LEONID ANDREEV

PET'KA IN DACIA

(Traduzione di Giuseppe Cosimo Tria)

Osip Abramovic, il parrucchiere, aggiustò il lenzuolo sporco sul petto del cliente, lo ficcò con le dita nel colletto e gridò a strappi e recisamente:- Ragazzo, dell'acqua!
Il cliente, guardando nello specchio la sua fisionomia con quell'attenzione accentuata e quell'interesse che appaiono solo dal parrucchiere, notava che sul suo mento si era aggiunto un altro brufolo, e spostava insoddisfatto gli occhi, capitati direttamente sulla magra, piccola manina che da qualche parte si tendeva alla specchiera e metteva la scatola con l'acqua calda. Quando alzava gli occhi più in alto, vedeva il riflesso del parrucchiere, strano e come di sbieco, e scorgeva il rapido e minaccioso sguardo che quello buttava in basso sulla testa di qualcuno, e il muto movimento delle sue labbra dal sussurro non udibile, ma espressivo. Se non lo radeva lo stesso padrone Osip Abramovic, ma qualcuno degli apprendisti, Prokopij o Michajla, allora il sussurro si faceva rumoroso e assumeva la forma di una minaccia indefinita:
- Vedrai!
Questo significava che il ragazzo aveva portato l'acqua in maniera insufficientemente veloce e che lo attendeva una punizione, - pensava il cliente, torcendo la testa di lato e osservando proprio sul suo naso la grossa mano sudata, in cui tre dita erano distese, e le altre due, attaccaticce e odorose, si appoggiavano teneramente sulla guancia e sul mento, finché la rasatura un po' spuntata con uno spiacevole scricchiolio ascoltava... la schiuma da barba e la ruvida setola della barba. In questa parruccheria, impregnata di un noioso odore di profumi economici, piena di mosche importune e di sporco, il cliente non era esigente: portieri, commessi, a volte piccoli impiegati o operai, spesso giovani goffamente belli, ma sospettosi, con le guance rosse, i baffetti sottili e gli sfacciati occhietti untuosi. Non lontano si trovava il quartiere, pieno di case di corruzione economica. Esse signoreggiavano su questa località e le conferivano il carattere particolare di qualcosa di sporco, disordinato e inquieto. Il ragazzo che sgridavano più di tutti si chiamava Pet'ka ed era il più piccolo di tutti gli inservienti nell'esercizio. L'altro ragazzo, Nikolka, era tre anni più grande e presto doveva passare agli apprendisti. Già adesso, quando nella parruccheria, in assenza del padrone, erano pigri a lavorare, mandavano Nikolka a tagliare i capelli e ridevano quando doveva alzarsi sulle punte dei piedi per vedere la nuca capelluta di un robusto portiere. A volte il cliente si offendeva per i capelli rovinati e alzava un grido, allora gli apprendisti sgridavano Nikolka, non sul serio, ma solo per la soddisfazione del semplicione mal rasato. Ma questi casi avvenivano raramente, e Nikolka si dava delle arie e si conteneva come un grande: fumava sigarette, sputava attraverso i denti, bestemmiava con brutte parole e si vantava persino con Pet'ka di bere la vodka, ma probabilmente mentiva. Insieme agli apprendisti correva alla via accanto a guardare una grossa rissa, e, quando tornava da lì, felice e ridente, Osip Abramovic gli dava due schiaffi: uno per ogni guancia. Pet’ka aveva dieci anni; non fumava, non beveva vodka e non bestemmiava, sebbene conoscesse molte brutte parole, e per tutti questi aspetti invidiava il compagno. Quando non c'erano clienti e Prokopij, che passava da qualche parte notti insonni e di giorno camminava a stento dal desiderio di dormire, si appoggiava in un angolo scuro oltre il tramezzo, mentre Michajla leggeva e in mezzo alla descrizione dei furti e delle rapine cercava il nome conosciuto di qualcuno dei soliti clienti, Pet'ka e Nikolka conversavano. Quest'ultimo diventava sempre più buono, quando restavano in due, e spiegava al cosa significa tagliare i capelli alla polacca, a spazzola o con la scriminatura. A volte si sedevano sulla finestra, accanto al busto di cera di una donna, che aveva le guance rosa, gli occhi di vetro meravigliati e le rare ciglia diritte, e guardavano il viale, dove la vita iniziava dal primo mattino. Gli alberi del viale, grigi di polvere, immobili si infiacchivano sotto il sole ardente, impetuoso e davano la stessa ombra grigia, non rinfrescante. Su tutte le panchine c'erano uomini e donne seduti, vestiti in maniera sporca e strana, senza fazzoletti e cappelli, come se vivessero lì e non avessero altra casa. Erano visi indifferenti, malvagi o dissoluti, ma su tutti c'era il sigillo di un'estrema fatica e disprezzo per quanto li circondava. Spesso qualche testa arruffata si chinava senza forze sulla spalla, e il corpo involontariamente cercava spazio per il sonno, come il passeggero di terza classe che abbia attraversato mille verste senza riposo, ma non c'era posto dove stendersi. Per le stradine una guardia azzurro-chiara camminava su e giù con un bastone e guardava che qualcuno non si stendesse sulla panchina o non si buttasse sull'erba scolorita dal sole, ma così soffice, così fresca. Le donne, sempre vestite più pulite, persino con un accenno alla moda, erano tutte come dello stesso viso e della stessa età, sebbene a volte capitassero di molto vecchie o giovani, quasi bambine. Tutte parlavano con voci roche, recise, litigavano, abbracciavano gli uomini in modo così semplice, come se fossero sul viale completamente sole, a volte di colpo bevevano vodka e mangiucchiavano. Avveniva che un uomo ubriaco picchiasse una donna altrettanto ubriaca; ella cadeva, si alzava e di nuovo cadeva; ma nessuno ne prendeva le difese. I denti digrignavano allegramente, i visi diventavano più attenti e vivi, accanto ai litiganti si radunava la folla; ma quando si avvicinava la guardia azzurro-chiara, tutti si disperdevano pigramente per i loro posti. E soltanto la donna picchiata piangeva e bestemmiava senza senso; i suoi capelli arruffati si trascinavano lungo la sabbia, e il corpo seminudo, sporco e giallo alla luce del giorno, si esponeva all'esterno in modo cinico e penoso. La facevano sedere in fondo a una carrozza di vetturino e la portavano, e la sua testa sospesa oscillava, come quella di un morto. Nikolka conosceva per nome molte donne e uomini, raccontava di loro a Pet'ka storie sporche e rideva, mostrando i denti aguzzi. E Pet'ka si meravigliava di come fosse intelligente e intrepido, e pensava che prima o poi anche lui sarebbe stato lo stesso. Ma per ora aveva voglia di andare da qualche parte in un altro posto... Ne aveva molta voglia. I giorni di Pet'ka si allungavano in maniera incredibilmente monotona e simili uno all'altro, come fratelli germani. Estate e inverno vedeva sempre gli stessi specchi, dei quali uno aveva una crepa, e l'altro era curvo e buffo. Sul muro macchiato era appeso sempre lo stesso quadro, che raffigurava due donne nude sulla riva del mare, e solo i loro corpi rosa si facevano sempre più variopinti per le tracce delle mosche, e si ingrandiva la fuliggine nera in quel punto dove d'inverno quasi tutto il giorno ardeva la lampada a petrolio. E la mattina, e la sera, e tutto il giorno di Dio su Pet'ka era sospeso lo stesso grido staccato:
«RAGAZZO, dell'acqua», ed egli la dava sempre, la dava sempre. Non c'erano feste. Le domeniche, quando le finestre dei magazzini e delle botteghe finivano di illuminare la strada, la parruccheria buttava fino a tarda notte sulla strada un chiaro fascio di luce, e il passante vedeva la piccola figurina magra, che si incurvava in un angolo sulla sua sedia e carica né di pensieri, né di torpore pesante. Pet'ka dormiva molto, ma chissà perché aveva sempre voglia di dormire e spesso sembrava che tutto intorno a lui non fosse realtà, ma un lungo sogno spiacevole. Spesso versava l'acqua a terra o non sentiva il grido reciso «RAGAZZO, dell'acqua», e dimagriva sempre, e sulla sua testa rasata c'erano brutte croste. Persino i clienti non esigenti guardavano con disgusto questo bambino magro, lentigginoso, che aveva gli occhi sempre assonnati, la bocca mezza aperta e le mani e il collo oltremodo sporchi. Intorno agli occhi e sotto il naso gli erano spuntate rughe sottili, come tracciate da un ago acuminato, che lo rendevano simile a un nano invecchiato. Pet'ka non sapeva se era annoiato o allegro, ma voleva essere in un altro posto, di cui non poteva dire niente, né dove né quale. Quando lo veniva a trovare la madre, la cuoca Nadezda, egli mangiava pigramente i dolci portati, non si lamentava e chiedeva solo di essere portato via da lì. Ma poi dimenticava la sua richiesta, salutava indifferente la madre e non chiedeva quando sarebbe venuta di nuovo. E Nadezda pensava con dolore che aveva un solo figlio, e sciocchino. Da molto o da poco Pet'ka viveva in questo modo, egli non sapeva. Ma ecco che una volta venne a pranzo la madre, parlò con Osip Abramovic e disse che permettevano a lui, Pet'ka, di andare in dacia, a Caricyno, dove vivevano i suoi padroni. Dapprima Pet'ka non capì, poi il suo viso si coprì di rughe sottili di riso silenzioso, e iniziò a metter fretta a Nadezda. Ella doveva, per decoro, parlare con Osip Abramovic della salute di sua moglie, e Pet'ka zitto zitto la spingeva alla porta e la tirava per il braccio. Non sapeva cos'era la dacia, ma immaginava che fosse nello stesso posto a cui egli tanto anelava. Ed egoisticamente si era dimenticato di Nikolka, che, con le mani in tasca, stava lì e cercava di guardare Nadezda con la solita insolenza. Ma nei suoi occhi invece dell'insolenza brillava una profonda angoscia: non aveva affatto madre, ed in questo momento non avrebbe avuto nulla in contrario persino rispetto a una come quella grassa Nadezda. La questione era che egli non era mai stato in dacia. La stazione col suo vociante parapiglia, dei treni che arrivavano con fracasso, dei fischi delle locomotive, ora densi e arrabbiati come la voce di Osip Abramovic, ora striduli e sottili come la voce della sua moglie malata, dei passeggeri frettolosi, che sempre camminano e camminano, come se non finissero mai, - dapprima comparve davanti agli occhi stupefatti di Pet'ka e lo riempì di un sentimento di eccitazione e impazienza. Insieme alla madre temeva di far tardi, sebbene alla partenza del treno della villeggiatura mancasse una buona mezz'ora; e quando si sedettero nel vagone e partirono, Pet'ka si incollò alla finestra, e solo la sua testa rasata si girava sul collo sottile, come su un pernio metallico. Egli era nato e cresciuto in città, andava in campagna per la prima volta nella sua vita, e tutto ciò per lui era meravigliosamente nuovo e strano: sia il fatto che si poteva vedere così lontano, che il bosco sembrava erba, sia il cielo, che era in questo nuovo mondo meravigliosamente chiaro e ampio, come se si guardasse dal tetto. Pet'ka lo vedeva dalla sua parte, e quando si rivolgeva alla madre, lo stesso cielo si faceva azzurro nella finestra opposta, e vi navigavano, come angioletti, piccole nuvolette allegre. Pet'ka ora si girava alla sua finestra, ora correva all'altra parte del vagone, mettendo con fiducia la manina mal lavata sulle spalle e le ginocchia dei passeggeri sconosciuti, che gli rispondevano con dei sorrisi. Ma un signore, che leggeva il giornale e sbadigliava sempre, ora per l'estrema stanchezza, ora per la noia, un paio di volte guardò di sbieco ostilmente il ragazzo, e Nadezda si scusò in fretta:- E' la prima volta che va in treno - è interessato...- Uhu!.. - borbogliò il signore e sprofondò nel giornale. Nadezda aveva molta voglia di raccontargli che già da tre anni Pet'ka viveva dal parrucchiere e quello prometteva di metterlo in piedi, e questo sarebbe stato molto buono, perché lei era una donna sola e debole e non aveva un altro sostegno in caso di malattia o di vecchiaia. Ma il viso del signore era malvagio, e Nadezda pensò tutto ciò solo tra sé. A destra del cammino si stendeva la pianura gibbosa, verde scura per la continua umidità, e sul suo orlo erano buttate casette grigie, simili a giocattoli, e sull'alta montagna verde, sotto la quale brillava una striscia argentea, c'era una chiesa bianca che anch'essa pareva un giocattolo. Quando il treno con un sonoro sferragliare metallico, che si rafforzò improvvisamente, volò su un ponte e quasi stette sospeso nell'aria sulla superficie a specchio del fiume, Pet'ka sussultò addirittura dalla paura e dalla sorpresa e si scostò dalla finestra, ma subito vi tornò, temendo di perdere il più piccolo dettaglio del viaggio. Gli occhi di Pet'ka avevano già da molto smesso di sembrare assonnati, e le rughe erano sparite. Era come se per questo viso qualcuno fosse passato con un ferro da stiro ardente, avesse stirato le rughe e lo avesse reso bianco e brillante. Nei primi due giorni di permanenza di Pet'ka la ricchezza e la forza delle nuove impressioni profuse su di lui sia dall'alto che dal basso, prostrarono la sua piccola e timida animuccia. In contrapposizione ai selvaggi dei secoli scorsi, che si erano sbigottiti nel passaggio dal deserto alla città, questo selvaggio contemporaneo, strappato dagli abbracci di pietra delle moli urbane, si sentiva debole e impotente di fronte alla natura. Tutto qui era per lui vivo, sensibile e dotato di volontà. Temeva il bosco, che rumoreggiava tranquillamente sulla sua testa ed era scuro, pensoso e altrettanto terribile nella sua infinità; amava i praticelli, luminosi, verdi, allegri, che sembrava cantassero con tutti i loro colori chiari, e quasi voleva accarezzarli come sorelle, e il cielo azzurro scuro lo chiamava a sé e rideva come una madre. Pet'ka si agitava, fremeva e impallidiva, sorrideva a qualcosa e gradualmente, come un vecchio, passeggiava per il margine e la riva boscosa dello stagno. Lì, stanco, ansante, crollava sulla densa erba umidiccia e vi sprofondava; soltanto il suo piccolo nasino lentigginoso emergeva sulla superficie verde. Nei primi giorni ritornava spesso dalla madre, stava sempre accanto a lei, e quando il signore gli chiedeva se stava bene nella dacia, sorrideva confuso e rispondeva:- Bene! E poi di nuovo andava al bosco minaccioso e all'acqua silenziosa e quasi poneva loro domande su qualcosa. Ma passarono ancora due giorni, e Pet'ka entrò in pieno accordo con la natura. Ciò avvenne con la collaborazione del ginnasiale Mitja da Staroe Caricyno. Il ginnasiale Mitja aveva il viso giallo scuro come un vagone di seconda classe, i capelli sul cocuzzolo stavano ritti ed erano completamente bianchi - così li aveva bruciati il sole. Pescava il pesce nello stagno, quando Pet'ka lo vide, entrò in conversazione con lui senza cerimonie e strinse amicizia in maniera meravigliosamente veloce. Dava a Pet'ka da tenere una canna da pesca e poi lo conduceva da qualche parte lontana a nuotare. Pet'ka aveva molta paura di andare in acqua, ma quando entrò, non voleva strisciarne fuori e faceva finta di nuotare: alzava il naso e le sopracciglia, singhiozzava e batteva con le mani in acqua, sollevando schizzi. In questi momenti era molto simile a un cucciolo, capitato in acqua per la prima volta. Quando Pet'ka si vestiva, era azzurro dal freddo come un morto, e, parlando, batteva i denti. Su proposta dello stesso Mitja, inesauribile nelle trovate, esploravano le rovine di un palazzo; si arrampicavano su un tetto invaso dagli alberi e vagavano in mezzo alle mura rotte di un enorme edificio. Lì si stava molto bene: dappertutto si ammucchiavano ammassi di pietre, su cui si poteva salire con fatica, e in mezzo ad essi crescevano il giovane sorbo selvatico e le betulle, c'era un morto silenzio, e pareva che improvvisamente sarebbe saltato fuori qualcuno da dietro a un angolo o un ceffo oltremodo terribile sarebbe apparso nel vano screpolato della finestra. Gradualmente Pet'ka si sentì in dacia come a casa e dimenticò completamente che al mondo esisteva Osip Abramovic e la parruccheria.- Guarda come si è ingrossato! Un vero mercante! - si rallegrava Nadezda, essa stessa grassa e rossa dal caldo della cucina, come un samovar di rame. Ella attribuiva ciò al fatto che gli dava molto da mangiare. Ma Pet'ka mangiava molto poco, non perché non volesse mangiare, ma perché non c'era tempo per gingillarsi: se si fosse potuto non masticare, ingoiare subito, invece bisognava masticare, nel frattempo dimenare le gambe poiché Nadezda mangiava in maniera diabolicamente lenta, rosicchiava le ossa, si asciugava col grembiule e parlava di sciocchezze. E lui ne aveva fin sopra i capelli: bisogna fare il bagno cinque volte, intagliare una canna da pesca nel noce, scavare i vermi - per tutto ciò occorreva tempo. Adesso Pet'ka correva a piedi nudi, e questo era mille volte più piacevole che con gli stivali dalle suole grosse: la terra ruvida così carezzevole ora riscaldava, ora rinfrescava i piedi. La sua giacca ginnasiale usata, in cui egli sembrava un solido maestro della parruccheria, la tolse addirittura e ringiovanì incredibilmente. La indossava solo la sera, quando andava sulla diga a guardare i signori scivolare sulle barche: eleganti, allegri, si sedevano ridendo sulla barca oscillante, e questa tagliava lentamente l'acqua a specchio, e gli alberi riflessi oscillavano, come se vi corresse il venticello. Alla fine della settimana il padrone portò una lettera dalla città, indirizzata alla , e quando la lesse al suo destinatario, il destinatario si mise a piangere e spalmò per tutto il viso la fuliggine che era nel grembiule. Dalle parole frammentarie che accompagnavano questa operazione, si poteva capire che si trattava di Pet'ka. Era già verso sera. Pet'ka giocava da solo a nel cortile posteriore e gonfiava le guance, perché così saltare era molto più facile. Il ginnasiale Mitja gli aveva insegnato questa sciocca, ma interessante occupazione, e adesso Pet'ka, come un vero sportivo, si perfezionava da solo. Il padrone uscì e, mettendogli la mano sulla spalla, disse:- Fratello, devi andare!
Pet'ka sorrideva confuso e taceva.- pensò il padrone.- Fratello, devi andare. Pet'ka sorrideva. Si avvicinò Nadezda e confermò tra le lacrime:- Devi andare, figliolo! - Dove? - si meravigliò Pet'ka. Si era dimenticato della città, e un altro posto, dove aveva voglia di starsene per sempre, lo aveva già trovato. - Dal padrone Osip Abramovic. Pet'ka continuava a non capire, sebbene la cosa fosse chiara come la luce del sole. Ma gli si seccò la bocca e la lingua si muoveva con fatica, quando chiese:
- E come pescherò il pesce domani? La canna da pesca - eccola...- Che fare!.. E' necessario. Prokopij, dice, si è ammalato, l'hanno portato in ospedale. Non c'è gente, dice. Non piangere: guarda, ti lascerà venire di nuovo, è buono, Osip Abramovic. Ma Pet'ka non pensava neanche a piangere e continuava a non capire. Da una parte c'era un fatto, la canna da pesca, dall'altro un fantasma, Osip Abramovic. Ma gradualmente i pensieri di Pet'ka iniziarono a chiarirsi, e avvenne una strana rimozione: il fatto divenne Osip Abramovic, e la canna da pesca, che ancora non era riuscita a seccarsi, si trasformò in fantasma. E allora Pet'ka meravigliò la madre, turbò il padrone e la padrona, e si sarebbe meravigliato lui stesso, se fosse stato capace di autoanalisi: non si mise semplicemente a piangere, come piangono i bambini di città, magri ed estenuati, - si mise a gridare più forte di un muzik rumoroso e iniziò a scivolare per terra, come quelle donne ubriache sul viale. La sua manina magra si strinse in un pugno e colpì il braccio della madre, per terra, dove capitava, sentendo dolore per le pietruzze aguzze e i granelli di sabbia, ma quasi cercando di sforzarla ancora. A tempo debito Pet'ka si tranquillizzò, e il signore diceva alla signora che stava davanti allo specchio e ficcava nei capelli una rosa bianca:- Vedi - ha smesso - il dolore infantile non è duraturo.- Ma tuttavia ho lo stesso molta pena di questo povero ragazzo.- Davvero, vivono in condizioni spaventose, ma ci sono persone che vivono anche peggio. Sei pronta? E andarono nel giardino di Dipman, dove quella sera erano fissate delle danze e già suonava la musica militare. Il giorno successivo, con il treno delle sette del mattino, Pet'ka già andava a Mosca. Di nuovo balenavano davanti a lui campi verdi, grigi dalla rugiada della notte, soltanto non correvano in quella direzione di prima, ma in quella opposta. La giacca ginnasiale usata copriva il suo corpo magro, da dietro al colletto sporgeva l'estremità del colletto bianco di carta. Pet'ka non si girava e quasi non guardava la finestra, ma sedeva così silenzioso e modesto, e le sue manine erano educatamente messe sulle ginocchia. Gli occhi erano sonnacchiosi e apatici, sottili rughine, come di un vecchio, si stringevano intorno agli occhi e sotto il naso. Ecco che cominciarono a balenare alla finestra i pali e le capriate della piattaforma, e il treno si fermò. Urtandosi con i passeggeri frettolosi, uscirono sulla strada rumoreggiante, e la grande città avida ingoiò indifferente la sua piccola vittima.- Conserva la canna da pesca! - disse Pet'ka, quando la madre lo condusse alla soglia della parruccheria.- La conserverò, figliolo, la conserverò! Forse verrai ancora. E di nuovo nella parruccheria sporca e soffocante risuonava il frammentario «RAGAZZO, dell'acqua», e il cliente vedeva tendersi alla specchiera la piccola mano sporca, e sentiva indistintamente il sussurro minaccioso: «ECCO, vedrai!» Questo significava che il ragazzo assonnato aveva versato l'acqua o aveva confuso l'ordine. E la notte, nel posto in cui dormivano accanto Nikolka e Pet'ka, risuonava e si agitava la vocina bassa e raccontava della dacia, e parlava di cose che non esistono, che nessuno ha mai visto né udito. Nel silenzio sopraggiunto si sentiva il respiro irregolare dei petti dei ragazzi, e un'altra voce, rozza ed energica non in modo infantile, pronunciava:- Diavoli! Che gli escano gli occhi di fuori!- Quali diavoli? - Così... Tutti. Passava accanto un convoglio e con il suo possente rimbombo soffocava le voci dei ragazzi e quel grido lontano penoso, che già da molto giungeva dal viale, dove un uomo ubriaco colpiva una donna altrettanto ubriaca.