Stefan Zweig

Zurigo durante la Grande Guerra

Da «Il mondo di ieri. Ricordi di un Europeo»,
Milano 1979, pp. 205 ss.

James Joyce

Ferruccio Busoni

René Schickele
Quando, alla Pasqua del 1917, fu pubblicata in volume la mia tragedia «Geremia», ebbi una grande sorpresa. Io l'avevo scritta in acerrlma opposizione al mio tempo e ne attendevo non meno l acerba opposizione. Accadde invece il contrario. Furono subito venduti ventimila esemplari del libro, una tiratura addirittura fantastica per un dramma in volume; se ne fecero aperti paladini non soltanto amici come Romain Rolland [*], ma anche quelli che in passato eran stati piuttosto sull'altra sponda, come Rathenau e Dehmel. Direttori di teatri, ai quali il dramma non era natural mente stato offerto, perché una rappresentazione sin che durava la guerra era impensabile, mi scrissero pregandomi di riservar loro i dlritti per il tempo di pace; persino le critiche dei guerrafondai assunsero forme cortesi e rispettose. Tutto mi ero aspettato fuor che questo. Che cosa era accaduto? Null'altro che il prolungarsi per ormai due anni e mezzo del conflitto: il tempo aveva crudelmente spento i bollori. Dopo i terribili salassi sui campi di battaglia, la febbre cominciava a cedere, gli uomini guardavano in volto la guerra con occhi più freddi e più duri che non al tempo dei primi entusiasmi. Il senso di solidarietà forzata cominciava ad allentarsi, giacché non si scorgevano tracce della grande «purificazione morale» solennemente annunziata da filosofi e poeti. Un'incrinatura profonda passava per il popolo; il paese era in certo modo distinto in due mondi: al fronte i soldati che com battevano e soffrivano le più orrende privazioni, all'interno i borghesi che continuavano la loro vita spensierata, affollavano i teatri e per di più facevan guadagni sulla miseria degli altri. Fronte e fronte interno si delineavano in sempre più tesa opposizione. [...] Sembrava impossibile dare espressione a un simile stato d'animo sulla scena, con la parola parlata; si sarebbero verificate inevitabilmente dimostrazioni, tanto che credetti di dovere senz'altro rinunciare a veder recitato durante la guerra questo primo dramma contro la guerra. Ma ecco che improvvisamente mi giunge dal direttore del Teatro Civico (Stadttheater, oggi Opernhaus] di Zurigo una lettera, in cui mi dice che avrebbe voluto metter subito in scena «Geremia» e m'invita ad assistere alla prima rappresentazione. Avevo dimenticato che - come in questa seconda guerra - rimaneva un piccolo ma prezioso lembo di terra, alla quale era concessa la grazia di tenersi in disparte, un paese democratico, in cui la parola era rimasta ancora libera, le idee ancora limpide. Naturalmente accettal senz'altro. [...]
È difficile immaginarsi oggi quel che significava allora il passaggio da un paese in guerra già mezzo affamato alla zona neutrale. Non vi erano che pochi minuti dall'una all'altra stazione, ma immediatamente si aveva il senso di trasferirsi da un'atmosfera chiusa ed afosa in un'aria vivida e piena di neve, era una specie di ebbrezza che fluiva dal cervello per tutti i sensi. Ancora molti anni dopo, quando provenendo dall'Austria passavo davanti alla stazione di Buchs - un nome che non mi sarebbe mai altrimenti rimasto nella memoria - si rinnovava in me come un lampo quella lontana sensazione d'improvviso sollievo. Si scendeva dal treno e già - prima sorpresa -ci aspettavano al buffet le cose che ormai si era dimenticato di considerare come un tempo naturalissimi complementi della vita: c'erano le arance e le banane, la cioccolata ed il prosciutto, tutto apertamente offerto, quel che da noi si conquistava tutt'al più per vie traverse e segrete; c'era pane e carne senza tessere i viaggiatori si precipitavano come belve affamate su quei tesori. Vi era un ufficio telegrafico e postale di dove era possibile mandar lettere e dispacci senza censura in tutte le direzioni del mondo. Si vendevano i giornali francesi, italiani, inglesi e non era pericoloso comprarli, spiegarli e leggerli. Era lì permessa ogni cosa a noi proibita, mentre dall'altra parte eran proibite le cose lecite. L'assurdità delle guerre europee mi si rivelò in modo addirittura palpabile in quel raccostamento in un piccolo spazio; laggiù in quella borgata di confine, di cui leggevamo ancora ad occhio nudo le insegne, gli uomini erano strappati ad ogni casupola e caricati per l'Ucraina o per l'Albania, ad uccidere e a farsi uccidere; qui, cinque minuti più avanti, gli uomini della stessa età sedevano tranquilli accanto alle loro mogli, davanti alle porte incorniciate di edera e fumavan la pipa mi domandai involontariamente se in quel fiumicello di confine anche i pesci dalla parte destra erano belligeranti e quelli di sinistra neutrali. Nel secondo stesso in cui avevo passato il confine, il mio modo di pensare si era fatto diverso, più libero, più vivo, meno servile, e subito nei giorni seguenti potei constatare come nel mondo della guerra veniva menomata non soltanto la nostra capacità psichica, ma anche l'organismo fisico. Quando infatti, invitato da parenti, bevvi senza pensarci dopo pranzo una tazza di caffè nero e fumai un sigaro avana, fui colto all'improvviso da vertigini e da batticuore. Il mio corpo ed i miei nervi, dopo tanti mesi di surrogati, non erano più resistenti al caffè ed al tabacco genuino; anche il fisico doveva, dopo essere andato contro natura per la guerra, riadattarsi alla naturalezza della pace. La stessa ebbrietà, la stessa gradevole vertigine si estese anche al campo spirituale. Ogni albero mi pareva più bello, ogni montagna più libera, ogni paesaggio più rasserenante, giacché in un paese in guerra, per lo sguardo ottenebrato, la pacata beatitudine di una prateria ci appare soltanto indifferenza impudente della natura, ed ogni tramonto purpureo ci ricorda il sangue versato. Lì, nella normalità della pace, era tornato naturale anche il nobile straniarsi della natura, così che io amai la Svizzera come non l'avevo mai amata. Ero tornato sempre con piacere in questo paese grandioso malgrado le piccole proporzioni ed inesauribile nella sua complessità, ma non avevo mai compreso così vivamente il significato della sua esistenza l'idea elvetica della coesistenza di nazioni diverse nello stesso spazio senza ostilità, questa sapientissima norma di trasformare in fraternità, per opera della reciproca stima e di una democrazia lealmente sentita, le differenze etniche e linguistiche. Quale esempio era mai questo per la nostra Europa sconvolta! Rifugio di tutti i perseguitati, da secoli dimora della pace e della libertà, sede ospitale di ogni opinione, pur conservando la propria caratteristica come si rivelò importante per il nostro mondo l'esistenza di quell'unico Stato supernazionale! Mi pareva che questo paese avesse meritato la benedizione della sua bellezza, il dono della sua ricchezza. No, lì non ci si sentiva stranieri; un uomo libero ed indipendente in quell'ora tragica per il mondo vi si sentiva casa sua molto più che nella sua stessa patria. La notte a Zurigo avevo il bisogno di girare ore e ore per le strade o lungo la riva del lago. Le mille luci significavano pace, gli uomini godevano ancora la beata calma della vita. Mi pareva di sentire che dietro quelle finestre non vi erano donne insonni, torturate dal pensiero dei figli lontani; non incontravo feriti o mutilati, non giovani in uniforme destinati ad essere caricati per il fronte l'indomani: lì pareva di aver diritto alla vita, mentre nei paesi in guerra quasi si sentiva come un disagio ed una colpa il fatto di non essere mutilati. Lo scopo più importante non era per me il trattare per la rappresentazione o l'incontrarmi con gli amici svizzeri e stranieri. Prima di tutto volevo vedere Rolland, colui che sapevo mi avrebbe saputo rendere più energico, più chiaro e più attivo, ed al quale dovevo porgere il mio grazie per quel che mi avevano dato il suo conforto e la sua amicizia nei giorni della più amara solitudine spirituale. La mia prima visita doveva essere per lui, e mi recai infatti subito a Ginevra. Noi come «nemici» ci trovavamo in una situazione abbastanza complicata. I governi belligeranti non vedevano di buon occhio, si capisce, che i ri spettivi sudditi mantenessero relazioni personali in terra neutra: questo però non era proibito da alcuna legge speciale. Non vi era paragrafo in base al quale si potesse venir puniti per un incontro. Proibito e parificato all'alto tradimento era solo il rapporto d'affari, il «commercio col nemico», cosi che per non renderci sospetti neppure con la più lieve trasgressione a tal divieto, noi amici evitavamo di offrirci persino una sigaretta, sapendoci indubitabilmente e ininterrottamente osservati da innumerevoli agenti. Per sfuggire al sospetto che avessimo paura o ci sentissimo in colpa, noi amici internazionali scegliemmo il metodo più semplice, quello della sincerità. Non ci scrivevamo fermo in posta o a indirizzi diversi, non andavamo a farci visita al buio ed in segreto, ma giravamo insieme per le strade e siedevamo insieme nei caffè. Io, per esempio, subito, arrivando a Ginevra, annunziai senz'altro al portiere dell'albergo il mio nome e il desiderio di parlare col signor Romain Rolland, ritenendo meglio che l'ufficio informativo tedesco-francese annunciasse al caso chi ero e chi visitavo. [...]

Da Ginevra ritornai dopo pochi giorni a Zurigo, per avviare le trattative circa il mio dramma. Avevo sempre amato questa città per la sua bella posizione sul lago, all'ombra delle montagne ed anche per la sua vita culturale distinta ed un poco conservatrice. Ma, grazie alla posizione della Svizzera al centro degli Stati belligeranti, Zurigo era uscita dal suo silenzio ed era diventata da un momento all'altro la più importante città europea, centro di tutte le correnti intellettuali, ma anche di tutti gli affaristi, gli speculatori, le spie ed i propagandisti, guardati con giusta diffidenza dalla popolazione locale. Nei ristoranti e nei caffè, nelle tranvie e nelle strade si udivano tutte le lingue del mondo. Dappertutto s'incontravano conoscenti, graditi e sgraditi, e, volenti o nolenti, ci si vedeva impigliati in vivaci discussioni. Tutte quelle persone buttate dal destino su quella riva erano legate con la loro esistenza all'esito della guerra, le une perché in missione dei loro governi, le altre perché perseguitate e messe al bando, tutti comunque staccati dalla vita normale e scagliati nell'avventura. Non avendo casa, cercavano ininterrottamente la compagnia degli amici; non avendo potere alcuno per influire sugli eventi militari e 'politici, si limitavano a discuterli giorno e notte, con una specie di febbre intellettuale che eccitava e stancava insieme. Era davvero difficile, dopo aver vissuto per anni in patria con le labbra sigillate, sottrarsi al piacere di parlare; si sentiva il bisogno di scrivere, di pubblicare, potendo per la prima volta farlo senza censura; ciascuno era in massima tensione ed anche nature mediocri, come si vide in Guilbeaux, divenivano più interessanti di quanto eran state in passato e sarebbero tornate ad essere poi. Si incontravano colà scrittori ed uomini politici di ogni tendenza; Alfred H. Fried, premio Nobel per la pace, pubblicava la sua rivista pacifista «Friedenswarte»; Fritz von Unruh, ex ufficiale prussiano, ci leggeva i suoi drammi, Leonhard Frank scriveva il suo irritante volume «L'uomo è buono», Andreas Latzko suscitava quasi scandalo col suo «Uomini in guerra; Franz Werfel venne a tenere una lettura; io incontrai gente di ogni nazione nel mio vecchio Hotel Schwerdt, dove Goethe e Casanova erano scesi al tempo loro. Vidi dei russi che emersero poi durante la rivoluzione e dei quali non ho mai appreso il vero nome; vidi italiani, vidi preti cattolici, socialisti intransigenti e uomini del partito tedesco della guerra; fra gli svizzeri ci era a fianco l'ammirevole pastore Leonhard Ragaz [bio]ed il poeta Robert Faesi. Nella libreria francese incontrai il mio traduttore Paul Morisse, nella sala di concerti il direttore Oscar Fried:vi era insomma gente di ogni genere, si udivano le opinioni più disparate, le più ragionevoli e le più assurde, ci si indignava e ci si esaltava, si fondavano riviste, si sostenevano polemiche; i contrasti si acuivano o si attutivano, i diversi gruppi si fondevano e si scindevano; non incontrai mai in forma cosi concentrata e coslì ribollente come in quelle giornate zurighesi, o meglio in quelle notti (poiché si discuteva finché i caffe Bellevue o Odeon spegnevano i lumi e si passava poi spesso nella casa di uno di noi), una massa più variegata e più appassionata di idee e di individui. Nessuno in quel mondo incantato vedeva più i paesaggi, le montagne, i laghi con la loro dolce pace si viveva immersi nei giornali, nelle notizie e nelle dicerie, nelle discussioni e nelle polemiche. È strano: si viveva intellettualmente la guerra con più intensità che non nella patria combattente, perché il problema lì si era in certo modo oggettivato e totalmente staccato dall'interesse nazionale alla vittoria o alla sconfitta. Non si considerava la guerra da un punto di vista politico, bensì da quello europeo, quale evento di crudeltà e di violenza, destinato a trasformare non soltanto un paio di linee di confine sulle carte geografiche, ma la forma e l'avvenire del nostro mondo.

I più commoventi fra questi individui erano per me - quasi ._ m'avesse già sfiorato il presagio del mio futuro destino - gli uomini senza patria, o ancor peggio, che in luogo di una patria ne avevano due o tre e non sapevano interiormente a quale appartenessero. Si vedeva, per lo più seduto tutto solo, in un angolo del caffe Odeon, un giovanotto dalla barbetta castana, con occhiali eccezionalmente forti davanti agli occhi scuri ed i acuti mi dissero che era un poeta inglese molto geniale. Quando alcuni giorni più tardi conobbi James Joyce, egli respinse aspramente ogni affinità con l'Inghilterra, dichiarandosi irlandese. Scriveva, disse, in inglese, ma non pensava e non voleva pensare in inglese: «Vorrei una lingua che stesse al di sopra delle lingue, una lingua alla quale tutte le altre servissero. In inglese non posso esprimermi totalmente senza inserirmi con ciò in una tradizione.» A me tutto questo non parve molto chiaro, non sapendo che già allora stava componendo il suo «Ulisse». Mi aveva soltanto prestato il suo «Portrait of an artist as ayoung man», l'unico esemplare che possedesse, ed un piccolo dramma, «Exiles», che allora pensai persino di tradurre per aiutarlo. Quanto più lo conoscevo, tanto più mi sorprendeva la sua fantastica conoscenza delle lingue; dietro quella fronte rotonda dalla solida linea, che alla luce elettrica aveva la lucentezza della porcellana, erano fissati tutti i vocaboli di tutti gli idiomi ed egli giocava con essi nel modo più brillante. Una volta mi domandò come avrei ri prodotto in tedesco una frase difficile del suo «Portrait» e cercammo insieme dapprima una forma italiana e francese; per ogni parola ne aveva a disposizione quattro o cinque in ogni idioma, comprese quelle dialettali, e conosceva il loro valore ed il loro peso nelle più sottili sfumature. Si spogliava raramente di una certa amarezza, ma credo che questo lieve stato di irritazione rappresentasse appunto la forza che dall'interno lo rendeva impetuoso e produttivo. Il suo rancore contro Dublino, contro I'Inghilterra, contro certe persone, assumeva in lui forma di energia dinamica che esplose soltanto nell'opera poetica. Pareva che amasse la propria asprezza; non l'ho mai visto ridere e in fondo neppure sereno. Dava sempre l'impressione di una forza oscura concentrata in sé, e quando lo vedevo per la strada, le labbra sottili serrate, sempre a passo frettoloso, come fosse di retto verso una mèta precisa, intuivo ancor più che durante i nostri colloqui il quasi ostile isolamento della sua natura. Non fui affatto stupito più tardi che proprio lui avesse creata l'opera più solitaria, più staccata da ogni nesso, l'opera che piombò nel tempo nostro simile a meteora.

Un altro di questi uomini anfibi, posti fra due nazioni, era Ferruccio Busoni, italiano per nascita ed educazione, tedesco di elezione. Fin dalla giovinezza lo avevo amato piu di ogni altro virtuoso del pianoforte. Quando suonava, i suoi occhi assumeva no una meravigliosa luce di sogno. In basso le mani creavano i senza fatica la musica perfetta, ma su in alto la bella testa spiri- tuale, lievemente gettata all'indietro, ascoltava ed assorbiva la musica creata. Sembrava si operasse in lui una specie di trasfigurazione. Quante volte durante i concerti avevo fissato quel suo volto luminoso, mentre le note mi penetravano nel sangue con molle turbamento ed insieme con argentea limpidità! Lo rivedevo ora, ma i suoi capelli eran grigi e gli occhi velati di dolore. «A chi appartengo?» mi domandò una volta. «Quando la notte sogno, mi accorgo al destarmi di aver parlato in sogno in italiano. Ma se poi scrivo, penso parole tedesche.» I suoi scolari erano dispersi in tutto il mondo - «forse uno ammazza l'altro». - Alla sua opera maggiore, al Dottor Faust, non osava accostarsi, sentendosi troppo turbato. Compose una breve opera in un atto [Arlecchino], musicalmente leggera, per liberarsi, ma sin che durò la guerra la nube dolorosa non s'allontanò dal suo capo. Ben di rado udii il suo riso aretinesco, di mirabile veemenza, che mi era piaciuto tanto in lui. Una volta lo vidi a tarda notte nel caffè della stazione, solo, con due bottiglie di vino vuote davanti. Quando passai accanto, mi chiamò e mi disse, accennando alle bottiglie. «Stordirsi! Non bere! Ma qualche volta bisogna stordirsi, altrimenti non ci si resiste. La musica non basta sempre, ed il lavoro non è un ospite di tutte le ore».
La situazione ambigua era soprattutto difficile per gli alsaziani, e fra questi tanto più dolorosa per i pochi che, come René Schickele, erano col cuore vicini alla Francia, ma scrivevano in lingua tedesca. La guerra in fondo era combattuta per la loro terra e la grande falce tagliava in mezzo il loro cuore. Si tentava di trascinarli ora a destra ed ora a sinistra, di carpire loro professioni di fede per la Germania o per la Francia, ma essi odiavano questo dilemma a loro impossibile. Essi volevano, come noi tutti, una Francia e una Germania affratellate, volevano conciliazione invece di ostilità, e soffrivano così doppiamente per ambedue. E tutt'attorno vi era la grande schiera sperduta dei misti donne inglesi che avevano sposato ufficiali tedeschi, madri francesi di diplomatici austriaci, famiglie dove l'uno dei figli era soldato ad un fronte e l'altro a quello nemico, famiglie in cui i genitori attendevano lettere da una parte e dall'altra e nell'una erano confiscati i beni, nell'altra perduta la posizione. Tutti questi infelici s'erano rifugiati in Svizzera per sfuggire alla sospettosità che li perseguitava sia nell'una che nell'altra patria Preoccupati sempre di compromettere gli uni o gli altri, finivano per non parlare in nessuna lingua e portavano attorno le loro esistenze sconvolte e distrutte simili ad ombre dolorose. Quanto più un uomo aveva vissuto da europeo in Europa, tanto più duramente veniva colpito da quel pugno che annientava l'Europa.

Nel frattempo si giunse alla rappresentazione di «Geremia». Fu un bel successo, e il fatto che la Frankfurter Zeitung mi denunciasse alla Germania, riferendo che alla prima assistevano l'ambasciatore americano ed alcune alte personalità alleate, non mi preoccupò gran che. Sentivamo che la guerra, giunta ormai al suo terzo anno, si indeboliva sempre più dall'interno e che l'opposizione ad un proseguimento imposto solamente da Ludendorff non era più tanto pericolosa come nella prima triste epoca della sua gloria. L'autunno 1918 doveva portare la decisione definitiva. Io però non volevo trascorrere il tempo dell'attesa a Zurigo. I miei occhi si erano fatti più desti e più vigili. Nel primo entusiasmo dell'arrivo avevo creduto di trovare fra tutti quei pacifisti ed antimilitaristi dei veri compagni di fede, dei campioni decisi della riconciliazione europea. Presto mi dovetti accorgere che fra quelli che si facevan passare per profughi e si atteggiavano a martiri delle loro eroiche idee, s'erano insinuate alcune fosche figure al servizio dell'Ufficio informazioni tedesco, pagate per spiare e vigilare i compagni. La brava e tranquilla Elvezia si rivelò tutta minata, come ognuno poté stabilire per propri esperienza, dal tacìto lavoro da talpa degli agenti segreti dei due campi belligeranti. La cameriera che portava via il cestino della carta, la telefonista, il cameriere che si indugiava a servirci con preoccupante lentezza, erano al servizio di una potenza straniera, spesso anzi una sola persona era al servizio delle due parti. Si trovavano le valige misteriosamente aperte, le carte asciuganti venivan fotografate, le lettere sparivano andando o venendo dalla posta; negli atri degli alberghi donne eleganti ci sorridevano troppo, pacifisti stranamente zelanti e mai conosciuti venivano ad invitarci a firmare proclami o ci chiedevano compunti indiritzzi di amici «sicuri» Un …socialista» mi offrì un compenso troppo alto per una conferenza agli operai di La Chaux-de-Fonds, che nulla ne sapevano: bisognava insomma star sempre in guardia Non passò molto tempo che notai come fosse piccolo il numero di coloro che potevano essere considerati totalmente sicuri, e non volendo per conto mio lasciarmi trascinare nella vita politica, limitai sempre più la cerchia dei miei rapporti. Ma anche con gli amici del tutto sicuri mi annoiava la sterilità delle eterne discussioni e l'ostinato rinchiudersi in gruppi radicali, liberali, anarchici, bolscevichi od apolitici: per la prima volta potei studiare da vicino il tipo immortale del rivoluzionario di professione, che si sente accresciuto nella propria mediocrità dall'atteggiamento meramente negativo, e che si aggrappa al dogma perché non ha in se stesso alcun altro punto d'appoggio. Rimanere fra quel caos verboso voleva dire lasciarsi confondere, coltivare affinità malsicure e mettere in pericolo la sicurezza morale delle proprie convinzioni. Mi trassi quindi in disparte. In realtà nessuno di quei congiurati da caffè la ha osato un complotto, nessuno di quegli improvvisati politici universali è stato capace di far della politica al momento necessario. Appena cominciò il lavoro positivo, la ricostruzione dopo ne la guerra, rimasero immersi nella loro negazione imbronciata, così come ai poeti antibellicisti di quei giorni ben di rado riuscì dopo la guerra un'opera notevole. Era stata la crisi del momento, pari ad una febbre, che discuteva, polemizzava e poetava in loro; come ogni gruppo formatosi per costellazione fugace e non in grazia di un'idea vissuta, così questa cerchia di uomini pure interessanti e dotati, si è dispersa appena fu superato l'ostacolo contro il quale essa agiva; appena fu cioè finita la guerra. Scelsi come giusto rifugio un alberghetto di Rüschlikon, a circa mezz'ora da Zurigo, dalle cui colline si vedeva tutto il lago, di mentre da lontano occhieggiavano ancora i campanili della città. Lì non avevo bisogno di vedere altro che gli invitati, i veri amici, e questi vennero, specialmente Rolland e [Frans] Masereel. Lì potei lavorare per mio conto ed utilizzare il tempo, che seguiva intanto il suo corso inesorabile. L'entrata in guerra dell'America rivelò come inevitabile la sconfitta tedesca a tutti quelli il cui sguardo non era accocato e il cui orecchio non era reso sordo dalle frasi patriottiche. Quando l'imperatore di Germania annunziò d'un tratto che d'ora innanzi avrebbe governato democraticamente, sapemmo a che punto fossimo. Confesso apertamente che noi austriaci tedeschi, malgrado la comunanza linguistica e spirituale, eravamo impazienti che s'affrettasse l'ine vitabile, visto che ormai era davvero inevitabile. La giornata in cui l'mperatore Guglielmo, che pure aveva giurato di combattere sino all'ultlmo respiro del cavaliere e del cavallo, scappò oltre confine, ed in cui Ludendorff, che aveva sacrificato milioni di uomini alla sua famosa «pace vittoriosa», si rifugiò con gli occhiali azzurri in Svezia, ebbe qualcosa di confortevole per noi. Noi credevamo infatti - e lo credette allora il mondo intero con noi - che con questa guerra fosse liquidata per tutti i tempi la guerra, che fosse domata e forse anche uccisa la belva che aveva desolato il nostro mondo. Noi credevamo al grandioso programma wilsoniano che coincideva col nostro, noi, in quei giorni in cui la rivoluzione russa celebrava la sua notte nuziale in forme ancora umane ed idealiste, vedevamo venire dall'Oriente una vaga aurora. Eravamo stolti, lo so, ma non eravamo i soli. Chi ha vissuto quel tempo, ricorda anche le strade di tutte le città tonanti di giubilo per accogliere Wilson quale risanatore del mondo, rivede i soldati nemici che s'abbracciavano e si baciavano. In Europa non vi fu mai tanto fervore di fede come in quelle prime giornate della pace. Allora finalmente vi era posto in terra per il sospirato regno della giustizia e della fraternità, allora o mai era giunta l'ora di quell'Europa solidale da noi sognata. L'inferno lo avevamo già superato, che altro poteva atterrirci? Si iniziava un mondo nuovo, e poiché noi eravamo giovani, ci dicemmo: sarà il nostro mondo, il mondo da noi vagheggiato, un mondo più umano e più buono.

Romain Rolland:
Les idoles,
Journal de Genève, 4 déc.1914

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La biografia di Rolland scritta da Stefan Zweig

Andreas Latzko, hongrois d'expression allemande, s'exila dès 1902 pour vivre à Berlin. La guerre le surprit à Gorizia (province italienne aujourd'hui sur la frontière italo-slovène) où, officier hongrois, il fut blessé dans les combats de 1915-1916.
Il connut un énorme succès populaire avec la publication de ce cri de révolte contre la guerre, «Hommes en guerre», classique de la littérature antimilitariste sur la guerre de 1914-1918. (Voir l'article de Pierre Deshusses dans le Monde des poches du 5 novembre 1999) SU
Robert Faesi , storico della letteratura e scrittore svizzero, nato il 10.4. 1883 a Zurigo, morto il 18.9.1972 a Zollikon (Zurigo).
Studiò a Berlino, Losanna e Zurigo. Dal 1922 al 1953 è stato professore di letteratura moderna tedesca e svizzera nella università di Zurigo. Le opere narrative di F. presentano per lo più figure storiche e contemporanee di Zurigo e della Svizzera, ma rivelano una mentalità cosmopolita; così i suoi primi libri, «Zürcher Idylle» (1908) e «Das poetische Zürich» (1913) si soffermano su episodi letterari del Settecento zurighese, mentre «Füsilier Wipf» (1917) analizza il destino di un giovane svizzero, e la trilogia successiva, «Die Stadt der Vater» (1941), «Die Stadt der Freiheit» (1944) e «Die Stadt des Friedens» (1952), racconta le vicende di tre svizzeri al tempo della rivoluzione francese. Nella poesia la sua produzione va dalla lirica ispirata alla poesia scherzosa; nel teatro dalla commedia di costume alla sacra rappresentazione. F. scrisse anche una serie di biografie di poeti. [Hans Grossrieder in DIZIONARIO DELLA LETTERATURA MONDIALE DEL NOVECENTO, Edizioni Paoline] SU
Oskar Fried, compositore e direttore d'orchestra tedesco naturalizzato sovietico (Berlino, 1º.VIII-1871 - Mosca, 5-VII-1941). Studiò con Humperdìnck a Francoforte s.M. e con Ph. Scharwenka a Berlino. Dal 1904 al '10 diresse lo «Sternscher Gesangverein», nel 1907 divenne direttore della «Gesellschaft der Musikfreunde» a Berlino e dal 1925 al '26 dell'Orchestra Sinfonica di questa città. Nel 1934 si trasferì a Tbilisi (URSS), dove fu nornìnato direttore dell'Opera. Acquistò nel 1940 la cittadinanza sovietica. Molto apprezzato come direttore d'orchestra, diffuse con passione la musica moderna, specie di Schönberg, Debussy e Mahler; di quest'ultimo diresse la «prima» mondiale della Seconda Sinfonia. SU