antico, il problema dei limiti di ogni umana potenza, e, infine la soluzione di tutti i problemi della vita per mezzo d'una concreta attività, che si appaga in se stessa e nella coscienza dell'»ordine generale» di cui è partecipe - offerse al poeta spunti innumerevoli, e, attraverso di essi, tutta la sua ricchissima esperienza spirituale rifluì, su dalle profondità, nella poesia, avvivandola, a ogni passo, di impensate luci e di sempre nuovi imprevedibili getti dell'ispirazione, - finché - con l'ascesa dell'anima di Faust al cielo - la poesia poté trovare la sua coerente conclusione nelle medesime altissime sfere, da cui, col «Prologo in cielo», si era dipartita: nel mondo delle «eterne armonie», in cui «l'umano si ricongiunge al divino», per virtù della più alta delle nostre forze: l'»Amore che ci eleva e redime», «il Femminino Eterno che in alto ci trae» [»Das Ewig-Weibliche zieht uns hinan»]. Nacque in tal modo un'opera alla quale - come a poche altre - conviene anche materialmente l'attributo che Goethe usava assegnare a ogni «grande poesia»: di essere «incommensurabile». Ed è evidente che l'unità di essa non può essere cercata direttamente nello «sviluppo serrato di una lineare, psicologicamente ben concatenata unità d'azione» - della cui assenza tante volte Goethe stesso sorrise, come quando parlava della «nordica barbarie» del suo saltabeccante «tragelafo» -, né, e tanto meno, in una schematica unità concettuale - contro di cui tante volte Goethe vigorosamente protestò, anche nei riguardi specifici del Faust. Come quando si sale nella foresta su pei monti, e tutt'intorno è uno scrosciar di acque, un sussurrar di fronde, un'alitar di canti, cosicché da qualunque parte voi vi volgete, una voce nuova v'investe, eppure il tutto è un'unica musica - la musica della foresta -, così anche nel Faust con un getto continuo la poesia vi investe d'ogni lato, e ogni melodia che vi avvolge è una melodia nuova, eppure sempre voi sentite che in tutti gli «accenti e modi e toni» della poesia c'è qualcosa di comune, qualcosa che è come una «melodia interna» che trasmette la propria inflessione a tutte le melodie singole o come il fluir sotterraneo di una comune linfa vitale che giunga a tutti i particolari. È essenzialmente un'unità interiore, lirica, la quale si manifesta in una certa impronta costante che il pur così ricco e vario modo di sentire e di poetare di Goethe sempre mantiene e che dappertutto si svela in mille segni diversi e concordi: nel tono di chiara interna consapevolezza che sempre si accompagna anche ai momenti di più esaltata passione; nella pensosa superiore serenità in cui anche le più agitate immagini della vita sono dappertutto quasi istintivamente assunte; nelle trasparenze spirituali in cui ogni massa d'ombra e di opacità sempre tende a disciogliersi; nella naturale e, per così dire, congenita adeguatezza con cui, quasi per un processo semplice di interna necessità, l'ispirazione si risolve in poesia, nel senso di sovrano agio che sempre domina nella poesia anche quando questa si solleva al più alto volo o si tende fino all'ultimo schianto; nella imperturbata libertà di movenze e spontaneità di respiro con cui la poesia si disnoda e svolge così che sembra «essersi fatta da sé»: nella fluida levità delle modulazioni e nella limpida purità delle forme in cui lo spirito del poeta - pur dinanzi alla visione di una vita che è perenne inappagamento e sempre nuovo dramma - si presenta placato, come se entro di sé, in antecedenza, già ne avesse superato ogni peso. È come se, da un centro di osservazione profondo e con vaste visuali, un occhio aperto e pieno di una sua quieta interna luce contempli la realtà umana e la vita universa; e tutte le cose, rispecchiandovisi, riposino entro quella luce. Precisamente in questa «forma interna» - varia di atteggiamenti ma sempre coerente a se medesima - l'opera ha la sua vivente unità. E solo in secondo piano rispetto a essa, e, per così dire, in sottordine, appare l'esteriore unitaria trama di svolgimento lungo la quale i successivi momenti della poesia si dispongono: irregolare e disuguale nei suoi sviluppi, instabile e in molti punti di continua, questa - sebbene offra al poema la l'indispensabile intelaiatura - è poco più che un filo conduttore attraverso il multivago labirinto della poesia. Goethe medesimo, in una lettera a Schiller, paragona una volta, scherzosamente, per questo riguardo, il suo poema a una «famiglia di funghi» [»eine grosse Schwammfamilie»], i quali «appartengono a un unico insieme» perché son nati tutti nello stesso suolo dalla stessa semente, ma han ciascuno una propria autonoma esistenza: il suo gusto classico se ne impensieriva, ma quella sua opera era nata e continuava a nascere così, ed egli non ci poteva far nulla. Quel che però Goethe, scrivendo, forse non pensò, è che d'altra parte, precisamente per questa sua interna particolare struttura, si sono aperte al Faust alcune delle sue più grandi possibilità creative. Anzitutto soltanto in questo modo - per le profonde pause che necessariamente vennero ad aprirsi fra l'uno e l'altro dei suoi successivi momenti - il poema ha potuto accogliere in sé, senza subirne eccessivo perturbamento, tanti diversi accenti e tante diverse visioni di vita, e han potuto coesistere insieme, in uno stesso mondo di fantasia, «senza incorrere in incompatibilità di carattere», Mefistofele e Margherita, Marta e Elena, Wagner e Euforione, le streghe della notte di Valpurga e gli angioli del Paradiso, Faust chiuso fra le anguste pareti del suo studio e Iddio Signore degli spazi infiniti. In secondo luogo, e soprattutto, soltanto così - per il continuo aprirsi di dirette prospettive in profondità dietro ogni singola situazione anziché unicamente dietro l'insieme dell'opera - ha potuto avvenire che dappertutto circoli nel poema, fra scena e scena, fra immagine e immagine, come naturale atmosfera, quel «sentimento immediato e costante delle cose eterne», la cui onnipresenza costituisce forse la peculiarità più specifica e di più vasta risonanza che il Faust possegga. Si è trasportati in un mondo in cui il mistero ultimo della vita è sentito così vicino e presente, così immediatamente percepibile che tutti i consueti rapporti di valore ne vengono rovesciati, tutte le cose - pur serbando il loro volto - ne vengono immerse in luci impensate e nuove, quasi di magia. Il più umile particolare - il sospiro di Margherita per la madre che è sempre «così accurata» [»so akkuratt!»] - può acquistare a un tratto, come rivelazione di un'anima, un valore di realtà spirituale così grande quale non è maggiore quello di Elena che torna per breve ora con la sua anima antica a nuova vita: la più «reale» delle situazioni-Faust che lascia cadere dalle labbra la coppa del veleno quando gli giunge il suono a festa delle campane della mattina di Pasqua - può apparire, nella sua semplicità, per il modo come si svolge, un miracolo così grande, quale non è maggiore quello di Faust che scende alle Madri, nel mondo delle cose non nate, fuori dello spazio e del tempo. Fra la realtà e il mito la linea di demarcazione svanisce: anche la realtà, tal quale è, con tutti i suoi connotati, si trasfigura internamente così che il trapasso nel mondo del mito, quando avviene, è appena sensibile. D'episodio in episodio - in variazioni sempre rinascenti - la poesia del Faust rinnova ogni volta, in sempre diverse e nel loro ultimo risultato sempre convergenti esperienze, questo processo spirituale. - La «Dedica» - a cui doveva corrispondere, al termine del poema, un'altra lirica, già composta e poi eliminata, dal titolo: «Congedo» [»Abschied»] - ne presenta il riflesso entro l'anima del poeta medesimo, evocando direttamente il processo creativo da cui la poesia nasce: il superamento di tutto ciò che vi è di soggettivo nelle esperienze personali (»il mio dolore risuona per le folle ignote»), il dileguare di ogni realtà immediata e contingente e il sorgere di una nuova e più verace realtà interiore (»ciò che posseggo, mi appare come da lontano; e ciò che svanì divien per me cosa vera»). Il «Prologo sul teatro» - attraverso la contrapposizione dei punti di vista del poeta, del direttore-impresario e dell'attore - ripropone lo stesso problema con riferimento ai rapporti che intercedono fra la poesia pura e le esigenze pratiche del teatro, fra la poesia pura e la «gioia dell'illusione scenica», fra la poesia pura e la totalità della vita. Poi, d'un balzo, stabilite in tal modo le opportune visuali, creata spiritualmente una consona atmosfera, il poema vero e proprio incomincia, con uno dei momenti di più alto volo a cui la poesia di Goethe si sia mai sollevata: il «Prologo in cielo». Nell'inno che gli Arcangeli a gara innalzano alla potenza di Dio e alla magnificenza, del Creato, spira veramente la poesia degli spazi infiniti «al cospetto dell'Eterno»; e dinanzi a questa immensità di sfondi, nel remoto arcano angolo di mondo in cui si svolge, quale potente risalto acquista - con il suo caldo accento di simpatia umana - il colloquio fra il Signore e Mefistofele intorno al «problematico» Faust, «il cui agitato cuore in nessuna cosa vicina, in nessuna cosa lontana può trovare pace»! Il colloquio è stato suggerito a Goethe dal Libro di Giobbe; (v.); ma una profonda rivoluzione della coscienza moderna si annuncia nel colloquio come «un fatto compiuto»: i cieli astratti della teologia si sono definitivamente allontanati; e, fra la bonarietà serena e sorridente del Signore e l'ironia scanzonata e piena di malizia - ma arguta piuttosto che corrosiva - di Mefistofele, è tutta un'indiretta rivendicazione dei valori umani che si compie, Mefistofele medesimo sta ormai anch'egli, personaggio gradito, fra i «famuli» del Signore; e la sfida che egli lancia - di «far traviare Faust e condurlo a perdizione» - ha l'esito segnato nell'attimo stesso in cui nasce: pur così fragile di forze, inquieto e discorde, l'uomo porta direttamente dentro di sé, «nel suo oscuro impulso», insieme con le ragioni del suo dramma, anche la «luce di coscienza» che lo guida a salvezza. Dal cielo da cui si stacca come individuale transeunte dissonanza nella divina armonia, il dramma di Faust è così respinto sopra la terra. E le prime tre scene della Prima Parte - dal monologo di Faust nel suo studio fino alla conversazione con Wagner - ne enucleano i termini con esplosiva elementare potenza. Non si tratta soltanto del «fallimento della scienza», della «insufficienza della nostra capacità di conoscere e di sapere» - come spesso si interpreta -: nulla sarebbe più lontano dallo spirito di Goethe, per il quale invece, come per Leonardo, «l'uomo deve indagare ciò che è investigabile e chinare il capo con reverenza dinanzi a ciò che è inesplorabile». Ciò che Faust chiede allo studio non è, in realtà, soltanto «scienza» - «scienza scopo a se stessa» - ma è una «nuova dimensione» della vita, un «dilatarsi degli orizzonti umani fino a comprendere in sé l'universo». Perciò egli lascia così risolutamente i libri e si volge alla magia. Il tono realistico dei «Knittelverse» nel primo monologo - «Studiato ho ahimè! filosofia» - non deve trarre in inganno: l'impostazione della scena non è realistica ma magica o, per lo meno, tale da includere in sé come prima esigenza la magia. Quando Faust ha aperto il libro magico di Nostradamus, e, attraverso il segno del macrocosmo, ha potuto spinger lo sguardo al di là delle apparenze nell'infinito armonioso operare della natura, qual è difatti il grido che prorompe dalla sua anima «luminosa di felicità» - «Bin ich ein Gott ?» esclama: «Sono io dunque un Dio?», quella, ecco, è la sostanza vera della sua aspirazione: qualcosa che soltanto in Dio può essere realtà. L'uomo può trovarsi innanzi il più stupendo degli spettacoli, ma è sempre «ahimè! soltanto uno spettacolo!». E nessuna virtù di magia può aiutare l'uomo a varcare la vietata soglia. Anzi, nemmeno le forze di natura operanti sopra la terra - e quindi le più vicine, fra tutte, all'uomo - possono identificarsi, unificarsi con la sua vita. L'uomo le può indagare e riconoscere Perché appartengono al mondo della sua esperienza; e Faust può perciò, con la sua parola magica costringere lo spirito della Terra, che ne è l'incarnazione, a comparirgli davanti; ma quando questi, costretto dal suo richiamo, appare nella fiamma, egli non ne sopporta la vista: - «Schreckliches Gesicht!», «Terribile visione!». - Anche lo Spirito della Terra, pur nel suo limitato mondo incarna in sé forze cosmiche: dappertutto presente, in ogni tempo operante, crea - non subisce - la vita e la morte. Che cosa può essere mai l'uomo con le sue fragili forze individuali, di fronte a lui, di fronte a une Spirito che «al telaio scrosciante del Tempo, tesse in eterno la veste vivente della divinità?». - «Tu rassomigli allo spirito che tu comprendi, non a me!» - dice lo Spirito della Terra a Faust, sprezzantemente, prima di sparire. Così le alte onde, che lo slancio dell'anima di Faust verso la vita senza limite aveva sollevato, ricadono su se stesse; e la poesia ritorna ai toni realistici da cui aveva preso gli inizi, ritorna fra le quattro pareti dello studio-laboratorio, dove riceve ora anche una sottolineatura umoristica dal colloquio che Faust ha con Wagner, il «famulus», dal cuore buono e dalla mente corta, il bravo discepolo e assistente e futuro professore, per il quale quelle quattro pareti sono tutto il mondo. Nella sua veemenza di tensione drammatica, il gruppo di scene è di una potenza grandiosa: il problema faustiano - il tendere senza tregua alla più alta, vasta, intensa esistenza - vi prende corpo nella sua assolutezza, in relazione non a questo o a quell'aspetto ma alla totalità della vita. E una posizione analoga si rinnova in certo modo anche nella scena seguente, nel cosiddetto «secondo monologo», ma in una nuova tonalità. Faust non è più dominato da istintivi impulsi ed emozioni immediate: tutta la sua vita è portata dal poeta sopra un piano di consapevolezza riflessiva: Faust «sa» la vanità di tutte le sue più profonde aspirazioni: e quanto più «sa», tanto più s'immerge in quel pensiero; e in quel pensiero tutto il suo sentimento della vita si appesantisce, lentamente ma inesorabilmente, fino a che le forze interne di resistenza vengono meno e non c'è più che una via d'uscita, la morte. Tutto il «monologo», che riprende a uno a uno i motivi e, spesso, persino singole immagini delle scene precedenti, trasponendoli in un pacato tono meditativo, non è che questo processo puramente interiore di un'anima che va a fondo, fino all'estremo naufragio, dentro se medesimo; cosicché, quando Faust, in preda alla sua certezza desolata e senza speranza, solleva infine alle labbra la coppa col veleno, quel gesto, non legato a nessuna causa specifica, sembra salire, stranamente calmo, lento, su dalle profondità della sua natura come un qualcosa di necessario, fatale. E per la medesima ragione acquista così stupenda poetica verità il miracolo di Faust, che improvvisamente - udendo nella mattina primaverile lo scampanare festoso e i cori liturgici di Pasqua, - con un rovesciamento totale del suo stato d'animo, si sente ridonato alla vita. Non un motivo personale ma il sentimento sconsolato del comune destino degli uomini lo aveva condotto alle soglie della morte: non un motivo personale ma il sentimento dolce di un'intima letizia comune a tutti gli uomini libera la sua anima da ogni peso: antichi ricordi risalgono nella memoria, immagini di innocenza, di gioia, di serenità: ecco: anche questo c'è nel mondo degli uomini: Faust si arrende: dal ciglio «la lagrima sgorga, la terra lo possiede di nuovo» [»Die Träne quillt, die Erde hat mich wieder!»]. E «Faust uomo tra gli uomini» è il tema della scena successiva, nel pomeriggio di Pasqua, fuori della Porta della città. È un quadro di vita popolare, nella maniera dei Fiamminghi. La folla in festa che sciama per tutte le vie, in tutte le direzioni: gente di tutti i ceti, di tutte le età: chi ride, chi scherza, chi canta, chi balla: si beve all'osteria, si ragiona, si va in barca: dovunque lo sguardo si spinga, dappertutto sono uomini liberi dalle preoccupazioni abituali, che si svagano ognuno a suo modo, secondo la sua natura; e su tutto e tutti splende la luce della primavera, in tutto e tutti vibra l'ebbrezza della primavera. Nei lineamenti del Paesaggio ampio, aerato, vario eppure in sé conchiuso, nella distribuzione delle note di colore che avvivano la visione di tutta quella folla in libertà e in movimento disperso, il quadro è di una infallibile sicurezza di composizione. E appunto perciò tanto maggiore impressione produce la figura isolata di Faust, col suo incedere lento, stanco: - «Nur wenig Schritte noch hinauf zu jenem Stein» «Pochi passi ancora su, fino a quella pietra» -: sembra un verso che non finisca più, tanta è la stanchezza; attarda e appesantisce il respiro. «Liberàti dal ghiaccio sono fiumi e ruscelli»: anche Faust per un attimo è stato preso dall'incanto; e la descrizione che fa della vita in risveglio nella natura e negli uomini è un brano di serena altissima lirica. Ma invano anch'egli ripete: «qui sono un uomo, qui posso esserlo!»; in realtà, da quella folla che gli si raduna intorno con reverenza per fargli omaggio, egli è e si sente intimamente distaccato, se non diverso: anch'egli è sensibile alla bellezza del mondo, alle gioie della vita; ma «un'altra anima» dentro di lui è incessantemente protesa verso l'ineffabile, l'irraggiungibile; e nel «contrasto fra le due anime» la sua esistenza è perennemente dibattuta. Egli non sa staccarsi dalla terra e non può trovarvi pace. Il patto con Mefistofele, che condurrà Faust a gettarsi a capofitto nel vortice dei godimenti, si avvicina: Faust è maturo per la decisione. Molte volte è stato posto il problema per quale ragione Goethe - dopo il ritorno di Faust in casa - abbia ritenuto necessario di spezzare la discussione del patto in due scene successive, le quali si svolgono tutte e due nello stesso ambiente, fra gli stessi interlocutori: non poteva spicciarsi in una volta sola? In realtà si tratta di due scene bene distinte, di diversa ispirazione e impostazione. La prima, che si riannoda direttamente a «Volksbuch» del Pfitzer, è destinata propriamente non alla discussione del patto - che vi è appena accennato - ma alla presentazione del «diavolo Mefistofele»; ed è tenuta in uno stile tutto suo particolare, adatto allo scopo: fantastico-grottesco. Quel diavolo che dapprima, sotto aspetto di can barbone, scodinzolandogli intorno, segue Faust nell'ora del crepuscolo alla fine della passeggiata e poi, nello studio, dietro la stufa, quando Faust fa gli esorcismi, sbuffa e suda, e a un tratto vien fuori trasformato in scolaro vagante; e poi, dopo aver fatto scherma di dialettiche sottigliezze con Faust intorno al bene e al male, alla luce e alla tenebra, s'accorge che non può più, uscire perché il pentagramma sulla soglia, che al di fuori era aperto, è invece chiuso al di dentro, e allora dopo avere addormentato Faust in una visione di voluttuose delizie, chiama in soccorso i topi - suoi sudditi come le rane, le mosche e le cimici - perché gli rosicchino la punta del pentagramma anche dal di dentro, e così se la svigna: quel diavolo, con la sua estrosa vitalità, è, si, demoniaco ma in atteggiamenti spassosi, burleschi, in cui la fantasia del poeta si è scapricciata a suo talento. Quanto mutato invece è il tono della scena seguente, la quale ha veramente per oggetto la stipulazione del patto! Tutto vi è serio, grave. Mefistofele vi appare nel suo costume definitivo di cavaliere spagnolo - abito rosso, attillato, con guarnizioni d'oro; mantellina di seta rigida; piuma sul cappello e spadino lungo al fianco -; ma scherza poco, e con discrezione, per lo meno fino a quando non è sicuro di sé e non tiene in mano il patto debitamente firmato. Chi domina la scena è Faust. «Troppo vecchio per potersi accontentare di illusioni, troppo giovane per poter essere senza desideri», è in una condizione di spirito che oscilla fra una prostrazione - in cui nulla più lo interessa - e una disperazione che lo induce a tutto maledire: Mefistofele gli offre di legarsi a lui, di fare in ogni cosa la sua volontà in questo mondo, se per l'altro mondo egli è disposto a cedergli la propria anima: perché no? «Da questa terra scaturiscono le sue gioie e questo sole risplende sopra i suoi dolori»; e l'al di là è lontano e ignoto. Purché egli possa vivere su questa terra la «sua» vita! Non è che egli si attenda da Mefistofele ciò che Mefistofele non gli potrà mai dare: la sua anima è, per questo riguardo, senza illusioni: egli sente che non giungerà mai - secondo i termini convenuti dalla scommessa il momento al quale la sua anima possa dire: «Arrèstati!», completamente placata. Ma durante tutto il colloquio la dinamica degli stati d'animo di Faust si determina e precisa in un crescendo continuo; e la decisione di firmare il patto è il risultato naturale di questa logica interna del sentimento. Qualunque sia l'avvenire che l'attende al fianco di Mefistofele, qualunque sia il destino che l'aspetta al varco al compiersi della scommessa, quel che importa a Faust è di far tacere la sua interna inquietudine; e la voluttà dei sensi e il rumore del mondo e la vicissitudine stessa delle cose contingenti nel loro divenire vertiginoso che non ha tregua, lo attraggono perciò in sé e per sé, come una ebbrezza che lo travolge, come un fascino di abisso. Perciò egli firma, sebbene senza slancio e senza grandi speranze. Firma col sangue. Ma Mefistofele, che per tutta la scena era rimasto in secondo piano, prima che cominci per Faust la nuova vita, si prende la rivincita e domina, lui, per un attimo, la scena, nel «Colloquio con lo studente»; e, come alla prima apparizione davanti a Faust s'era mostrato nella sua fantastica natura di dèmone, così ora, indossata la toga di Faust, si mostra nella sua qualità di «compagno dell'uomo»: umano di aspetto e di intelligenza, tanto che lo Studente di nulla dubita; ma insidioso; ironico a molti fondi nelle mete recondite della sua ironia e sempre a mezza strada fra il vero e il falso, fra il serio e il faceto, in tutto quel che dice: «maestro del doppio gioco», arguto sempre e spesso equivoco. L'aurea sentenza che dà come viatico allo studente è: «Grigia è ogni teoria e verde è l'albero d'oro della vita!»; e il motto che scrive nel suo Diario, nel momento del congedo, è: «Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum!». Poi, gettato il mantello sopra le spalle di Faust, lo trasporta via con sé. - È incominciato il grande viaggio. E la prima tappa è la Cantina di Auerbach, ben nota nella leggenda faustiana e ben nota anche a Goethe personalmente quando studiava a Lipsia. Quattro studenti sono seduti intorno a un tavolo: rappresentanti dei quattro «gradi accademici» consueti nelle società studentesche: bevono, ridono, si bisticciano, cantano, sghignazzano. È ancora una volta un «quadro alla fiamminga», ma nell'aria stagnante di un'osteria. È la vita del materiale godimento: grassa e bonacciona, ma senza idealità, senza luce. In verità non per questo Faust ha messo a repentaglio la salute eterna della sua anima! Mefistofele medesimo sembra bensì prendere parte alla baldoria - tanto che alla canzone di Brander sul «gatto che crepa per aver mangiato il veleno» accompagna una canzone sulla «pulce a corte», ma lo fa per prendersi gioco dei quattro compari, e, alla fine, con un sortilegio, li lascia, ciascuno con il naso del proprio vicino in mano. Che cosa occorra, anche in queste basse sfere, per interessare Mefistofele, si può incominciare a vedere in quella che è la seconda tappa del grande viaggio, la Cucina delle Streghe. Nel canto del Gatto sul «mondo che è tondo e rotola continuamente», nelle grida della strega quando arriva «Au! Au! Au! Dannata bestia! Maledetta scrofa!» [»Au! Au! Au! Verdammtes Tier! Verfluchte Sau!»], nell'intervento di Mefistofele, che, urlando, manda all'aria, con grandi colpi di ventola, tutto ciò che c'è sul tavolo, tutto ciò che c'è sul fuoco, si scatena in «proporzioni di cucina» un piccolo orgiastico sabba, di fronte al quale il «ringiovanimento» di Faust, che, ai fini generali dell'azione, è lo scopo della scena, passa quasi senza rilievo. Più che dal ringiovanimento, - che il poeta ha evidentemente poco sentito perché troppo diversa era la situazione da quella del «rinnovamento e ringiovanimento» suo proprio, a cui pensava mentre scriveva in Italia - l'elemento faustiano della scena è rappresentato dallo stato di estasi in cui Faust resta assorto, dinnanzi all'immagine di «donna nuda bellissima» che - mollemente adagiata come Venere nei quadri di Giorgione e di Tiziano - gli appare nel magico specchio. Mentre tutt'intorno trionfa senza ritegno l'orgia delle volgarità in grottesca gazzarra, la visione di bellezza incatena i sensi di Faust ma solleva al tempo stesso in rapimento la sua anima. - È il preludio all'»episodio di Margherita», con il quale Faust entra finalmente in pieno nella realtà della vita, e la poesia, nella sua semplicità candida, inerme, scende a toccare le radici stesse dell'essere. Poiché Margherita è, a un tempo, l'»infinita adorabilità della vita» e l'»infinita pietà per la vita», come Goethe le sente. Basta leggere la prima - e in sé e per sé più insignificante - scena dell'episodio: Margherita che esce dalla chiesa; una fanciulla modesta, pudica, e, quand'è il caso, anche con la risposta pronta: non altro; ma la figura è trattata, in ogni parola, con una delicatezza di tocco cauta, riguardosa, attenta: si sente che anche Goethe, come Faust, è dinanzi a lei in adorazione. E in ogni scena questa posizione del poeta si rinnova. Ogni scena è, quindi, bensì un anello di una catena; ma è anche, e soprattutto, un piccolo mondo a sé stante e in sé conchiuso, dietro il quale sembra di intravedere il volto del poeta commosso come, in certi quadri medievali, la figura dell'»offerente» in ginocchio. Il ritmo della composizione dell'intero poema - con le sue spezzature e con la sua assoluta libertà di svolgimenti - entra così in pieno anche nell'episodio e ne amplia smisuratamente il respiro. Non è più soltanto una storia d'amore: è - attraverso la storia d'amore - un approfondimento generale di tutto il problema della vita, così impegnativo che l'ispirazione del giovane Gohete vi si è consumata, esaurita - tanto che per quindici anni egli non è tornato più al suo poema, come se, nei riguardi di Faust, la sua anima fosse «rimasta vuota», senza più nulla da dire. Dietro ogni particolare - anche il più umile - è l'anima del poeta tutta intera. Una scena come quella intitolata «Abend» [»Sera»] - dove Faust metto piede per la prima volta nella stanza di Margherita - si direbbe anch'essa, «fatta di nulla» come la scena precedente: non succede nulla: l'unico che «fa qualcosa» è Mefistofele il quale depone la cassetta dei gioielli nell'armadio; ma quale miracolo di complesse prospettive e «luci interne nelle anime», apre il gioco dei sentimenti! È «la poesia della vita come innocenza» - quando la vita è ancora ingenua, chiara, confidente - e crea intorno a sé, con la sua innocenza, un incantesimo per il quale tutto ciò che l'avvicina ridiventa limpido, puro. Proprio davanti al letto dove Margherita è stata generata, nella stanza in cui con tanta impazienza l'ha immaginata - di lontano - l'avido desiderio, Faust non ha più un pensiero che non sia casto, non ha più un sentimento che non sia di rispetto e di reverenza: lo accoglie fra i suoi bracciuoli il seggiolone di cuoio che già fu dell'»avo cadente» intorno al quale «tutta una schiera di bimbi un dì s'adunava» - ed è come se accolga anche lui nel suo seno la serietà eterna e la santità della vita. Poi, appena Faust si è allontanato, arriva Margherita e - nella stanza dove è pure stato Mefistofele - avverte immediatamente la presenza di qualcosa di estraneo, torbido nell'aria, e apre la finestra e invoca il ritorno della madre e solo nel canto trova infine la liberazione. La vita per lei è tutta semplice, lineare, definitiva; e anche la canzone che ella canta è quella dell'amore che è con la vita una cosa sola: la ballata del Re di Thule (v.), «che beve per l'ultima volta nel bicchiere d'oro donatogli dalla sua amata e getta il bicchiere nei flutti del mare, lo vede cadere, scendere a fondo, e chiude i suoi occhi e muore». Poi, a un tratto, aprendo l'armadio per collocarvi le vesti, ella scopre la cassetta, guarda quel che c'è dentro e ammira stupefatta; e non può fare a meno di prendere i gioielli nella mano, non può fare a meno di «provarli sulla propria persona» davanti allo specchio; ma non son suoi e subito li ripone, e, riponendoli, sospira: - «A che serve essere belli, essere giovani?... Tutto tende all'oro, tutto pende dall'oro! Ahi! noi poverette!». Nel succedersi degli stati d'animo così come nella figurazione finale con cui si conchiude, la scena costituisce un blocco di poesia in sé compiuto, perfetto: la nostalgia d'idillio dell'anima settecentesca forse non ha espresso da sé altra immagine di più pura spontanea grazia. Naturalmente non tutte le scene giungono a questa intimità di accenti; ma, nel variare del tono, ognuna di esse si solleva a effetti ugualmente sorprendenti nel proprio stile. Quando si legge il bizzarro interludio - «Passeggiata» [»Spaziergang»] - che subito segue, è come se passi per la poesia un colpo di vento che porti via con sé ogni vapor romantico sentimentale, tanta è l'allegria della situazione in cui è incappato Mefistofele. Sempliciotta com'è, la madre di Margherita è riuscita difatti a farcela anche al diavolo: «ha annusato nella cassetta dei gioielli qualcosa di poco di voto» e l'ha portata al parroco: e «Mefistofele si morderebbe per l'ira la coda - se al suo aspetto umano ne fosse rimasta una!». Con il suo tono burlesco, la satira contro il «robusto stomaco di Santa Madre Chiesa» - in cui Mefistofele trova sfogo alla sua bile - serve anche, in qualche modo, da ponte verso il «realismo alla maniera fiamminga» delle due scene successive: - «La casa della vicina» [»Der Nachbarin Haus»] e «Giardino» [»Garten»] - divise dall'intermezzo di un colloquio fra Mefistofele e Faust - (cfr. [»Auf der Strasse»] «Nella strada»). - Ai fini dell'azione, lo scopo è semplicemente di far incontrare Faust e Margherita soli, in luogo appartato; ma il gusto che il poeta ha trovato a ritrarla, ha dato anche alla figura della «signora Marta Schwerdtlein» un risalto tutto proprio, di una popolaresca comicità deliziosa. Mezzana per buon cuore, perché - «come si fa a dire di no quando si può rendere una ragazza felice?» -; moglie che ha il marito lontano - e da tanto tempo è sola, mio Dio, così sola! - Marta, col suo «cuor disponibile», è colei che è sempre pronta: pronta a tutto - a ciarlare, a commuoversi, a piangere e a ridere - e, naturalmente, anche a prestare la propria casa per gli affarucci di cuore di una piccola amica - e anche a sposarsi di nuovo lei stessa - e anche subito - perché no? - se dovesse essere vero che suo marito è morto, come Mefistofele le vien raccontando! Melistofele «ci giuoca», come il gatto col topo. Nella piccola «casa con giardino» ai margini della città, la scena si presenta veramente come un «quadretto di genere», nello stile di Brouwer o di Teniers, che abbia per titolo: «il diavolo e la donnetta». Eppure la dichiarazione d'amore di Faust non è nemmeno pensabile all'infuori di questo intreccio grottesco-umoristico in cui si inserisce, all'infuori dell'alterno «passare e ripassare delle due coppie sopra la scena» in cui trova la sua suggestiva cornice: proprio perché Mefistofele è lì presente e irride in anticipo scetticamente al linguaggio acceso degli innamorati, proprio per questo appaiono così «vissute» e spoglie di ogni enfasi le parole di Faust che «cerca un nome al suo sentimento e non lo trova» e perciò chiama, con espressioni - anch'esse - inadeguate, «infinita eterna la fiamma di cui arde»: proprio perché c'è, in ricorsi paralleli, la controscena di Mefistofele che tende a Marta, per «tenerla buona», scattanti trappole di banali complimenti, proprio per questo toccano tanto il cuore gli accenti di sincerità inerme con cui Margherita, in uno stato di felicità vergine e quasi ancora infantile, confida a Faust ogni particolare della sua piccola vita di «donnina di casa» sempre in faccende o gli parla del suo passato - dei tempi quando aveva una sorellina e la allevava lei con le sue cure, la cullava nelle sue braccia, la teneva con sé presso il suo letto, le faceva da mamma. È come se ella senta il bisogno di «consegnarsi tutta spiritualmente» all'uomo che ama; e già presagisce anche la passione di lui: e interroga, petalo per petalo, il fiore di cui ella porta il nome: Faust le afferra la mano, le protesta l'eternità del suo amore: ella fugge, egli la insegue: la raggiunge nel padiglione dove s'è nascosta e la bacia - (cfr. «Un padiglione nel giardino» [»Ein Gartenhäuschen»]). Frattanto la sera è scesa, l'ora della separazione è giunta. Ma i due innamorati sono oramai in balia del destino. E una delle «trovate» geniali di Goethe è stata di collocare, nell'ordinamento definitivo del poema, proprio a questo punto - prima del «peccato» e non dopo - la scena «Foresta e caverna» [»Wald und Höhle»]. Nell'Urfaust il motivo dell'inquietudine di Faust - malcontento di sé e del mondo e deciso a non più rivedere Margherita - era inserito in coda al monologo di Valentino e costituiva, con sfitte di rimorso, una moralistica variazione disillusa del biblico «post peccatum animal triste». La nuova collocazione conferisce invece alla scena un ben più alto tono. Nel momento stesso in cui il destino incomincia a compiersi, Faust ha, in una fulminea «schiarita di coscienza», la percezione netta della realtà a cui va incontro: proprio nella più intensa fra tutte le esperienze - quella d'amore - il dramma della sua anima contesa fra due opposte forze - anziché conciliarsi in una superiore armonia - s'esalta al suo più tragico urto: non solamente la vita annienta se stessa nel proprio slancio ma sparge anche fuori di sé, intorno a sé, dolori e rovina: l'uomo «vuol bene» - e appunto perciò è causa di sciagura e di male: «chiusa nel suo piccolo mondo» come nella quiete solatia «di una casetta sull'Alpe», Margherita viveva serena «fra i suoi ancora imprecisi pensieri» quasi di bimba; e invece è venuto lui, Faust, e con la veemenza incontenibile della sua passione la sta travolgendo - insieme a tutto il suo mondo - giù con sé nell'abisso! Per questo Faust vorrebbe allontanarsi, fuggire. Naturalmente sono propositi fallaci perché nessuno sfugge a se stesso; ma la scena è come il balenar di una luce improvvisa che si riflette in profondità anche su tutte le scene ulteriori. I termini stessi della tragedia, per tutta la durata dell'episodio, ne restano spostati: al centro non è più Faust - forza impulsiva inesausta che urge e spinge e, travalicando, si salva -, ma è Margherita. Di Faust è la responsabilità e la colpa; ma è solo indirettamente nel destino di lei che egli, in realtà, «vive fino in fondo la sua tragedia», sconta fino in fondo la sua espiazione. La figura di lei, così esile fragile, riempie la poesia e la domina. Ecco difatti, subito dopo: «Margherita all'arcolaio» [»Gretchen am Spinnrad»]: ella è sola nella sua stanza e Faust è lontano; ma ella non vede, non pensa, non attende, non ricorda che lui: protesa verso di lui e la fiamma inquieta dei suoi sensi innocenti: protesa verso di lui la sua «felicità senza pace»: il mondo intero intorno a lei è scomparso: l'arcolaio gira: ella canta: - «La mia pace è finita, il mio cuore è oppresso» -; e il canto, nel suo ritmo breve e nella sua cadenza stanca ha una dolcezza semplice di «Pianto antico» - antica e eterna come l'amore, come la vita. Persino nella successiva scena, nel «Giardino di Marta» [»Marthens Garten»] - la cosiddetta scena della «professione di fede», o, mefistofelicamente, della «catechizzazione» -, è Margherita colei che dà il tono al colloquio. Ben prorompe Faust in un inno religioso panteistico di così commosso impeto e di così alto volo che è facile riconoscervi una diretta effusione dell'anima stessa di Goethe; ma chi porta il discorso sulla religione perché ne ha pieno il cuore, non è Faust: - è lei, Margherita, sola, a cui il cuore trabocca d'ansia e di pena perché «quando ella è vicina al suo Dio, proprio allora sente che il suo amico non è con lei». Per questo lo interroga: «egli non frequenta i Santi Sacramenti, non va alla Messa, alla Confessione»: - «crede egli ancora in Dio?» - E invano Faust la sommerge sotto l'onda lirica del suo mistico panico rapimento: - «A chi è lecito dargli un nome?... Mistero eterno, visibile invisibile, accanto a te... Riempine il tuo cuore, e quando sei interamente felice in questo sentimento, chiamalo come tu vuoi: chiamalo felicità, cuore, amore, Iddio! A tutto ciò io non conosco un nome. Il sentimento è tutto: il nome rumore e fumo»: Margherita naturalmente non può discutere con lui; ma sostiene l'impeto con la sua semplicità indifesa: - «Anche il parroco dice all'incirca così, solo con parole un pochino diverse» -. C'è, in realtà, nella sua religiosità umile un valore che regge anche al confronto della più alta estatica ebbrezza: il candore del sentimento. Nelle sue preghiere, nelle sue «pratiche pie» la sua anima è tutta umiltà di offerta, divozione. Il suo Dio non si chiama anche «cuore, amore, felicità»: si chiama Dio - soltanto Dio, dinanzi al quale ella piega i ginocchi. La sua religiosità è «pura»: - dono di sé semplice e confidente - come il suo amore. E perciò nella femminile profondità del suo istinto, con oscuro ma infallibile intuito, il suo pensiero associa all'ansia e al dubbio sulla religione di Faust l'inquietante immagine del suo «compagno» - Mefistofele - l'»impuro, freddo, con lo sguardo pieno di scherno» - la cui sola presenza basta «a rimescolarle nelle vene il sangue», perché «gli si legge in fronte che è cattivo, non prende mai parte col suo cuore a nulla, non è capace di amare anima viva». - «Quando lo vede - dice a Faust - è come se nemmeno lei possa più amare, possa più pregare!» - Ma Faust non ha soltanto «il suo Mefistofele» al fianco, lo ha anche dentro di sé; e quanto più Margherita cresce, dinanzi ai suoi occhi, in purezza e in grazia, tanto più in fondo ai suoi sensi avidi il desiderio in agguato si accende; e la conclusione dei suoi mistici slanci - della sua «hohe Intuition» - è che, al momento dell'addio, egli porge a Margherita una fialetta di sonnifero per la madre, affinché questa non li disturbi nell'invocato notturno convegno! Margherita ama, non ha più resistenze, non ha più volontà. - «Che cosa non farebbe per lui?» - Cosi Margherita «cade». E, con la caduta, rapidamente l'azione precipita. Fino a quando l'amore era stato una pura felicità o inquietudine interiore, Faust e Margherita erano vissuti l'uno per l'altra; come sopra un'isola «fuori del mondo»; poiché l'amore invece è entrato nella pienezza della realtà, questa fa valere le sue leggi, irremissibilmente. Un suggestivo trittico, con tre idillici angoli di cittadina medievale nello sfondo, presenta appunto Margherita nella nuova condizione. Nel primo quadro, realistico ma tutto in toni arguti e colori leggeri, Margherita è «alla fontana», insieme con Lisetta, sua coetanea [»Am Brunnen»]: han deposte le loro brocche: conversano; Lisetta parla di Barberina - come «c'è cascata», «con tutte le sue arie», finalmente, e ora «la sconterà!» -: Margherita pensa ai tempi quando anche a lei sembrava di non «veder mai nero abbastanza»: - e ora anche lei è «preda del peccato!». Nel secondo quadro la scena è nello spiazzo esterno della città, fra le ultime case e i bastioni [»Zwinger»]: in una nicchia, nel muro, è un'immagine della Madonna Addolorata: davanti sono alcuni vasi nei quali Margherita colloca fiori freschi. Margherita prega; e l'implorazione sale dentro di lei, su da profondità sperdute, entro le quali il suo sguardo si spaura: si inizia con una melodia pesante di accoramento, sul motivo dello Stabat Mater (v.); poi il ritmo - pur riprendendo il movimento del «Quae moerebat et dolebat et tremebat» del canto sacro - amplia e distende quasi a dismisura il proprio respiro per accogliere l'émpito delle personali sofferenze e il martellare disperato della chiusa angoscia - «Wie weh, wie weh, wie wehe... Ich wein', ich wein, ich weine!» - finché si chiude fulmineamente in uno schianto: «Aiutami! Salvami tu dall'onta e dalla morte!» - e al tempo stesso si placa, per quel che sempre vi è di sollievo nella preghiera, ritornando al tono orante iniziale. Il terzo quadro è un pittoresco agitato «Notturno» [»Nacht»]: in alto splendono le stelle ma le angusto tortuose vie della città sono immerse nelle tenebre: solo «dalla finestra della sagrestia sfiaccola il riflesso della fiammella della sacra lampada», spandendo intorno un fievole chiarore: davanti alla porta della casa di Margherita è Valentino, cupo, immerso in avvelenati pensieri per il disonore della sorella: Mefistofele - arrivando insieme con Faust - canta una serenata scurrile; Valentino sguaina la spada e, nello scontro, cade trafitto: accorre gente: scende anche Margherita; e Valentino le getta in faccia la sua vergogna e la maledice e muore - muore «als Soldat und brav» - È come se tutte le «forze nemiche» che sono nel mondo si accaniscano sopra la «fanciulla caduta». Tuttavia si tratta ancor sempre unicamente di oltraggi e offese e personali dolori e ambasce. Il culmine della tragedia è raggiunto solo con la scena seguente, «nel Duomo» [»Dom»]. Nell'Urfaust la scena era collegata con le esequie della madre di Margherita, morta per il sonnifero ricevuto: ora, nel testo definitivo, la scena segue la morte di Valentino, ma nulla indica che si tratti del funerale di lui. Il poeta ha giustamente soppresso ogni allusione a fatti concreti, specifici: ha lasciato che dominasse, solo, l'»avvenimento interiore»: la «rivelazione del male» in una coscienza umana! Forse, dopo il Medioevo, non era più accaduto che il problema del male fosse sentito, in un'opera di poesia, con tanta assolutezza e così opprimente terrore. Il Dies irae (v.) che - alto squillando con tonante accompagnamento di organo - rovescia le sue implacabili immagini di condanna e rime ossessionanti sopra la trepida e stanca e tremante anima della peccatrice, non è un elemento aggiuntivo, una nota di colore: a distanza di sei secoli da quando l'antico inno fu composto, l'ispirazione rinasce, nell'atterrita coscienza, con lo stesso carattere di certezza tremenda. Le parole che il «Maligno Spirito» sussurra all'orecchio di Margherita, invisibile dietro di lei, sono «la voce stessa della sua coscienza» e hanno la terribilità del «di del Giudizio». Ella non è più soltanto «la sofferente, l'addolorata» è «la colpevole» - dinanzi al suo giudice - dinanzi a Dio il quale nulla lascia di invendicato. E tutte le fiamme dell'Inferno già sembrano avvolgerla, nelle parole del «Maligno Spirito»: le parole del coro sacro tuonano sopra di lei con gli accenti della «sentenza eterna». Che cosa può dire ella ancora, misera creatura? - «Quid sum miser tunc dicturus?» - È come se tutto crolli sopra di lei, la volta si abbassi, i pilastri precipitino. L'aria le manca. La vista si annebbia. E nessuna mano si stende verso di lei, per porgerle soccorso. «Gli Eletti, i Puri» - sussurra lo Spirito - volgono da lei lo sguardo - da lei «contaminata!». Le forze le mancano. Sviene. Fra tutte le visioni d'arte che il Dies Irae ha suscitato, specialmente nell'età moderna, nessuno è di più sofferta umanità e elementare potenza. E precisamente - o per lo meno, anche - per questo il poeta ha fatto seguire alla scena la «Notte di Valpurga» (»Walpurgisnacht»): dopo la veemenza estrema della tensione drammatica, era necessaria, nel ritmo della composizione, una pausa. D'altra parte era pur necessario, ai fini della poesia, togliere di nuovo Mefistofele - una volta tanto - dalle esclusive, per quanto brillantissime, funzioni di «smaliziato compare e manutengolo», da lui assolte nel corso di tutto l'episodio, e concedergli di essere «lui», interamente «lui», in piena corposa realtà nel suo proprio mondo. La «Notte di Valpurga» è, per l'appunto, «Mefistofele nel suo regno» - sul Blocksberg, fra diavoli e streghe in foia - nella notte sul primo Maggio, allucinata di libidine. Originariamente, secondo un vecchio progetto, anche Faust vi si doveva «scatenare», naufragando nella volgarità dei sensi; ma dell'oscena tregenda sono rimasti soltanto abbozzi e frammenti nei «Paralipomeni». Mefistofele solo, nella redazione attuale, si sollazza e satolla a suo modo, fra lazzi immondi e gesti lascivi -; oppure chi si sollazza, anche, è il poeta - Goethe in persona - il quale approfitta della baldoria per menar botte a destra e a manca liberamente sui suoi avversari e - non contento di aver tramandato all'eternità l'illuminista Nicolai (»Prochtophantasmist»), in atto di curarsi le traveggole con una sanguisuga sulla natica - inserisce nella festa tutto un «Intermezzo scenico» - (cfr. «Sogno della Notte di Valpurga» (»Walpurgisnachtstraum») -, con le «Nozze d'oro di Oberon e di Titania e con un «corteo-balletto» nel quale gli avversari - a uno a uno - sfilano e son passati sotto pettine tutti quanti! È un capriccio - e non si può dir che giovi alla poesia; ma Goethe amava concedersi queste «libertà!» A ogni modo Faust poco partecipa alla «notte stregata»: ne coglie soprattutto l'aspetto fantasmagorico e descrive in un bellissimo passo il magico luccichio d'oro del palazzo di Mammone nelle miniere della montagna; ma non si sente mai - non è - a suo posto: e a un certo punto - quando ha appena smesso di ballare con una giovane strega a cui, ballando, «scappa fuori dalla bocca un topo» -, si vede sorgere davanti, come attraverso un velo, lontano, l'apparizione di una «fanciulla pallida e bella» che «si muove lentamente», come se scivolasse «a piedi giunti» e «ha gli occhi di una morta che nessuna mano amica ha chiuso». - Margherita! L'emozione è violenta. Faust ne è come ossessionato. E lo svolgimento fatale del dramma è riagganciato di colpo. Due brevi scene: «Giornata fosca. Campagna» (»Trüber Tag. Feld») -, nella quale Faust inveisce contro Mefistofele in una prosa declamata di così esplosiva vulcanica irruenza, che Goethe medesimo rinunciò a mettervi ancora le mani per ridurla in verso: l'altra - «Di notte, in aperta campagna» (»Nacht. Offenes Feld») - con la visione fulminea di Faust e Mefistofele che passano in selvaggio galoppo, su cavalli neri, davanti a un patibolo intorno al quale un'accolta di streghe fluttua, ondeggia chinandosi curvandosi spargendo qualcosa di misterioso, con gesti di consacrazione. È il patibolo sul quale sta per aver esecuzione la condanna di Margherita per infanticidio. E nella prossima scena è la catastrofe: «in carcere» [»Kerker»]. Nella prosa dell'Urfaust la parola era così «squassata dall'emozione», in sussulto - non più parola, quasi, ma grido - che nella poesia del Faust definitivo non poteva trovar posto: nella trasfusione in verso essa è stata «distesa» in toni più continuati e fluidi. Ma la straziante tragicità, anche nel nuovo linguaggio, è rimasta. È la poesia di una vita interiore in sfacelo. Già il grottesco canto di «ninna nanna» - «Mia madre puttana - che mi strozzò», - è atroce: certe parole, sulla bocca di Margherita, non si possono nemmeno pensare. Cosi vasto è il franamento avvenuto nella sua anima. Tutto il suo interno è una rovina. E solo, disgregatamente, singole immagini ne emergono - in tonalità visionarie di incubo -: quella della «madre seduta sopra un sasso, con la testa che dondola pesantemente, incessantemente»; quella del «bimbo - al di là del ponticello - dentro il bosco - a sinistra - nello stagno»; quella dell'»amico che è lontano e l'ha lasciata sola». Solo queste visioni passano e ripassano dentro di lei, si riaffacciano, scompaiono. Gli altri pensieri «non legano». Il presente, la realtà, la stessa prigione - è come se non esistano. È come se ella vi sia insensibile. Non riconosce nemmeno Faust, quando giunge e si getta ai suoi piedi. Solo quando egli la chiama per nome - «Gretchen! Gretchen!» - disperatamente, solo allora ella lo riconosce, nell'accento d'amore che è quello di un tempo. E gli tende le braccia, ed è stupita che egli non la baci: - «Non sa egli dunque più baciare?» -. Il suo amore, dentro di lei, è la sola realtà viva immutabile eterna: ed egli invece le parla di fuggire! A che scopo? In questo mondo ella non ha più che un desiderio: - «Giacere con la madre e il fratello nella stessa tomba - un poco in disparte, col suo bimbo al seno!» E poi: ella «non deve» fuggire! La sua coscienza morale si solleva: - «Ich darf nicht!». E invano egli insiste e tenta di portarla via con sé: ella non parla che della sua espiazione, della sua morte. E s'affida al «giudizio di Dio». E, quando si vede ricomparire davanti Mefistofele, non soltanto è ripresa dall'orrore antico, ma si ribella: - «Mandatelo via! Che cosa vuole qui costui, nel luogo sacro?» -, ed è presa da un senso di raccapriccio anche verso il suo amico - «Heinrich! Heinrich! Mich graut's vor dir!» -, e implora Iddio che l'assista, invoca le schiere celesti che le stiano al fianco. - «È giudicata!» - grida Mefistofele. «È salva» - annuncia una Voce dall'alto. E l'annuncio, dopo tanta devastazione delle anime, suona come una liberazione. In verità, se il sentimento comune qualche volta - troppe volte - ha identificato il dramma di Faust con l'episodio di Margherita, la prospettiva è bensì falsa, ma l'equivoco non è senza ragione. Certamente si tratta soltanto di un episodio. Ma quale episodio! Sono posti tutti i più grandi problemi: - insieme con l'amore - la morale, la religione! La vita è vissuta in relazione a un suo particolare aspetto, ma - per le forze che vi convergono e alternatamente vi dominano - la sostanza più profonda della vita è direttamente impegnata, con una intensità che annulla intorno a sé ogni possibilità di compromesso e conferisce a ciascun singolo momento un qualcosa di compiuto e decisivo, irripetibile. È una di quelle esperienze in cui la vita «brucia» se stessa. Quando Faust scompare dal carcere insieme con Mefistofele - mentre il grido d'amore e di ammonimento di Margherita ancora lo insegue perdendosi nelle lontananze - egli non è soltanto l'uomo che da una terribile prova esce disfatto, annientato: ma è l'uomo dietro il quale si chiude - in modo irrevocabile, senza possibilità di ritorni - tutto un mondo, di cui egli ha esaurito dentro di sé, fino a consumarvisi, tutto il bene e tutto il male, tutte le gioie e tutta l'amarezza. - E, quando egli «rinasce» - nella «Seconda Parte» del dramma -, tutto un nuovo mondo poetico s'apre al tempo stesso intorno a lui e condiziona e impronta di sé le sue nuove esperienze. La cesura fra le due «Parti», è così profonda che soltanto in una struttura libera e mobile e «a melodia infinita» - come il Faust - essa può essere pensata, senza che la saldezza interna dell'opera ne resti distrutta. Non si tratta soltanto del fatto che al «godimento della vita visto dal difuori» - come dice Goethe in un abbozzo famoso del 1800 - viene sostituita la gioia di una «vita attiva che verso l'esterno si espande» e alla «passione in un'atmosfera ancora soffocata e incerta» [»in der Dumpf heit Leidenschaft»] viene sostituito il «godimento consapevole», il possesso spirituale della bellezza. Tutto ciò ha offerto alla poesia alcuni dei suoi nuovi grandi motivi; ma non è soltanto questo singolo, sia pure essenziale, problema - è tutto il tono dell'intera ispirazione che è mutato. Mentre nella «Prima Parte» la vita era colta nella realtà immediata «calda e pulsante» - o in un mondo di magia in cui essa si prolunga, come una vibrazione sonora in una cassa armonica, con più vaste risonanze -, ora invece, nella «Seconda Parte», la vita è tutta veduta, rivissuta, costantemente, nei «coloriti riflessi» - nel «farbiger Abglanz» (v. 4727) - con cui essa si presenta sul piano del pensiero, nella «distaccata e rasserenata» chiarità della coscienza. Riposa perciò sulla composizione la «pacata luce spirituale» che è propria della poesia del «vecchio Goethe»; e anche due altre conseguenze ne derivarono, d'importanza risolutiva per l'impostazione del dramma. Prima di tutto la rapidità di scorci e le sintesi del pensiero resero possibile un radicale rovesciamento di posizioni - per cui non più il mondo intero apparve esclusivamente in funzione dell'esperienza interiore di Faust, ma questi invece semplicemente «prese il suo posto» anche lui, nel mondo, come singola, per quanto rappresentativa, individualità. E fu come se s'aprisse una diga: le onde della vita, d'ogni lato, si riversarono direttamente nella poesia, senza numero. Goethe, quando pose mano alla nuova opera, era sugli ottant'anni e aveva dietro di sé un'esistenza che - considerata nel suo insieme, a distanza - non può non apparire quasi leggendaria. Era stato «tutto» nella vita: «uomo selvatico» e maestro di cerimonie a Corte, ministro e direttore di teatro, poeta e «sopraintendente alla leva», sopraintendente all'Università e «regista» di feste da ballo, restauratore di palazzi, costruttore di strade, architetto di giardini, anatomo, fisico, geologo, mineralogo. Aveva veduto intorno a sé crollare imperi, regimi, ordinamenti sociali e compiersi rivolgimenti grandiosi in ogni campo, nella politica, nella filosofia, nella poesia, nell'arte; e di fronte a ogni avvenimento aveva precisato il suo pensiero, ora assentendo, ora respingendo, più spesso «distinguendo», con semplicità e chiarezza, secondo la sua natura. Non aveva avuto limiti alla sua cultura né nello spazio né nel tempo; e come aveva discusso di filosofia con Schiller e Schelling e di scienza con Alexander von Humboldt, così aveva vissuto - con la fantasia, poetando - nella Persia di Haflz non meno che nella Grecia di Sofocle o nella Roma di Augusto o nell'Inghilterra di Shakespeare o nell'Italia di Palladio. Ed era rimasto sempre lui, «naturale» e vitale. Era passato di giovinezza in giovinezza, sempre rinascendo, inesauribilmente. Ora tutta questa esperienza sterminata risorse entro di lui e rifluì a getto continuo, da vicino, da lontano, nella poesia. Padrone assoluto di tutte le forme di poesia antiche e nuove, classiche e romantiche, abituato a muoversi nei «regni della parola» con la stessa naturalezza e lo stesso agio con cui un altro uomo respira, gli bastò di dar corso al suo «vigilato estro». E ora è una stupenda effusione lirica che gli esce dal cuore, ora un'aerea leggiadria di immagini, ora una punta arguta di epigramma, ora la solennità di una sentenza, ora uno scatto d'ira, ora una luminosa parola di «vissuta saggezza», ora un arcano schiudersi di misteri o un brillar di enigmatici sorrisi. Naturalmente vi sono anche le zone plumbee, dove la materia è pesante, opaca. Ma spira per la poesia l'aria dei grandi orizzonti. E veramente se ne ha qualche volta l'impressione come di un mare - libero a tutti i soffi di vento e aperto in tutte le direzioni - sempre uguale a se stesso e mai identico - infinitamente mutevole nei suoi giuochi di onde, di luci, di scintillamenti, di colori, di ombre. In tali condizioni - ed è la seconda conseguenza del mutato tono - era inevitabile che anche lo svolgimento dell'azione non potesse consistere più - come nella «Prima Parte» in un frammentario succedersi di momenti singoli, ciascuno dei quali ha per Faust un valore di rivelazione di un aspetto della vita. Ogni impostazione naturalistica cade. Il rapporto di Faust con il mondo che lo circonda, è di indole essenzialmente simbolica; e essenzialmente simbolica è la rappresentazione. Goethe stesso vi ha esplicitamente insistito nella bellissima scena «Contrada amena» [»Anmutige Gegend»] con cui la «Seconda Parte» si apre. Trasportato da Mefistofele attraverso gli spazi, Faust giace a terra «disteso sopra l'erba in fiore, spossato, inquieto e cerca sonno»; ma è questo l'unico particolare in cui riecheggi un richiamo alla terribile crisi che lo ha travolto. La poesia non indugia in nessuna analisi delle «forze interne», che operano nel processo di guarigione: la guarigione avviene - come sempre per Goethe - nel contatto con la natura; ma le forze della natura sono espresse - al disopra di Faust - nel canto di Ariele e nell'affaccendato obbediente operare degli Elfi. La guarigione è «un dono». Faust anzi non guarisce soltanto: «rinasce». Le terzine armoniose fluenti, folte di immagini e movenze dantesche con cui egli, destandosi, rivolge il suo saluto al giorno che nasce, al sole che sorge di là dai monti - hanno il timbro sicuro, il ritmo calmo ampio di una forza potente e intatta. Così Faust, è «restituito a se medesimo» e ricomincia il cammino - secondo la sua legge che è di «tendere a tutto ciò che vi è di più alto» [»Zum höchsten Dasein immerfort zu streben»]. Ma - con i nuovi modi e ritmi della composizione - non è più un viaggio che si svolge nei regni dell'ignoto, impreveduto. Il poeta che lo ritrae, lo ha già «scontato» in anticipo nella propria coscienza e lo considera e interpreta in prospettici sguardi d'insieme, lo offre ordinato chiarificato in organiche visioni di sintesi. E in sole quattro simboliche tappe Faust compie la sua ascesa. La prima è nel «grande mondo» - già preannunciato a Faust da Mefistofele (v. 2052) prima di sollevarlo con sé in volo nel suo mantello magico. È Faust posto, per la prima volta nel poema, dinanzi al problema della società, dello Stato - portato d'un colpo alla soglia del trono, dove confluisce e donde si diparte ogni autorità e potenza - introdotto, fra aulici personaggi, nella Corte dell'Imperatore, dove la vita sociale si manifesta nel suo massimo fasto e splendore. Chiamato a ventisei anni a fianco del Duca Carlo Augusto, Goethe aveva trascorso in quelle condizioni un «mezzo secolo della sua esistenza»; e aveva «molte cose che desiderava scuotersi dal cuore». L'ispirazione dell'ampio ciclo scenico è infatti estremamente composita. Il fondo è gnomico-satirico, con marcate tendenze all'epigramma; e decine di sentenze argute sono rapidamente diventate proverbi - «geflügelte Worte» -. Interamente satirica burlesca è tuttavia l'intonazione soltanto nella prima scena, nel «Palazzo imperiale» [»Kaiserliche Pfalz»], nella «Sala del Trono», dove Mefistofele conquista d'un balzo il suo prestigio di uomo di Stato» indicando «i tesori nascosti nel seno della terra» come imperiale cauzione per un'emissione di «carta-moneta». Poi altri motivi di poesia si destano; e la grande «mascherata» [»Mummenschanz», vv. 5065-5985] ha bensì anche, fra altro, il compito di mostrare come, in una società chiusa nell'esteriorità della propria etichetta, le stesse «forze elementari magiche della natura e della vita» si riducono a semplici «occasioni di divertimento» e «vuote forme»; ma già dal primo comparire delle «giovinette fiorentine», con cui il corteo s'inizia, ognuno avverte nella poesia anche un fresco alito di grazia quattrocentesca in cui il tono popolare e la gioia dei bei colori s'associano fondendosi insieme in piacevoli armonie. I Trionfi e carri mascherati del Grazzini, che offersero il primo canovaccio, e il Trionfo di Cesare del Mantegna, il Trionfo di Massimiliano di Dürer che furono modello per il tono generale decorativo, non sono stati soltanto una «fonte dotta» per il poeta, ma - realmente - lo stimolo a una propria «festa per gli occhi e per lo spirito». Anch'egli, il poeta, amava «lo spettacolo, - come l'Imperatore che vi prende parte sotto le spoglie dell'iddio Pan, come le dame e i cavalieri che vi assistono. Ma quel che per gli altri era soltanto «spettacolo puro», svago, era per lui invece un'espressione per qualcosa di più alto - la poesia, l'arte, impersonate nel «giovinetto cocchiere» che guida il carro di «Plutone-Faust». Elementi continui d'ironia si mescolano così con quelli lirici o decorativi; e il contrappunto per mantenerli nel loro labile equilibrio costituisce - anche al di là della «Carnevalata» burlescamente conchiusa nelle fiamme di un finto cosmico incendio - il «modo d'arte» dominante, di scena in scena - con qualche intervallo di umoristici spassi come quelli che si concede Mefistofele con la «bionda» e con la «bruna» nelle «Sale sfarzosamente illuminate» [»Hell erleuchtete Säles»] - fino alla fine dell'atto. Solo a un certo momento, tutt'a un tratto, bruscamente - nella scena «Galleria oscura» [»Finstere Galerie»] - la tonalità cambia: e all'improvviso, con uno dei suoi colpi di genio, la poesia di Goethe si avventura in una delle sue invenzioni più favolose: la «discesa di Faust alle Madri». Sono le «dee del mistero delle origini», troneggianti in solitudine fuori dello spazio e del tempo: le viventi forme eterne in cui si rinnovella l'esistenza di tutte le cose create: la raffigurazione in poesia di quel che erano per Goethe, nella scienza, gli «Urphänomene». Vi si sfiora l'ultimo limite al quale lo sguardo di Goethe si arresta, per non perdersi. Un «brivido sacro» accompagna l'ispirazione (v. 6272). E tutta l'evocazione è avvolta in un'atmosfera arcana. Mefistofele stesso, dopo che Faust si è inabissato per tentar la prova, resta incerto, malsicuro. E invece ecco, poco dopo, nella «Sala dei Cavalieri» [»Rittersaal»], in una smorzata luce di teatro, Faust ricompare e, entro un'architettura armoniosa di tempio greco, su dal tripode sacro che egli ha riportato dai regni del mistero, suscita - dinanzi all'Imperatore che ne aveva espresso desiderio - il fantasma di Elena (v.). Ma per le dame e i cavalieri anche l'apparizione di Elena (v.) e Paride (v.) non è che «gioco mondano», occasione a nuove frivolità. L'imperatore stesso tace. A Faust soltanto Elena appare «quella che è»: la mèta suprema nella vita: la bellezza perfetta. - «Chi la riconosce, non può più vivere senza di lei!» - Faust tende le braccia per stringerla a sé. L'apparizione si dissolve e svanisce. Il tempio crolla in una grande esplosione. Faust cade a terra esanime. Mefistofele se lo carica sulle spalle e dispare -. La «Notte classica di Valpurga», che riempie il successivo «atto secondo», dovrebb'essere quindi - ed è - per Faust la ricerca della «possibile via» verso il possesso di Elena. Ma non è soltanto questo. È Faust posto di fronte alle creazioni della poesia, dell'arte, del mito - ai valori della cultura. Perciò la poesia - prima di involarsi verso il mitico mondo sereno dei Greci - si riconduce ancora una volta al suo primo punto di partenza, all'»angusta stanza gotica» che già vide per tanti anni Faust curvo sulle sue pergamene, al lume di una fumosa lampada. Il problema non è più, come allora, quello della scienza: è quello di una vita più alta armoniosa nella «libertà estetica» dello spirito. Ma i termini sono analoghi: da una parte l'intelletto, la dottrina - e dall'altra la natura, la vita. Nello studio - dove ora Faust giace disteso sopra un vecchio letto, immerso in pesante sonno - altra vita non è rimasta all'infuori delle tarme e farfalline che irrompono fuori in sciami dalla pelliccia appesa al muro, quando Mefistofele fa per indossarla. E nel vicino «Laboratorio» [»Laboratorium»] - dove impera Wagner ora diventato professore - la vita, sì, c'è; ma «fabbricata artificialmente, chimicamente»: - anzi propriamente non c'è ancora; si sta formando; è prossima al «precipitato», definitivo, da tanto tempo atteso. Eccolo, infine: piccolo e grazioso nella sua limpida fiala: «Homunculus»! È l'»uomo scientifico» - tutto cervello, in conformità della «procedura» con cui è venuto al mondo. Per intelligenza dà «dei punti» anche a Mefistofele. Vede tutto, anche nei pensieri e sogni degli uomini. Capisce tutto. Sa tutto. È appena nato e già prende amabilmente in giro anche suo padre che lo ha creato. Ma è incompleto. Non ha pienezza non ama. Non ha consistenza. Deve «prender corpo», «diventar natura» - deve, in certo modo, veramente «nascere» se vuole «veramente vivere!». Perciò ha bisogno anche lui, come Faust, di un «bagno nella Grecità», dove «natura e spirito costituiscono una sola vita, risolta in compiuta armonia». Così, nell'anniversario della battaglia che segnò secondo Goethe il tramonto della libertà antica, nella notte sul 9 Agosto, i tre «navigatori aerei» - Homunculus in testa, Faust ancora in preda al sonno - giungono sulla piana di Farsalo. E il «classico Sabba» incomincia. Ma se i tre fili dell'azione che fanno capo a Faust, subito ridesto al contatto della terra, a Mefistofele e a Homunculus - nel loro graduale svolgersi e intrecciarsi e disciogliersi - dànno alla vasta mirifica visione un chiaro riposato ritmo e segnano nella composizione i successivi momenti culminanti e punti di arrivo, la poesia che vi aleggia non vi è esclusivamente legata: come forse in nessun'altra parte dell'intero dramma, è spesso una poesia che si libera direttamente dall'anima del poeta e dà alla composizione soprattutto atmosfera, aria, luce. È, per così dire, la «grande festa della Grecità» che Goethe concede al suo sentimento di uomo antico. È la poesia degli antichi miti, colta - per così dire - nella sfera primaria, dove il mito è ancora legato alle forze della natura in una immediatezza di cosmica unica vita. Le eccelse figure divine - Giove, Apollo, Afrodite - non sono - non possono essere - presenti: perfette in se medesime, lassù, nell'Olimpo, sono «al disopra» di tutto ciò che è ancora natura. Ma fra il monte e il piano, fra la terra e il mare, nello splendore della notte di plenilunio, tutte le altre «creature di mito» sorte dalla fantasia e dal sentimento degli antichi - e registrate nel Mythologisches Lexicon dello Hederich - partecipano all'incantesimo. Nei boschi e presso le fonti lungo le rive dell'alto e del basso Peneo, nelle baie rocciose e nei flutti del Mare Egeo, dappertutto è un inseguirsi di voci e di canti, un pullulare di piccole, grandi mitiche esistenze. E su tutto impera una sovrana legge di armonia: anche la bruttezza, dove esiste, è superata nella perfetta misura del suo limite, nella pura adeguatezza della sua forma. Fra tante Sfingi e Sirene, Oreadi e Ninfe, Nereidi e Doridi, fra tanti Grifoni, Formiconi, Arimaspi, Pigmei, Cabiri e Tritoni - come potrebbero i tre «nordici ospiti» non far la figura degli «spaesati»? Mefistofele, dopo essersi fatto beffare dalle Lamie, per «salvarsi nel mondo di Elena» finisce con l'assumere l'aspetto dell'orrenda Forciade, con un solo dente e con un occhio solo. Faust, immerso nel «pensiero dominante» di Elena, riceve saggi ammaestramenti da Chirone - che, galoppando intorno senza tregua, lo porta con sé in giro sulla sua groppa di Centauro -; poi scende con Manto alle regioni dell'Ade e più non ricompare. L'unico, la cui «favola breve» si confonde totalmente con la notte fatata è Homunculus. La sua aspirazione a «diventare natura» lo ha spinto infatti verso il mare, perché «tutto dall'acqua nasce, tutto per l'acqua si conserva»: è la grande ora in cui il burbero Nereo, tuffandosi e rituffandosi nelle sue onde, raggiante di luminoso buonumore, s'appresta a rivedere - una volta sola ogni anno! - le sue figlie; passa Galatea alta sul cocchio di conchiglia che già fu di Afrodite, accompagnata da tutto un corteo di Doridi in groppa a lucenti delfini: non è che un attimo: non è che uno sguardo - fra padre e figlia -; ma l'ebbrezza panica raggiunge nella poesia il suo colmo: Eros impera nella notte magica: anche Homunculus si leva più alto con la sua fiala, si fa più splendente: alla fine la fiala si frange contro il cocchio, ai piedi di Galatea e una vampa sembra accendersi tutt'intorno sul mare. Homunculus ha raggiunta la sua mèta, è «diventato natura nella maniera più alta, al di là dell'esistenza individuale, dissolvendosi in luce e fiamma nell'unità del Tutto». - il clima lirico del finale della «Notte classica di Valpurga» è così alto che - quando Elena in persona approda nell'atto seguente al lido di Sparta - nulla sembra più naturale. Non si sa come Faust sia riuscito a «ricuperarla». Non si sa come Persefone si sia decisa a darle «via libera», un'altra volta, verso questo mondo. Eppure se Goethe avesse dato al fatto una motivazione razionale - come tante volte e così insistentemente progettò -, il risultato, dal punto di vista della poesia, sarebbe stato forse meno persuasivo. Cosi com'è, l'inizio dell'atto - con quelle parole di Elena: «Ammirata molto e molto vituperata giungo», etc. - non ha bisogno di spiegazioni. È una realtà che non si discute. Può parlare così soltanto lei, Elena, che viene dai regni della morte e ha sopra di sé tanto peso di passato. Invece l'intero episodio, nel suo svolgimento, lascia qualche volta incerti. Ideologicamente è, senza dubbio, «il vertice e l'asse di tutta la Seconda Parte». Faust che, nel possesso della «bellezza assoluta», attinge quella superiore sfera di spiritualità, in cui la vita è pura armonia di sentimenti consapevoli, indisturbata libertà interiore. Ma appunto perciò Elena non è più soltanto una «creatura di poesia»: è un simbolo. E altre allegorie ancora si sovrappongono. Elena è la bellezza antica, Faust l'anima moderna: le loro nozze sono il connubio della classicità col romanticismo; e Euphorion che ne nasce, è - secondo un'affermazione di Goethe medesimo - «la poesia», ma - e lo dice il testo espressamente nella trenodia del Coro - è anche Byron! Così i concetti si intricano l'uno nell'altro; e ne subisce inevitabili riflessi lo stile. La prima scena con l'arrivo di Elena «davanti al palazzo di Menelao a Sparta» [»Von dem Palaste des Menelas zu Sparta»] ha la linea semplice severa d'un dramma antico con cori; la seconda scena, «nel cortile interno del turrito fantastico castello medievale» di Faust (v. «Innerer Burghof») ha invece un'andatura libera, mossa, secondo l'impulso immediato degli avvenimenti: l'»incontro d'anime» fra Faust e Elena è posto in rilievo anche metricamente col fatto che la «greca Elena», a un certo momento parla nel «romantico verso rimato» di lui: il finale - con la breve vita e la morte di Euphorion - è tutto un «volo di musiche» - diceva Goethe medesimo - vuol essere «non letto ma cantato». C'è, in tutto ciò, certamente, un sovrano virtuosismo formale; ma c'è anche uno schematismo, che può produr l'impressione - anziché di poesia - di «altissima letteratura». Senonché Goethe è sempre Goethe, e, qualunque sia l'architettura di concetti con cui egli ha creduto opportuno di irrigidire una composizione, la sua fantasia ritrova sempre, a modo suo, senza fatica, la sua congenita insopprimibile libertà di slancio. Quale miracolo di poesia il canto di Linceo! - «Lascia ch'io mi inginocchi, lascia ch'io ti guardi, Lascia ch'io muoia, lascia ch'io viva»! - È il sentimento della bellezza come sperduto desiderio, amore sconfinato, fuoco che consuma, luce che accieca: qualcosa che sale, entro Goethe, su dalle profondità più remote - quasi come una voce di giovinezza eterna. E quale «paesaggio mitico» in stile idillico eroico, «nella maniera antica» - è la descrizione dell'Arcadia nelle parole di Faust a Elena! L'antico mito ora è rinato con la freschezza antica, definitivamente, nella poesia moderna. Del resto, se le «nozze letterarie» interessano nella poesia solo fino a un certo punto, la trepidazione di un padre e una madre per i pericoli che corre la loro creatura ha invece - nella scena di Euphorion - accenti di umanità semplice, commossa. Lo stesso Euphorion, nella sua natura di Genietto che non ammette di andare a piedi quando si può volare, ha un suo nucleo di verità non soltanto simbolica. E «tutta verità» sono le Coretidi: la vivezza ingenua dei loro sensi non conosce altre leggi all'infuori della grazia - ed è ciò che le rende, nel loro folleggiamento, deliziose: dopo tutti gli spaventi che ha fatto loro prendere Metistofele - il quale, nella maschera della Forciade, sviluppa a tratti veramente una sua grandezza demoniaca - si sono ben meritato di non tornare più nel grigiore freddo dell'Ade, di restare per sempre sopra la terra - trasfuse nella perenne vita serena degli elementi - L'atto quarto e le prime tre scene dell'atto quinto costituiscono propriamente, nella storia interna di Faust, un ciclo unico. È Faust che - assurto a piena maturità e consapevolezza di sé nel possesso di Elena - trova alla fine nell'attività pratica la soluzione del suo problema, inserendosi come concreta forza creativa nella realtà della vita. - «Auf freiem Grund mit freiem Volke stehn!» - «Stare sopra una terra libera con un popolo libero»! - Ecco il senso e la mèta della vita. Perciò Faust strapperà al mare un vasto lembo di terra, lo renderà fertile per il bene degli uomini. L'atto quarto ha essenzialmente il compito di creare a Faust le necessarie benemerenze perché l'imperatore gli assegni il lembo di terra in concessione. E forse anche per questo carattere «preparatorio», è risultato, nell'insieme, la zona più stanca di tutto il poema. Incomincia in alta montagna, in un paesaggio da Inferno dantesco, dove Faust è stato deposto dolcemente dalla nuvola, in cui si erano dissolte le vesti di Elena tornata nel mondo delle ombre: ancora una volta Faust ritrova se stesso nella solitudine della natura: ricompare per un istante anche l'immagine di Margherita. Poi, il resto dell'atto è tutto occupato dalla vicenda di una battaglia fra l'imperatore e i rivoltosi: Mefistofele e Faust sono naturalmente al suo fianco: Mefistofele fa intervenire persino le corazze vuote che sono nei Musei, fa straripare i laghi, scaturire sorgenti: alla fine l'Imperatore vittorioso, naturalmente, concede il feudo. Il tono è prevalentemente satirico: e non mancano le geniali trovate - come quella, dei tre «giganteschi manigoldi della montagna», i quali conferiscono al quadro di battaglia «maggior rilievo plastico». Tuttavia accade di rado che il dramma veramente si animi. Goethe stesso non ne era soddisfatto: ci si tormentò a lungo, per tutto un anno, nel 1831, e avrebbe voluto ancora metterci le mani, quando, si decise a scrivere la parola «Fine». Invece la poesia «prende subito quota» nelle tre scene del seguente atto, quando Faust subito si pone al lavoro. Nell'idillio di «Bauci e Filemone» è la «vita semplice» sentita come eternità: ogni sentimento, ogni pensiero, ogni gesto ha una sua fissità quasi sacrale, come nel regno delle leggi della natura. Mutano i tempi, mutano le circostanze: le anime non conoscono incertezze, perché le anime non mutano. - «Lasciateci... pregare! Lasciateci confidare nel nostro vecchio Iddio»! - Perciò i due vecchi rifiutano quando Faust offre loro - al posto della loro casetta - una ricca fertile fattoria. Nemmeno Mefistofele e i tre «Manigoldi» riescono a smuoverli quando Faust li invia sul luogo per portarli via a forza. Muoiono nella loro casetta, e l'incendio ne incenerisce le salme. Ancora una volta «i fatti sono andati al di là dell'intenzione» e Faust porta, senza volerlo, su di sé il peso di una colpa. Il «momento felice» si è rovesciato ancora una volta nella propria negazione. La fine ultima è prossima. E il ritmo del poema si accelera. Shakespeariana e stupenda è la scena delle «Quattro donne bigie» che entrano a mezzanotte nella stanza di Faust: si chiamano «Der Mangel», «die Schuld», «die Sorge», «die Not»: e i quattro nomi sono stati lasciati dal poeta appositamente «misteriosi»: si riferiscono a quelle che sono le forze negative distruttrici della vita: - il loro fratello si chiama «der Tod» - «la morte». Le altre tre donne svaniscono: e si ripresenta, dinanzi a Faust, «die Sorge», sola: l'»atra cura», l'»affanno»; e, poiché Faust rifiuta di riconoscerne la potenza, ella gli soffia in volto, lo accieca. Ma è allora che, in verità, egli vince: - «Dentro di me, nel mio interno, risplende una chiara luce» - La sua opera si compirà egualmente! «La traccia dei suoi giorni terreni non si perderà nei tempi dei tempi». - Tale presentimento è, nella vita, l'»attimo supremo». Faust è ora pronto a morire. L'ora scocca. Accorrono i Lemuri e raccolgono nelle loro braccia Faust che cade, lo depongono al suolo. Mefistofele chiama a raccolta i suoi «diavoli grassi», i suoi «diavoli magri» - perché l'anima di Faust non gli sfugga. Ma egli stesso si perde a contemplare - con mefistofelici appetiti - gli «angeli in camicia» che incontro all'anima di Faust son scesi dal cielo. La scena ha una grottesca vitalità inesauribile. Alla fine gli angeli si sollevano portando l'anima con sé. E lentamente, di sfera in sfera, fra i cori dei beati, l'anima ascende, portata in cielo: «Wer immer strebend sich bemhüt - den können wir erlösen» - «Colui che sempre si è nella ricerca affaticato, noi lo possiamo redimere»! - Dinanzi al trono della «Mater Gloriosa» è «una delle penitenti, che già ebbe nome Margherita, e implora per il suo amato che ritorna, purificato. E sempre più in alto Margherita ascende - per benigna grazia della «Mater gloriosa» - e sempre più in alto ascende l'anima di Faust dietro di lei. Risuonano nell'alto le parole del «Chorus mysticus»: «Aller Vergngläiche - Ist nur ein Gleichnis: - Das Unzuälngliche - Hier wird's Ereignis; - Das Un beschreibliche - Hier ist es getan; - Das Ewig Weibliche - Zieht uns hinan». Per tutto un secolo si sono accanite le critiche contro questa conclusione del poema. Goethe è stato accusato di aver dato a «un dramma protestante» una «soluzione cattolica» - come se il problema «cattolicesimo-protestantesimo» sia comunque posto alla base dell'opera e, in ogni caso, siano «più protestanti che cattolici» i «Cori di Pasqua», la preghiera davanti all'immagine dell'Addolorata, le esequie col «Dies Irae» nel Duomo. È stato affermato che il concetto dell'amore «non entra» nel colloquio fra il Signore e Mefistofele nel «Prologo in cielo» e quindi è estraneo allo svolgimento del dramma - come se, fra il punto di partenza e il punto di arrivo, non debba esistere in un dramma alcuna distanza, e, in ogni caso, il «dramma del bene e del male» possa essere suscettibile di un «superamento» all'infuori della «redenzione nell'amore». È stata presa ombra da qualcuno in modo particolare perché Faust è stato raffigurato - sia pure per un attimo e di passaggio e in volo di ascesa - ai piedi della Madonna in cielo - come se tutto ciò significhi di necessità un «infemmineimento» dell'ispirazione - mentre invece, in un dramma alimentato da una sensibilità sostanzialmente cristiana, la personificazione dell'amore è naturale che sia femminile e, in nessun modo davvero, può essere l'Eros greco. È stato parlato di un'influenza, che è reale e aperta e manifesta, di Dante - come se Goethe ne sia stato condotto a smarrirsi in un «superato mondo di idee e visioni medievali» e non abbia fatto invece semplicemente uso, ancora una volta, del suo diritto di attingere dovunque colori e forme per la propria arte. È stato detto che ben altro «Ausklang» avrebbe avuto il poema, se Mefistofele e Faust fossero comparsi davanti al Signore. Per qual ragione? A quale scopo? Il Signore è lassù «nei recessi altissimi della sua luce», e intorno a lui risuonano le armonie delle sfere e i Cori degli Arcangeli che cantano «le sue opere, splendide come nel primo giorno»: perché si dovrebbe scomodare se, con la salvezza di Faust, tutto è ormai a posto? E stato infine rilevato, da un punto di vista estetico - in tempi recenti e in tempi lontani - che il dramma si chiude con un «finale operistico» - come se l'»opera lirico musicale» non sia precisamente la «forma drammatica» forse più rispondente al gusto del Settecento e, fino a un certo punto, anche dell'età romantica: talmente «congenita» a tutto il «Secondo Faust», che all'infuori di essa gli atti terzo e quarto non sono nemmeno pensabili. In realtà, poi, nel finale del dramma, non si tratta nemmeno, propriamente, di «opera» ma di «oratorio». E quel che vi è di fluido ondeggiante impreciso nelle immagini singole, di uniforme insistente quasi monotono nelle cadenze ritmiche - è appunto la spontanea forma della poesia «in tono orante» perché per l'uomo in preghiera le parole e immagini singole non sono se non un perenne ritornare e ripetersi della effusione del medesimo sentimento, di implorazione o di estasi. Goethe dice una volta: - «Prima di giudicarmi, cercate di capirmi. Domandatevi perché io così ho voluto». Tradd. di G. Manacorda (Milano, 1932); di V. Errante (Firenze, 1942) e di altri. G.Gb.
La lotta di una grande natura che non ha raggiunto il suo scopo. (F. Schlegel).
Il Faust è una grandiosa creazione dello spirito poetico e rappresenta la nuova poesia, come l'Iliade è il monumento dell'antichità classica. (Puskin).
Il Faust è un lavoro potentissimo, creazione dantesca, dove un ardito pennello dipinge sicuramente gli affannosi dubbi e i pensieri di una intera generazione intorno al tremendo mistero della vita. (De Sanctis).
Il proposito che il Goethe si sforzò di attuare in quella rielaborazione del Faust merita di essere ben meditato come di grande importanza a intendere alcune vicende della moderna storia letteraria; perché esso fu il modello di un errore artistico, ripetuto innumeri volte dipoi, rafforzato com'era dall'esempio e dall'autorità del poeta del Faust. Il Goethe intese rispondere con un'opera poetica al quesito circa il valore ossia il fine della vita umana... Il secondo Faust non è un lamentevole documento della decadenza senile di un ingegno, ma uno scoppiettio di faville col quale si spegne un gran fuoco, la ricca chiusa di una ricchissima vita poetica e mentale. (B. Croce).
* Dopo che Goethe aveva composto il frammentario Urfaust (v. sopra) Friedrich Muller (1749-1825) - noto anche come Maler Müller per la sua attività di pittore - condusse innanzi un Faust che fu pubblicato parte nel 1776, col titolo Situazione sulla vita di Faust [Situation aus Fausts Leben], parte nel 1778 col titolo Vita di Faust [Faust's Leben], ma non uscì mai per intero e restò nella forma di frammento drammatico. Sorto com'era tra quello intellettuale del Lessing e quello umanissimo del Goethe, il Faust di Müller ha l'attaccamento alla terra proprio di uno «Stürmer und Dränger» tutto sensuale, senza ansie di evasione né tormenti filosofici: disgraziato, pieno di debiti, vende l'anima a Mefistofele per riavere il suo patrimonio e godere di nuovo la vita. Dopo dodici anni scadrebbe il termine per poter ritirare il patto o definitivamente dannarsi. Quando, alla corte del re di Spagna, Faust, fatto potente e ricco, s'innamora della regina d'Aragona e sta per dichiararle il suo amore, scocca l'ora fatale. Le scene rimaste rappresentano appunto questo momento culminante, idillico, e il dialogo a forti tinte con Mefistofele, simile alla prima scena infernale, che ha note shakespeariane. Singoli tratti non mancano di poetica efficacia: hanno una certa vivacità di colore e c'è anche qualche accento commosso, però, nell'assieme, il personaggio di Faust è senza consistenza e non riesce a realizzare l'intento dell'autore: la rappresentazione di un uomo che, cosciente di tutta la sua forza e dei lacci della sorte e del destino che lo trattengono, cerca ogni mezzo per spezzarli, non è poeticamente raggiunta. Il Müller, bizzarro pittore di diavoli e suggestivo descrittore di idilli, era temperamento troppo impulsivo e disordinato per poter distaccare da sé la figura del suo eroe in modo da poterla vedere, e il titano sognato rimase poetica larva. G.F.A.
* Vita, gesta e viaggio all'inferno di Faust [Faust's Leben Thaten und Höllenfahrt], romanzo filosofico tedesco di Friedrich Klinger (1752-1831) fu pubblicato nel 1791 a Pietroburgo dove egli era lettore del granduca Paolo. Il Klinger stesso, in una lettera al Goethe del 1814, spiega come fu la sua «inquietudine interiore» a spingerlo a investigare le ragioni dei malanni che infierivano nel mondo politico e morale nel quale egli doveva vivere in contrasto col suo animo. L'opera dunque, come il Faust di Goethe, nacque dalla necessità sentita dall'autore, di rappresentare se stesso a se stesso, da una specie di umile esame di coscienza che conclude nell'assoluta impossibilità da parte dell'uomo di giudicare l'uomo e le sue azioni. Il Faust del Klinger è da principio il tradizionale filosofo mago, ma è, inoltre, l'inventore della stampa e un povero padre di famiglia. Egli s'era illuso che la sua invenzione dovesse esser fonte di felicità per l'umanità e di benessere per la famiglia, ma, con sua gran sorpresa, essa non ha destato invece nessun interesse, così che Faust sotto il pungolo dell'ingiustizia evoca finalmente il Demonio che con riso beffardo gli svela esser l'invenzione della stampa solo un ottimo seme per la dannazione umana, Ossessionato dal mistero del male che affligge l'umanità, Faust chiede al Demonio di mostrargli la verità nell'uomo. Leviathan, il demonio che Satana gli mette a lato, lo conduce allora, ricco e onorato, in una rapida corsa attraverso le città e nazioni d'Europa, togliendogli ogni illusione sulle istituzioni umane. Faust stesso nel mondo dei potenti si corrompe. L'uomo sociale è schiavo dell'oro e dell'invidia, il principe è sempre un tiranno crudele che paga col rimorso la sua tirannia, la Chiesa è corrotta, nessuno si salva dal tarlo che guasta il mondo civile. Non osi l'uomo di voler ricostruire la giustizia in una società dove tutti nascondono il loro vero volto, ché l'azione del malvagio, anche se buona, porta in sé il germe del male e ha nefaste conseguenze. Alla fine del viaggio, Faust, ormai fatto esperto e disgustato dei suoi simili, pentito d'essersi lasciato allettare dalla felicità che offre il mondo, crede di poter ritrovare la pace nella modesta casetta d'un tempo. Ma egli deve ancora vedere le tragiche conseguenze della sua vita dissoluta: il figlio maggiore giustiziato, il resto della famiglia rovinata, per opera stessa di un suo beneficato. Giunto al colmo della disperazione, perduta ogni fede, Faust preda del Demonio vien condotto all'inferno, dove è condannato all'eterno tormento del dubbio senza soluzione, terribile castigo per chi, uomo, non volle rassegnarsi alla dura legge umana e cercò sostituirsi alla misteriosa Provvidenza divina per svelarne il mistero. Il romanzo è quasi un commentario dell'Emilio (v.) di Rousseau e i personaggi declamano il contrasto tra le pure aspirazioni della natura e le influenze deleterie della società, tra l'uomo civile del suo tempo e «il vero uomo, l'uomo della capanna». I potenti sono malvagi al pari di tutti coloro che l'oro tocca. Non mancano in questo romanzo le allusioni dirette ai tedeschi contemporanei, ligi ai tirannici principotti, senza alcun senso per «quella libertà e quei diritti dell'uomo», pei quali in Europa già si battagliava. Il Faust del Klinger è dunque autobiografico come lo fu da un certo punto di vista anche quello del Goethe, ma è l'autobiografia d'un animo tormentato e chiuso che non giunge alla purificazione. G.F.A.
* Una scena Faust scritta da Aleksandr Puskin (1799-1837) nel 1826 è assai notevole per un dialogo tra il protagonista e Mefistofele, improntato a una noia «fin de siècle» e con intonazioni più prossime a Byron che non a Goethe. *
* Christian Dietrich Grabbe (1803-1830) nella tragedia in versi Don Giovanni e Faust (v. Don Giovanni), pubblicata nel 1829, contrappose il nordico Faust al mediterraneo don Giovanni, ambedue assetati di vita fino allo spasimo e ambedue perduti dalla loro brama. *
* L'ultima rielaborazione del periodo romantico è il Faust, poema di Nicolaus Lenau (Niembsch von Strehlenau, 1802-1850). Concepito embrionalmente fin dagli anni studenteschi, e incominciato nel 1834, fu pubblicato in parte nel primo volume dell'»Almanacco primaverile» nel 1835, e terminato nel 1836, usci in edizione definitiva, completata e riveduta nel 1840. Nel 1833, rientrando in patria dopo le amare delusioni dell'avventura americana, Lenau aveva trovata tutta la Germania letteraria ancora sotto l'impressione della seconda parte del Faust di Goethe, appena pubblicato; e al sentimento pessimistico della vita da cui egli era dominato, nulla poteva sembrare più opposto e contraddittorio che la serena fede nella vita in cui il Faust goethiano è redento. Sorse così in lui l'idea di contrapporre al Faust di Goethe un poema suo proprio, in cui egli avrebbe riversato tutta la piena delle sue tristezze e tutto il tumulto dei suoi disperati pensieri. All'inferno - non in Paradiso - doveva finire Faust; e l'indirizzo del poema doveva essere «psicologico-metafisico», «espressione dello spirito della nuova epoca!». La tentazione del suo Faust è difatti il dubbio religioso inteso byronianamente come peccato d'orgoglio. Egli sfida Dio, e, deciso a giungere alla verità anche attraverso il peccato e la colpa, si dà al demonio, il quale prima lo fa passare dall'una all'altra donna procreando creature che nascono morte o che vengono uccise, poi lo fa diventare assassino per amore, rendendolo così nemico, non solo di Dio, ma anche della natura, e, perciò nemico di se medesimo «che morsica se medesimo come uno scorpione». In queste scene erotiche, nelle quali la realtà e il sogno si confondono e i rimorsi si sovrappongono al godimento, Faust perde di vista il suo fine: la ricerca della verità. Lo ritrova solo nelle ultime scene, quando, parlando con un marinaio scampato con lui dalla tempesta, gli invidia quel suo perfetto ateismo, quel suo essere «tutto nel mondo di qua», senza tormento. Ma egli al dubbio non può sfuggire: nell'atto stesso di negare Dio, egli lo sfida, e mentre vuole sfuggirgli, si sente a lui legato quale creatura. Tutti i fantasmi dell'infanzia si affollano attorno a lui, primo di tutti quello della madre. La sua angoscia aumenta, egli dubita ormai anche della propria realtà sostanziale e, perduto, si trafigge. Ma non sfugge così all'inferno, ché proprio ora, in questo suo rinnegare insieme se stesso, la vita e Dio, si fa preda sicura del diavolo. Sono in complesso 45 scene, le quali in vario modo offrono al poeta l'occasione di dare libero sfogo alla effusione del suo «Weltschmerz», in situazioni sempre nuove e diverse. Ma nell'insieme la figura di Faust rimane incerta, oscillante fra un ateismo amaro e scettico e un panteismo spinoziano. Invece in alcune scene - come nel «Corteo notturno» e nella «Tempesta», - l'opera raggiunge accenti di alta poesia, tali da reggere il confronto conte migliori sue liriche. Tradd. di Fabio Nannarelli (Milano, 1890) e di Vincenzo Errante (Roma, 1919). G.F.A.
* Il capolavoro goethiano ebbe durante tutto l'Ottocento un gran numero di trascrizioni musicali. Una delle prime è il «Singspiel» Doktor Faust di Ignaz Walter (1759-1822) cui seguirono le musiche di scena di Anton Heinrich Radziwitt, (1775-1833), stampate nel 1835, ma eseguite in parte nel 1810.
* La prima opera in cui la leggenda appare musicalmente rielaborata è il Faust di Louis Spohr (1784-1859), rappresentato nel 1816 a Praga; dopo l'allestimento di Francoforte nel 1818, l'opera entrò nel repertorio dei massimi teatri tedeschi, inglesi e soprattutto francesi, dove figurò, per oltre un trentennio, tra le opere classiche della scuola tedesca accanto a Weber, Kreutzer, Lortzing. La trama, con dovizia di episodi nuovi e non legati alla tradizionale storia, è sviluppata attraverso un mediocre libretto che ne falsa il contenuto, risolvendo la rappresentazione in una narrazione quasi meccanica. Personaggi sono Mefistofele, Faust, Rosina, pura fanciulla innamorata di Faust, Cunegonda, che langue in carcere per avere respinto l'amore di Faust e che viene liberata dall'amato Ugo. Ma Faust chiede a Mefistofele il potere per conquistare Cunegonda, allontanando, nello stesso tempo, l'amore di Rosina. Così, mentre gli sposi felici celebrano le loro nozze a banchetto, Faust beve il filtro magico dell'amore e si presenta a Cunegonda la quale, trasognata, si rivolge amorosamente a lui. Ugo si crede allora tradito e assale Faust, rimanendo colpito a morte. Rosina disperata si affoga, mentre Mefistofele trionfante si accinge a trascinare Faust nell'inferno. L'opera è musicalmente tra le migliori di Spohr; ma anche qui l'espressione, contenuta entro freddi schemi, non trova quel calore romantico che anima invece le opere di un Weber; e gli accenni a una barocca ricchezza inventiva o a una vibrazione melodica di più libero sentimento, si perdono nella arida costruzione della partitura e nell'eclettismo delle derivazioni. Tuttavia questo rapporto tra forma classica (particolarmente risentita attraverso Mozart) e ispirazione romantica trova nel Faust di Spohr qualche pagina di calda intonazione: come alcune arie, il breve «Adagio» dell'orchestra prima dell'entrata di Faust nel secondo atto e alcuni cori soprattutto, elaborati con misura e sensibilità verso gli effetti armonici vocali. Giova ancora ricordare il tempo di minuetto del primo atto e la «polacca» durante il banchetto nuziale, che furono tra i brani più celebri dell'opera negli anni della sua fortuna. Manca però, in tanta sapienza costruttiva e in tanta ricchezza tecnica dello strumentale, una ispirazione genuina e unitaria: il che giustifica come anche il Faust, al pari delle altre opere di Spohr, sia caduto completamente nell'oblio. L.Ro.
* Seguirono la «ouverture» Faust di Peter Joseph von Lindpaiter (1791-1856) e l'opera dello stesso titolo di Augustin-Philippe de Peellaert (1743-1876), rappresentato a Brusselle nel 1834.
* Notevoli sono anche i sette pezzi che per il Faust goethiano compose Richard Wagner (1813-1883) nel 1832: vi si ritrova già la tendenza al tematico orchestrale e drammatico che, affermatosi poi chiaramente col Rienzi (v.) rifluisce anche nella «ouverture» che per lo stesso Faust il Wagner compose nel 1839-40 e riprese nel 1855.
* Giustamente celebre è La Dannazione di Faust [La Damnation de Faust], opera in quattro atti di Hector Berlioz (1803-1869). Il primitivo titolo era Huit scènes de Faust, con parole in parte adattate dalla versione francese del Faust goethiano fatta da Gérard de Nerval (1808-1855), in parte di M. Gandonnière, in parte del Berlioz medesimo. Sotto il primitivo titolo e in forma di oratorio, l'opera era terminata fin dal 1829, ma venne eseguita all'Opéra Comique di Parigi soltanto il 6 dicembre 1846. Adattata in forma scenica da Raoul Gunsbourg, nel 1893, venne presentata nello stesso anno a Montecarlo e nel 1902 alla Scala di Milano. Ma, in 39 anni, ebbe poche esecuzioni italiane, sebbene tutte con successo assai vivo e incontrastato del pubblico. Hector Berlioz fu, in vita e in morte, il maestro più misconosciuto. L'opera sua è considerata manchevole di «omogeneità, di sceverazione, di determinatezza» e si ammette solo che è strumentata in modo superlativo, forse per il rispetto che impone l'autore del Trattato di Strumentazione. In realtà La dannazione di Faust è opera di netta originalità, paragonabile soltanto, sotto questo aspetto, al Boris Godunov, di cui possiede la varietà disorientante, l'estro impulsivo, il segreto della verità drammatica e quella umanità che si afferma pur nel suo mondo fantastico. Tra il dolciastro Faust (v.) di Gounod e il Mefistofele (v.) del Boito, redatti con tutte le buone regole di composizione, la Dannazione di Faust è l'opera di un artista, romanticamente ribelle. L'inizio: «Al vecchio inverno subentrò l'april»; la ronda dei contadini e la marcia ungherese del primo quadro

Vedi immagine 1

la disperata meditazione di Faust (»io soffro, io soffro»); il coro di Pasqua e l'apparizione di Mefistofele, la canzone della pulce e quella del topo, l'»Amen» fugato per burla; l'aria «Su queste rose», la danza delle silfidi, l'assolo amoroso di Faust; il coro degli studenti, la serenata di Mefistofele e la danza dei folletti; il «Re di Thule» e il «lamento» di Margherita; l'aria, la scena e la caccia nel bosco, la corsa all'abisso, il bailamme infernale, l'ascensione di Margherita, mostrano la grande ricchezza dell'opera. E.M.D.
* Notevolissime sono anche le Scene per il Faust di Goethe [Szenen aus Goethes Faust] per soli cori e orchestra di Robert Schumann (1810-1856). Composte fra il 1844 e il 1853 segnano alcuni dei momenti più alti della musica schumanniana e in più d'una pagina vi è lo stesso afflato poetico del testo. *
* Seguì la Sinfonia Faust [Eine Faust-Symphonie]. Opera sinfonica in tre parti per orchestra, tenore e coro di uomini di Franz Liszt (1811-1886), composta nel 1854-57. Con essa l'autore realizza nel modo più compiuto la sua concezione di «musica a programma»: conviene però, per quanto riguarda questa qualifica, con cui genericamente vengono designate composizioni che hanno legami di parentela fra loro, precisare la differenza che passa fra la concezione lisztiana e quella di un Berlioz. Il riferimento programmatico in Liszt è assai meno preciso e particolareggiato che non in Berlioz: e se quest'ultimo, con la Sinfonia fantastica (v.) - di cui Liszt fece una magistrale trascrizione per pianoforte - aprì la strada a Liszt per la creazione dei suoi poemi sinfonici, questa è stata dal maestro ungherese percorsa in modo affatto personale e indipendente. Il poema costituisce per Liszt il motivo ispiratore, la scintilla iniziale da cui il musicista trae le conseguenze secondo leggi e sviluppi strettamente musicali: il «programma» ha pertanto un'importanza e una funzione assai limitate. Si può dire che l'indicazione di Berlioz è stata interpretata e risolta da Liszt nel modo più logico e musicale possibile. È al Beethoven di Egmont (v.), peraltro, che Liszt dichiara di riallacciarsi nello sviluppo musicale della sua Sinfonia Faust. In una lettera a Lenz, egli segnala infatti l'arditezza novatrice dell'Egmont e dichiara di vedere in questa composizione, sia pure allo stato latente l'esempio di un'ampia e libera concezione musicale, suscettibile di grande sviluppo, lungi dall'isterilirsi in un compiacimento del decorativo e del pittoresco, la «musica a programma» deve perciò mantenere la sua derivazione dalla tradizione classica. Nella Sinfonia Faust, Liszt vuol risalire alle radici del pensiero di Goethe, per dare una sintesi musicale, lirica e drammatica del poema. I tre personaggi, Faust, Margherita e Mefistofele dànno il titolo e il carattere a ognuna delle tre parti dell'opera musicale: Faust, è rappresentato da due temi: il primo ampio e meditativo:

Vedi immagine 2

Il secondo energico e deciso, simboleggiante la decisione di Faust ad agire:

Vedi immagine 3

Il candore di Margherita è rappresentato da un tema, affidato all'oboe, che si svolge con grande semplicità e dolcezza:

Vedi immagine 4

La terza parte, in efficace contrasto con l'atmosfera lirica e commossa della seconda, evoca la figura di Mefistofele con un procedimento realizzato magistralmente: quello della deformazione, ritmica e melodica, dei temi precedentemente esposti. Così la meditazione di Faust (A) sotto lo scherno demoniaco diventa:

Vedi immagine 5

e il suo desiderio di grandezza (B), deriso da Mefistofele si trasforma in questo modo:

Vedi immagine 6

Nel finale, come già nella Sinfonia Dante (v.), Liszt utilizza la voce umana: il coro, dopo il placarsi dei tumulti orchestrali, canta con accenti calmi e sereni le lodi dell'eterno femminino e delle sue virtù redentrici. L'opera audace e grandiosa nella concezione riunisce gli aspetti più sapienti della personalità lisztiana, esuberante e complessa: in essa sono evitati contrasti e squilibri che indeboliscono parecchie altre pagine di Liszt. Nel suo ampio sviluppo la Sinfonia Faust conserva perciò una elevatezza di livello espressivo e una tensione creativa, che integrate da una sostanziosa varietà di linguaggio armonico e timbrico, le assicurano un posto di primo piano nella musica dell'Ottocento. L.Co.
* A Parigi, nel 1859, veniva rappresentato il Faust, dramma lirico in cinque atti di Charles Gounod (1818-1893) su libretto di J. Barbier e M. Carrè, ripreso poi con i recitativi in luogo del primitivo «parlato» e l'aggiunta di un balletto nel 1869; prima rappresentazione in Italia nel 1862. Già da tempo Gounod pensava di musicare un tal soggetto, fin da quando, durante la sua permanenza a Roma nel 1839, il Faust di Goethe era la sua lettura preferita. Inutile ricercare in quest'opera che per molti aspetti segna una tappa decisiva nella storia del teatro musicale francese, una totale espressione del contenuto poetico e metafisico del grande capolavoro tedesco. Gounod si è rivolto soltanto a un episodio unico dell'immenso poema, all'amore di Faust e Margherita, seguendo in ciò la propria «inclination passionnée» per la quale egli sentiva che l'amore è la condizione unica della umana felicità. Questa limitazione a un solo sentimento romanticheggiante, se non risultò una traduzione musicale del poema di Goethe, non ne costituì affatto un tradimento. Messo su questo piano sembra ingiustificato il giudizio sfavorevole emesso da alcuni contemporanei e da alcuni moderni del pari, mentre esso può distogliere da riconoscere nel Faust di Gounod non solo il capolavoro del maestro francese, ma una opera che contiene molte novità rispetto al dramma musicale anteriore. La maniera, così personale di fraseggiare il dialogo con periodi liberamente cadenzati, fondendo parole, melodia e recitativo, l'armonizzazione fluida e quasi sempre di raffinata eleganza, la libertà nel taglio dei pezzi d'insieme, la sobria unione del canto con l'orchestra che talvolta interrompe, tal'altra completa il canto, la tipica forma di una musica religiosa trasportata in teatro, sono caratteristiche mai apparse prima di Gounod e, dopo, largamente imitate. Certo, alcune pagine sono invecchiate, altre sono insignificanti (aria di Siebel, coro di soldati) ma vi sono i momenti culminanti che resistono al tempo e giustificano l'enorme fortuna dell'opera. Il coro delle villanelle e dei contadini, al primo atto, che male sostituisce - secondo Berlioz - il canto pasquale di Goethe, non è senza grazia e freschezza. Al secondo atto, dopo, il corale di ben compreso sapore religioso e dopo il fluido celebre valzer, la frase: «Ne permettrez-vous pas, ma belle demoiselle» ha una innegabile gentilezza lineare, tutta francese. Il terzo atto contiene le melodie più giustamente famose, come la cavatina di Faust: «Salut, demeure chaste et pure» così intima e deliziosa; la canzone del re di Thule preceduta dal piccolo preludio con quelle quinte ostinate a cui si aggiunge una nona formando uno strano accordo pieno di mistero e dal recitativo: «Je voudrais bien savoir quel était ce jeune homme» su di una sola nota, accompagnata da cangianti armonie; il quartetto del giardino così liberamente congegnato; il mirabile duetto che si inizia col bel motivo di Faust: «Laisse-moi» di così pura linea, e termina con l'ardente invocazione: «O nuit d'amour»; infine il canto di Margherita alla finestra, dove al canto estasiato del soprano si uniscono sinfonicamente tutte le voci dell'orchestra (esempio raro nel teatro francese, non si sa perché soppresso nelle edizioni italiane). Nel quarto atto sono da notarsi l'aria di Margherita all'arcolaio anch'essa soppressa nelle edizioni italiane; la scena di Valentino, che alla marcia un po'volgare contrappone il bel recitativo: «Ce qui doit arriver, arrive à l'heure dite» accompagnata da sinistre armonie, le chiusa da efficaci gridi di orrore del coro; infine le scene della chiesa, in cui i canti religiosi, il suono dell'organo contrastano con le imprecazioni di Mefistofele e con i gemiti della fanciulla pentita. Il quinto atto dovrebbe contenere la Notte di Valpurga, che di solito vien soppressa e che offre qualche colore e un canto bacchico adatto alla situazione. Generalmente l'atto si inizia con la scena della prigione, preceduta da un troppo lungo preludio a base di solo di clarinetto, si svolge con un duetto dove appaiono reminiscenze dei temi precedenti e si chiude con un terzetto e con un coro religioso di effetto teatraleggiante. A.Da.
* Meritevole di ricordo è anche l'opera buffa in tre atti e quindici quadri Le petit Faust di Florimond Hervé (1825-1892) su libretto di Hector Crémieux e Adolphe Jaime, rappresentata a Parigi nel 1862. Il dramma di Goethe è parodiato con una «verve» offenbachiana che ne volge in grottesco le situazioni.
* Notevole pure il poema sinfonico Faust Simphonie op. 48 di Anton Rubinstein (1829-1894); di qualche interesse l'opera Faust di Eduard Lassen (1830-1904), le musiche di scena di Max Zenger (1837-1911) e di Wilhelm Fritze (1842-1881).
* In Italia si ebbe il Mefistofele, opera in un prologo, quattro atti e un epilogo; parole e musica di Arrigo Boito (1842-1918). Iniziata nel 1865 e terminata nel 1867, l'opera fu rappresentata a Milano nel 1867. L'esito fu disastroso; così epigrammaticamente Boito ne diede notizia a un amico: «Pim! Poum! Patatrac!». Soppressi alcuni quadri, l'opera fu ripresa a Bologna nel 1875, questa volta con pieno successo. Boito col Mefistofele, usciva dai termini ristretti della cultura musicale italiana di quei tempi e prendeva contatto con la musica europea. A parte il risultato artistico che non può dirsi di grande portata, rimaneva in quel momento la durezza di un atto di polemica d'arte e di cultura. Contro questo avvenne la ribellione. Boito affrontava il melodramma con una genialità musicale infinitamente minore di quella di un Verdi ma con la coscienza che al di là delle Alpi erano esistiti musicisti quali Beethoven, Chopin, Schumann, ed esisteva e lavorava un Richard Wagner. Questa coscienza si riflette nella musica di Boito dando luogo a un'arte spesso di compromesso e tendenzialmente intellettualistica. Ne è segno la scelta del soggetto tratto dal più profondo e pensoso poema della letteratura moderna, il Faust di Goethe. Se Gounod nel suo Faust aveva puntato sulla dolce figura di Margherita e Berlioz nella sua Dannazione di Faust sugli episodi più movimentati e coloriti del poema goethiano, Boito unisce questi elementi attraverso una interpretazione filosofica del Faust; e a redenzione cristiana di Faust e di Margherita. Nel «Prologo» ha luogo il patto tra il Signore e Mefistofele che ha per oggetto l'anima di Faust. Nel primo atto al crepuscolo della Domenica di Pasqua, appare a Faust Mefistofele che gli propone il baratto della sua anima contro i piaceri della gioventù e della vita. Nel secondo assistiamo all'amore di Faust per Margherita che si induce a dare un soporifero alla madre affinché sia possibile un convegno con l'amato. Quindi Faust è condotto da Mefistofele ad assistere al Sabba romantico nella valle di Schirk presso il Brocken, nella quale appare a Faust la visione di Margherita in catene. Nel terzo atto Faust penetra nel carcere dove è chiusa Margherita, accusata di aver ucciso la madre. Ma quando Faust è sul punto di condur via con sé la donna questa riconosce Satana sotto il travestimento di Mefistofele e si rifiuta inorridita di seguirlo. Il suo pentimento la salva. Nel quarto atto Faust si incontra in Grecia, presso il fiume Penejo, con Elena: è una scena che simboleggia la congiunzione tra la bellezza greca e la sapienza germanica, tra la classicità e il romanticismo. Nell'epilogo Faust, rientrato vecchio e stanco nel suo studio, ripensa alla vanità delle avventure corse con Mefistofele: «Il real fu dolor e l'ideal fu sogno». E piegando il capo sui suoi vecchi libri muore redento, come Margherita, mentre Mefistofele si sprofonda nella terra sconfitto. Un coro celeste che inneggia al Signore chiude l'opera così come essa era cominciata. Alla prima rappresentazione scriveva il Tarchetti: «la sua musica non può piacere; non ha melodia, accenna a ogni istante di voler cominciare una frase, poi la tronca bruscamente». Ma tali erano proprio i punti dove Boito aveva assimilato la lezione della musica europea. Tuttavia il compositore non riesce mai a dar vita a un linguaggio musicale che rechi il segno di una personalità veramente nuova. Si pensi per esempio al notissimo «Dai campi, dai prati», del primo atto: teatralmente e liricamente felice, non sa tuttavia superare la netta derivazione beethoveniana della melodia e della sua armonizzazione. Siamo in un'arte di riflesso, dove il musicista non esprime interamente se stesso. E con questa, nel Mefistotele son molte le pagine dove affiora qualcuna delle esperienze musicali europee accostate da Boito. A parte ciò il Mefistolele, oltre a essere un nobile e disinteressato sforzo per uscire dai limiti di una tradizione musicale troppo chiusa in sé e isolata dalle grandi correnti musicali europee, rimane un'opera con pagine assai belle e durature nella storia del nostro teatro romantico. A.Mn.
* Musiche di scena per l'opera del Grabbe Don Juan und Faust op. 56; Prelude ed Fugue op. 85 compose Moritz Moszkowski (1854-1925); altre musiche di scena per l'adattamento del Faust goethiano dovuto a Max Grubes compose nel 1903 August Bungert (1846-1915); altre ne compose Felix Weingartner (1863-1942).
* Una genuina ispirazione trasse dalla leggenda Ferruccio Busoni (1866-1924) nell'opera in tre atti Doctor Faust lasciata incompiuta e terminata da Philipp Jarnach. Prima rappresentazione: Dresda, 1925. Il libretto fu ricavato dallo stesso Busoni dall'antico spettacolo di marionette al quale ricorse anche Goethe. Nel primo quadro Faust evoca nel suo studio gli spiriti di Lucifero: per ultimo si presenta Mefistofele, che si annuncia «rapido come il pensiero umano», e avviene la scena del famoso patto. Seguono l'uccisione di Valentino, fratello di Margherita, e le vicende di Faust alla Corte di Parma, concluse con la sua fuga con la duchessa. Nel secondo quadro, Faust sta discutendo di filosofia quando Mefistofele travestito da messaggero viene ad annunziargli la morte della duchessa e a portargli il cadaverino di un bimbo, frutto dei loro amori. E, mentre tutti inorridiscono, Mefistofele li tranquillizza mostrando che il bimbo non è che un fascio di paglia al quale dà fuoco: dal rogo si leva un'immagine di pura bellezza; e quando Faust fa per afferrarla, essa gli sfugge. Nell'ultimo quadro, dinanzi alla cattedrale di Wittemberg, Faust porge l'elemosina a una mendicante nella quale riconosce la duchessa di Parma che gli porge il bambino e scompare. Disperato, egli si volge verso la chiesa, a chieder rifugio, ma l'ombra di Valentino gli vieta l'ingresso. Fissa lo sguardo sul Crocefisso e il Cristo prende l'aspetto di Elena pagana. Allora, sempre più terrorizzato, con un supremo sforzo di volontà compie l'ultima magìa. Poi cade morto; ma la sua personalità si trasfonde nel figlio morto, infatti dal cadaverino del bimbo sorge un giovinetto, che reca in mano un ramoscello fiorito, simbolo dell'ideale amano, che non si distrugge ma continua nell'umanità. Passa il guardiano notturno, che non è altri che Mefistofele, e si carica sulle spalle il cadavere della sua vittima. In quest'opera, che è la più significativa e rappresentativa dell'estetica busoniana, l'interesse del libretto non è minore di quello della musica, data la straordinaria potenza d'immaginazione e la vivezza con cui sono contrapposti i due personaggi di Mefistofele (che in fondo rappresenta l'uomo dall'umanità finita e limitata) e di Faust, che rappresenta l'intelletto che si fa azione, il sovrannaturale che è nell'uomo e che dura anche quando la sua essenza terrena si distrugge. Musicalmente l'opera è ricca e geniale anche se difetta per eccessiva intellettualità, giacché attua pienamente il principio busoniano della musica d'opera come espressione musicale in se stessa conchiusa, che può aderire solo a quel determinato soggetto poetico per cui sia stata creata, ma che non si limita a descrivere o a sottolineare ciò che la scena può render da sola. L'»Introduzione», la magnifica «Sarabanda», che fa da intermezzo fra il primo e il secondo quadro, le magiche note che annunciano i vari sortilegi di Mefistofele, sono fra le pagine più belle di quest'opera, notevole anche per il sicuro possesso dei mezzi di esecuzione che Busoni rivela. L.FU.
Il Dott. Faust è il credo d'artista di Busoni, fatto opera. È veramente la conclusione e il riassunto della sua vita lirica, nella totalità dell'idea e dell'esecuzione, in poesia e in musica. (G. Pannain).
* Ricordiamo da ultimo la trilogia Faust, Don Chisciotte, San Francesco d'Assisi di Charles Tournemire (1870-1939); le musiche di scena di Leopold Reichwein (n. 1878) del 1909, e di Max Richard Albrecht (n. 1890); il Faust di Florent Schmitt (1870-1958), rappresentato a Parigi nel 1912.