Don Chisciotte della Mancia
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CAPITOLO XLV

DELLA MANIERA STRAVAGANTE CON CUI FU INCANTATO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
CON ALTRI CELEBRI AVVENIMENTI.

CAPITOLO XLV

Trovandosi don Chisciotte sbarazzato da tanti litigi, siccome pure lo scudiere de' suoi, trovò ben fatto di proseguire l'incominciato suo viaggio, per metter fine alla grande avventura a cui era stato prescelto. Si pose dunque ginocchioni dinanzi a Dorotea, la quale non gli permise che proferisse parola sino a tanto che non si fosse rizzato in piedi; ed egli per obbedirla si alzò e le disse:

— È comune proverbio, o bella signora, che la diligenza scaccia la mala ventura, ed in molti e gravi affari mostrò la sperienza che la sollecitudine del negoziante guida a buon termine il piato dubbioso. Non può aversi maggior prova di questa verità quanto in fatto di guerra, dove la straordinaria celerità previene i disegni dell'inimico, ed accelera la vittoria prima che la parte avversaria si acconci alla difesa. Tutto ciò io metto nella vostra considerazione, alta e preziosa signora, perché sembrami che la nostra dimora in questo castello sia infruttuosa e potrebbe diventare di tanto pregiudizio da accorgercene pur troppo coll'andare del tempo; imperocché chi sa mai se per occulti e diligenti esploratori non abbia risaputo il gigante vostro nimico ch'io vado a distruggerlo, ed usando del benefizio del tempo non voglia munirsi in qualche inespugnabile castello o fortezza contro cui non potesse avere consueta efficacia la mia avvedutezza, né la forza dell'infaticabile mio braccio? Perciò, mia signora, prevenghiamo, come vi ho detto, colla nostra diligenza i disegni suoi, e senz'altro ripigliamo il cammino, perché il vedervi restituita nella pristina grandezza non da altro dipende che dal venire presto a cimento col vostro nimico.»

Tacque don Chisciotte, ed attese con molta gravità la risposta della bella infanta, la quale con garbo signorile e adattato allo stile di don Chisciotte, gli rispose in questa guisa:

— Aggradisco, signor cavaliere, il desiderio che dimostrate di proteggermi nella mia grande sciagura, appunto come cavaliere dedicatosi a proteggere gli orfani e i bisognosi. Voglia il Cielo che il mio e il vostro desiderio si compiano perché abbiate occasione di conoscere che al mondo vivono donne che sanno riconoscere i benefizi. Quanto poi alla mia partenza segua pure all'istante; io non ho altro volere che il vostro; disponete di me liberamente e come vi piace, mentre quella che una volta affidò a voi la difesa di sua persona, ed ha rimesso nelle vostre mani il riacquisto del proprio impero, non dee farsi lecito di contrastare a ciò che dalla prudenza vostra venga disposto.

— Or bene, disse don Chisciotte, poiché una tanta signora sì fattamente con me si umilia, io non voglio perdere l'occasione di rialzarla a sedere una volta sull'ereditario suo trono. Si vada tosto, ché il desiderio m'è di sprone al cammino, solendosi dire: che l'indugio talvolta partorisce pericolo. E giacché non fu creato ancora dal Cielo, né vide tuttavia l'inferno chi mi spaventi o mi renda codardo, metti, o Sancio, la sella a Ronzinante, allestisci il tuo giumento e il palaferno della regina, togliamo licenza dal castellano, e da questi signori, e partiamoci immediatamente.»

Sancio che tutto ascoltava, disse, dimenando la testa:

— Ah signore, signore v'è più male nel villaggio che il pastore non pensa, con sopportazione delle donne dabbene.

— Che male, disse don Chisciotte, o che villaggio o pastore vai tu rimestando, villan manigoldo?

— Se vossignoria va in collera, rispose Sancio, io metterò la lingua nel sacco, e lascerò di dire quello a cui sono obbligato come buon scudiere, e come deve spiegarsi col suo padrone un leal servitore.

— Di' pur ciò che vuoi, replicò don Chisciotte, purché non ti metta in capo d'incutermi timore; ché se tu l'hai, diportati da quello che sei, ed io che non l'ho mi regolo da mio pari.

— Non è già per questo, poveraccio di me! disse Sancio; ma perché io tengo per cosa sicura che questa signora che si chiama regina del gran regno Micomicone tanto sia regina come la madre che mi ha fatto: perché se tal fosse davvero non si affratellerebbe con queste persone in maniera che certo non si conviene ad una grande costumata signora.»

Arrossì Dorotea a queste parole, ricordandosi che Sancio l'avea veduta a stretto colloquio con don Fernando, di cui egli non sapeva ch'essa era sposa: però non trovando ella opportuna risposta, egli proseguì il suo discorso dicendo:

— Questo, signor padrone, le dico; perché se dopo aver fatto viaggi lunghi e pericolosi, e passato male notti e peggiori giorni, dovessimo cogliere il frutto che abbiamo già colto in quest'osteria, non c'è ragione alcuna che io mi affretti a insellare Ronzinante, a mettere la bardella al giumento e ad allestire il palafreno; e sarebbe più savio partito non muoverci di qua; e porti pazienza chi ha bisogno del nostro aiuto.» Non è possibile descrivere la bile da cui fu preso don Chisciotte per le temerarie espressioni del suo scudiere; fu sì grande che con voce soffocata e interrotta, schizzando vivo foco dagli occhi, disse:

— Ah villanaccio, furfante, animale senza ragione, idiota, insolente, temerario, mormoratore, audace, così osi parlare in presenza mia di tante inclite dame, e nella tua confusa testa hai osato di concepire tali inverecondie e indegnità in loro aggravio? Togliti al mio cospetto, mostro di natura, depositario di menzogne, ricettacolo di cabale, granaio di furfanterie, inventore di malvagità, pubblicatore d'infamie, nimico del rispetto dovuto alle reali persone: vattene e non comparire mai più al mio cospetto sotto pena della mia indignazione.»

Detto questo inarcò le ciglia, gonfiò le guance, guardò di ogni intorno e diede col piè destro un colpo in terra, segni tutti dell'ira che lo rodeva nel cuore. A tali furiose parole e spaventevoli gesti Sancio rimase sì attonito ed impaurito che avrebbe voluto che la terra se gli aprisse di sotto ai piedi e lo avesse inghiottito vivo; né seppe altro fare, che volger le spalle e togliersi dinanzi all'irata faccia del suo padrone. L'accorta Dorotea, la quale conoscea a fondo l'umore di don Chisciotte, per ammorzare tanta collera così si fece a dirgli:

— Non arrovellate, signor cavaliere dalla Trista Figura, per le scimunitaggini proferite dal vostro buono scudiere, mentre fors'egli non le ha dette senza fondamento; oltre di che il suo retto giudizio e la sua religiosa coscienza tolgono qualunque sospetto di malvagia intenzione. Si dee credere senza mover dubbio alcuno che in questo castello (a quanto signor cavaliere, ne dite) tutto avvenga e proceda per via d'incantesimi; e potrebbe darsi che Sancio per arte diabolica avesse veduto quanto asserì a detrimento della mia buona fama.

— Giuro per tutte le potenze del Cielo e per la vita di Dulcinea, rispose don Chisciotte, che la grandezza vostra ha dato proprio nel segno, e che qualche maligna visione si affacciò a quel poveraccio di Sancio, e gli fece scorgere ciò che sarebbe stato impossibile che fosse da lui veduto senz'opera d'incantesimo; mentre io sono pienamente convinto della bontà e semplicità di questo disgraziato, e non ho bisogno della testimonianza di alcuno.

— La cosa passa appunto così; e così sarà eziandio in avvenire, disse don Fernando; e dee perciò la signoria vostra, signor don Chisciotte perdonargli e ricondurlo al grembo della sua buona grazia sicut erat in principio, e prima che le fantasime lo facessero uscir di cervello.» Rispose don Chisciotte che gli perdonava. Allora il curato gli ricondusse Sancio, il quale gli venne in atto di somma umiltà, e inginocchiatosi, prese la mano al suo padrone che gliela porse, e dopo essersela lasciata baciare gl'impartì la benedizione, e gli disse:

— Ora finirai di convincerti, Sancio figliuolo, esser vero quanto altre volte ti ho detto, cioè che le cose tutte che passano in questo castello seguono solo per incanto.

— Così crederò, rispose Sancio, eccettuato però l'affare dello sbalzamento della coperta ch'è succeduto per le vie ordinarie.

— Non crederlo, rispose don Chisciotte, perché, se così fosse stato, io ti avrei vendicato allora e lo farei adesso di bel nuovo; ma né il potei né lo posso non sapendo verso cui esercitare la vendetta dell'offesa che hai patita.»

Bramarono tutti di venire al fatto della coperta, e l'oste raccontò loro punto per punto il volo di Sancio Pancia. Ognuno scoppiava dalle risa, e Sancio intanto s'irritava talmente, che gli sarebbe venuta un'altra volta la mosca sul naso, se non fosse stato nuovamente assicurato dal suo padrone che tutto era seguito per incantesimo. Con tutto ciò l'imbecillità di Sancio non giunse mai a tale di persuadersi che ciò fosse vero; ma ritenne per invariabile e pura verità di essere stato sbalzato in aria per opera d'uomini in carne e in ossa, e non già per sognate od immaginate fantasime, come il suo padrone credeva e affermava.

Erano già scorsi due giorni che la illustre comitiva alloggiava nell'osteria; e parendo che fosse ormai tempo di partirsene, pensarono come senza obbligar Dorotea e don Fernando ad accompagnar don Chisciotte alla sua terra nativa per seguitare l'invenzione di liberare la regina Micomicona, potessero il curato e il barbiere venire a capo di guarirlo dalle sue pazzie. Il modo concertato fu questo: un carradore di buoi, il quale si abbatté per sorte a passar per quella strada, fu da essi accordato perché lo conducesse seco, e acconciarono di vincastri commessi a griglia una specie di gabbia capace di contenervi agiatamente don Chisciotte.

Fatto ciò don Fernando e i suoi compagni e i servitori di don Luigi e la sbirraglia e l'oste, tutti di commissione e per consiglio del curato si coprirono la faccia, trasfigurandosi chi in uno e chi in altro modo, sicché don Chisciotte dovesse crederli gente diversa da quella veduta fino allora nel supposto castello. Tutti entrarono poi con alto silenzio dove egli stava dormendo; e gli si accostarono mentre egli non sospettando in verun modo ciò ch'era per accadergli, tranquillamente sognava. Lo ghermirono, e gli legarono strettamente le mani e i piedi con tanta celerità che quando si svegliò già gli era impossibile il moversi; ma rimase attonito e fuori di sé nel vedersi dinanzi figure così insolite e strane.

Cadde tosto dove la stravolta sua fantasia lo portava, e credette che tutte quelle figure fossero fantasime abitatrici di quel castello, e ch'egli se ne stesse senza verun dubbio incantato, né potesse mutare di sito, né difendersi: il tutto per lo appunto seguì come avea pensato che dovesse succedere il curato macchinatore di quel complotto. Il solo Sancio, tra tutti quelli ch'erano presenti, restava perfettamente in cervello e nello stato di prima; e benché poco gli mancasse per cadere nella infermità del suo padrone, pure conobbe chiaramente chi erano quelle contraffatte figure, ma non osò di aprir bocca, finché veduto non avesse dove andava a finir quell'assalto e quella prigionia del padrone. Questi non moveva sillaba aspettando l'esito della sua disgrazia; il quale fu questo, che recata ivi la gabbia ve lo rinchiusero dentro, e vi conficcarono dei legni sì fortemente che non li avrebbe mai potuti spezzare. Lo portarono sopra le spalle, e nell'uscire dalla stanza si udì una voce spaventosa che facea gran rimbombo, ed era mandata fuori dal barbiere, non già quello della bardella, ma l'altro; diceva:

O cavaliere dalla Trista Figura, non ti rincresca di andare così prigioniero...— O cavaliere dalla Trista Figura, non ti rincresca di andare così prigioniero, che ciò è necessario perché abbia un più sollecito fine l'avventura in cui ti ha posto il tuo sommo valore. Questa avrà termine quando il furibondo Leone mancego con la candida Colomba tobosina si uniranno insieme, ed avranno le loro alte cervice umiliate sotto il blando giogo matrimoniale; e da questo inaudito consorzio usciranno alla luce del mondo i bravi leoncini che imiteranno gli artigli sbranatori del valoroso genitore. Avverrà tutto questo prima che il seguace della fuggitiva ninfa compia due volte il giro delle rilucenti immagini col rapido e naturale suo corso. E tu, il più nobile e obbediente scudiere che cingesse mai spada, o avesse barba al mento ed olfato al naso, non atterrirti, né ti dolere se vedi esserti così tolto dinanzi il fiore della errante cavalleria; presto, se al fabbricatore dell'universo sia grado, ti vedrai sublimato a tanta altezza che non conoscerai più te medesimo, e non riusciranno vane le promesse che ti fece il tuo padrone. Da parte della maga Mentironiana ti assicuro che sarai pagato del tuo salario, e ciò vedrai in effetto; ma seguita intanto le pedate del valoroso e incantato cavaliere perché conviene che tu vada al posto dove ambedue dovete trovarvi. Restatevene, addio; io torno nella mia cupa caverna.»

Nell'annunziare la profezia il barbiere alzava più che mai la voce, e andava poscia diminuendola con sì tenero accento che quelli pure che erano a parte della burla poco mancava che non credessero essere vero quanto ascoltavano. Le udite parole racconsolarono don Chisciotte il quale ne comprese a puntino tutto il significato, e specialmente la promessa che gli era fatta di unirsi in santo e debito matrimonio con l'amata sua Dulcinea del Toboso, dal cui grembo fortunato sarebbero usciti i leoncini, i quali sarebbero stati figliuoli per eterna e perpetua gloria della provincia della Mancia. Tenendo ciò per infallibile diede un grido, mandò un lungo sospiro, e disse:

CAPITOLO XLV— O qualunque ti sia, che sì gran bene, hai pronosticato, procurami, te ne prego, dal savio incantatore che regge i miei destini la grazia che non mi lasci perire in questa prigione dove ora mi rinserrano sino a tanto che io non vegga compite sì liete e tanto incomparabili ed alte promesse, quante sono quelle che mi vengono fatte. Se a tal favore ei discende io mi ascriverò a gloria la pena di questo carcere, e a dolce alleggiamento le catene che mi tengono avvinto; né già terrò per duro campo di battaglia il letto sul quale ora mi trovo steso, ma piuttosto per soffice origliere e per talamo avventuroso. Per quanto appartiene al conforto di Sancio Pancia mio scudiere, confido nella bontà e nel suo onesto procedere, che non mi abbandonerà negli eventi di prospera o rea fortuna. Accadendo che o per sua o per mia mala sorte non gli potessi donare l'isola che gli ho promesso, o fargli altro equivalente benefizio, non avrà egli mai ad esser frodato del suo salario, avendo io già ordinata nel mio testamento la sua mercede, se non conforme ai suoi molti e leali servigi, in proporzione almeno alla mia facoltà.»

Sancio Pancia s'inginocchiò e gli baciò a capo chino le mani: né avrebbe potuto baciargliene una sola; poiché ambedue erano strettamente legate insieme. Le fantasime alzarono di peso la gabbia, la trasportarono e la accomodarono sopra il carro.

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