RILKE E BUSONI
nei ricordi di Magda von Hattingberg
(Benvenuta)

Il carteggio Rilke - Magda von Hattingberg 

Recensione al carteggio di Max Lorenzen

Rilke è stato da noi nella casa di Grunewald; ha stretto una sincera amicizia colla signora Delbrück, proprio come speravo. Infatti chi potrebbe non amarlo? E chi saprebbe sottrarsi al fascino di quella donna, così eccezionale e materna? Era bello vederli insieme; e Rilke si sentiva tanto a suo agio da noi, che fu subito cordiale e disinvolto anche cogli altri, come se li conoscesse da tempo. C'erano due dei figli della signora Delbrück, Betti e Teo, alcune giovinette e il figlio maggiore di Ferruccio Busoni, Benni [Benvenuto], un giovane di una bellezza raggiante. La signora Delbrück ci raccontò uno stranissimo avvenimento della sua vita, mostrando, in rapporto con questo, un'incisione di Max Klinger che, come diceva, era conosciuta solo da pochi. Fu una serata bella e felice. Rilke non parlò molto, era seduto lontano da me, ma ci sentivamo vicini in un'intima miracolosa comprensione. A volte par che indovini ciò che si pensa, perché risponde spesso a domande neppur formulate, con una prudente naturalezza a lui propria. I bambini gli voglion bene, Betti gli posava ogni tanto la sua piccola mano sul braccio, ed egli le sorrideva, facendola arrossire dalla gioia. Nel congedarsi Benni mi domandò se saremmo andati il martedì a sentire alla Philharmonie il Concerto in mi bemolle maggiore di Beethoven, suonato da Busoni. Avevo già i biglietti per quella serata e dissi a Benni che mi sarebbe piaciuto tanto far conoscere Busoni a Rilke. Benni mi assicurò che suo padre ne sarebbe stato contentissimo, che stimava molto le opere di Rilke, chiamandolo il “musico delle parole”.

Pomeriggio nella “stanza di Andersen”.
Ho portato delle paste e delle mele; poi ho apparecchiato con gusto la tavola e preparato l'acqua per il tè. Rainer si dimostra molto grato per queste attenzioni. “Un uomo non dovrebbe mai sapere come si allestisce un desinare”, diceva, quasi per scherzo, ma so che gli costa molta fatica procurarsi tutto da sé.
Parliamo molto del prossimo concerto. Vorrebbe sapere qual è l'aspetto di Busoni, e io gli ho descritto la sua personalità, la sua casa, la sua ammirevole moglie e il periodo che passò a Vienna coi suoi scolari. Rilke è tutto contento di sentirlo suonare; gli è venuto ad un tratto “tanto coraggio per la musica”. “Non è molto, ho letto l'Estetica della Musica di Busoni”, mi disse, “mi è parsa meravigliosa, anche il suo modo di scrivere in tedesco è veramente perfetto in sé - e
straordinario, se si pensa che è un latino”.
Gli racconto che nessuno sa interpretare Bach e Beethoven in maniera più “tedesca” di lui e così grandiosamente, ad eccezione forse di Casals, con cui avevo avuto spesso la fortuna di suonare insieme e che è un latino anche lui. Parliamo dei grandi uomini e del loro destino; più tardi Rainer si rammenta di aver pregato la signora Delbrück di scrivere per lui l'episodio che riguarda Klinger. Ho lo scritto già con me. Rainer me lo legge ad alta voce, e così riviviamo nello spirito questo evento eccezionale:
“Amici miei. Vi ho fatto vedere stasera un'incisione di Klinger, che non conoscevate: la figura di un morto avvolta in un lino bianco, tutta distesa su di un letto. Il volto, soffuso di una profonda sublimata pace, vi sembrò come abbandonato in una sacra fiducia nel sonno eterno. Mi avete domandato chi fosse. Era un amico molto intimo di Klinger, un uomo che amava l'arte sopra ogni altra cosa, che si dedicava agli artisti, aiutandoli con tutto il suo fattivo amore per le loro creazioni, ch'egli intuiva con sicurezza infallibile in ogni eletto. Klinger, lui ed lo ci conoscevamo da diecine di anni; si viaggiava spesso insieme; non passava quasi autunno in cui non ci s'incontrasse in Italia. Una volta ci recammo insieme a Roma e andammo, pochi giorni dopo il nostro arrivo, in gita a Frascati, per passarvi una settimana. Tutti i giorni si saliva fino a Tusculum, da cui si vede scintillare in lontananza, dietro la campagna romana, come un nastro, il mare. Klinger disegnava parecchio, aveva allora in mente un Ulisse - ci faceva leggere ad alta voce Omero; erano giornate felici. La mattina del nostro ritorno a Roma, Klinger e il suo amico, quel giorno più allegro e vivace del solito, si separarono da me, per andare alla loro abitazione, coll'intesa di ritrovarsi nel pomeriggio in casa di Klinger per andare poi a Villa Borghese. Stanca del viaggio per la campagna infuocata dal sole, mi addormentai dopo pranzo, svegliandomi soltanto quando l'orologio sul camino suonò le cinque. In fretta mi misi in cammino; Klinger abitava a distanza di poche contrade soltanto.
Il portone della villetta non era chiuso, salii le scale stupita di trovar tutti gli usci aperti; chiamai, entrai, traversai la prima stanza e d'improvviso, fui presa da una grande angoscia, poiché nessuno mi rispondeva; penetrai nella stanza successiva - e sopra un letto vidi stesa, immobile, una forma umana avvolta in un lino bianco; sul volto, soffuso di una pace sovrumana, aleggiava un sorriso lontano ed estraneo - - era il volto dell'amico che poche ore prima mi aveva salutato lieto e felice. Vidi allora anche Max Klinger. Sedeva immobile con in mano una matita, lo sguardo, come spento dal dolore, fisso sul volto dell'estinto, e disegnava; mi resi conto a poco a poco di quel che era successo, compresi anche la parte di quell'uomo seduto, pietrificato dal dolore che - artista anche in quella circostanza - rendeva al morto l'ultimo onore creando, per mezzo suo, quell'opera commovente che oggi vi ho mostrato”.
“Che magnifica fine fu quella dell'amico! Nel suo sonno eterno tutto l'andare e venire, tutte le sofferenze umane non lo toccavano più” disse Rilke commosso. Poi parlò ancora a lungo di uno dei pensieri fondamentali della sua vita: che cioè ogni uomo dovesse morire della morte sua, misurata solo per lui, maturata in lui durante tutta la sua vita: “....A Firenze a Bologna, Venezia e Roma, ovunque, sostavo dinanzi alle lapidi, come uno scolaro della morte, e mi lasciavo educare. In tutti i paesi le cercavo e dinanzi alle tombe dei giovani mi commoveva la loro generosità: avevano trovato il tempo di amare una ragazza senza temere che questo dispendio di forze potesse essere eccessivo per il poco tempo serbato a loro”...

Ieri sera, alla Philharmonie, stavo in pensiero per Rilke; quali sarebbero state le sue reazioni dinanzi a quella gran sala, a tutte quelle persone estranee, e soprattutto alla maniera di suonare di Busoni? Un pianista come lui è sempre un'esperienza nuova e impreveduta. È facile immaginarsi che qualcuno, ascoltandolo, per la prima volta, possa rimaner sbalordito, direi quasi soffocato dalla violenza del suo genio. Quando suona, è sempre il destino che parla, una suprema affermazione, l'elevazione a sfere più alte, grido e silenzio, il fiammeggiar d'ogni vita, una straboccante esultanza e preghiera appassionata. Pensavo: come sopporterà Rilke tutto ciò? La sua scontrosa natura sarà capace di sopportare l'improvviso presentarsi di una simile esperienza? La mia paura fu smentita in maniera meravigliosa, e non so cosa fosse per me più bello: il sentir suonare Busoni od osservare Rilke mentre ascoltava. Pareva quasi che queste due nature, così diverse, si completassero in un perfetto equilibrio, del dare e dell'avere. Una volta, durante un intermezzo orchestrale in cui li pianoforte non suonava, Busoni rivolse lo sguardo su di noi, mi salutò cogli occhi, e squadrò Rilke, come guarda soltanto qualcuno per cui prova uno spontaneo interesse. Non sospettava neppur lontanamente chi mi stesse accanto - Benni non aveva detto nulla - ma doveva aver intuito subito di trovarsi dinanzi a un uomo eccezionale.
Durante l'Adagio, uno stupido caso, che prima mi inquietò, ebbe poi il più grazioso epilogo; dietro di me sedeva una vecchia signora che si mise, proprio durante uno stupendo pianissimo del pianoforte, a scartocciare clamorosamente delle caramelle e dei cioccolatini; frugava nella sua borsetta di seta e non smise neppure quando mi voltai, guardandola un po' con aria di rimprovero. Nell'intervallo dissi a Rilke: “È proprio incredibile che ci si metta ad armeggiare con della stagnola durante il concerto; che mancanza di riguardo verso l'artista e il pubblico!”.

Alla fine del concerto, mentre ondate d'entusiasmo facevano fremere la sala, d'un tratto la vecchia signora appare dinanzi a me, fa un grazioso inchino dicendo: “Le sono veramente molto grata per la lezione che mi ha dato, il mio nome e signora Schultheiss, abito alla Dörnbergstrasse al numero sei; la prego di farmi il piacere di venire domani sera a pranzo da me, desidero molto conoscerla; vengono anche d'Albert e Marteau, probabilmente anche Maria von Bunsen ed altra gente interessante”. Toccò a me ora scusarmi, ma la vecchia signora m'interruppe quasi subito e ci separammo con un cordiale “arrivederci”. L'avrei quasi abbracciata!

Stamani con Rainer nel giardino zoologico. Abbiamo parlato del concerto; egli ha trovato Busoni superiore a ogni aspettativa e ha detto delle cose magnifiche su Beethoven. “... come ho capito che Beethoven doveva esser solo per creare simile opere! In favore della sua musica gli venne tolto coll'udito l'ultimo interlocutore, perché stormisse ormai come la foresta vergine e dimenticasse ch'era possibile essere un altro, che ode la foresta vergine e ne ha paura.... ”.
Si parlò anche con soddisfazione della signora Schultheiss e delle sue caramelle, che ci procurarono poi il piacere di una così cara conoscenza. Rilke era incantato di questo caso e quando confessai di essermi portata molto scortesemente, quasi s'inquietò: “Mi pare anzi che tutto si sia svolto in maniera giusta e corretta! È come un conto angelico che si pareggia senza resto. Ed è stato bello quando ha fatto il suo nome, quasi invitando, coll'autorità di una vecchia signora,` tutta fa famiglia a riconoscere il suo torto, a fare ammenda e a chiederti scusa. Credimi, Benvenuta: oh se gli uomini si guardassero sempre così, in faccia direttamente dal fondo più lontano del loro splendore, pieni di gioia o d'ira - uno dopo l'altro finirebbe per dire, spaventato, il proprio nome e per correggersi - ma invece, come si guardano? Ed ecco che allora si sentono scartocciar caramelle e cioccolatini o tutto quel che vi può essere in quelle loro borsette, che molto. a proposito, secondo me, vengon chiamate Ridicule! ”.

Caro Rainer, domani, quando verrai a pranzo da noi non ci sarò. Perdonami, ma devo recarmi la mattina presto a Potsdam e vi resterò probabilmente tutta la giornata; vi è là il Dottor B., con cui devo trattate la serata ad Amburgo; non vuole un concerto di musica moderna, desidera invece che suoni il concerto in sol maggiore di Beethoven. Ho pensato a tutte le sublimi cose che mi dicesti a proposito del grande Maestro e studierò e suonerò ora il concerto con un intendimento completamente nuovo. Rinuncio volentieri a Ciaikovsky, non è che un pezzo di bravura e l'ultimo tempo è tutta una corsa sfrenata, proprio di tipo sarmatico. L'avrei suonato soltanto perché il Dottor B. me lo aveva chiesto, ora però tutto il programma sarà cambiato: da principio l'Ouverture del “Coriolano”, poi il concerto per pianoforte e alla fine l'Eroica; sarà quindi tutta una serata beethoveniana. Ne parlai ieri con d'Albert, che trova il programma molto bello. […]
I Busoni hanno invitato Rainer e me a colazione Domenica. […]
Domenica da Busoni.
Chi ha visto una sola volta questa bella dimora, non la dimentica più. La casa, situata in piazza Vittoria Luisa 11, è un edificio come molti altri a Berlino, ma quando si son salite le tre scale e s'è suonato il campanello alla porta d'ingresso, si ha ogni volta una sensazione particolare e sempre piacevole quando si passa dall'oscuro vestibolo nella sala da musica: un vano con due grandi e neri pianoforti Bechstein a coda, uno vicino all'altro. Sopra di loro, sull'ampia parete, su un fondo di velluto verde, un Budda d'oro. Nel vano ad arco della finestra un sedile con guanciali, di faccia un armadio e alcune poltrone. Accanto c'è la biblioteca. Il bellissimo ambiente è tutto rivestito in legno, degli enormi scaffali aperti nelle pareti, raggiungono il soffitto col loro prezioso contenuto: prime edizioni, bellissimi volumi rilegati in pelle, letteratura spagnola, E.T.A., Hoffmann, Balzac, Goethe, Ariosto, Dante: la vita spirituale di tutti i paesi e di tutte le parti del mondo. Sui tavoli ci sono libri nuovi, riviste d'arte, mucchi di giornali. - Ecco Busoni che scende dal suo studio, la “Torre”, saluta Rilke con quell'affabilità piena di latino rispetto, che ha veramente qualcosa di affascinante. Quando si danno la mano, è come se due mondi si salutassero: il musicista, ch'è presente e insieme futuro, “un continuo ricominciare”, come egli dice di se stesso, e il poeta che spia il passato (“L'infanzia, dove sarà mai andata?”). Busoni, un uomo pieno di fuoco, spiritoso, ottimista, disposto a ridere, ingenuo, superstizioso; invece Rilke timido, chiuso in sé, ricco di una severa e angosciata sapienza della vita, riflessivo e quieto, d'un umorismo che solo a momenti s'illumina; Busoni che allontana da sé tutto quel ch'è appassito e sepolto nel passato, si sente intimamente pieno di gioventù e vive colla gioventù; Rilke che raffigura l'effimero, i poveri, i disprezzati, e conosce il dolore di tutte le creature ed anche la beatitudine di chi supera e crea. Ma questi due uomini così diversi tra di loro, sono uniti dalla coscienza e dal rispetto per la loro vocazione, dalla comprensione di ogni esistenza. E ciò fu manifesto nell'istante in cui si strinsero cordialmente la mano e in questo senso superiore divennero amici.
La signora Busonì ci raggiunse e ci si mise a tavola. Sul desco apparecchiato con cura la “tavola rotonda, ch'è sempre troppo piccola” c'erano dei fiori primaverili e calici di cristallo verde. Venne servita la minestra e Busoni, nello spiegare il tovagliolo, disse allegramente: “Oggi avremo un dolce speciale: dei 'Wuchteln' víennesi! ”. S'era fatto dare a Vienna la ricetta di questo dolce preferito; le cuoche, via via che si succedevano, dovevano imparare a farlo e veniva offerto di preferenza quando c'erano degli ospiti austriaci. Una discussione su Metternich e la grande Alleanza, non portarono pregiudizio al dolce, ch'era squisito, píeno di 'Powidl', dono di certi amici boemi!
Dopo pranzo si prese il caffè nella biblioteca; il discorso cadde su Marcel Proust e il suo nuovo libro “Du cóté de chez Swann”. Busoni lo trovava buono, per quanto un po' lungo. Rilke non era pienamente d'accordo: “La seconda parte, nonostante alcune felici trovate, mi sembra quasi noiosa, spesso e soltanto un 'romanzo' uno di quelli che i francesi non possono fare a meno di produrre una volta con un senso, un'altra volta con un altro ”, diceva. “Solo quei punti, verso la fine, sulla frase nella sonata e sulla musica che risuona qua e la, a intervalli irregolari, sugli innumerevoli tasti dell'universo - solo quei punti appartengono forse a quanto c'è di meglio in tutte quelle, fin troppo fitte, pagine. Certo, ai difetti di questo libro si oppongono cento pregi, che in una scala di toni e semitoni, passano da quel ch'è solo divertente a quel ch'è veramente significativo”.
Rilke parlò poi con Busoni della sua “Nuova estetica della musica” e s'interessò specialmente delle possibilità sonore di un sistema più ampio formato da quarti di tono; si parlò a lungo di vecchie e nuove teorie, della “Brautwahl”, dei progetti di Busoni per un'opera e del testo della “Turandot”. In ultimo, poiché Busoni disse di amare in modo speciale la “Piccola marina” della raccolta “Nuove poesie”, Rilke la recitò. La diceva a memoria, con un ardore interiore contenuto, come solo lui sa parlare. Indimenticabili rimarranno per me sempre il suo volto calmo e un po' inclinato, il suono della sua voce, che dava nuova vita alla poesia; i versi ch'erano musica e insieme immagine: “Antico soffio spirante dal mare, vento marino di notte” lo declamò con tanto ardore, che pareva sentire il forte odore del mare e la tempesta notturna “che strappa da lontano lo spazio...”. E con qual, giubilo contenuto si chiude la poesia: “....Oh, come ti sente, un rigoglioso fico, lassù nel chiaro di luna”.
Busoni sedeva silenzioso, un po' piegato in avanti, tutto assorto nell'ascoltare... dopo non si parlò che poco e presto ce ne andammo, perché per la sera erano attesi altri ospiti. Due personalità, due mondi si sono compresi l'un l'altro; la signora Busoni disse, accompagnandoci alla porta e salutandoci: “Ferruccio è stato tanto contento!”.

Rainer, la signora Delbrúck ed io, siamo stati oggi dopo pranzo al circolo Lyceum, dove dovevo suonare.

Incontro con Busoni a Parigi

Il sole era tramontato; era ormai tempo di andare alla stazione. Si passò per una lunga strada dritta, che sbocca dopo un dolce giuoco di scesa e di salita, nella tue de Paris. Alla luce di tutti quei lampioni sembrava un arco d'una costellazione. Rilke la chiama il ponte sospeso. Prima che arrivasse il treno guardammo le fotografie nella sala d'aspetto: Peau, Orléans, Chartres; magnifiche chiese, pittoresche vecchie strade. Si vorrebbe andar dappertutto!
A casa trovai un telegramma della signora Busoni che diceva: “Arrivato!” Doveva esserci stato anche monsieur Juin, perché nel vaso bleu c'erano delle rose boraccine. Il loro profumo delicato si univa alla gioia di sapere che i Busoni erano arrivati! Lo dissi subito a Rilke, quando lo raggiunsi nella sala da pranzo e insieme si lesse il programma della serata di Busoni nel “journal des Debats”.
Il concerto in abbonamento Sechiari ha luogo nel Palais des Fêtes e vi partecipa anche un violinista. Avrei preferito ascoltare soltanto Busoni, ma i parigini amano “la varietà” nei concerti. Purtroppo! Rilke mi ricordò che i concerti qui, come a Londra, cominciano alle quattro del pomeriggio; ci si va in abito da passeggio; gli uomini tengono il cappello in capo e negl'intervalli si passeggia per la galleria e per i corridoi.
Le giornate sono piene di sole e calde. Tutto è in fiore. Per le vie ci si vede offrire tuberose, violette di Parma, mimose e grandi garofani profumati, dallo stelo lunghissimo. Dei nontiscordardimè occhieggiano luminosi in cestini tondi,di vimini, e viole del pensiero e giacinti, d'un intenso viola cupo insieme a violacciocche, d'un rosso rame e d'un giallo oro, fanno bella mostra di sé: una vera orgia di colori. Nelle chiese gli altari sono ornati di gigli freschi; dinanzi alle immagini dei santi stanno inginocchiate giovinette in raccolta preghiera. Il sentimento religioso cattolico sembra radicato profondamente nel popolo vero e proprio di questa città, nota per la sua mondanità e frivolezza.
Ho visto molto, girando per la città: la torre di St. Jacques, la più bella costruzione della sua specie; palazzi del tempo del Re Sole e la St. Chapelle colle sue vetrate famose. Rilke dice che le vetrate della cattedrale di Chartres son ancor più belle, ma io non riesco ad immaginare che ve ne siano più magnifiche di queste, che sono unite tra di loro da sottili colonne. Sopra l'altare maggiore si possono ammirare, nella volta e nel coro, archi acuti e lavori di intaglio - e com'è delizioso il rosone, fratello minore dei due rosoni di Notre Dame, ma più delicato! - Hanno sopravvissuto alle tempeste delle guerre e delle rivoluzioni, come il pensiero immortale di una grande civiltà.
Ritornando a casa presi i biglietti per il concerto e all'ingresso dell'albergo trovai Rilke.
“D'Annunzio sarà oggi da Busoni”, mi disse, “ma non so se avrai voglia di vederlo.”
No, non desideravo far nuove conoscenze qui, e Rilke lo capiva perfettamente. Ma qualcosa gli pesava ancora sul cuore: “Se vedi per caso una giovinetta - durante il concerto, voglio dire - che mi saluta e che mi parla, ti prego, sii buona con lei”.
“Oh! Volentieri, chi è?”
“È Marta, mi è difficile spiegarti chi sia, è meglio tu la veda da te. È una povera creatura, molto giovane, di sentimenti molto fini, e intelligentissima, sensibilissima a tutto ciò ch'è bello; si può proprio dire: un cuore puro in un corpo avvilito da un mestiere spregevole e odioso.”
A casa mia non s'era parlato mai di certe donne; la nostra educazione, estremamente rigida, non ci aveva fatto nemmeno sospettare l'esistenza di tali creature; ed anche quando mia sorella ed io fummo ormai grandi, si sentiva soltanto per caso parlare di “ragazze cadute”, un'espressione che, all'età di sedici e diciotto anni, non si comprendeva ancora bene ma che ci pareva orribile e suscitava in noi grandissima pietà.
Fu Rilke che mi fece conoscere per la prima volta la storia di una di quelle povere creature, una storia in verità assai triste.
Una nobil donna tedesca, la signora Wendl, si era interessata a Marta, l'aveva tolta da una casa malfamata; ma gl'istinti ciechi e malvagi della ragazza la facevano sempre sortire da un'atmosfera di vita ordinata. “Ora vive con un russo, che la picchia” raccontava Rilke “è disperata, ma nonostante ciò, non riesce a staccarsene. Viene a volte da me e si fa prestar dei libri. Coltiva dei fiori, è affezionata ai suoi uccellini addomesticati - l'ho portata nei Musei e le ho dato buoni libri da leggere; la sua gratitudine infantile è commovente. Non puoi immaginarti quante possibilità esistano in lei, quale larghezza di vedute, quanta bellezza e comprensione - eppure non riuscirà mai a liberarsi. Forze oscure e terribili hanno il predominio su di lei. Soltanto a te posso parlare della sua vera vita; chi altri accetterebbe amorevolmente nel suo cuore tutte queste contraddizioni? Persino la princìpessa Maria, a cui ho parlato molto di Marta, crede che ne sia innamorato. È così che inganno i miei amici più intimi. È forse giusto? ”
“Chi è la principessa Maria?” gli chiesi. Non osavo parlare del destino di Marta, né dirgli come ne fossi rimasta sconvolta, ma Rainer lo lesse nei miei occhi, mi fece un cenno affettuoso e disse poi, tutto assorto: “Già, immagino sempre che tu conosca tutti i miei amici, sei entrata tanto nella mia vita che mi sembra non ci possa esser più nulla che tu non conosca!”
Così venni allora a sapere che la principessa Maria era l'amica materna di Rilke, che si chiamava Thurn e Taxis e viveva quasi sempre nei suoi possessi, un po' in Boemia e un po, nel suo castello a Duino, sull'Adriatico. Duino era un prodigio di bellezza e di pace, circondato da una natura amena e grandiosa.
“Ci vorrei andare una volta insieme a te”, disse Rilke, “là c'è il mare e nella sala bianca, il pianoforte a coda su cui ha suonato Liszt; quella è la patria e l'origine delle “Elegie” - che forse non porterò mai a fine.”
Il suo volto, il suo sguardo, s'erano come spenti d'improvviso, ma solo per un istante, poi, passandosi una mano sugli occhi, domandò: “Vogliamo andare?”
Sulla strada per arrivare alla sala del concerto, si capitò.in una gran piazza d'aspetto un po' antiquato: la piazza del mercato degli uccelli. In centinaia di gabbie grandi e piccole eran messi in vendita uccelli che cantano. Nella gran piazza si sentiva un continuo trillo, un cinguettìo, un frullìo d'ali e un intrecciarsi di voci, tanto che ci fermammo; Rilke era come affascinato, non riusciva a staccarsi di lì e tra poco si perdeva l'inizio del concerto. - Il “Palais de Fêtes” è un edificio di molto cattivo gusto. Sembra di entrare sotto la volta di una piscina coperta, di un grandioso baraccone o di un “Paese delle Meraviglie”. I vari ingressi della sala sono privi di porte, vi sono soltanto delle tende dinanzi a cui stanno, con delle lance, delle maschere vestite con stoffe di colori smaglianti. Se ci si avvicina ad una di queste entrate, le maschere incrociano le armi e soltanto quando si è mostrato loro il biglietto, fanno passare, scostando le tende. Rilke non c'era mai stato ed era tutto costernato che Busoni avesse da suonare in questa specie di circo equestre. Le poltrone erano numerate in fondo, sulle traverse, e così, soltanto dopo alcuni infruttuosi tentativi, trovammo i nostri posti. La mia sorpresa aumentò ancora quando vidi nella galleria gente che passeggiava colla sigaretta accesa, signori coi “melons”, cioè il tubino, in capo. Il pubblico, generalmente molto elegante, sembrava considerare la serata come una specie di trattenimento, durante il quale si sarebbe ascoltata anche della musica.
Incredibile a dirsi, nessuno si scandalizzava del gusto mostruoso con cui era stato presentato il podio. Il pianoforte a coda e i leggii dell'orchestra si trovavano sopra una specie di palcoscenico, che presentava nello sfondo un paesaggio pseudogiapponese, dipinto malamente e a colori vistosi. Ai due lati del palcoscenico, dei grandi cartelli, con un indice dipinto, additavano dove fossero “ les toilettes ”.La gente chiacchierava, rideva, si salutava, nelle lingue più svariate. S'incontravano molte facce esotiche, giavanesi, cinesi, alcune signore indiane, silenziose e placìde, nei loro bei costumi nazionali. Ma tanto grande è il potere di una personalità unica, che di colpo sì fece un gran silenzio prima che scoppiasse uno spontaneo scrosciante applauso: Busoni saliva sul podio e tutte le impressioni sgradevoli e superficiali sparirono.
La mia cara amica Gerda sedeva a poca distanza da noi; accanto a me qualcuno mi strinse la mano; Giuseppe, il fedele seguace del maestro, il migliore e più stimato allievo del nostro gruppo d'un tempo, mi sedeva accanto sussurrandomi, in un suo gergo, qualcosa che non compresi; poi una tensione elevata si diffuse nel pubblico silenzioso e attento: Busoni suonava.
Marta, la, piccola povera Marta, c'era davvero; nell'intervallo vidi che s'avvicinava a Rilke: aveva un bel volto, molto infantile, incorniciato da capelli d'un biondo scuro. Era vestita con semplicità, ma con molto gusto, e dinanzi a Rilke s'inchinò, colla grazia d'una principessina. Quando mi vide, fece per allontanarsi, ma Rilke me la spinse dinanzi, con gesto amichevole, dicendo: - “È Marta ”. - Io le porsi la mano. Marta non la prese ma mi guardò, mentre le sue labbra tremavano. D'un tratto singhiozzò sommessamente, esclamando: “Oh, cara, cara signora, grazie.... ”, poi disparve.
Finito il concerto trovammo Busoni nel camerino, circondato da una folla di ammiratori “che gli avrebbero volentieri divorato un pezzetto del suo frac” come disse Giuseppe; - parlava con un uomo piccolino e di una bruttezza che colpiva, il cui cranio, quasi interamente calvo, aveva soltanto alle tempie e alla nuca una parvenza di capelli. Quando si volse, potei scorgere il suo volto pallido ed avvizzito: un gran naso, occhi leggermente sporgenti sfigurati da grandi sacchi lacrimali, una bocca d'attore, come consumata dal gran parlare.
Busoni mi salutò presentandomì l'estraneo: Gabriele D'Annunzio.
Il mio primo pensiero fu: com'è possibile che un uomo simile abbia tanta fortuna colle donne, com'è possibile che la Duse.... Intanto il poeta, basso, e vestito anche troppo ricercatamente, mi fece un inchino, dicendomi alcune parole molto gentili, che però dimenticai subito, perché la signora Gerda mi venne ad abbracciare, chiedendomi sotto voce dove ci saremmo potuti incontrare il giorno dopo a mezzo giorno, perché oggi era impossibile scambiare in pace anche due parole. - Ne fui rattristata, anche Rilke si era anticipatamente rallegrato all'idea di passare una bella serata coi Busoni, che, mentre erano costantemente assediati da persone estranee, dovettero lasciar noi, gli amici, a bocca asciutta.
Rilke venne così al mio albergo e mi lesse un capitolo sulla musica da «Du coté de chez Swann» di Proust, un libro che mi aveva regalato da poco e su cui s'era discusso con Busoni a Berlino.
Nessuno sa leggere corne Rainer. La sua voce è sommessa ed ha, a volte, una leggera inflessione musicale, specialmente se parla francese. Non si può dire che legga bene, è qualcosa di più che bene, è la più intensa espressione di una superiore esistenza. Penso che abbia letto così Fra Angelico o Meister Eckhart. [...]
Nel pomeriggio venne l'amico Giuseppe, animando con la sua presenza la mia quieta camera. Mi sgridò perché non avevo un pianoforte: «Che sarà altrimenti della Sonata 111 e della Toccata in do maggiore di Bach?»
Giuseppe è severo, quando si tratta di studiare; alla scuola di Busoni faceva sempre da «correpetitore», dava consigli ed aveva scoperto alcuni segreti del maestro. Inoltre, in fatto di lavoro è un vero genio. Di Rainer, che, per così dire, conosce solo da lontano, è entusiasta: «Questo Rilke! Che uomo straordinario! Dio lo benedica!» Quando il poeta così ammirato venne a trovarli all'ora del tè e s'intrattenne con lui, ne fu felicissimo.
Non si dimenticò però, nonostante questa sorpresa, di farmi giurare, prima di andarsene, che mi sarei recata il giorno dopo da Schneider, un'importante ditta che aveva pianoforti d'ogni paese e d'ogni marca da noleggiare.
Quando Giuseppe si fu congedato, dovetti raccontare a Rilke chi fosse. Ed io lo informai come l'«Adlatus» provenisse da una famiglia di russi tedeschi e si sentisse a suo agio in tutto il mondo. Parla, male, tanto il tedesco che l'inglese, il polacco, il russo, il francese; passò insieme ai suoi genitori, una vita di stenti sinché non conobbe Busoni, che gli dette lezioni gratuite, come fa d'altronde con tutti i suoi scolari, e gli procurò, nonostante la sua giovane età, - Giuseppe ha appena ventiquattr'anni - una cattedra di pianoforte a Varsavia. Ha un talento eccezionale ed è una persona simpatica e fedele. La sua idea ch'io debba avere qui un pianoforte è magnifica! Domani vado da Schneider.
Stamani alle dieci e comparso alla porta della mia camera, un negro e, dopo aver chiesto il permesso d'entrare, mi ha consegnato, con devota imperturbabilità, una busta violetto-scura, s'è inchinato profondamente e s'è eclissato poi silenziosamente. Ebbi il presentimento di qualcosa di straordinario, non m'ero ingannata: «Gabriele D'Annunzio sarà felice di ricevere Madame il prossimo giovedì all'Hôtel Meurice. Déieuner dínatoire alle due e mezzo».
Una risposta non era attesa: probabilmente nessuno pensa di rifiutare un invito di D'Annunzio.
Veramente non avevo l'intenzione di andarci ma Busoni, con cui siamo stati a pranzo insieme, pensava fosse un peccato perdere l'occasione di vedere un simile théâtre paré.
«D'Annunzio sta tra il poseur e il genio», disse, «lei avrà delle Sorprese, e anche delle strane impressioni».
I Busoni non possono partecipare al pranzo perché partono, purtroppo, già domani per Berlino, ma anche Rilke è invitato, la sua presenza da sola significa per me essere al sicuro d'ogni sorta di «accidente», e così mi son risolta ad andare.
I Busoni, Rilke ed io, siamo stati da Lauger, ai Champs Elysées; le conversazioni culinarie dei due uomini erano deliziose. Rainer spiegava dettagliatamente e con una certa solennità, come si prepara il tè di mele; Busoni s'intusiasmava a pensare agli scartozetti e agli scampi. Il poeta e il musicista si lanciavano in veri e propri inni gastronomici: quelli di Rainer erano piuttosto di tono ascetico, quelli di Busoni invece di un ardore gallico! Alla fine del pranzo un Kaiserschmarren viennese, preparato dal signor Lauger in persona, suscitò generale entusiasmo; noi poi andammo da Schneider, gli altri nel Bois.
Giuseppe ha ragione, la scelta di pianoforti è grandissima, ne ho provati forse dodici. Rilke nota le minime sfumature del colorito sonoro nei diversi strumenti, continuando a credersi, purtroppo, un temperamento negato alla musica: ".... riconosco un'aria, se l'ho sentita spesso, ma non riesco ad accennarne neppure due note; questo mi sembra il segno più chiaro di una assoluta incapacità". Ma quando gli dissi ch'egli aveva un senso acutissimo per le differenze di sonorità, se ne rallegrò, ed acconsentì volentieri alla mia proposta di fare degli "esercizi di audizione". "Ma, se dopo un po' di tempo - aggiunse - ti accorgi di non riuscire a spuntarla con la mia incomprensione musicale, lasciami pure andare, perché sono un asino [nell'originale Schaf = pecora]
Mentre Rilke continuava ad osservare gli strumenti, il giovane commesso nel salone dei pianoforti mi si rivolse con discrezione: "Scusi, signora, sto studiando il tedesco soltanto da tre mesi: il signore ha detto 'sono un Schaf' che vuol dire Schaf?"
Mi venne. da ridere, mi ripresi però subito e risposi: "Il signore vuol dire che ama molto la musica e adora Beethoven e Debussy." "Oh, Debussy" fece il giovane entusiasmato, e mi raccomandò subito un pianoforte nero, a mezza coda, quasi nascosto dietro una porta. "È americano, ma il suono è veramente soave, come dite in Italia e sembra fatto apposta per eseguirci sopra la musica italiana e francese."
Mi aveva preso, certo, per un'italiana, mi salutò dicendo "Evviva l'Italia" e promise di farmi avere subito il pianoforte Baldwin.
Busoni, prima di partire, ha raccontato un piccolo episodio, che mi par caratteristico per lo spirito del popolo francese: nel salire con sua moglie sulla vettura che lo doveva portare alla stazione, gridò al vetturino: "A Berlino!" Ma il vecchio si voltò e ribatté, serio, scuotendo il capo: "Niente reminiscenze della guerra del 1871, signore, per favore."
Comprendo che Rilke abbia trovato commovente questa risposta ad uno scherzo, in questo caso, in verità Molto innocente.
E ora i nostri cari Busoni se ne sono andati. Troppo breve è stata la gioia che ci hanno procurato con la loro presenza e come al solito s'è dovuto lottare per poter passare qualche breve ora insieme; c'era troppa gente che "si precipitava su di lui", come dice la signora Gerda, che mi assicurava, ridendo: "Spesso mi tocca fare la parte quasi di una cartasuga; assorbo, per così dire, molto di quel che si vorrebbe riferire a Ferruccio, altrimenti non avrebbe mai pace".
Alla stazione comparvero, anche questa volta, le solite signorine inglesi, il violinista Szigeti, due o tre russi dall'aspetto visibilmente tartaro, e il nostro Giuseppe che scoppiò in lacrime quando il treno sparve dall'atrio. "Mi sento così solo" singhiozzava. Lo consolai, dicendo: "Ma Giuseppe, c'è tua moglie qui, no?" - e allora egli esclamò, cogli occhi ancora pieni di lacrime ma il volto raggiante: "È ragazza straordinaria mia moglie, vero?"