Don Chisciotte della Mancia
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CAPITOLO LXVIII

CHE TIEN DIETRO AL CAPITOLO SESSANTASETTE, E TRATTA DI COSE NECESSARIE
A SAPERSI PER MAGGIOR CHIAREZZA DI QUESTA STORIA.

CAPITOLO LXVIII

Sancio dormì quella notte in una carriuola nella stanza medesima di don Chisciotte; ma avrebbe voluto poter farne a meno, sapendo benissimo che il suo padrone non gli avrebbe lasciato chiuder occhio a furia di domande, e risposte, e non trovavasi egli in disposizione di parlar molto; come colui che pel sofferto martirio non aveva la lingua spedita, sicché gli sarebbe tornato assai meglio il dormire soletto in qual si fosse stanzaccia piuttosto che in compagnia in bellissima camera. Il suo timore gli riuscì sì vero, e il dubbio sì certo, che coricatosi appena, il suo padrone gli disse:

— Che te ne pare, Sancio, di quello ch'è accaduto in questa notte? Non si può negare che non sia grande e terribile la forza di una disperazione amorosa, poiché cogli occhi tuoi stessi vedesti morta Altisidora non per altri dardi o per altra spada, né uccisa con altro istrumento o con altro mortifero veleno, che col solo riflesso del rigore e della trascuranza che ho dimostrata per lei.

— Fosse pure andata alla malora, rispose Sancio, quanto e come avesse voluto, ed avesse lasciato stare me in libertà, ché io non l'ho innamorata mai, né curata mai: e non posso capire come sia questa cosa che la sanità di Altisidora, più capricciosa che savia, abbia a che fare, come dissi altra volta, coi martirii del povero Sancio Pancia: basta, bisogna pure persuadersi che vanno pel mondo incantatori ed incanti, dei quali mi scampi Dio, poiché non so liberarmene da mia posta: e contuttociò supplico vossignoria che mi lasci dormire, né mi faccia altre dimande se non vuole che io mi disperi e mi getti da una finestra.

— Dormi pure, amico Sancio, rispose don Chisciotte, se lo puoi in onta delle ricevute spillettate, dei pizzicotti e delle guanciate che ti hanno dato.

— Nessun dolore, Sancio replicò, fu tanto grande quanto l'affronto degli schiaffi, non per altro se non perché li ho ricevuti per mano di matrone, che possano tutte profondare negli abissi; ma torno a pregare vossignoria che mi lasci dormire; mentre il sonno è un sollievo delle miserie per quelli che ne sono sopraccaricati.

— Orsù, dormi a tua voglia, disse don Chisciotte, e Dio ti accompagni.»

Si posero a dormire tutti e due, e intanto piacque a Cide Hamete, autore di questa grande istoria, di scrivere e di dar conto della ragione che mosse i duchi a ordire l'edifizio della macchina riferita. Ripiglia egli pertanto col dire che non essendosi dimenticato mai il baccelliere Carrasco di quando fu vinto e scavalcato da don Chisciotte, volle tentar nuova sorte, confidando di cavarne miglior successo. Informatosi dunque dal paggio che recò la lettera e i donativi a Teresa Pancia, moglie di Sancio, dove fosse rimasto don Chisciotte, aveva cercato nuove armi e nuovo cavallo, e aggiunta al suo scudo la bianca luna, portando ogni cosa sopra un mulo condotto da un contadino, ma non da Tomaso Zeziale, suo antico scudiere, perché non fosse riconosciuto da Sancio, né dal suo padrone. Giunto al castello del duca venne informato che don Chisciotte erasi avviato alla giostra di Saragozza, e delle burle che s'era prese di lui e di Sancio; delle quali cose tutte rise non poco e fe' le maraviglie il baccelliere, che teneva sempre la mente rivolta all'acutezza e semplicità di Sancio, ed all'estremo della pazzia di don Chisciotte. Gli aveva detto il duca che se lo trovasse, gli riuscisse o no vincerlo, ripassasse al suo castello per dargli conto di tutto il successo. Così fatto aveva il baccelliere: partì cercando di lui, nol trovò in Saragozza, passò avanti, e gli accadde quanto si è raccontato: tornato poi al castello del duca, gli disse ogni cosa colle condizioni della battaglia, e che già don Chisciotte era pronto, come buon cavaliere errante, a mantenere la sua promessa e starsene ritirato pel corso di un anno nel suo paese; nel qual tempo poteva accadere (soggiunse il baccelliere) che risanasse della sua pazzia. Assicurò che questa era l'unica intenzione che lo aveva mosso a fare quelle trasformazioni, per impedire che un cittadino tanto sensato com'era don Chisciotte, finisse pazzo del tutto, e partì poi dalla casa del duca, e tornò al suo paese, aspettandovi don Chisciotte che fedelmente lo seguitava. Tutte queste notizie furono causa delle bizzarrie del duca nel fargli le narrate burle: sì grande era lo spasso che si prendeva egli delle cose di Sancio e di don Chisciotte; ond'è che nelle lontane strade, per dove pensò che don Chisciotte dovesse passare, aveva inviati i suoi servi a piedi e a cavallo, affinché trovandolo, o per forza o per amore seco lo menassero al castello. Lo raggiunsero, e ne resero informato il duca, il quale disposto avendo ciò che immaginava di fare, non ebbe appena notizia del suo arrivo, che ordinò che fossero accese le torce e le candele dell'andito, e che Altisidora si coricasse sul catafalco con tutti gli apparati già descritti. Dice qui Cide Hamete Ben-Engeli che quanto a lui egli giudica senza esitare che fossero tanto pazzi i burlatori quanto i burlati, e che i duchi non erano due dita lontani dal meritarsi il titolo di balordi per quella loro grande smania di farsi giuoco di due scimuniti; i quali (per ritornare alla nostra narrazione) l'uno dormendo saporitamente e l'altro vegliando coi suoi fantastici pensieri, furono colti dal giorno e dalla voglia di alzarsi: ché le oziose piume, né come vinto, né come vincitore, piacquero mai a don Chisciotte.

Altisidora risuscitata, secondando l'umore dei suoi padroni, coronata colla ghirlanda medesima di cui era adorna sul catafalco, e vestita con tunicella di taffettà bianco seminata di fiori d'oro, coi capegli sciolti giù per le spalle ed appoggiata a bastone di nero e finissimo ebano, entrò nella camera di don Chisciotte. La vide egli appena, che turbato e confuso si ravvolse e coprì tutto col lenzuolo e colla coltre del letto, non articolando parola, né sapendo come trovare la via per farle alcun segno di cortesia e di riverenza. Altisidora si pose a sedere in una sedia accanto al letto, e dopo avere mandato il più profondo sospiro, con tenera e fioca voce gli disse:

— Quando le donne di alta nascita e le ritirate donzelle dànno bando all'onore, e libertà alla lingua di parlare senz'avvertenza, facendo pubblici i segreti sepolti nel loro cuore, si trovano al cattivo termine in cui io sono. Io, o signor Don Chisciotte della Mancia, sono una di queste, miserabile, vinta e innamorata; ma contuttociò onesta e sofferente tanto, che per esserlo a sì alto grado questa mia anima scoppiò pel silenzio, ed io ne perdetti la vita. Corrono due giorni da che riflettendo alla crudeltà con cui mi trattasti, o più duro del marmo alle querele mie, o perfidioso cavaliere, io ho dovuto restar morta od essere almeno giudicata tale da chi mi ha veduta: e se stato non fosse l'Amore, che sentendo pietà del caso mio, depositò il mio rimedio nei martirii di questo buono scudiere, mi troverei di già all'altro mondo.

— Sarebbe stato meglio, disse Sancio, che Amore avesse depositato il rimedio nei martirii del mio asino, che io gliene avrei anche avuto obbligo; ma mi dica di grazia, o signora (che il cielo la accomodi di altro amante più tenero del mio padrone), che cosa ha veduto ella nell'altro mondo? Che cosa c'è egli all'inferno? Donde viene che chi muore disperato abbia ad andare colaggiù per forza?

— A dirvi il vero, rispose Altisidora, io non dovetti morire interamente, giacché non entrai nell'inferno; ché se ciò fosse stato non ne avrei potuto uscire a patto alcuno: vero è bensì che giunsi sino alla porta dove stavano una dozzina di diavoli giocando alle pallottole, tutti in calze e giubbone, con collari guerniti di merletti e di reticelle fiamminghe, e con manichini che loro servivano di ribecchini a lattughe, dai quali uscivano quattro dita di braccia, acciocché le mani paressero più lunghe. In esse tenevano molte pallottole di fuoco, e quello che più mi fece stupire si fu che per formarle servivansi di certi libri all'apparenza pieni di vento e di borra, cosa mirabile e nuova; ma non fu questa la sola causa del mio stordimento, giacché lo fu pure il vedere che essendo proprio dei giuocatori il rallegrarsi chi vince e rattristarsi chi perde, a quel giuoco stavano tutti col grugno e brontolavano, e tutti si arrabbiavano e tutti si maledicevano.

— Di questa cosa non è da farsi alcuna maraviglia, rispose Sancio, perché i diavoli o giuochino o no, non possono essere mai contenti né quando perdono, né quando vincono.

— Così debb'essere, rispose Altisidora; ma c'è altra cosa che mi fece trasecolare, e fu che al primo balzo non rimaneva più palla sana, o almeno che fosse buona da giuocare altra volta, e così balzavano e si distruggevano qua e là i libri che era uno stupore. Ad uno di essi, nuovo e fiammante e ben legato, diedero sì terribile colpo da fargli schizzare fuora le budella, ond'è che le carte andarono disperse; e disse uno ad un altro diavolo:

— Guarda un poco che libro è codesto? E il diavolo rispose:

— Questo è la seconda Parte della storia di don Chisciotte della Mancia, non già composta da Cide Hamete, suo primo autore, ma dall'Aragonese che dice essere naturale di Tordesiglia. — Toglietemelo via dagli occhi, l'altro diavolo rispose, e sprofondatelo nell'abisso dell'inferno, sicché le mie pupille mai più non lo veggano.

— Tanto egli è pessimo? rispondeva l'altro.

— Tanto pessimo, soggiungeva il primo, che se io medesimo mi fossi accinto a comporlo, non ne avrei potuto fare uno peggiore;» e così seguitarono il giuoco con altri libri: ed io avendo sentito il nome di don Chisciotte, che tanto apprezzo ed amo, procurai di tenermi bene in mente quella visione.

— Visione debb'essere stata senza dubbio, disse don Chisciotte, perché al mondo non v'è un altro io; e già cotesta storia va attorno da una in altra mano, ma in alcuna non resta, poiché ognuno le dà un calcio né io mi sono punto alterato nell'udire che vo come corpo fantastico per le tenebre dell'abisso e per la luce della terra, non essendo io quegli di cui tratta cotale spuria istoria: e poi se fosse buona, fedele e veridica, vivrebbe dei secoli; ma siccome è cattiva, molto corto sarà il passo tra il suo nascere e il suo morire.»

Voleva Altisidora continuare a dolersi di don Chisciotte, quand'egli la interruppe, dicendo:

«Già vi dichiarai molte volte, o signora, che mi dispiace che voi abbiate in me collocati i vostri pensieri, perché io posso piuttosto gradirli che secondarli. Nacqui per essere di Dulcinea del Toboso; e i destini, se pure vi sono, mi hanno fatto per lei: ed è pensare all'impossibile l'immaginarsi che altra bellezza riesca ad occupare quella fede che a lei sola ho serbata: e questo vi serva di disinganno, ritirandovi nei limiti della vostra onestà, che nessuno si potrà mai obbligare a quello che non può essere.»

Sentendo questo, Altisidora fece vista di entrare in collera e di alterarsi, e gli disse:

— Viva Dio! don Merluzzo, anima di mortaio, nocciuolo di dattero, più ostinato e duro di villano pregato quando diventa cavaliero, che se io mi metto attorno ti cavo codesti occhiacci: pensi tu forse, signor don fracassato a bastonate, che io mi sia morta per causa tua? Tutto quello che stanotte hai visto è stato finzione, ché io non sono donna che per somiglianti capelli abbia a soffrire il dolore di un solo nero di ugna, non che morirmi.

— E io ne sono pienamente persuaso, soggiunse Sancio, che queste morti degli innamorati sono tutte baie: e possono bene decantarle, ma che poi le mettano in esecuzione credalo Giuda.»

Stando in questi ragionamenti, entrò il musico cantatore e poeta, che aveva gorgheggiate le due già riferite ottave, il quale, fatta a don Chisciotte profonda riverenza, disse:

— Mi conti vossignoria, signor cavaliere e mi tenga nel novero dei suoi più fidati servidori, ch'è molto tempo che io me le sono affezionato sì per la celebrità ch'ella gode come per le imprese che vanta.»

Don Chisciotte gli rispose:

— Mi dica la signoria vostra chi ella è, affinché la mia civiltà corrisponder possa ai suoi meriti.»

Rispose il giovane:

— Io sono il musico ed il panegirista della notte scorsa.

— Per certo; replicò don Chisciotte, ch'ella ha voce eccellentissima, ma quello ch'ella cantò non mi parve che cadesse gran fatto a proposito, che hanno a fare le ottave di Garcilasso con la morte di questa signora?

— Di questo non si meravigli vossignoria, riprese il musico, ché tra gl'intonsi poeti dell'età nostra è alla moda la piena libertà dello scrivere e del rubare dagli altri autori; e venga o non venga a proposito quello che scrivono, non vi è scioccheria che non mettano in versi e in musica attribuendola a licenza poetica.»

Don Chisciotte avrebbe voluto replicare, ma ne fu impedito dai duchi venuti essi pure a visitarlo, e coi quali tenne lungo piacevole dialogo, prendendovi parte anche Sancio, il quale disse tante facezie e tante malizie, che i duchi non si saziavano mai di sentire tanta furia di semplicità e di acutezze. Li supplicò don Chisciotte che lo lasciassero partire in quel giorno medesimo, poiché ai vinti cavalieri come lui conveniva meglio di soggiornare in porcile che in palagio reale. Vi acconsentirono di buon grado, e la duchessa gli dimandò se Altisidora restata fosse nella sua buona grazia. Rispose:

— Sappia, signora mia, che tutto il male di questa donzella nasce dal suo ozio, il cui rimedio non in altro consisterebbe che in una onesta ed incessante occupazione. Mi disse poco fa che nell'inferno si usano le reticelle e siccome ella deve saperle fare, badi ad ordirne, e così occupandosi in dimenare i piombini, la sua immaginazione non troverà pascolo negli oggetti ai quali ha donato il suo cuore; è questa verità, è questo il mio parere, è questo il mio consiglio.

— Ed anche il mio, soggiunse Sancio, che parlando per esperienza dico che non ho visto mai reticellaia che sia morta per innamoramento. Una donzella occupata nel lavoro pone più presto i suoi pensieri in finire il suo compito che in pensare agli amori; e in questo pigli esempio da me, che quando sto zappando non mi ricordo punto del mio idolo, voglio dire se la mia Teresa Pancia mi voglia bene più che alle pupille dei suoi occhi.

— Voi parlate da grande uomo, disse la duchessa, ed io farò che la mia Altisidora si impieghi da ora innanzi in cucire lenzuola e camicie ed altra biancheria; lavori ch'ella conosce molto bene.

— Non occorrerà, disse allora Altisidora, che la signoria vostra si serva di questo rimedio, mentre basterà a cancellare dalla mia memoria questo maledetto bestione con la considerazione della sua crudeltà; e con licenza di vostra grandezza voglio levarmi di qua per non vedermi più davanti agli occhi, non dirò la sua trista figura, ma il suo brutto ed abbominevole mostaccio.

— Mi pare, signorina mia; disse allora il duca, che siamo a quello che si suol dire: Chi ingiuria è prossimo a perdonare.»

Altisidora fece vista di rasciugarsi le lagrime col fazzoletto, e riveriti sommessamente i suoi padroni, se ne uscì dalla camera.

— Io ti annunzio, o povera donzella, disse Sancio, io ti annuncio malaventura: poiché tu te la sei pur questa volta pigliata con animuccia di giunco marino e con cuore di quercia, ma affé che se fossi stato io il provocato da te, tu sentiresti adesso altro suono.

Il discorso terminò; don Chisciotte si vestì, desinò coi duchi e partì quella stessa sera.

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