Bruno Götz
IL TAVOLO ROTONDO DI BUSONI

Testo originale in tedesco; cfr. Roberge B415
Traduzione di Augusto e/o Emilio Anzoletti.
Ringrazio di cuore il collezionista privato
che me ne ha donato una copia


Vari impegni mi avevano portato a Zurigo per un certo periodo di tempo. Là in una bella mattina di maggio incontrai per caso un conoscente che mi propose di andare alla prova generale della «Turandot» e di «Arlecchino» del Busoni. Allora non conoscevo ancora nulla delle composizioni di Busoni, l'avevo solo sentito suonare in un concerto alcune settimane prima ed ero rimasto profondamente colpito da quel suo modo di suonare etereo e vivace privo di ogni peso terreno. Il mio conoscente mi presentò Busoni. Alzò gli occhi velocemente, mi fissò un attimo con attenzione e mi strinse la mano. Vidi un viso segnato, nobilmente scolpito, labbra decise e delicatamente disegnate e gli occhi grigi scintillanti; era un viso come hanno le antiche sculture lignee nei duomi gotici, fuori dal tempo e che rivelava uno spirito animato da lotte solitarie, da tormenti sofferti, e serene vittorie, e che mostrava un'affabile superiorità al mondo. Dopodiché ci recammo nella buia sala. Fu cosi che ascoltai per la prima volta la musica di Busoni. Questa prima esperienza fu decisiva per me. Non avevo mai sentito una musica simile. Mi giungeva completamente nuova e allo stesso tempo intimamente familiare. Solo per il semplice fatto di esistere, mi forniva la risposta a mille domande che ponevo in segreto. Lontano da quello sviluppo che aveva seguito la nostra musica a partire da Beethoven e Wagner, lontano dall'espressione di agitazione e passioni personali, si radicava in un ordine universale e si scioglieva in un libero gioco divino, veniva conquistata musicalmente una nuova terra dell'anima che, attraverso un nuovo linguaggio delle forme, più elevato ed ampliato, veniva a far parte del cosmo artistico.


Fu così che mi trovai di fronte a opere che, a prescindere dalla pura musicalità, rappresentavano la perfezione della forma artistica del melodramma. Al di là del nuovo dramma musicale incongruente e disarmonico, al di là dell'opera antica che si poteva prendere sul serio solo musicalmente, qui aveva origine un organismo uniforme nel tono, nella parola, nella forma e nei gesti, in cui la musica non serviva affatto ad illustrare le parole o in cui le parole annegavano senza differenze nella musica, ma tutti questi elementi costituivano il risultato di un'idea remota e contemporaneamente comparivano autonome in sé ma corrispondenti l'un l'altro. Dal tutto fuoriusciva uno spirito talmente meditativo, fecondo, folgorante, che io lasciai il teatro incantato. In seguito a questa esperienza scrissi un breve articolo sulle due opere. L'articolo finì nelle mani di Busoni; fui invitato a fargli visita e ben presto quotidianamente a mezzogiorno e alla sera mi sedevo al famoso tavolo rotondo.


La tavola rotonda... quante cose sono accadute su quel tavolo! Quante volte è stato l'unico rifugio! Quante volte è stata l'isola santa nel vortice del tempo! Quanti discorsi decisivi, agitati, profondi e fiduciosi sono stati fatti intorno a quel tavolo, quante volte si è scherzato, riso e fatto chiasso! Il mondo in quella stretta stanzetta diventava più elevato e più vasto, e tutti si sentivano sollevati, rinforzati e rinvigoriti. Chi capitava in questo territorio era strappato alle mediocrità e spinto a fare e ad agire. Si era come in un vortice di fuoco che esaltava al massimo tutte le forze. La cosa più stupefacente fu per me dapprima il contegno interiore di Busoni che egli assumeva di fronte agli eventi, la libertà assoluta e l'imperturbabilità del suo modo di pensare che non soggiaceva a nessuna suggestione né ad alcuna propaganda. Rappresentava l'umanità libera, creativa, era consapevole di far parte di una comunità di spiriti decisamente fresca, internazionale ma anche sovranazionale, radicata nel popolare ma anche innalzata sull'umanità. Sapeva che la parola patria accanto al suo significato concreto abituale, che spesso determina fatalmente l'agire dei singoli, ha anche un altro significato: con la sua opera egli entrava nella patria dei grandi artisti e profeti di ogni popolo e di ogni tempo e sapeva conservare pura la realtà spirituale di questa patria senza confonderla con il materiale, le disarmonie ed i contrasti della rimanente sfera della vita. Faceva parte di quella patria della quale Goethe dice:
Dall'alto gridano
Le voci degli spiriti
Le voci dei maestri:
Non dimenticate di esercitare
Le forze del bene.
Là si intrecciano corone
Nel silenzio eterno
Vengono ripagate
Con abbondanza le azioni.
Vi esortiamo a sperare!


La patria dei maestri. Qui arriviamo all'elemento più intimo della personalità di Busoni. Egli, che era ritenuto generalmente un sovvertitore musicale e un rivoluzionario che ignorò ogni regola, convenzione e "legge" dell'espressione musicale, lottò per l'ultima maestria in quel ritmo che egli scrisse. Mi disse una volta:"Cosa vuole? Chi lotta per il nuovo e quello che mai si è sentito, a volte oltrepassa la meta. Certo sono sperimentazioni e un esperimento non è ancora un'opera. Nell'opera deve essere tutto perfetto. Questo non vuol dire attenersi a regole astratte. Significa seguire quelle particolari leggi che sono insite in ogni struttura sonora. Chi ci riesce, è un maestro."


E un'altra volta, quando espressi la mia commozione per un suo grande concerto per piano con coro maschile appena
eseguito a Zurigo, disse: «Questo è ancora niente. Questo è solo un' ultima chiusura con il passato. Il tempo è ancora troppo timido. Ci sono solo un paio di accenni di quanto mi propongo di fare. Le nostre opere devono ridiventare così semplici e allo stesso tempo cosi poliedriche, così grandi e forti come le piramidi. Finché il nuovo viene ancora confuso con il privato non ha valore." Quell'assoluta perfezione quel tutt'uno di forma, contenuto e significato, colpiva così profondamente, se lo si incontrava in un'opera d'arte, che poteva scoppiare in lacrime, anche se era un contesto divertente. Mi ricordo ancora di una serata movimentata alla tavola rotonda di Zurigo, quando era così colpito e quasi senza speranze di fronte a tutti gli avvenimenti del momento. Si discusse a lungo e violentemente ed egli espresse la sua totale sfiducia nei confronti del prossimo futuro. Noi tacemmo colpiti. Quindi egli si alzò, prese un volume di Goethe, e ci lesse i "Segreti" ma in un modo in cui io non avevo mai sentito leggere Goethe: era come se si schiarisse ogni verso dal suo interno prendendo magicamente vita. Improvvisamente si fermò nel bel mezzo della poesia in uno dei più bei versi e pianse. Fino a tal punto lo aveva toccato la perfetta bellezza di questo verso! Come quasi tutti gli uomini che hanno sofferto profondamente, amava comportarsi in apparenza in modo spensierato. Ma dietro ai suoi scherzi e alle sue brillanti burle si celava sempre un senso nascosto e particolare e l'esperienza di una vita interiore forte e ricca. Questo spirito così chiaro, libero ed indipendente, riconosceva le sue radici nel demoniaco, indicibile, oscuro, caotico. Ma era spinto ad esorcizzare i suoi demoni, ad esprimere musicalmente l'indicibile, a rischiarare l'oscurità e sciogliere il caos in un gioco libero e spirituale. odiava rovistare nei substrati dell'anima a lui fin troppo noti, l'autocompiacimento nell'oscurità e nel caotico, il grido informe dell'anima. Prendeva sul serio l'esorcismo. Una volta si espresse su queste cose in un discorso: "È bene esorcizzare solo ciò che si riconosce nella sua reale essenza, che è chiamato col nome giusto, che è rappresentato in una forma articolata e a cui si dà una forma completa. Tutto ciò che è oscuro e mal definito, tutto ciò che è detto a vanvera o declamato in maniera isterica, mi pare falso. Poiché chi è toccato davvero da qualcosa, non trova pace finchè non l'ha esorcizzato. Di ciò a cui non si riesce a dar forma si tace o si lascia agli esperti il compito di indovinarne la forma. Solo i chiacchieroni, non gli artisti, spifferano anzitempo i segreti altrui. E i chiacchieroni sono noiosi."