GINO AGNESE

BOCCIONI A MOSCA
E A SAN PIETROBURGO


A Mosca si ferma tre giorni. Sta con alcuni studenti, conosciuti a Parigi o a Tzaritzin. E fa presto a considerare come gli amici della lontana città del basso Volga, che s'è lasciato alle spalle, possano ritenersi fortunati, per la temperatura atmosferica, naturalmente, ma anche e soprattutto per quella politica e sociale in cui vivono. A Mosca, sì che si capisce che cosa è successo in Russia l'anno precedente; sì che appare chiara la derivazione dei colpi e dei contraccolpi che insanguinano le cronache. È tale la tensione, sulle rive della Moscova, che la gente teme persino la bonaccia, come foriera di sicura tempesta; questo, perché tutti gli eventi paiono seguire un corso di inevitabilità e sembrano avviati a un esito fatale: la rivoluzione, chissà come e chissà quando; la rivoluzione che, qualche decina di giorni prima, si annunciava anche nei canti dei diciannove marinai fucilati a Kronstadt, mentre al gelo, legati ognuno a un palo, intonavano cori attendendo che arrivasse il plotone d'esecuzione.
Altrettanto, nel breve soggiorno a Mosca, Boccioni può collaudare le idee che sinora s'è fatto sull'arte contemporanea russa; le idee che sin qui ha maturato incontrando persone, osservando dipinti e sfogliando libri a Tzaritzin, che anche per il gusto e gli indirizzi della pittura dipende abbastanza da Saratov, il capoluogo del Governatorato, sede di una reputata Scuola di belle Arti e di un'attiva Società degli Amatori. Ma altro che collaudare quelle idee. Chiacchierando e discutendo con i suoi compagni e con altri giovani nel Gallo Rosso, nello Slavjanskij o in qualcun altro dei caffè preferiti dagli artisti, visitando in compagnia la Galleria Tret'jakov, leggendo la rivista «Zolotoe Runo», che tra le righe parteggia per i protagonisti delle sommosse del 1905, Boccioni si accorge che certe sue conclusioni vanno rivedute, poiché specialmente tra gli artisti della sua età, e fra quelli più giovani ancora, il realismo e il simbolismo, cioè le due colonne portanti dell'arte russa vengono criticati; e si ha l'impressione di un ribollimento, si avverte che qualcosa di nuovo è alle porte; ma non si sa bene che cosa debba scalzare la vecchia maniera veristica degli Ambulanti e la pittura mistica, irreale degli allievi di Michail Vrubel'.
Questa sensazione di vigilia Boccioni la coglie anche a San Pietroburgo, dove arriva il 9 ottobre del calendario russo, arretrato, come s'è detto, di tredici giorni rispetto al gregoriano. E stato un viaggio trascorso nell'apprensione, perché si rinnovano e si moltiplicano gli attentati ai treni. Nella capitale è ospite di un parente dei Popoff, un professore dell'Università, chiusa dopo i subbugli studenteschi. E dunque, per quasi tre settimane - tanto durerà la sua permanenza - non solo ha la possibilità di frequentare dei coetanei, artisti o letterati; ma ha anche il modo di awicinare ambienti della cultura accademica e ormai riconosciuta, nei quali il francese, che egli parla e intende alla buona, ma fruttuosamente, e di comune conoscenza.
Per l'appunto, Boccioni viene a sapere che diversi giovani talenti delle arti e delle lettere hanno preso la via di Parigi, e che altri vogliono prenderla, persuasi che le grandi novità del nuovo secolo fioriranno là, se non a Monaco o in Italia. Certo è un po' buffo che egli quella via l'abbia fatta alla rovescia; ma al di là di questa considerazione sorridente, resta il fatto che l'attuale arte russa non è all'altezza di quella dei decenni passati, che si ammira per esempio nel Palazzo Michailovskij, opera di Carlo Rossi, uno degli architetti italiani che disegnarono molto del meglio di San Pietroburgo. Gli stessi maestri, come il vecchio Repin e il già maturo Serov, non sono all'altezza del proprio passato; e benché intuiscano che i tradizionali statuti della pittura vanno abbandonati, tuttavia ad essi restano legati, sia pure concedendosi una maggiore libertà espressiva. Di qui il desiderio di nuovi orizzonti, che ha già condotto a Parigi alcuni artisti gravitanti attorno alla rivista «Mir Iskusstva», la quale quest'anno ha ceduto il suo posto e il suo ruolo a «Zolotoe Runo», che per appagare quel desiderio è nata bilingue; di qui la voglia di trasgressione, se non di rivoluzione, che Boccioni scorge nei giovanissimi - pittori, scultori, letterati, critici - con i quali gli accade di conversare. Ma le loro opere, a ben vedere, sono molto meno interessanti della loro infuocata conversazione: e pur sempre, in un modo o nell'altro si rifanno al realismo o si consegnano a qualcuna delle tendenze del simbolismo; «che mi piacciono in pochi o che non ho mai tentato», dirà Boccioni.
Invece, la rivoluzione politica cova episodi che sconvolgono la scena civile di San Pietroburgo, le esplosioni tengono dietro ai discorsi, la repressione indiscriminata tiene dietro alle gesta dei rivoluzionari, ai quali spesso si frammischiano banditi e squilibrati. Per caso, una volta, Boccioni capita nel bel mezzo d'un esproprio, come nel gergo dei rivoltosi vengono chiamate le rapine; rimane colpito dalla devastazione che c'è tutt'intorno e così ne scriverà poi al padre. «In questa città ho visto, la mattina dopo, il luogo dello scoppio delle tre bombe contro i furgoni del denaro dello Stato. Se tu avessi visto! Tutto rotto, tutto crivellato di palle. I vetri delle case erano frantumati per cento e più metri in tutte le direzioni». È una straordinaria esperienza quella di vivere nei luoghi e tra i fatti che i giornali di tutto il mondo racchiudono nei loro titoli; ma Boccioni non si lascia coinvolgere dagli avvenimenti che si producono sotto i suoi occhi; come se temesse di scomparire nel contesto; come se non volesse correre il rischio d'innamoramenti - gli ideali della politica - che potrebbero strapparlo all'arte, il suo amore.
Alla fine di ottobre - nevica e il freddo gli è insopportabile - parte per l'Italia. Ha pochi soldi in tasca e ha potuto pagare il biglietto ferroviario solo grazie a un sussidio di 40 rubli datogli da una società di beneficenza della capitale russa, i cui esponenti hanno tenuto conto della sua condizione di artista poverissimo e di straniero di buona famiglia. Fa sosta a Varsavia e poi si ferma due giorni a Vienna, dove viene a trovarsi di nuovo in difficoltà. «Allora? Andai al Consolato italiano» racconterà al padre, «e mi dettero 10 corone d'oro. Così l'ultimo giorno all'estero lo passai allegramente. Comprai più roba che potei e arrivai di notte a Pontebba con 4 lire. Ne nascosi tre in una tasca, andai dal delegato e gli dissi che volevo recarmi a Padova. Ma egli, vedendo che avevo domicilio a Roma, mi obbligò a partire per Roma. Io finsi di accettare, presi la richiesta e le spese. Ma siccome dovevo pernottare a Udine e viaggiavo da due giorni, qui giunto mi trovai una buona trattoria e un ottimo letto e me la passai come un signore con i soldi del governo. Partito da Udine all'alba, arrivai a Padova alle 9, stracciai il biglietto e buona notte. Ora eccomi qui con un viaggio immenso e con una voglia straordinaria di lavorare».

AGNESE, pp. 116-119, senza alcune note.