Dino Domenico Poli

Ricordo di Ferruccio Busoni a Bologna

[in «Pretesti musicali», Milano, Edizioni del Milione, 1952, pp. 65-69]

Sono al Teatro Lirico di Milano. In questo anno di sangue 1944, la Scala ha allestito «Arlecchino o Le finestre aperte» di Ferruccio Busoni. Rivedo la figura del compositore, come l'ho veduta trentacinque anni fa per le vie di Bologna. Fu proprio nel 1914 che Busoni fu chiamato a dirigere il, Liceo, musicale di quella città, e noi giovani eravamo trepidanti di conoscere il leggendario pianista, il geniale assertore di nuove estetiche. Busoni era per noi una bandiera di ideologie artistiche inedite, e guardavamo alla sua figura con stupore e rispetto.
La prima volta che lo vidi, fu in via Rizzoli, mentre tornava dal Liceo. Me lo indicò un amico musicista: - Quello è Busoni. - Vidi un uomo con un lungo soprabito grìgio, i capelli brizzolati un poco scomposti che uscivano sotto le larghe tese di un cappellone, il viso nobilissimo e mobilissimo, quasi diafano: strana figura di pensatore e di artista. Qualche sera dopo sentii un suo concerto nella Sala del Liceo. La snella persona stretta nel frac, il viso illuminato quasi da una luce celeste, ci suonò Bach, Beethoven, Chopin, ecc. Quale incanto usciva dalle sue mani! Il suono del pianoforte era trasformato in magia. Non fu quello il solo concerto; e ogni volta l'incanto si rinnovava, il pubblico vibrava di fremiti nuovi. Era una voce potente che usciva dagli strumenti, una voce eccelsa e definitiva che prendeva tutto l'essere degli ascoltatori. In quell'anno uscí una rivista: Harmonia; in essa Busoni scrisse la sua estetica, i suoi pensieri sulla musica, la sua teoria del suono. Anche questa ebbe su noi giovani un'influenza decisiva. Non conoscevamo le arditezze musico-letterarie di «Arlecchino», le fantasie della «Turandot», le altezze metafisiche del «Doctor Faust», ma presentivamo in Busoni il vessillifero dell'Opera futura, dell'Opera di eccezione, il propugnatore del Teatro dell'avvenire. Rividi poi Busoni direttore d'orchestra sul podio del glorioso Teatro Comunale. Mi ricordo della sua Settima di Beethoven, piena di estro dionisiaco; dei Concerti di Beethoven e di Brahms per violino, suonati dal violinista Serato; dei Concerti di Chopin e di Liszt per pianoforte, suonati magistralmente dal suo allievo prediletto Egon Petri; degli incantì della Suìte dalla sua Opera «La sposa sorteggiata»; del grande poema sinfonico di Liszt, il «Faust» per coro, solo tenore e orchestra, solista il tenore bolognese Giuseppe Borgatti, ormai arrivato al termine della sua fortunosa carriera, ma dotato ancora di bellissima voce e di una foga insuperabile. Indimenticabili serate per me, per Bologna e per l'Italia musicale. Mi ricordo che molti negavano a Busoni le sue qualità di direttore d'orchestra, riconoscendogli solo quelle di pianista. Certo le sue interpretazioni orchestrali potevano essere un po' trascurate tecnicamente, ma era indiscutibile lo stile e la penetrazione delle sue esecuzioni e il loro soffio magico. Non ho mai veduto suonatori vibrare di tanto entusiasmo come al suo sguardo, e la sua bacchetta, sebbene un po' stanca, segnava il ritmo di un tempo perfettamente sentito e trascinatore.
Oggi, 1944, qui al Lirico, messo in scena dalla Scala sento per la prima volta il suo «Arlecchìno». Lavoro un po' grottesco, un po' amaro. La musica che doveva essere tutta un sovvertimento, ora è un po' sorpassata; si sente il figlio del classicismo che vuole evadere, ma non può. Lo faranno Schoenberg e Strawinski; ma egli additò la via. Questo Arlecchino morto che canta le esequie con gli altri personaggi del dramma, ha un senso tanto squisitamente grottesco e inconfondibile di sana modernità nella sua concezione scenica e psicologica; poi, l'elemento coloristico tra il burlesco e lo scanzonato, questo è lui, solo lui, Ferruccio Busoni, l'uomo di tutte le arditezze e dei nuovi presentimenti estetici, l'uomo che ha saputo dare un carattere al Teatro musicale ormai sommerso nelle magniloquenze postwagneriane e nelle degenerazioni sentimental-borghesi. È lui, Busoni, come l'ho veduto e riveduto trentacinque anni fa, sul podio direttore d'orchestra, al pianoforte, per le vie di Bologna, al ristorante dei Tre Re davanti a una bottiglia di sciampagna; uomo di battaglia, semisconosciuto in
patria, costretto a vivere una vita randagia per guadagnarsi il pane; esaltato all'estero come il propugnatore di estetiche nuove, moderno fra i moderni, ardito fra gli arditi del pensiero, soldato di questa razza di italiani che nulla chiedono e che muoiono in silenzio per un ideale d'arte superiore: perché l'arte sia evoluzione, novità, pensiero, snellezza, rinnovamento, polemica, estro, progresso; e non stasi, non enfasi, non mediocrità, cattivo gusto, degenerazione.
Ecco Busoni come l'ho veduto nei miei giovani anni a Bologna, come lo ricordo nel cuore e nello spirito dopo un quarto di secolo dalla sua morte, come voglio additarlo ai giovanì perché lo studino e lo amino e lo sappiano uno degli spiriti piú puri che abbia avuto la musica.