Don Chisciotte della Mancia
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CAPITOLO LXXII

COME DON CHISCIOTTE CADDE AMMALATO, E DEL TESTAMENTO
CHE FECE E DELLA SUA MORTE.

CAPITOLO LXXII

Conciossiacosaché le umane cose non possono essere eterne, declinando elleno sempre dai loro principī finché giungono all'ultimo fine, e ciò è specialmente proprio delle vite degli uomini, così non avendo la vita di don Chisciotte alcun particolare privilegio dal Cielo che la conservasse, pervenne al suo termine ed all'ultima sua ora quando egli meno se la aspettava. O fosse la malinconia che s'ingenerava in lui per essere stato vinto, ovvero la disposizione del Cielo che così ordinava, fu preso da una febbre che lo tenne sei giorni a letto, nei quali era sempre visitato dal curato, dal baccelliere e dal barbiere, suoi amici, oltre di che il suo buon scudiere Sancio Pancia non si discostò mai dal suo capezzale. Sospettavano tutti che il cordoglio di essere stato vinto e di non poter vedere compiti i suoi voti colla libertà e col disincanto di Dulcinea lo avesse ridotto a quello stato, e però tentavano ogni via per distrarlo, dicendogli il baccelliere che stesse di buon animo e pensasse ad escire dal letto a fine di dare cominciamento al pastorale esercizio, per cui aveva già apparecchiata un'egloga che ne disgradava quante ne avesse composte il celebre Sanazzaro; ed in oltre che aveva già comperato co' suoi propri danari due valentissimi cani per custodia del bestiame, l'uno chiamato Barcino, l'altro Butrone, venduti a lui da un pecoraio di Chintanar. Ma non per questo don Chisciotte poteva togliersi d'intorno la malinconia. I suoi amici chiamarono allora il medico, che gli tastò il polso, e non se ne mostrò punto contento: anzi disse che era bene attendere alla salute dell'anima, perché quella del corpo stava in pericolo. Don Chisciotte lo ascoltò con animo riposato, ma non così fu della sua serva, della nipote e dello scudiere, i quali cominciarono a lagrimare dirottamente, come se già se lo vedessero morto. Il parere del medico fu che stesse per consumarsi una vita troppo oppressa di disgusti e di afflizioni. Pregò allora don Chisciotte che lo lasciassero solo, perché voleva dormire un poco, e così fecero; ed egli dormì un sonno di oltre sei ore, così profondo, che la serva e la nipote temevano che non si avesse a risvegliare mai più. Si destò finalmente, passato quel tempo, e con alta e sonora voce disse: — Benedetto sia l'onnipotente Iddio che tanto bene ci ha fatto! Le sue misericordie non hanno confine né dai peccati degli uomini vengono mai impedite o menomate!» Stette la nipote attenta alle parole dello zio, e le parvero più a proposito di quelle ch'egli solesse dire, durante almeno quella malattia. Ella gli dimandò: — Che cosa dice signor zio? Vi è niente di nuovo? Di che misericordie intende ella? Di che peccati degli uomini? — Le misericordie, o nipote mia, rispose don Chisciotte, sono quelle che in questo istante ha usato meco Domeneddio, le quali, come ho detto, non sono menomate dai miei peccati: io tengo già il giudizio libero e sano, scevro dalle ombre caliginose dell'ignoranza in cui mi aveva posto una continua e detestabile lettura dei libri di cavalleria; conosco adesso i passati spropositi e imbrogli, e mi duole soltanto di essermene avveduto troppo tardi senz'avere più mezzo di risarcire il tempo perduto colla lettura di altri libri che siano luce dell'anima. Mi sento, nipote mia dolcissima, presso alla mia ultima ora, la quale vorrei passare in modo da far giudicare a tutti che la mia trascorsa vita non è stata tanto sciagurata da lasciare dopo di me la riputazione di pazzo; e sebbene io fui tale pur troppo, vorrei togliere dal mondo questo mal odore di me in questi estremi momenti. Chiamami, ti prego, o figliuola, i miei buoni amici, il curato, il baccelliere Sansone Carrasco e mastro Niccolò barbiere, che ora voglio confessarmi e fare il mio testamento.

La nipote risparmiò la fatica di andarli a chiamare, poiché entrarono in quel punto tutti e tre nella stanza. Appena don Chisciotte li vide, disse loro: — Congratulatevi meco, miei buoni amici, che io ho cessato di essere don Chisciotte della Mancia, e sono quell'Alonso Chisciano che per i miei esemplari costumi ero chiamato il buono. Dinanzi a voi mi dichiaro nemico di Amadigi di Gaula e di tutto l'infinito stuolo della sua stirpe; adesso mi vengono in odio tutte le storie profane della cavalleria errante; adesso conosco la mia balordaggine ed il pericolo che ho corso nelle mie letture; adesso per misericordia del Signore Iddio imparo a mio costo a dispregiarle e ad averle in abbominazione.» Quando tutti e tre udirono questo discorso, giudicarono senz'altro che lo avesse colto qualche nuova pazzia, ed il baccelliere Sansone Carrasco disse:

— E che è questo, o signor don Chisciotte? Ora che abbiamo nuove che la signora Dulcinea non è più incantata e che ci manca tanto poco per diventare pastori e passare cantando la nostra vita beatamente, vossignoria si vuol far romito? Si accheti un poco, torni in se stesso, sbandisca dall'animo le malinconie. — Quelle, replicò don Chisciotte, che mi hanno recato tanto danno sinora, spero che la morte le convertirà in mio vantaggio col divino aiuto: io sento, o signori, che vado morendo a gran passi; però lasciamo le burle, e conducetemi tosto un confessore che mi ascolti ed un notaio che scriva il mio testamento; nel frangente in cui sono non resta più da scherzare; e voi, signor curato, usatemi la carità di confessarmi, e vadano gli altri pel notaio.» Tutti si guardarono in faccia l'un l'altro, attoniti alle parole che don Chisciotte aveva dette, e quantunque dubbiosi, vollero prestargli fede. Uno degl'indizi da cui conghietturarono ch'egli si avvicinasse alla morte, fu il suo rapidissimo passaggio dalla follia alla saggezza, poiché ai discorsi già riferiti altri ne aggiunse sì bene pensati, sì cristiani, sì giusti, che tolta affatto ogni perplessità, si persuasero che fosse realmente tornato in buon cervello. Il curato fece uscire di camera tutti, e rimasto solo con lui, lo confessò. Il baccelliere Carrasco andò pel notaio, e tornò presto con esso e con Sancio Pancia, il quale già informato dal baccelliere dell'estremo pericolo in cui stava il suo padrone, si unì tosto alla serva e alla nipote, e si mise a fare le boccacce ed a strillare disperatamente. Finì la confessione, ed il curato escì fuori dicendo: — Muore daddovero e muore con sana mente Alonso Chisciano il buono: potete entrare, miei signori, perché ora faccia il suo testamento.» Diedero, queste nuove, terribile spinta ai gravidi occhi della nipote, della serva e di Sancio, di maniera che sgorgavano a torrenti le lagrime, e uscivano dal loro petto mille profondi sospiri. Si è già alcuna volta osservato che sino a tanto che don Chisciotte fu Alfonso Chisciano il buono, e non altro, ed anche quando fu don Chisciotte della Mancia, si mantenne egli di piacevole condizione e di tratto urbano, e quindi era ben veduto non solo da quelli di casa sua, ma ben anche da quanti lo conoscevano.

CAPITOLO LXXIIIl notaio entrò con tutti gli altri in camera, e dopo avere scritto l'introduzione del testamento, e raccomandata a Dio l'anima di don Chisciotte con tutte le forme cristiane che sono d'uso, venendo ai legati, disse: — Item, è mia volontà che a Sancio Pancia, il quale nella mia pazzia io m'avevo eletto scudiere, non sia cercato verun conto dei danari che teneva di mia ragione, essendo corse fra lui e me varie partite e disgusti e differenze. Se ne sopravanzassero, dopo essersi pagato di quanto gli debbo, il restante sia tutto suo che già sarà poca cosa, e in ogni modo buon pro gli faccia; e se quando io era pazzo mi era proposto di dargli il governo d'un'isola, ora che sono in giudizio gli darei il governo di un regno, se lo avessi, perché la strettezza della sua condizione e la fedeltà meritano ogni cosa.

Rivoltosi a Sancio, gli disse: — Perdonami amico, le occasioni che ti ho date di parer pazzo con me, facendoti cadere nell'errore in cui io era che vi fossero o vi siano al mondo cavalieri erranti. — Ahi, rispose Sancio in mezzo ai singulti, vossignoria non muoia signor mio, pigli il mio consiglio, badi a vivere, ché non può fare l'uomo peggiore bestialità in questa vita del lasciarsi morire così alla babbalà, senzaché nessuno lo ammazzi né altre mani lo finiscano fuorché quelle della malinconia; non si lasci per carità cogliere dalla poltroneria, e si levi da questo letto che anderemo in campagna vestiti da pastori come siamo rimasti d'accordo; e chi sa che dietro a qualche bosco non troviamo la signora donna Dulcinea non più incantata, com'è comune nostro desiderio: e se per caso vossignoria muore del dolore di essere stato vinto, ne dia a me tutta la colpa, e dica che se avessi strette un poco le cinghie a Ronzinante, non sarebbe stramazzato; e già vossignoria avrà letto molte volte nei suoi libri di cavalleria che i cavalieri erano soliti scavalcarsi l'un l'altro, e che quello che oggi è vinto, dimani è vincitore. — Così è, disse Sansone Carrasco, e il buon Sancio è molto pratico di questi casi. — Signori, replicò don Chisciotte, andiamo pian piano, ché adesso nei nidi dell'anno passato non sono più uccelli; poc'anzi fui pazzo, ed ora sono savio, fui don Chisciotte della Mancia, ed ora, ripeto, non sono altro che Alfonso Chisciano il buono: possano il mio pentimento e la mia ingenuità riguadagnarmi presso di voi, o amici, quella riputazione di cui una volta ho goduto; e seguiti a scrivere il signor notaio. — Item, lascio la mia facoltà ad Antonia Chisciana, mia nipote, ch'è qui presente, levando prima da essa quanto occorre per soddisfare a tutti i legati da me istituiti, ed il primo intendo che sia quello di pagare il salario che devo alla mia serva per tutto il tempo che mi ha prestato la sua assistenza, e di più venti ducati da farsi un vestito. Nomino per esecutori testamentari il signor curato ed il signor baccelliere Sansone Carrasco, qua presenti. Item, è mia volontà che se Antonia Chisciana, mia nipote, vorrà maritarsi, si accompagni ad un uomo del quale si sappia per certo che non abbia letto mai libri di cavalleria; e nel caso che gli avessi letti, e che nullostante mia nipote lo volesse sposare, lo sposi pure, ma perda tutto quello che le ho lasciato, ed i miei esecutori possano a loro beneplacito distribuirlo in opere pie. Item, supplico i detti miei esecutori testamentari che se la buona sorte facesse loro conoscere l'autore, il quale si dice che abbia scritta l'istoria che corre impressa col titolo di Seconda parte delle prodezze di don Chisciotte della Mancia, gli dimandino perdono da parte mia con ogni affetto possibile per l'occasione che io gli ho data, senza volerlo, di scrivere quei tanti e sì grossi spropositi che in essa si leggono, perché io mi distacco da questa vita collo scrupolo di avergliene dato motivo.» Chiuse con queste ultime parole il suo testamento, e colto da uno svenimento, si distese nel letto quanto era lungo. Allora fu generale il disordine della famiglia, e tutti accorsero a dargli soccorso nei tre giorni che sopravvisse al testamento, cadendo di tratto in tratto in totale perdimento di sensi. Ad onta del generale scompiglio, si pensava per altro al refrigerio, e la nipote mangiava, la serva brindeggiava e Sancio gozzovigliava; giacché il fare eredità cancella o tempera negli eredi la memoria del dolore ch'è ben ragionevole che il morto lasci.

Tra la compassione ed il pianto dei circostanti egli dunque esalò lo spirito...Giunse finalmente l'ultima ora di don Chisciotte, dopo avere avuti tutti i sacramenti e dopo avere abbominati con molte e sode ragioni tutti i libri di cavalleria. Il notaio allora disse ad alta voce: — Non ho mai letto in alcuna opera di cavalleria che un cavaliere errante sia morto nel suo letto così tranquillo e così cristianamente rassegnato come don Chisciotte.» Tra la compassione ed il pianto dei circostanti egli dunque esalò lo spirito, e voglio dire, morì: ed il curato ottenne dal notaio la legale testimonianza che «Alonso Chisciano il buono, chiamato comunemente don Chisciotte della Mancia, era passato da questa presente vita, e morto naturalmente.» Si volle questa giurata prova per togliere l'occasione che qualche altro autore, diverso da Cide Hamete Ben-Engeli, lo facesse risuscitare con falsità e dettasse interminabili storie delle sue prodezze. E questo fu il fine dell'ingegnoso Idalgo della Mancia, la cui patria non volle Cide Hamete rendere chiaramente nota per lasciare che tutti i paesi e i villaggi della Mancia contendessero tra loro per affigliarselo e tenerlo per suo, come contesero per Omero le sette città della Grecia.

Non si registrano in questo luogo le lamentazioni di Sancio, della nipote e della serva di don Chisciotte, né i nuovi epitaffi della sua sepoltura. Sansone Carrasco però gli pose il seguente:

«Giace qui il forte Idalgo salito a tal grado di valore, che morte non poté trionfare di lui nel suo morire.

«Affrontò tutto il mondo e vi recò lo spavento; e fu sua ventura viver pazzo e morir rinsavito.»

Qui poi il prudentissimo Cide Hamete, rivoltosi alla sua penna, disse: — O pennuzza mia, tu rimarrai qua attaccata a questo uncino e a questo filo di rame, non so quanto ben temperata, e tu vivrai per lunghi secoli, se presuntuosi e malevoli istorici non ti vengano a distaccare per profanarti; ma primaché ti tocchino, li puoi avvertire e dir loro nel miglior modo che sia:

«Via, gente perversa, che nessuno mi tocchi; perocché questa impresa, o buon re, era serbata a me solo.»

Per te sola nacque don Chisciotte, e tu per lui; egli seppe fare e tu scrivere; voi due soli siete d'accordo ad onta e dispetto dello scrittore finto e tordesigliesco, il quale ardì o vorrà ancora ardire di scrivere con mal temperata penna di struzzo le prodezze del valoroso nostro cavaliere, il che non è peso delle sue spalle, né opera del suo agghiacciato ingegno. Lo avvertirai, o penna, se giugni per caso a conoscerlo, che lasci riposare in pace nella tomba le stanche e già guaste ossa di don Chisciotte, e non lo voglia portare a Castiglia la vecchia, facendo escire dalla fossa dove realmente e veridicamente giace disteso quanto egli è lungo, e nell'assoluta impossibilità di fare la terza giornata od altre nuove peregrinazioni. Per pigliarsi giuoco delle tante che fecero tutti i cavalieri erranti, bastano bene le due ch'egli ha eseguite con tanto gusto e diletto delle genti che n'ebbero notizia sì in questi come in altri regni stranieri. Resterà così satisfatta la cristiana tua professione consigliando al bene chi ti vuol male; ed io autore rimarrò assai contento di essere stato il primo che abbia goduto per intero il frutto degli scritti miei, com'era mio desiderio. Non altro volli se non che mettere in abborrimento degli uomini le finte e spropositate istorie dei libri di cavalleria, i quali, la mercé delle venture accadute al mio vero don Chisciotte, vanno a quest'ora inciampando, e senz'alcun dubbio cadranno poi onninamente.

- Fine -

Fine

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