HENRI MURGER

SCÈNE DE LA VIE DE BOHÈME - 3
LA BOHÈME O GLI EROI DELLA MISERIA




XV.
DONEC GRATUS...

Abbiamo narrato come Marcello, il pittore, conobbe madamigella Musette. Congiunti un mattino dal capriccio (il quale è il sindaco del XIII circondario), essi credettero, come spesso succede, di maritarsi sotto il regime della separazione dei cuori. Ma una sera, dopo una violenta controversia, nella quale avevano deciso di lasciarsi subito, si accòrsero che le loro mani, le quali si erano serrate in segno d'addio, non volevano aprirsi più. Il loro capriccio era diventato amore, quasi senza che se ne accorgessero: e se lo confessarono ridendo.
- Quest'affare è grave! - disse Marcello - come diavolo abbiamo fatto?
- Oh - rispose Musette - siamo malaccorti, non abbiamo sufficienti precauzioni.
- Cosa c'è? - domandò, entrando, Rodolfo che abitava allora di casa vicino a Marcello.
- C'è - rispose Marcello - che madamigella - ed indicava Musette - ed io abbiamo fatto una bella scoperta. Siamo innamorati. L'amore ci sarà entrato in corpo mentre dormivamo.
- Oh, oh! dormendo non lo credo - disse Rodolfo. Ma quali prove ci sono che voi vi amiate? Forse esagerate il pericolo.
- Cospetto! - rispose Marcello - noi non possiamo soffrirci... e…
- E non possiamo separarci - finì Musette.
- In tal caso, figli miei, il vostro affare è chiaro come il sole. Avete voluto lottare di furberia, ed avete perduto entrambi. È la stessa storia mia con Mimì. Abbiamo consumato già quasi due almanacchi, liticando giorno e notte. E con questo sistema che i matrimoni si rendono eterni: maritate un sì con un no, e si avranno sempre delle famiglie Filemone e Bauci. Il vostro modo di pensare concorda col mio, e se Schaunard e Femia verranno a star qui, come ci hanno detto, il terzetto delle nostre famiglie renderà questa casa un’abitazione deliziosa.
In quel momento entrava Colline. Lo misero a parte dell’incidente successo a Musette ed a Marcello.
- Ebbene, filosofo - disse questi - cosa ne pensi?
Colline grattò il pelo del cappello, che gli serviva di tetto, e mormorò:
- Ne ero certo anche prima. L'amore è un giuoco del caso. Chi vi si frega, si punse. Non è bene che l'uomo viva solo.
La sera, tornando a casa, Rodolfo disse a Mimì: -
- Ci sono delle novità. Musette è pazza per Marcello, e non vuole più lasciarlo.
- Povera ragazza! - rispose Mimì. - Ella che ha sì buon appetito!
- E, dal canto suo, Marcello è innamorato di Musette.
Egli l’adora a trentasei carati, come direbbe quell'intrigante di Colline.
- Povero giovane! - esclamò Mimì - egli che è tanto geloso!
- Vero - disse Rodolfo - lui ed io siamo allievi di Otello.
Qualche tempo dopo, la famiglia Schaunard venne ad unirsi alle famiglie di Rodolfo e di Marcello; il maestro di musica si accasava con Femia Teinturière.
Da quel giorno in poi, gli altri vicini dormirono sopra un vulcano, ed alla scadenza di ciascuna pigione mandavano un unanime congedo al padrone di casa.
Difatti, erano rari i giorni in cui non scoppiasse qualche tempesta in qualcuna delle famiglie. Una volta erano Mimì e Rodolfo, i quali, non avendo più forza di parlare, si spiegavano coll’aiuto di quanto capitava loro fra le mani. Sovente era Schaunard, il quale, colla punta di un bastone, faceva delle osservazioni alla malinconica Femia. Quanto a Marcello e Musette, le loro discussioni avevano luogo a porte chiuse: almeno essi avevano la precauzione di chiudere le finestre e gli usci.
Se poi, per caso, la pace regnava nelle, famiglie, gli altri inquilini erano vittime egualmente di quella passeggiera concordia. L'indiscrezione dei muri divisorî lasciava penetrare in casa loro i segreti delle famiglie della bohème, e li iniziava, loro malgrado, a tutti i misteri; perciò, più d'uno dei vicini preferiva il casus belli alle ratifiche dei trattati di pace.
In verità, la vita che menarono per circa sei mesi fu molto singolare. In quel cenacolo era abituale la più leale fratellanza, e ciò senza enfasi; tutto era comune tutto si divideva: buona e cattiva fortuna.
V'erano giorni nei quali non sarebbero scesi in istrada senza guanti; giorni di gaudio, nei quali si pranzava tutta il giorno. Ve n erano altri, in cui si sarebbe andati a corte senza scarpe; giorni di quaresima, durante i quali, dopo non aver fatta colazione riuniti, non si pranzava insieme; oppure a furia di combinazioni economiche si riusciva a realizzare uno di quei pranzi in cui, come diceva Mimì, le posate ed i piatti facevano riposo.
Ma, cosa prodigiosa! in questa società, dove, per altro, c’erano tre donne belle e giovani, non fu mai tra gli uomini neppure un barlume di discordia: essi s’inginocchiavano spesso davanti i più futili capricci delle loro amanti, ma nessuno avrebbe esitato un momento fra l'amico e la donna.
L’amore nasce specialmente dalla spontaneità; è una improvvisazione. L’amicizia invece si edifica: è un sentimento che progredisco con circospezione: è l'egoismo dello spirito, mentre l'amore è l'egoismo del cuore.
Da sei anni, i bohèmes si conoscevano. Questo lungo spazio di tempo, trascorso in una quotidiana intimità, senza alterare l'individualità ben marcata di ciascuno di loro, aveva prodotto un accordo di idee, che, altrove, non avrebbero trovato. Essi avevano dei costumi loro speciali, un linguaggio intimo, del quale uno straniero non avrebbe potuto trovar la chiave. Coloro che non li conoscevano intimamente chiamavano cinismo la loro libertà di azione: eppure non era che franchezza. Spiriti recalcitranti a tutto ciò che è imposto, essi odiavano tutte le falsità e le trivialità. Accusati di esagerata vanità, rispondevano sciorinando il programma della loro ambizione, e, conoscendo bene ciò che valevano, non si formavano illusioni, sopra loro stessi.,
In tanti anni che camminavano insieme, si erano spesso, per necessità di professione, trovati di fronte ma non si abbandonarono mai; e, senza neppure pensarvi, avevano messo in non cale le questioni personali, d'amor proprio, tutto le volte in cui altri avevano tentato suscitarne per disgiungerli. Essi stimavano reciprocamente ciò che valevano, e l’orgoglio, che è il contrappeso dell’invidia, li garantiva da tutte le piccole gelosie di mestiere. Pure, dopo sei mesi di vita in comune, piombò, tutt’ad un tratto, sulla famiglia un’epidemia di divorzio.
Aprì la marcia Schaunard. Un giorno s’accorse che Femia Teinturière aveva un ginocchio fatto meglio dell'altro, e, siccome in questioni di plastica era di un austero purismo, licenziò Femia, lasciandole per memoria il bastone, coi quale le faceva sì spesso delle osservazioni. Poi se ne andò ad abitare in casa di un parente, che gli offriva alloggio gratuito.
Quindici giorni dopo, Mimì lasciava Rodolfo per montare nella carrozza del viscontino Paolo, già allievo di Carolus Barbemuche, il quale le aveva promesso vesti color del sole.
Dopo Mimì fu Musette, che prese il volo, e rientrò con immenso fracasso nell'aristocrazia del mondo galante, che aveva abbandonato per vivere con Marcello.
La separazione ebbe luogo senza pubblicità, senza scosse, senza premeditazione. Nata da un capriccio, che era diventato amore, questa relazione fu rotta da un altro capriccio.
Una sera di carnevale ad un ballo in maschera dell’Opera (dove si trovava con Marcello), Musette ebbe per vis-à-vis, in una quadriglia, un giovanotto, che le aveva altre volte fatto la corte. Ballando si riconobbero e scambiarono qualche parola. Forse senza volerlo, ella raccontando a quel giovane la sua vita attuale, lasciò sfuggire qualche rimpianto per la vita passata, e le cose andarono in modo, che finita la quadriglia, si sbagliò. Invece di dare la mano a Marcello, che era il suo cavaliere, la diede al suo vis-à-vis, il quale la trascinò con lui, ed ambedue scomparvero nella folla.
Marcello, inquieto, la cercò, ed un'ora dopo la trovò a braccetto del giovane; ella usciva dal caffè dell'Opera colla bocca piena di ritornelli. Vedendo Marcello che si era posto in un canto colle braccia, incrociate, gli fece un segno d'addio, dicendogli:
- Ritorno subito.
- Cioè, non aspettarmi - tradusse Marcello.
Egli era geloso, ma logico, e conosceva Musette; per ciò non l'aspetto; ritornò a casa col cuore pieno... e lo stomaco vuoto. Cercò nella dispensa se vi era qualche cosa da mangiare; trovò uno scheletro di aringa salata.
- Io non potevo lottare contro i tartufi. Musette almeno avrà cenato.
E, dopo aver tenuto un pezzo il fazzoletto sugli occhi, sotto pretesto di soffiarsi il naso, si coricò.
Due giorni dopo, Musette si svegliava in una camera tappezzata color di rosa. Un coupé azzurro l'aspettava alla porta, e tutte le fate della moda le portavano le loro meraviglie. Musette era incantevole, e la sua giovinezza risaltava maggiormente in quella cornice di eleganza.
Allora ricominciò l'antico modo di vivere: andò a tutte le feste, e riconquistò la sua celebrità. Si parlava di lei dappertutto, nei caffè eleganti, come alla Borsa. Il suo nuovo amico, il signor Alexis, era un carissimo giovane. Rimproverava Musette di essere un po’ fredda e leggiera quando le parlava del suo amore, ed allora Musette lo guardava sorridente, dicendogli:
- Che volete, caro mio? ho passati sei mesi con un uomo che mi manteneva ad insalata e zuppa senza burro,
mi umiliava con una veste di cotone, e mi conduceva spesso all’Odéon, perché non era ricco. Siccome l'amore non costa nulla, e io ero pazza per quel mostro, noi abbiamo fatto grandi spese d'amor, ed ora... non mi restano più che le briciole. Prendetele, io non ve io impedisco. Del resto, non vi ho ingannato. Se i nastri non fossero tanto cari, io sarei ancora col mio pittore. Quanto al mio cuore, non lo sento muovere con gran fracasso, dacché ho un busto di ottanta franchi: davvero temo di averlo dimenticato in un cassetto di Marcello.
La partenza delle tre famiglie scapigliato fu l’occasione d'una festa nella casa ch'esse avevano abitato. In segno d’allegrezza, il padrone di casa diede un gran pranzo, e gli inquilini illuminarono le loro finestre.
Rodolfo e Marcello andarono ad alloggiare insieme; ciascuno aveva un idolo del quale non sapeva bene il nome. Alle volte succedeva che l'uno parlava di Musette e l'altro di Mimì, ed allora ce n'ora per tutta la sera. Chi rammentava la vita passata, le canzoni di Musette, le canzoni di Mimì, le notti insonni, le oziose mattinate ed i pranzi fatti dormendo. In questi duetti di ricordi, essi facevano rivivere, ad una ad una, tutte le ore trascorse, e finivano per dirsi: che infine dei conti erano ancor ben felici di trovarsi insieme, ooi piedi sugli alari, tormentando il ceppo colle molle, fumando a pipa, e di avere l’uno e l'altro un pretesto per raccontarsi a vicenda, ed a voce alta, ciò che una volta si dicevano all'orecchio quando erano soli. Essi avevano amato molto quelle creature, che erano sparite portando seco un lembo della loro gioventù.
Una sera, traversando il boulevard, Marcello vide a due passi una giovine donna, che, smontando di carrozza, lasciava vedere un po’ di calza nera, d'una eleganza particolare. Lo stesso cocchiere divorava cogli occhi quella splendida visione.
- Per Dio - esclamò Marcello - che bella gamba! Che voglia di offrirle il braccio! Vediamo... come posso avvicinarla? Ecco trovato... è un espediente abbastanza nuovo. Perdono - disse accostandosi alla signora, che non aveva veduto in faccia - avreste per caso trovato il mio fazzoletto?
- Sì, eccolo qui - rispose la signora, mettendo in mano a Marcello il fazzoletto ch’ella aveva.
L'artista cadde in un abisso di stupore.
Ma, zutt’ad un tratto, uno scoppio di risa, ch'egli ricevette in piena faccia, lo fece rinvenire. A tale allegra sinfonia, riconobbe i suoi antichi amori.
Era madamigella Musette.
- Ah! - diss’ella - il signore che va a caccia di avventure. Come trovate questa qui, eh? Non manca di allegria.
- Io la trovo sopportabile - rispose Marcello.
- Dove andate così tardi in questi quartieri?
- Vado in quel monumento - rispose l'artista indicando un piccolo teatro, nel quale aveva libero l'ingresso.
- Per l'amore dell'arte?
- No! per amore di Laura.
- Chi è Laura? - continuò Musette, i cui occhi schizzavano punti interrogativi.
- È una chimera ch'io seguo, e che fa la parté d'ingenua in quel piccolo luogo: assomiglia ad una persona non ingenua, ch'io ho amata tanto.
- Avete molto spirito, stasera - disse Musette.
- E voi molta curiosità - rispose Marcello.
- Non parlate si forte, tutti ci odono; ci prenderanno per due innamorati che questionano.
- Non sarebbe la prima volta che ci succede - disse l’altro.
Misette vide una provocazione in questa frase, e replicò in fretta:
- E non, sarà l'ultima, eh?
La frase era chiara; essa fischiò come una palla di fucile all’orecchio di Marcello.
- Lumi del cielo! - esclamò guardando le stelle voi siete testimoni che non fui io il primo a tirare.
Da questo momento il fuoco era aperto.
Non si trattava più d'altro che di trovare un punto di contatto fra questi due capricci, che si risvegliavano così vivaci.
Camminando, Musette guardava Marcello, e Marcello guardava Musette. Essi non parlavano, ma i loro occhi, questi plenipotenziari del cuore, s’incontravano spesso. Dopo un quarto d'ora di diplomazia, il congresso degli sguardi aveva accomodato tacitamente la vertenza.
Non mancava più che la ratifica.
La conversazione interrotta ricominciò:
- Francamente! - disse Musette a Marcello - dove andavi poco fa?
- Te l'ho detto: andavo a veder Laura.
- È bella?
- La sua bocca è un nido di sorrisi.
- Cose vecchie.
- Ma e tu - interrogava Marcello - dove andavi sull’ali di quella carrozza? -
- Ritornavo dalla stazione ferroviaria, dove ho accompagnato Alexis.
Musette, a sua volta, fece un brillante ritratto del suo attuale amante.
Passeggiando sempre, Musette e Marcello continuarono, in mezzo al boulevard, la commedia del richiamo dell'amore. Colla stessa franchezza, ora tenera ed ora ironica, essi rifacevano strofa per strofa quell'ode immortale, nella quale Orazio e Lidia vantano con tanta grazia l’incanto dei nuovi loro amori, e finiscono col mettere un poscritto agli antichi.
Allo svolto d'una via s’imbatterono in una numerosa pattuglia. Musette organizzò un'attitudine di paura, e si attaccò al braccio di Marcello, dicendo:
- Oh, Dio mio! guarda! la truppa arriva; c'è ancora una rivoluzione! Fuggiamo; ho una paura orribile; accompagnami.
- Dove andiamo?
- A casa mia - rispose Musette - vedrai come è bella. T’invito a cena, e parleremo di politica.
- No - rispose Marcello che pensava ad Alexis - ad onta del tuo invito a cena, non verrò a casa tua. Non amo bere il mio vino nel bicchiere altrui.
Musette restò muta davanti a questo rifiuto. Poi, attraverso la nebbia delle sue reminiscenze, vide l'oscura abitazione dell'artista (poiché Marcello non era diventato milionario). Allora Musette ebbe un'idea, ed approfittando dell’incontro di un’altra pattuglia, manifestò una nuova paura.
- A momenti si battono - ella esclamò - non avrò il coraggio di ritornare a casa. Marcello, amico mio, accompagnami a casa d'una mia amica, che deve abitare nel tuo quartiere.
Traversando il ponte Nuovo, Musette diede in uno scoppio di risa.
- Che cosa c'è? - domandò Marcello.
Nulla - rispose Musette - mi ricordo adesso che la mia amica ha cambiato di casa, e che sta a Batignolles.
Rodolfo, vedendo giungere a casa Marcello e Musette, non ne fu meravigliato.
- Con questi amori mal sepolti - dim’egli - è sempre così.

XVI.
IL PASSAGGIO DEL MAR ROSSO

Da cinque o sei anni, Marcello lavorava per quel famoso quadro, ch’egli asseriva dover rappresentare il ‘Passaggio dei mar Rosso’, e, da cinque o sei anni, i giurati dell'Esposizione non ammettevano questo capolavoro. A forza di passare dallo studio dell'artista all'Esposizione, e dall'Esposizione allo studio dell'artista, il quadro conosceva così bene la strada, che se vi avessero messe le ruote, sarebbe andato ai Louvre da sé.
Marcello, che aveva rifatta e ritoccata quella tela, dall'alto al basso, almeno una diecina di volte, attribuiva ad una personale inimicizia dei giurati l'ostracismo che lo respingeva annualmente dal salone quadrato, e, nei suoi momenti d'ozio, aveva composto un piccolo dizionario d'ingiurie in onore delle celebrità dell'Istituto, con una aggiunta di illustrazioni d'una acuta ferocia.
Quella raccolta, diventata celebre, aveva ottenuto negli studi e nelle scuole delle belle arti il trionfo popolare, che s'attaccò al lamento di Gianni Bélin pittore ordinario del Gran Sultano. Tutti i fattorini di Parigi ne avevano una copia nella testa.
Per molto tempo, Marcello non s'era scoraggito per gli accaniti rifiuti che lo accoglievano ad ogni concorso.
Egli s'era comodamente creata questa opinione: il suo quadro doveva, in più piccole proporzioni, costituire il compagno desiderato dalle ‘Nozze di Cana’, quel gigantesco capolavoro, il cui inarrivabile splendore non è. offuscato dalla polvere di tre secoli. Ogni anno, all'aprirsi dell'Esposizione, Marcello mandava il suo quadro all’esame dei giurati: però, per ingannarli e per tentare di smuoverli dal partito di esclusione ceh’essi avevano preso contro il ‘Passaggio dei mar Rosso’, Marcello, senza cambiar nulla della composizione generale, modificava qualche accessorio e cambiava il titolo dei quadro.
Una volta il quadro giunse al cospetto dei giurati sotto il nome di ‘Passaggio dei Rubicone’: ma Faraone, mal nascosto sotto il manto di Cesare, fu riconosciuto e scacciato con tutti gli onori dovutigli.
L'anno dopo, Marcello diede una mano di bianco alla sua tela, in modo di figurare una nevicata, piantò un abete in un canto, e, vestendo da granatiere della Guardia Imperiale un egiziano, battezzò il suo quadro: ‘Passaggio della Beresina’.
Il giurì, il quale aveva fregato i suoi occhiali sui paramani verdi dell'abito, non fu vittima di questa nuova astuzia. Riconobbe la caparbia tela, specialmente in causa d'un diavolo di cavallo multicolore, che s’impennava sulla cima d'un’onda del mar Rosso.
Il mantello di quel cavallo serviva a Marcello per tutti i suoi esperimenti di colorito, e lo chiamava nel suo linguaggio familiare, la tavola sinottica delle tinte fini, perché riproduceva tutte le combinazioni più svariate di tutti i colori, coi loro effetti d'ombra e di luce. Ma, anche questa volta, il giurì, insensibile a tale accessorio, pareva non avesse abbastanza palle nere per rifiutare il ‘Passaggio della Beresina’.
- Benissimo - disse Marcello - me l'aspettavo... L'anno venturo lo rimanderò sotto il titolo di ‘Passaggio dei Panorama’.
- Resteranno benissimo ingannati - canterellò il musicante Schaunard sopra un nuovo motivo di sua composizione: aria terribile, rimbombante come una scala di saette, il cui accompagnamento era il terrore di tutti i pianoforti circonvicini.
- Come possono rigettar questo quadro, senza che tutto il vermiglio del mio Mar Rosso non salga loro alla fronte e li copra di vergogna? - mormorava Marcello contemplando il suo quadro. - Quando penso che 'là dentro ci sono cento scudi almeno di colori ed un milione di genio, senza contare la mia bella giovinezza diventata calva come il mio cappello. Un'opera seria che schiude nuovi orizzonti alle scienze. Ma non saranno essi gli ultimi a parlare; manderò loro il quadro fino all'ultimo mio sospiro. Voglio che si incida nella loro memoria.
- È il miglior modo di farlo incidere - disse Gustavo Colline con malinconica voce, e fra sé mormorava: - Questo frizzo è bello, anzi bellissimo... lo ripeterò in conversazione.
Marcello continuava le sue imprecazioni, e Schaunard a musicarlo.
- Ah! non vogliono ricevermi? - diceva Marcello. Ah, il governo li paga, li alloggia, li decora, al solo scopo di respingermi ogni anno, il primo di marzo, una tela di cento, su telaio a chiave!... Vedo chiaramente la loro idea, la vedo chiarissimamente: essi vogliono farmi spezzare i pennelli: essi credono; forse, che rigettando il mio ‘Mar Rosso’, o mi butterò fuori della finestra dalla disperazione. Essi conoscono male il mio cuore d'uomo, se credono di pigliarmi con questa astuzia grossolana. Non aspetterò più l’epoca dell'Esposizione. Da oggi in avanti, il mio quadro diventerà la spada di Damocle eternamente sospesa sulla loro esistenza. Adesso lo spedirò una volta la settimana alla casa di ciascun giurato, in seno alla loro famiglia, in mezzo all'intimità della loro vita privata. Esso disturberà le loro domestiche gioie, inacidirà il loro vino, farà loro trovare abbruciato l'arrosto e noiosa la moglie. Diverranno pazzi in breve tempo, e si dovrà apporre loro una camicia di forza per mandarli all'Istituto i giorni di consiglio. Quest'idea mi sorride.
Alcuni giorni dopo, allorché Marcello aveva già dimenticati i piani di vendetta contro i suoi persecutori, ricevette la visita del padre Medici. Si chiamava così nel cenacolo un ebreo di nome Salomone, il quale era allora conosciutissimo da tutta la bohème artistica e letteraria, colla quale era in continui rapporti.
Il padre Medici negoziava in ogni genere di cianfrusaglie. Vendeva mobili da dodici lire fino a tremila; comprava tutto, e sapeva rivendere tutto con guadagno. La banca di cambio di Proudhon è una cosa ben meschina in confronto del sistema applicato da Medici, il quale possedeva il genio del trafficare ad un tal grado, che i suoi correligionari non hanno ancora raggiunto. La sua bottega trovavasi sulla piazza del Carrousel: era un luogo fatato, in cui si trovava ogni cosa a piacere. Tutti i prodotti della natura, tutte le creazioni dell'arte, tutto ciò che esce dalle viscere della terra e del genio umano, tutto era oggetto di negozio
per Medici. Il suo commercio abbracciava tutto, assolutamente tutto ciò che esiste; anzi egli lavorava perfino nelr ideale. Medici comprava le idee per metterle egli stesso a profitto o rivenderle. Noto a tutti i letterati, a tutti gli artisti, amico intimo della tavolozza e del calamaio, egli era l’Asmodeo delle arti. Vi vendeva sigari per uno schema di appendice, pantofole per un sonetto, pesci per alcuni paradossi; discorreva a un tanto l'ora cogli scrittori lucarioati di raccontare le dicerie dei giornali, spacciava biglietti per recarsi alla Camera e per le feste da ballo private, dava da dormire, per una notte, per una settimana, per alcuni mesi, ai pittori erranti, che lo pagavano col copiare i capolavori del Louvre. Le quinte dei teatri non avevano misteri per lui. Faceva rappresentare le commedie ed i drammi; vi dava biglietti di favore. Aveva nella testa un esemplare dell’Almanacco dei venticinquemila indirizzi, conosceva l'abitazione, il nome, i segreti delle celebrità anche oscure.
Alcune pagine, copiate dal suo scartafaccio, potranno dare un'idea dell'universalità del suo commercio, meglio di tutte le più minute spiegazioni.
"20 marzo 184... - Venduto al signor L..., antiquario, il compasso del quale Archimede si serviva durante l'assedio di Siracusa. Franchi settantacinque.
Comprato dal signor V..., giornalista, le opere complete, non tagliate, di M..., membro dell’Accademia. Franchi dieci.
Venduto allo stesso un articolo critico sulle opere complete di M..., membro dell’Accademia. Franchi trenta.
Il Venduto al signor M..., membro dell'Accademia, una appendice di dodici colonne sulle sue opere complete. Franchi duegentooinquanta.
Comprato dal signor R..., letterato, un riassunto critico sulle opere del signor M..., membro dell’Accademia di Francia. Franchi dieci.
Più cinquanta libbre di carbon fossile e due chilogrammi di caffè.
Venduto al signor un vaso di porcellana, che appartenne a madamigella Dubarry. Franchi diciotto.
Comprato dalla signorina D..., i suoi capelli. Franchi quindici.
Comprato dal signor B..., un lotto di articoli sui costumi, ed i tre ultimi errori d'ortografia fatti dal prefetto della Senna. Franchi sei.
Più un paio di scarpe di Napoli.
Venduto a madamigella O..., una capigliatura bionda. Franchi centoventi.
Comprato dal signor M..., pittore storico, una serie di disegni osceni. Franchi venticinque..
Indicato al signor Ferdinando l'ora in cui la signora baronessa R... di P... va alla messa. Appigionato allo stesso, per un giorno, il mezzanino del sobborgo Montmartre, in tutto franchi trenta.
Venduto al signor Isidoro il suo ritratto in costume d’Apollo. Franchi trenta.
Venduti a madamigella R... due gamberi e sei paia di guanti, in tutto franchi trentasei.
(Ricevuto a conto franchi due e centesimi settantacinque.)
Alla stessa procurato un credito per sei mesi dalla signora modista (Prezzo da convenire).
Procurato alla signora *** modista, la clientela della signorina R...
(Ricevuto per questo, tre metri di velluto e sei di trina.)
Comprato dal signor R..., letterato, un credito di centoventi fascicoli sul giornale *** ora in liquidazione, per franchi cinque e due libbre di tabacco di Moravia.
Venduto due lettere amorose al signor Ferdinando. Franchi dodici.
Comprato dal signor Ferdinando, pittore, il ritratto del signor Isidoro in costume di Apollo. Franchi sei.
Comprati dal signor settantacinque chilogrammi della sua opera intitolata: ‘Delle rivoluzioni sottomarine’. Franchi quindici.
Dato a nolo alla signora contessa di G..., un servizio di porcellana di Sassonia. Franchi venti.
‘Comprate dal signor M..., giornalista, venticinque linee del suo giornale ‘Il Corriere di Parigi’. Franchi cento.
Più una guarnitura da camino.
Venduto ai signori O... e compagni, venticinque linee del giornale ‘Il Corriere di Parigi’ del signor M... Franchi trecento.
Più due guarniture da camino.
Data a nolo alla signora S... G... una carrozza ed un letto per un giorno (niente). (Veggasi il conto della signora S... G... sul Mastro, pag. 26 e 27.)
Comprato dal signor Gustavo C... una Memoria sull'industria del lino. Franchi cinquanta.
Più un'edizione rara delle Opere di Giuseppe Flavio.
Venduto alla signorina S... G... della mobilia moderna. Franchi cinquemila.
Pagato, per la stessa, il conto del farmacista. Franchi settantacinque.
Pagato, per la medesima, il conto della lattaia, Franchi tre e centesimi ottantacinque, ecc., ecc., ecc. "
Da queste citazioni si vede su quale immensa scala si stendevano le operazioni dell'ebreo Medici, il quale, ad onta delle note un po’ illecite del suo commercio infinitamente eclettico, non era mai stato disturbato da alcuno.
Entrando nella camera degli artisti, con quell'aria intelligente che io caratterizzava, l’ebreo indovinò che capitava in un momento propizio. Difatti, i quattro amici si trovavano in consiglio, e stavano discutendo, sotto la presidenza di un feroce appetito, la grave questione del pane e della carne. Era una domenica!… alla fine del mese! Giorno fatale..., sinistra data!...
L’entrata del Medici fu acclamata da un coro gioviale, perché si sapeva che l'ebreo era troppo avaro del suo tempo, per spenderlo in una visita di convenienza; quindi la sua presenza annunziava sempre un affare da trattarsi.
- Buona sera, signori, come va?
- Colline - disse Rodolfo coricato sul letto ed intorpidito nella dolcezza della linea orizzontale - esercita i doveri dell'ospitalità; offri una sedia al nostro ospite; i doveri dell'ospitalità sono sacri. Io vi saluto in Abramo - aggiunse il poeta.
Colline andò a prendere una sedia, che possedeva l'elasticità del bronzo, la portò presso l’ebreo, dicendogli con voce ospitale:
- Supponete per un momento di essere Cinna, e prendete questa sedia.
Medici si lasciò cadere sulla sedia, e stava per lamentarsi della sua durezza, quando si ricordò che egli stesso l'aveva data a Colline in cambio di una professione di fede venduta a un deputato, che non aveva il bernoccolo dell'improvvisazione. Nel sedere, le tasche dell'ebreo mandarono un suono argentino, e quella melodiosa sinfonia piombò i quattro amici in una meditazione piena di dolcezza.
- Sentiamo la canzone, adesso - disse Rodolfo a Marcello - l'accompagnamento par bello.
- Signor Marcello - disse Medici - vengo semplicemente a fare la vostra fortuna. Vengo cioè ad offrirvi na superba occasione d'entrare nel mondo artistico. L'arte, sapete, signor Marcello, è un arido cammino, di cui la gloria è un’oasi.
- Padre Medici - disse Marcello che arrostiva sui carboni dell'impazienza - in nome del cinquanta per cento, vostro santo tutelare, venite al fatto.
- Siate - disse Colline - breve come re Pipino, il quale era un sir conciso, come voi, perché voi dovete essere circonciso, o figlio di Giacobbe.
- Uh, uh, uh! - gridarono i bohèmes, guardando il pavimento, per vedere se non si apriva ad inghiottire il filosofo.
Ma Colline non fu subissato neppure questa volta.
- Ecco come sta la cosa - disse Medici. - Un ricco dilettante, che sta completando una galleria destinata a fare il giro d'Europa, m'incaricò di procurargli una serie di opere stimate. Io vengo ad offrirvi l'ingresso in quel museo... In una parola, vengo per comprare il vostro ‘Passaggio del mar Rosso’.
- A contanti? - chiese Marcello.
- A contanti - rispose l'ebreo facendo suonare l'orchestra nelle sue tasche.
- Sei contento? - disse Colline.
- Sicuramente - rispose Rodolfo stizzito. - Bisognerà procurarsi delle pillole amare per chiudere la bocca di questo sciocco. Brigante, non senti che parla di scudi? Non vi è dunque nulla di sacro per te, ateo?
Colline montò su di un mobile, prendendo l'attitudine di Arpocrate, dio del silenzio.
- Continuate, Medici - disse Marcello facendo vedere il suo quadro. - Vi lascio l'onore di fissare il prezzo di quest'opera che non ne ha.
L’ebreo mise sul tavolino cinquanta scudi d'un bell'argento nuovo.
- E poi? - disse Marcello - questa è l'avanguardia.
- Signor Marcello - disse Medici - voi sapete che la mia prima è la mia ultima parola. Non vi metterò nulla di più, riflettete: oinquanta scudi fanno duegentocinquanta franchi. È una somma.
- Una piccola somma - rispose l'artista - la sola veste del mio Faraone costa più di cinquanta scudi in tanto cobalto. Pagatemi almeno la fattura; livellate la pila, rotondate la cifra, e vi chiamerò Leone X, Leone X bis.
- Ecco l'ultima mia parola - riprese il Medici - io non vi metto un soldo di più, ma offro da pranzo a tutti; vini svariati a piacere, ed alle frutta pago in oro.
- Nessuno dice nulla - urlò Colline battendo tre pugni sulla tavola - una, due, tre: è vostro.
- Orsù - disse Marcello - è fissato.
- Manderò domani a prendere il quadro - soggiunse l’ebreo. - Andiamo, signori, la tavola è pronta.
I quattro amici scesero le scale cantando il coro degli Ugonotti: A tavola, a tavola!
L'ebreo trattò i bohèmes in un modo veramente grandioso. Egli offrì vivande che fino a quel momento erano completamente inedite per loro. Da quel giorno i gamberi cessarono di essere tanti miti per Schaunard, il quale provò per quegli anfibi una passione che doveva giungere fino al delirio.
I quattro amici uscirono da quel pranzo, ebbri come in giorno di vendemmia. E quell’ebbrezza poco mancò fosse fatale a Marcello, il quale, passando davanti la bottega del suo sarto, a due ore dopo mezzanotte, voleva assolutamente svegliare il suo creditore per dargli in acconto i duegentocinquanta franchi appena ricevuti. Un lampo di ragione, che vegliava ancora nel oervello di Colline, fermò l'artista sull'orlo del precipizio.
Otto giorni dopo quella festa, Marcello seppe in quale. galleria era stato posto il suo quadro. Passando nel sobborgo Sant’Onorato, si fermò in mezzo un crocchio di persone, che stavano guardando un'insegna che si metteva a posto. Questa non era altro, se non il quadro di Marcello venduto da Medici ad un salsicciaio. Però il ‘Passaggio del mar Rosso’ aveva subìto una nuova modificazione, e portava un titolo nuovo: gli avevano aggiunto un battello a vapore, e si chiamava: ‘Al Porto di Marsiglia’. Una lusinghiera ovazione si alzò fra gli spettatori allo scoprirsi del quadro. E Marcello, felice di questo trionfo, si voltò indietro mormorando:
- La voce del popolo è la voce di Dio!

XVII.
LA TOILETTE DELLE GRAZIE

Madamigella Mimì, che aveva l'abitudine di dormire fino a giorno inoltrato, si svegliò una mattina verso le dieci e parve stupita di non vedere Rodolfo vicino a lei, e neppure in camera. La sera prima, ella lo aveva lasciato seduto al suo tavolino, disposto a passarvi la notte intorno ad un lavoro extra-letterario, che gli era stato commesso, ed al compimento del quale la bella Mimì era particolarmente interessata, perché il poeta aveva fatto sperare alla sua amica, che col ricavato del lavoro le avrebbe comprata una veste da primavera, della quale un giorno aveva veduto, il taglio ai Due Magote, famoso magazzin di novità, alle cui seducenti mostre la Civetteria di Mimì faceva frequenti devozioni. Quindi, dacché il lavoro era incominciato, Mimì si occupava dei suoi progressi con somma inquietudine. Spesso, ella si avvicinava a Rodolfo, mentre scriveva, e, sporgendo la testa sopra le spalle, gli diceva con gravità:
- Ebbene? la mia veste va innanzi?
- C’è già una manica - rispondeva Rodolfo - sta quieta.
Una notte, udendolo far scricchiolare le dita, il che era segno di compiacenza, Mimì s'alzò d'un balzo a sedere sul letto, e sporgendo la testa fra le tendine, gridò:
- E forse finita la mia veste?
- Vedi- rispose Rodolfo, facendole vedere quattro grandi pagine coperte di linee fitte, fitte finisco adesso la vita.
- Oh che felicità - disse Mimì - non manca più che la sottana? Quante pagine ci vogliono a fare una sottana?
- Secondo; tu non sei grande, e con una dozzina di pagine di cinquanta linee, di trentatre lettere, noi avremo una sottana conveniente.
- Non sono grande, è vero riprese Mimì seriamente - ma non bisognerebbe far soverchia economia di stoffa: adesso le vesti costumano ricchissime, e mi piacerebbe aver delle belle pieghe, che facciano frou-frou.
E si riaddormentò felice.
Avendo avuto l'imprudenza di parlare alle sue amiche Musette e Femia, della bella veste che Rodolfo stava facendole, le due giovani non avevano mancato di raccontare a Marcello e a Schaunard la generosità del loro amico verso la sua amante, e queste confidenze furono seguite da non equivoche incitazioni, tendenti ad imitare l'esempio dato dal poeta.
- Il che significa - aggiungeva Musette tirando i baffi a Marcello - che se si continua così, ancora otto giorni, bisognerà ch'io mi faccia prestare da te un paio di calzoni per poter uscir di casa.
- Debbo riscuotere undici franchi da una buona casa - rispose Marcello - se riceverò questa somma, la disporrò per comprarti una foglia di fico alla moda.
- Ed io? - domandava Femia a Schaunard. - La mia spolverina sta per rovinare.
Schaunard allora tirò fuori di tasca tre soldi, e li diede alla sua amica dicendole:
- Ecco di che comperarti ago e refe; accomoda la tua spolverina, t'istruirai divertendoti. Utile dulci.
Però, in un colloquio, tenuto segretissimo, Marcello e Schaunard furono d'accordo con Rodolfo, che ciascuno dal canto suo si sforzerebbe di sodisfare il giusto desiderio della propria amica.
- Queste povere ragazze - diceva Rodolfo - un nonnulla le abbellisce, ma pure bisogna averlo questo nonnulla. Del resto, da qualche tempo le arti e la letteratura vanno abbastanza bene; noi guadagniamo quasi come i facchini.
- È vero, non posso lamentarmi - interruppe Marcello - le belle arti vanno d'incanto: si direbbe di essere sotto il pontificato di Leone X.
- Difatti - disse Rodolfo - Musette mi ha detto che esci il mattino, e che non torni a casa se non la sera, e ciò da otto giorni ad oggi. Hai dunque veramente molto lavoro?
- Caro mio, un affare magnifico, procuratomi da Medici. Faccio dei ritratti alla caserma dell'Ave Maria; diciotto granatieri, in media, mi hanno chiesto la loro immagine a sei franchi l'una, la rassomiglianza garantita per un anno, come gli orologi. Spero di servire tutto il reggimento. Ho dunque pensato di restaurare Musette appena Medici mi pagherà; perché ho trattato con lui e non co' miei originali.
- Quanto a me - disse Schaunard con indifferenza senza che ciò sembri credibile, ho duegento franchi che dormono.
- Per Satanasso! svegliamoli... - disse Rodolfo.
- Fra due o tre giorni faccio conto di metterli fuori - continuò Schautiard. - Uscendo dalla cassa, non ve lo nascondo, ho intenzione di lasciar libero il freno ad alcune mie passioni. C'è specialmente qui dal rigattiere vicino un abito di ‘nankin’ ed un corno da caccia che mi stuzzicano gli occhi da molto tempo, me ne farò un regalo.
- Ma - domandarono tutti e due in una volta Marcello e Rodolfo - da dove speri far uscire questo favoloso capitale?
- Ascoltate, signori - disse Schaunard prendendo una aria grave e mettendosi a sedere in mezzo a' suoi due mici - non bisogna nascondere a noi stessi, che prima di entrare nell'Istituto abbiamo ancora discretamente del pane di segale da mangiare, e che la pagnotta quotidiana è dura da biascicare. Da un altro lato, non siamo soli; siccome il cielo ci creò sensibili, ciascuno di noi si scelse una ciascuna, alla quale offrì di dividere la propria sorte.
- Preceduta da un'aringa - disse Marcello.
- Ora - continuava Schaunard - anche vivendo nella più stretta economia, è difficile far dei risparmi, quando non si possiede nulla, e specialmente quando l'appetito è più grande del piatto.
- Ma dove diavolo vuoi andare a finire con queste storie? - interrogò Rodolfo.
- A questo - continuò Schaunard. - Che nell'attuale situazione noi avremmo torto di fare gli schizzinosi, allorchè ci si presentasse un'occasione, anche al di fuori dell'arte nostra, di mettere una cifra davanti lo zero, che costituisce la nostra quota sociale.
- Ebbene - disse Marcello - a chi di noi puoi rimproverare d'essere uno schizzinoso? Quantunque grande artista dell'avvenire, non ho io acconsentito a consacrare i miei pennelli alla riproduzione pittorica di guerrieri francesi, che mi pagano col soldo dei loro minuti piaceri? Ho io paura d'abbassarmi, discendendo dall'alto gradino della mia futura grandezza?
- Ed io? - rispose Rodolfo - non sai che da quindici giorni compongo un poema didascalico-medico-chirurgico per conto di un celebre dentista, che mi paga quindici soldi la dozzina i miei versi alessandrini? Un po' più cari delle ostriche! Pure non ne arrossisco; piuttosto che veder la mia musa rimanere inoperosa, collo braccia penzoloni, le farei mettere in romanza il Conduttore Parigino. Quando si ha una lira... perdinci! è per servirsene. Del resto Mimì ha sete di stivaletti.
- In tal caso voi non mi accuserete - rispose Schaunard - quando saprete da quale sorgente scaturisce il fiume aurifero, del quale aspetto lo straripamento.
Ecco qui la storia dei duecento franchi di Schaunard.
Una quindicina di giorni prima, era passato da un editore di musica, il quale gli aveva promesso di procurargli qualche lezione di pianoforte, o degli accordi.
- Per Bacco! - disse l'editore vedendolo entrare - arrivate a proposito: sono venuti proprio oggi a chiedermi un pianista. E per un inglese, il quale, credo, vi pagherà bene... Siete veramente abile pel piano?
Schaunard pensò che un contegno modesto avrebbe potuto essergli nocivo in faccia al suo editore. Un musicante, e sopratutto un pianista modesto, è così rara cosa! Perciò Schaunard rispose con molta franchezza:
- Sono di prima forza: se avessi appena un polmone magagnato, dei capelli lunghi ed un vestito nero, a quest'ora, sarei celebre come il sole, e voi, invece di domandarmi ottocento franchi per stampare il mio spartito: ‘La morte della giovanetta’ verreste ad offrirmene tremila, in ginocchio, ed in un bacile d'argento. Il fatto si è che le mie dita contane dieci anni di lavori forzati sulle cinque ottave, e maneggio abbastanza bene l’avorio ed i diesis.
Il personaggio al quale Schaunard fu diretto era un inglese di pome Birn'n. L'artista fu ricevuto dapprima da un servo blu, che lo presentò ad un altro servo verde, il quale lo trasmise ad un servo nero, che lo introdusse in una sala, dove si trovò in faccia ad un isolano accoccolato in un’attitudine ‘spleenitica’, che lo faceva rassomigliare ad Amleto meditante l'umana fragilità. Schaunard disponevasi ad esporre il motivo della sua presenza, piando grida disperate gli troncarono la parola. Quell'orribile schiamazzo che gli lacerava le orecchie, era prodotto da un pappagallo, il quale stava esposto sopra una finestra del piano di sotto.
- Oh! la bestia, la bestia! - mormorò l'Inglese sobbalzando sulla poltrona - essa mi farà morire.
Ed in quel momento l'uccello incominciò a sciorinare tutto il suo repertorio, molto più esteso di quello dei pappagalli ordinari. Schaunard rimase confuso, allorchè udì l’animale, incitato da una voce femminile, che incominciava a declamare i primi versi del Théramène con una intonazione da Conservatorio.
Quel pappagallo era il favorito di un'artista, una commediante in voga... nel proprio gabinetto. Era una di quelle donne, le quali senza che si sappia né come, né perché, sono quotate a prezzi esagerati sull'arena della galanteria, il nome delle quali è scritto sui menu delle cene dei gentiluomini, a cui servono di dessert vivo. Ai nostri tempi è un onore per un cristiano il farsi vedere con una di queste pagane, le quali spesso null'altro hanno di antico, che la loro fede di battesimo. Quando son belle, il male in fin dei conti non è grande: il più che si arrischia si è di morire sulla paglia dopo di averle messe fra il mogògono: ma quando la loro bellezza è comprata un tanto l'oncia nella bottega dei profumieri, e quando non resiste a tre gocce d'acqua su d'un cencio, quando il loro spirito sta tutto in una strofa di vaudeville ed il loro talento, nel palmo della mano di un claqueur non si sa, per Bacco! capire come gente distinta (che qualche volta ha un nome, criterio, ed un vestito alla moda) si lascia trasportare, per la sensualità, ad inalzare fino al livello del più plateale capriccio, donne, quali il loro Frontino non vorrebbe fare per la sua Lisetta!!
L’attrice in discorso era nel numero di queste bellezze della giornata. Si chiamava Dolores e si diceva spagnuola, quantunque fosse nata in quella Andalusia parigina, che si chiama la via Coquenard. Benché dalla via Coquenard a quella di Provenza non ci siano che dieci minuti, pure aveva impiegato sette od otto anni per fare quel viaggio. La sua prosperità finanziaria era incominciata ed aveva progredito in ragione diretta della sua decadenza personale; perciò ella ebbe un cavallo, il giorno in cui si fece mettere il suo primo dente artificiale e due, quando si fece mettere il secondo. Attualmente faceva sfarzo; abitava in un Louvre, ed i giorni di corse a Longchamp passava in mezzo al viale; finalmente dava dei balli, ai quali correva tutto Parigi. Il ‘tutto Parigi’ però di queste dame!... cioè la collezione degli oziosi cortigiani, di tutti i ridicoli e di tutti gli scandalosi.. Il ‘tutto Parigi’ giuocatore di ‘lansquenet’ e di paradossi; i fannulloni di testa e di braccia, assassini del loro tempo e dell’altrui; gli scrittori, che si creano letterati per utilizzare le penne che la natura: ha fatto spuntar sulle loro spalle; i bravi dell'orgia; i gentiluonini tarlati; i cavalieri di ordini misteriosi; tutta la bohème in guanti, venuta da non si sa dove e che ritorna là donde venne; tutte le creature notate e marcate; tutte le figlie d'Eva che un giorno si vendevano in piazza e che adesso si vendono in un boudoir; tutta la razza corrotta dalle fasce ai drappo mortuario, che si trova a tutte le prime rappresentazioni, portante Golconda sulla fronte, ii Phibet sulle spalle, e per la quale, nondimeno, spuntano le prime mammole ed i primi amori degli adolescenti. Quella gente, cui le Cronache chiamano tutto Parigi, era ricevuta in casa di madamigella Dolores, la padrona del pappagallo in discorso.
Quell'uccello, celebre in tutto il quartiere pei suoi talenti oratori, a poco a poco, era divenuto il terrore di tutti i vicini. Stando esposto sul balcone, aveva convertito ii suo palchetto in una tribuna, da cui, dalla mattina alla sera, profferiva interminabili discorsi. Alcuni giornalisti, conosciuti dalla padrona, gli avevano insegnata qualche specialità parlamentare, ed il volatile era diventato versatissimo nella questione degli zuccheri. Egli sapeva a memoria il repertorio dell'attrice, e io declamava in modo da poterla supplire in caso d'indisposizione. Inoltre, siccome ella era poliglotta, e riceveva visite da tutte le parti del globo conosciuto, il pappagallo parlava tutte le lingue, e qualche volta si abbandonava a bestemmie tali, che avrebbero fatto arrossire i marinai, ai quali Vert- Vert doveva la propria educazione. La compagnia di quest' uccello, che poteva essere divertente ed istruttiva per dieci minuti, diventava un vero supplizio allorché era protratta. I vicini spesso avevano mosso lagnanze, ma l'attrice aveva loro insolentemente risposto, non curandosi delle loro proteste. Due o tre inquilini, onesti padri di famiglia, indignati che i loro figli si iniziassero a corrotti costumi per le propalazioni del pappagallo, si erano licenziati dalla casa, il cui padrone era stato conquiso dall'attrice ehe aveva saputo conoscere il suo lato debole.
L'Inglese, in casa del quale abbiamo veduto entrare Schaunard, aveva avuto pazienza per lo spazio di tre mesi. Ma un giorno nascose sotto un abito di cerimonie il suo furore che scoppiava, e si fece annunziare nell'appartamento dell'attrice, come lo avrebbe fatto nel palazzo della regina Vittoria a Windsor in un giorno di solennità.
Vedendolo entrare, l'attrice credette a prima vista che fosse Hoffmann col suo abito di lord Spleen, e volendo far cortese accoglienza ad un collega, gli offrì da colazione. L'Inglese le rispose in un francese da venticinque lezioni che gli aveva insegnato un emigrato spagnuolo.
- Io accettare vostro invito, a condizione che noi mangeremo quest' uccello... disaggradevole.
E mostrava la gabbia del pappagallo, il quale avendo sentito all'odore che era un isolano, l'aveva salutato intonando il ‘God save the king’.
Dolores pensò che l’Inglese si prendesse spasso di lei e stava per incollerirsi, quando continuò:
- Siccome io esser molto ricco, io mettere il prezzo alla bestia.
Dolores rispose che ella amava il suo pappagallo, e che non voleva vederlo passare in altre mani.
- Oh, non era per metter lui in mie mani, che io lo voleva - rispose l'Inglese - era sotto i miei piedi - e mostrava i tacchi.
Dolores fremette di sdegno, e stava per andare sulle furie, quand'ella vide in un dito dell'Inglese un anello, il cui diamante rappresentava forse duemilacinquecento franchi di rendita. Quella scoperta fu una vera doccia gelata che cadde sulla sua rabbia. Riflettè che era un’imprudenza l'andare in collera con un uomo il quale portava cinquantamila franchi al suo dito mignolo.
- Ebbene, signore - diss’ella - poiché questo povero Coccò vi dà fastidio, lo metterò dall'altra parte, così non lo sentirete più.
L'Inglese si limitò a fare un segno di sodisfazione.
- Però - fece egli mostrando le sue scarpe - avrei preferito ...
- Non abbiate paura - disse Dolores - al luogo dove lo metterò, gli sarà impossibile disturbare milord.
- Oh! io non esser milord... io esser soltanto esquire.
Ma nel punto in cui Birn'n si disponeva a ritirarsi, dopo averla salutata con un chinar di capo assai modesto, Dolores, la quale non trascurava mai i suoi interessi in alcuna occasione, prese un pacchetto che si trovava sopra un tavolino, e disse all'Inglese:
- Questa sera al teatro di si dà una rappresentazione a mio benefizio, ed io debbo figurare in tre commedie: vorreste permettermi di offrirvi alcuni biglietti di palco? Il loro prezzo non è stato aumentato che pochissimo.
E mise in mano dell'Inglese una dozzina di quei biglietti.
- Dopo essermi mostrata così pronta a fargli piacere - ella pensava - è impossibile che egli rifiuti, se è ben educato; e se mi vede in scena col mio abito rosa... chi sa? fra vicini? Il diamante che ha in dito è l'avanguardia di un milione. Mio Dio! egli è ben brutto e triste, ma sarà un'occasione per andare a Londra, senza patire il mal di mare.
L'Inglese, dopo aver presi i biglietti, si fece spiegare una seconda volta l'uso al quale erano destinati, poi chiese il prezzo.
- I palchi sono a sessanta franchi; ce ne sono dieci lì... Ma non c'è premura - aggiunse Dolores vedendo che l'Inglese si disponeva a levar di tasca il suo portafogli - spero che in qualità di vicino vorrete avere la bontà di farmi qualche visita di quando in quando.
Il signor Birn'n rispose:
- Io non amare gli affari a dilazione.
E prendendo un biglietto da mille franchi lo pose sul tavolino, e mise in tasca i biglietti dei palchi.
- Eccovi il resto - disse Dolores aprendo uno scrignetto, dov'ella metteva il suo danaro.
- Oh no! - disse l'Inglese - questo tenetelo per bere - ed uscì lasciando Dolores fulminata da tale parola.
- Per bere! che villano! Gli rimanderò il suo danaro! - esclamò allorché fu sola.
Ma la rusticità del vicino non aveva irritato che l'epidermide del di lei amor proprio: la riflessione la calmò; ella pensò che venti luigi erano una discreta sommetta, in fin dei conti, e oho in altri tempi aveva sofferte impertinenze peggiori a miglior mercato.
- Ah, bah! - diss’ella - non bisogna esser tanto orgogliose. Nessuno m'ha veduto, ed oggi appunto è la fine del mese della mia lavandaia... E poi... quest'Inglese parla così male la lingua, che forse ha creduto di farmi un complimento.
E Dolores intasco allegramente i suoi venti luigi.
Ma la sera, dopo, la rappresentazione, ella tornò a casa eccitatissima. Il signor Birn'n non s'era servito dei suoi biglietti, ed i dieci palchi erano rimasti vuoti.
Entrando in scena a mezzanotte e mezzo, la sventurata lesse sul viso delle sue amiche di quinta, la gioia che esse provavano vedendo il teatro sì vuoto.
Ella udì perfino un'attrice, sua amica, dire ad un'altra, indicando tanti palchi vuoti:
- Quella povera Dolores non ha fatto che un proscenio.
- I palchi sono pochi.
- L'orchestra è vuota.
- Per Bacco quando si vede il suo nome sull'avviso, produce in teatro l’effetto della macchina pneumatica.
- Ma che idea ebbe mai d'aumentare il prezzo dei biglietti?
- Bella beneficiata! Scommetterei che l'incasso sta tutto in un salvadanaio, o tutt'al più nel fondo d'una calza.
- Oh! ecco lì il suo famoso abito di velluto rosso.
- Pare un piatto di gamberi cotti.
- Quanto hai fatto alla tua ultima serata? - domandò un'attrice alla sua compagna.
- Piena, cara mia; era un giorno di prima. Eh, eh; i posti si pagavano un luigi. Ma incassai sei franchi soli; la mia modista ha preso il rimanente. Se i geloni non mi spaventassero tanto, andrei a Pietroburgo.
- Come? Tu non hai ancora trent' anni e pensi già a far la tua Russia?
- Che vuoi? E tu? È vicina la tua ‘beneficiata’?
- Fra quindici giorni. Ho già venduto per mille scudi di biglietti, senza contare i miei ammiratori di Saint-Cyr.
- Oh bella! tutta l'orchestra se ne va!
- E Dolores che canta.
Difatti Dolores, porporeggiante come il di lei vestito, cadenzava la sua aria in agro-dolce. Mentr'ella a stento finiva, due mazzi di fiori le cadevano ai piedi, lanciatile dalle sue due amiche, le quali si sporgevano dal loro palco gridando:
- Brava Dolores, brava!
È facile immaginarsi il furore di costei. Ritornata a casa, benché fosse in piena notte, ella destò Coccò, il quale svegliò il buon signor Birn'n, che dormiva sulla fede della ricevuta parola.
Da quel giorno, la guerra divampò fra l'attrice e l'Inglese: guerra a oltranza, nella quale i nemici accapigliati non avrebbero indietreggiato per nessun conto. Il pappagallo, educato per questo scopo, aveva approfondito lo studio della lingua d'Albione, e tutto il giorno emetteva ingiurie contro il suo vicino, col più acuto falsetto. Era davvero qualche cosa d'insopportabile. Dolores stessa ne soffriva, ma sperava che da un giorno all'altro il signor Birn'n avrebbe abbandonato l'appartamento. Ella aveva posto tutto il suo amor proprio per riuscire. Dal canto suo, l'isolano aveva inventato ogni sorta di artifici per vendicarsi. Prima di tutto, aveva aperto una scuola di tamburo nella sua sala, ma il commissario dl polizia era intervenuto.
Il signor Birn'n, sempre più ingegnoso stabilì un tiro alla pistola: i suoi servitori consumavano cinquanta cartoncini al giorno. Il commissario venne ancora, e gli mostrò un articoli delle leggi municipali, che proibisce l’uso delle armi da fuoco nelle case. Il signor Birn'n sospese il fuoco, ma otto giorni dopo la signora Dolores s'accorse che nel suo appartamento pioveva. Il padrone di casa venne a far visita al signor Birn'n, e lo trovò che stava prendendo un bagno di mare nella sala. Infatti, quella camera, assai grande, era stata foderata di lamine di metallo; tutte le porte erano ermeticamente chiuse ed in quel bacino improvvisato si erano versati dieci quintali di sale e cinquanta metri cubi d’acqua. Era un oceano tascabile: non ci mancava nulla, neppure i pesci. Vi si entrava da un buco fatto al di sopra dell'uscio di mezzo, ed il signor Birn'n prendeva il suo bagno ogni giorno.
Passato qualche tempo, si sentiva l’odore del mare per tutto il quartiere, e la signora Dolores aveva mezzo pollice d'acqua nella sua camera da letto.
Il padrone della casa montò sulle furie, minacciò il signor Birn'n di fargli una causa per danni e spese cagionati allo stabile.
- Non avere il diritto di bagnare me in mia casa? domandò l'Inglese.
- No, signore.
- Se non avere il diritto, va bene - rispose l'Inglese pieno di rispetto per la legge del paese in cui si trovava. un peccato, perché io divertiva molto me.
La stessa sera diede gli ordini necessari per far vuotare il suo mare, e ne era tempo: sull'impiantito s'era già formato un banco di ostriche.
Però il signor Birn'n non rinunziò alla lotta: egli cercava un mezzo legale per continuare questa guerra eccentrica, che faceva la delizia di tutta Parigi oziosa, poiché il fatto era stato narrato in tutti i teatri ed in altri luoghi pubblici.- Dolores aveva impegnato il suo onore per uscir vittoriosa da questa lotta, sull’esito della quale si erano fatte grosse scommesse.
Si fu allora che il signor Birn'n s'immaginò il pianoforte. E non era poi una cattiva idea: il più seccante degli strumenti era capace di lottare contro il più noioso degli uccelli. Dal momento che gli nacque questa buona idea, cercò subito un pianista: questi fu il nostro amico Schaunard. L'Inglese gli raccontò le sue sofferenze a cagione del pappagallo della vicina, e tutto ciò che avéva già fatto per addivenire ad un amichevole componimento.
- Ma, milord - disse Schaunard - c'è un mezzo per sbarazzarvi di questa bestia, e questo è il prezzemolo. Tutti i chimici sono unanimi nel dichiarare ch'esso è l'acido prussico di cotesti animali: fate tritar, del prezzemolo sui vostri tappeti, e fateli scuotere dalla finestra sulla gabbia del pappagallo: egli spirerà precisamente come se Alessandro Borgia l'avesse invitato a pranzo.
- Ci pensavo, ma la bestia essere custodita - rispose l'Inglese - il pianoforte esser più certo.
Schaunard guardò l'Inglese, e non capì sulle prime.
- Ecco come io avevo combinato - continuò l'isolano. - La commediante e la sua bestia dormire fino a mezzogiorno, seguite bene mio ragionamento.
- Continuate pure, vi seguo.
- Io avere intrapreso di turbare suoi sonni. La legge di questo paese dà a me il diritto di far musica da mattina a sera. Capite voi cosa io volere da voi?
- Ma - disse Schaunard - non sarebbe un dispiacere per l'attrice l'udirmi tutto il giorno suonare il pianoforte gratis! Sono di prima forza, e se avessi soltanto un polmone guasto ...
- Oh, oh! - riprese l'Inglese - intendiamo noi, io non dire a voi di fare eccellente musica; bisogna solo battere su vostro strumento, così - disse l'Inglese tentando una scala - e, sempre, sempre, e sempre stesse cose, senza pietà, signor musico, sempre la scala. Io sapere un poco medicina, questo far diventar pazzi; essi diventare pazzi là sotto; è su questo che io far calcolo. Presto, signore, mettetevi subito. Io pagherò bene voi.
- Ed ecco - disse Schaunard terminando la sua storia - ecco il mestiere che esercito da quindici giorni ad oggi. Una scala, niente di più che la stessa scala, dalle sette del mattino fino alla sera; non è certo dell'arte seria, ma che volete, figli miei? L'Inglese mi dà duegento franchi al mese pel mio frastuono; bisognerebbe essere il carnefice di se stesso per rifiutare un simile provento. Ho accettato, o fra due o tre giorni vado alla cassa per prendere il mio primo mese.
Fu in conseguenza di queste scambievoli confidenze, che i tre amici convennero di approfittare degli incassi comuni, per dare alle loro donne il vestito primaverile, cui l’ambizioncella di ciascuna sospirava da tanto tempo. Si convenne di più, che colui il quale ricevesse il danaro pel primo, aspetterebbe gli altri, affine di far gli acquisti nello stesso tempo, e perché le damigelle Mimì, Musette e Femia potessero godere tutte insieme del piacere di mostrar pelle nuova, come diceva Schaunard.
Due o tre giorni dopo questo colloquio era stato a Rodolfo pagato il poema... esso costava ottanta franchi. Il doman l’altro Marcello aveva intascato il prezzo di diciotto ritratti di caporali a sei franchi l'uno.
Marcello e Rodolfo duravano la più gran fatica a dissimulare la loro ricchezza.
- Mi pare di sudar oro - diceva il poeta.
- Anch'io - asseriva Marcello. - Se Schaunard tarda ancora, non potrò più continuare la mia parte di Creso anonimo.
Ma il dì dopo, i bohèmes videro arrivare Schaunard splendidamente vestito di una giacchetta di ‘nankin’, giallo-oro.
- O Dio mio! - esclamò Femia abbagliata al vedere il suo amico così elegantemente vestito - dove hai trovato quel vestito?
- L'ho trovato fra le mie carte - rispose il maestro di musica, facendo segno ai suoi amici di seguirlo. - Ho incassato - diss’egli quando furono soli - ecco le pile - e mostrò un pugno d'oro.
- Bene - disse Marcello - mettiamoci in marcia. Andiamo a saccheggiare i negozî. Come sarà felice Musette!
- Come sarà contenta Mimì! - aggiunse Rodolfo. Andiamo, vieni tu, Schaunard?
- Permettetemi di riflettere - rispose il musico. - Coprendo queste signore dei capricci della moda, noi facciamo forse una pazzia. Pensateci! Quando somiglieranno al figurino della ‘Sciarpa d'Iride’, non temete voi che quegli splendori esercitino una deplorabile influenza sul loro carattere? E egli conveniente, per giovanotti come noi, di trattare le donne come se fossimo caduchi e rugosi Mondor? Non è che io esiti a sacrificare quattordici o diciotto franchi per l'abbigliamento di Femia; ma tremo; quand’ella avrà un cappello nuovo, forse non vorrà più salutarmi. Ell a sta sì bene con un fiore nelle trecce! Che cosa ne dici tu, filosofo? - interruppe Schaunard dirigendosi a Colline, ch'era entrato da pochi minuti.
- L'ingratitudine è figlia del benefizio - rispose il filosofo.
- E da un altro lato - continuava Schaunard - quando le vostre amiche saranno ben vestite, qual figura farete voi accanto ad esse? Voi coi vostri abiti a stracci. Voi sembrerete i loro camerieri. Non è per me che lo dico - interrompeva Schaunard pavoneggiandosi nel suo vestito di ‘nankin’ - poiché, grazie al cielo, adesso posso presentarmi dove voglio.
Malgrado lo spirito d'opposizione di Schaunard, fu convenuto che l'indomani si spoglierebbero tutti i bazar del vicinato a profitto delle signore.
Ed il giorno dopo, difatti, all'ora in cui sul principio di questo capitolo abbiamo veduto madamigella Mimì svegliarsi sorpresa dell'assenza di Rodolfo, il poeta ed i suoi due amici salivano le scale di casa accompagnati da un commesso dei ‘Deux Magots’, e da una modista, che portavano dei campioni. Schaunard, che aveva comperato il famoso corno da caccia, apriva la marcia suonando l'introduzione della Carovana.
Musette e Femia, chiamate da Mimì che abitava al mezzanino, discesero le scale colla rapidità delle valanghe, quando seppero che arrivavano vesti e cappelli. Le tre donne furono sul punto d'impazzare d'allegria vedendo scorrere, sotto i loro occhi, tutte quelle povere ricchezze. Mimì fu assalita da un accesso di gioia, e saltava come una capra, facendo svolazzare una sciarpotta di ‘barège’. Musette s'era gettata al collo di Marcello, battendo l'uno coll'altro due stivalini verdi ch'ella teneva in mano. Femia guardava singhiozzando Schaunard, e non sapeva dir altro che:
- Oh, mio Alessandro, Alessandro mio!...
- Non c'è pericolo ch'ella rifiuti i doni d’Artaserse mormorava il filosofo Colline.
Passato il primo slancio di gioia, allorchò la scelta fu fatta e ne fu pagato l'importo, Rodolfo annunziò alle tre donne, ch' esse dovevano far in modo di indossare le loro vesti nuove l’indomani mattina.
- Andremo in campagna - diss'egli.
- Che bell’affare! - esclamò Musette - non è la prima volta che avrò comprato, tagliato, cucito ed indossato un vestito nello stesso giorno. E, d’altra parte, noi abbiamo la notte. Noi saremo pronte, non è vero, signorine?
- Saremo pronte! - risposero insieme Mimì e Femia.
Ed immediatamente si posero all’opera: per sedici ore di seguito non abbandonarono forbici ed aghi.
Il domani mattina, era il primo giorno di maggio.
Le campane di Pasqua avevano già da qualche giorno suonata la risurrezione della primavera; ed essa giungeva frettolosa e contenta da tutte le parti; arrivava, come dice la ballata tedesca, leggiera come il giovine fidanzato, che pianta il maggio sotto la fìnestra della sua promessa sposa. dipingeva d'azzurro il cielo, gli alberi di verde e tutto di colori vivaci: svegliava il sole intorpidito, il quale dormiva ancora nel suo letto di nebbie colla testa appoggiata alle nuvole piene di neve, che gli servivano di guanciale, e gli gridava: "Eh! amico! è ora; son qua! animo, presto al lavoro! vestite in fretta il vostro bell'abito dai raggi nuovi, e fatevi vedere al balcone, per annunziare il mio ritorno".
Ed allora il sole s'era difatti messo in campagna, e passeggiava fiero e superbo come un gran signore. Le rondini, ritornate dal pellegrinaggio d'Oriente, riempivano l'aria dei loro voli; il biancospino ornava i cespugli; la spinalba imbalsamava l'erba dei bosohi: già si vedevano gli uccelli uscire dai loro nidi con un fascicolo di romanze sotto l'ali. Era davvero la primavera dei poeti e degli amanti, e non la primavera di Matteo Laensberg, una rustica primavera dal naso rosso, le unghie alle dita e che fa ancora aggricciare il povero nell'angolo del suo focolare, ove è già estinta la cenere dell'ultimo ceppo. Gli zeffiri intiepiditi correvano per l'aria trasparente, e spargevano nella città i primi profumi delle circostanti campagne. I raggi del sole che limpidi e caldi venivano a battere ai vetri delle finestre, così dicevano all’ammalato: "Aprite, noi siamo la salute!" e nella soffitta della giovanetta che si contempla nello specchio (questo primo ed innocente amore delle più innocenti) essi dicevano: "Apri, o bella, noi illumineremo la tua bellezza! no! siamo i messaggieri del bel tempo; adesso puoi metterti il vestito di tela, il cappello di paglia, e gli stivaletti eleganti, vedi! i boschetti dove si balla, sono sparsi di fiori, i violini si risvegliano pel ballo della domenica. O bella, buon giorno!" Appena l'Angelus suonava alla vicina chiesa, le tre laboriose civettuole, che non avevano dormito se non poche ore, erano già allo specchio e davano l'ultima occhiata alla loro nuova toilette. Erano belle, graziosissime tutte e tre, vestite nello stesso modo, e raggianti per quello stesso riverbero di contentezza, che dà la realizzazione d'un desiderio lungamènte accarezzato. Musette era sopratutto sorprendente di bellezza. - Io non fui mai sì contenta - diceva a Marcello. Mi pare che il buon Dio abbia messo in quest'ora tutta la felicità della mia vita, e temo che non me ne resti più Ah, bah! quando non ve n'è più, ve n'è ancora: abbiamo la ricetta per fabbricarne - aggiungeva, abbracciando Marcello. Quanto a Femia, ella aveva una cosa sola che la tormentava. - Mi piacciono molto i prati e gli uccellini - diceva - ma in campagna non si vede nessuno, e non si potrà ammirare il mio bel cappellino e il mio bel vestito. Se andassimo in campagna sul boulevard? Alle otto di mattina, tutta la strada fu messa in subbuglio dai suoni del corno da caccia di Schaunard, che dava il segnale della partenza. Tutti i vicini si posero alle finestre, per vedere passare i bohèmes. Colline, che faceva parte della festa, chiudeva la marqia portando gli ombrellini delle signore. Un'ora dopo, tutta l'allegra brigata era sparsa pei campi di Fontenay-aux-Roses. Quando la sera, molto tardi, rientrarono in casa, Colline, che tutta la giornata aveva esercitato le funzioni di ceesiere, dichiarò che si erano dimenticati di spendere sei franchi, e depose la reliquia sul tavolino. - Cosa ne facciamo? - domandò Marcello. - Se comprassimo della rendita? - interrogò Schaunard.

XVIII
IL MANICOTTO DI FRANCINE
I

Fra i veri bohèmes della vera bohme conobbi un giovane, per nome Giacomo D... Era scultore, e prometteva di sfoggiare un giorno un gran talento. Ma la miseria non gli lasciò il tempo di mantenere questa promessa. Morì di sfinimento nei mese di marzo 1844, all’ospedale di San Luigi, nella corsia Santa Vittoria, letto numero quattordici.
Conobbi Giacomo all’ospedale, dove ero io pure degente per una lunga malattia. Egli, come ho detto, aveva la stoffa d'un gran talento, ma non ne faceva pompa. Durante i due mesi della nostra intimità, mentre sentiva avvicinarsi la morte, mai non intesi da lui un lamento, né quelle querimonie, che resero sì ridicolo l'artista incompreso. Spirò senza posare, coll'orribile smorfia degli agonizzanti. Tale morte mi rammenta una delle scene più atroci ch'io abbia mai veduto in quell'ospizio dei dolori umani. Suo padre, avvertito della catastrofe, venne all’ospedale per reclamare il cadavere del figlio, e discusse molto, prima di pagare le trentasei lire, richieste dall’amministrazione. Contrattò anche per il servizio di chiesa, e con tanta spilorceria, che riuscì ad ottenere una riduzione di sei lire. Nel momento di mettere il cadavere nella bara, l'infermiere domandò ad uno degli amici del defunto se avesse di che pagare il lenzuolo funebre. Quel povero diavolo, che non aveva un soldo, si recò dal padre di Giacomo, il quale montato sulle furie, disse che era tempo di finire di annoiarlo.
La suora novizia, che assisteva a quella mostruosa polemica, gettò uno sguardo sul cadavere, lasciandosi sfuggire queste tenere ed ingenue parole:
- Ma, signore, è impossibile sotterrarlo così, questo povero giovane; fa tanto freddo; dategli almeno una camicia, perché non giunga così nudo davanti il buon Dio.
Il padre diede cinque lire all'amico per comprare la camicia, ma gli raccomandò di farne acquisto presso un certo cenciaiuolo, il quale vendeva della biancheria d'occasione.
- Costerà meno - diss’egli.
Simile crudeltà del padre di Giacomo mi fu spiegata in seguito; era furioso, perché il figlio aveva presa la carriera delle arti, e la sua collera non si era calmata, nemmeno davanti alla tomba. Ma mi trovo ben lontano da madamigella Francine e dal suo manicotto. Vi ritorno.
Madamigella Francine era stata la prima ed unica amante di Giacomo, benché fosse morto assai giovane. Aveva ventitré anni, quando suo padre voleva seppellirlo nudo. Questo amore mi fu narrato dallo stesso Giacomo, quand’egli occupava il numero quattordici, ed io il sedici, della corsia di Santa Vittoria: luogo ben triste per morirvi.
Prima però di cominciare questo racconto (che farebbe effetto, se sapessi ripetervelo, come me lo raccontò Giacomo) permettetemi, o lettore, di fumare un po' nella pipa di legno, che mi regalò quei giorno, in cui il medico gliene proibì l'uso. Nondimeno, durante la notte, quando l'infermiere dormiva, l'amico Giacomo si faceva prestare da me la sua pipa ed un po' di tabacco. Ci si annoia tanto, la notte, in quelle vaste corsie, quando non si può dormire e che si soffre!
- Soltanto una o due boccate di fumo - mi diceva.
Io lo lasciavo fare, e suora Genoveffa fingeva di non sentire l'odore del tabacco, quando passava davanti al letto. Ah, buona suora! Come eravate gentile e bella quando ci offrivate l'acqua benedetta. Vi si vedeva giungere da lontano, camminando adagio fra quelle cupe pareti, avvolta in bianchi uni, i quali disegnavano pieghe artistiche, che tanto ammirava il mio amico Giacomo. Buona Suora! Voi eravate la Beatrice di questo inferno! Erano sì dolci i vostri conforti, che ci lamentavamo sempre per farci consolare da voi! Se l'amico Giacomo non fosse morto, un giorno in cui cadesse la neve, vi avrebbe scolpita una Madonnina da porsi nella vostra cella, buona suora Genoveffa!
Un lettore:
- Ebbene? Il manicotto? Non lo vedo io, il manicotto! Un altro lettore:
- E madamigella Francine? Ove è andata?
Il primo lettore:
- Non è molto gaio questo racconto!
Il seconda.:
- Aspettiamo la fine.
- Vi domando perdono, signori, ma è stata la pipa dell'amico Giacomo che mi ha trascinato in queste digressioni. Del resto, non ho certo giurato di farvi rider sempre. Non sono allegri tutti i giorni della bohéme!
Giacomo e Francine eransi incontrati in una casa della via Tour d’Auvergne, ove avevano preso alloggio ambedue nel mese d'aprile. L'artista e la giovanetta, per otto giorni, non avevano stretto quei rapporti di vicinato, che nascono quasi sempre quando si abita l'uno accanto all'altro; nondimeno, senza essersi scambiata una sola parola, conoscevansi già a vicenda. Francine sapeva che il suo vicino era un povero diavolo d'artista, e Giacomo che la sua vicina era una cucitrice, sfuggita alle persecuzioni della matrigna. Faceva dei miracoli d'economia per poter vivere col suo lavoro, e siccome non aveva mai conosciuto il piacere, così non lo desiderava. Ecco come ambedue dovettero passare sotto la legge comune dei vicini di casa.
In una sera del mese d'aprile, Giacomo rientrò spossato dalla fatica, digiuno dal mattino e profondamente triste, per una di quelle cause vaghe, che non hanno un’origine precisa, e che vi colgono d’un tratto ed in qualsiasi luogo. Specie d’apoplessia di cuore, a cui vanno soggetti specialmente coloro, i quali vivono solitari. Giacomo, che si sentiva soffocare nella sua cameretta, aprì la finestra per respirare un po'. La sera era bella, ed il sole, tramontando, spiegava i suoi malinconici incanti sulle colline di Montmartre.
Giacomo restò pensoso alla finestra, ascoltando il coro alato delle armonie primaverili, che cantava nella calma della sera, e ciò aumentava la sua tristezza. Vedendosi passar davanti un corvo che gracchiava, pensò a quel tempo in cui i corvi portavano del pane ad Elia, il pio solitario, e dovette costatare che questi avevano cessato dall'essere caritatevoli. Poi, non potendo più resistere, chiuse la finestra, calò le tendine, e, siccome non aveva quattrini per comprare olio per la lucerna, accese una candela di resina, che aveva riportata da una gita alla Gran Certosa. Sempre più triste, si mise quindi a fumare a pipa.
- Fortunatamente ho ancora sufficiente tabacco per nascondere a' miei occhi la pistola -mormorò tra sè, e cominciò a fumare.
Doveva essere ben triste in quella sera, il mio amico Giacomo, per pensare a nascondere la pistola! Era il suo ultimo mezzo nelle grandi crisi, che gli succedevano di frequente. Ecco in che consisteva questo mezzo. Giacomo fumava del tabacco (su cui spargeva qualche goccia di laudano) sino a che le nuvole uscenti dalla pipa erano divenute così dense, da togliergli la vista degli oggetti che si trovavano nella sua cella, fra cui una pistola appesa al muro. Era questione d'una dozzina di pipate. Quando l'arma era divenuta completamente invisibile, il fumo ed il laudano quasi sempre lo addormentavano, e spesso succedeva altresì, che la di lui tristezza scompariva sulla soglia dei suoi sogni. Ma in quella sera aveva consumato tutto il tabacco, la pistola non si vedeva, e Giacomo sentivasi ancora triste. Invece madamigella Francine era estremamente gaia nel ritornare in casa, e la sua allegria non aveva causa, come la malinconia di Giacomo.
Era una di quelle gioie che cadono dal cielo, e che il buon Dio concede alle anime buone. Dunque, madamigella Francine sentivasi di buon umore, e canterellava nel salire la scala. Ma nel momento in cui stava per aprire l'uscio della sua cameretta, un soffio di vento le spense bruscamente la oandela.
- Mio Dio! Ciò mi secca! - esclamò la giovanetta ecco che mi tocca a discendere e risalire ancora sei piani.
Ma, avendo veduta un po' di luce a traverso l'uscio di Giacomo, l'istinto della pigrizia e il sentimento della curiosità l'eccitarono a rivolgersi all'artista.
- È un servigio che si scambia ogni giorno tra vicini, e non ha nulla di compromettente - pensò Franoine. Battè adunque due leggieri colpi all’uscio di Giacomo, il quale aprì, un po' meravigliato da quella visita notturna.
Non appena ella fu entrata nella camera di Giacomo, il fumo che la ingombrava la soffocò d'un tratto, e prima d'aver potuto pronunziare una parola, cadde svenuta sopra una sedia, lasciando cadere la candela e la chiave. Era mezzanotte, e nella casa tutti dormivano. Giacomo non reputò opportuno chiamare aiuto, per timore di compromettere la sua vicina. Si limitò quindi ad aprire la finestra per lasciar penetrare un po' d'aria nella stanza, e, dopo aver gettato qualche goccia d’acqua sul viso della giovanetta, la vide aprire gli occhi e, a poco a poco, riprendere i sensi. Quindi Francine spiegò il motivo che l'aveva condotta in casa dell'artista, scusandosi vivamente di ciò che era accaduto.
- Ora che mi sono riavuta - soggiunse - ritornerò nella mia cameretta.
E aveva già aperto l'uscio, quando s' accorse che non solo, non aveva accesa la candela, ma che non aveva neppure la chiave.
- Stordita che sono! - diss’ella avvicinando la candela alla resina accesa - entrai per avere un po' di luce, e me ne andavo senza.
Ma, nel medesimo istante, la corrente d'aria stabilita tra l’uscio rimasto aperto e la finestra, spense d'un tratto i due ceri, ed i giovani rimasero nella completa oscurità.
- Lo si crederebbe fatto a bella posta - riprese Francine. Perdonatemi, signore, il disturbo che vi reco, e siate tanto cortese da riaccendere ancora il lume per ritrovare la mia chiave.
Volentieri, madamigella - rispose Giacomo, cercando i fiammiferi a tastoni.
E ben presto li trovò. Ma un’idea strana gli venne alla mente; mise i fiammiferi in tasca, esclamando:
- Mio Dio! Madamigella, ecco un altro inconveniente. Non ho più neppure un fiammifero; l'ultimo l'ho consumato rientrando in casa. Spero - pensò in sé stesso d'aver ben disposte le cose.
- Mio Dio! Mio Dio! - esclamò Francine - posso, è vero, rientrare in casa senza candela, perché la stanza non è sì grande da potervisi smarrire. Ma è necessaria la chiave. Cercatela anche voi, signore, ve ne prego. Dev'essere in terra.
- Cerchiamo, madamigella - disse Giacomo.
Ed eccoli ambedue nell'oscurità in cerca dell'oggetto perduto; ma quasi fossero ispirati dallo stesso istinto, accadde che, durante queste ricerche, le loro mani si trovavano spesso nei medesimo posto, incontrandosi dieci volte ai minuto. E siccome erano inetti ambedue, non seppero ritrovare la chiave.
- La luna, che ora è nascosta dietro le nubi, illuminerà presto la mia camera - continuò Giacomo. - Aspettiamo un poco. Fra qualche minuto potrà aiutarci nelle nostre ricerche.
Ed in attesa che la luna apparisse, si misero a discorrere. Una conversazione al buio, in una camera angusta, in una notte primaverile; una conversazione dapprima frivola ed insignificante, poi il capitolo delle confidenze, potete immaginarvi a qual punto conduca. Le parole diventano, a poco a poco, confuse, piene di reticenze; la voce diventa flebile e le parole e' alternano coi sospiri... Le mani si incontrano, e terminano il pensiero, che dal cuore sale alle labbra e... Cercate la conclusione nei vostri ricordi, o giovani copie. Ricordatevene voi che oggi camminate, il braccio dell’una su quello dell'altro.
Infine, la luna inondò di luce la cameretta; madamigella Francine si tolse al proprio sogno gettando un leggierissimo grido.
- Che avete? - domandò Giacomo, cingendole la vita.
- Nulla! - rispose Francine - Credevo d'aver udito battere.
E, senza che Giacomo se ne accorgesse, spinse col piede sotto un mobile la chiave da lei veduta sul pavimento.
Non voleva ritrovarla.

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Primo lettore:
- Io non permetterei certamente, che mia figlia leggesse questo racconto.
Secondo lettore:
- Finora non ho veduto un solo pelo del manicotto di madamigella Francine, e in quanto a costei, non so neppure se sia bruna o bionda.
Pazienza, o lettori. Vi ho promesso un manicotto e ve lo darò alla fine, come il mio amico Giacomo lo diede alla povera Francine, che divenne la sua amante, come ho già spiegato qui sopra coi puntini. Era bionda, Francine, bionda ed allegra, il che non è comune. Aveva ignorato l'amore sino a venti anni, ma un vago presentimento della prossima morte la consigliò a non ritardare, se voleva gustarlo.
Incontrò Giacomo e l'amò. La loro relazione durò sei mesi.
Si conobbero in primavera, si lasciarono nell'autunno. Francine era etica, lo sapeva lei ed anche Giacomo. Quindici giorni dopo la loro conoscenza, lo aveva saputo da un medico suo amico.
- Se ne andrà col cadere delle foglie - gli aveva detto - costui.
Francine aveva udita questa confidenza, e s'accorse della disperazione del suo amico:
- Che m'importano le foglie ingiallite? - gli disse mettendo tutto il suo amore in un sorriso. - Che importa l'autunno? Siamo in estate e le foglie sono verdi: approfittiamone, amico mio! Quando sarò prossima a morire, mi prenderai nelle tue braccia impedendomi di lasciarti. Io sono obbediente, tu lo sai, e resterò.
E questa leggiadra creatura attraversò, durante cinque mesi, le miserie della vita della bohème, colla canzone e col sorriso sulle labbra. Giacomo abbandonavasi al suo amore.
Il medico gli diceva spesso:
- Francine sta peggio, sono necessarie maggiori cure.
Allora Giacomo girava tutta Parigi affine di procurarsi danaro per provvedere le medicine, ma Francine non voleva neppure che se ne parlasse, e le gettava dalla finestra. La notte, quando, la tosse la tormentava, usciva di camera e andava sul pianerottolo, perché Giacomo non la udisse.
Un giorno, in cui eransi recati in campagna, Giacomo vide un albero, le cui foglie ingiallivano; guardò tristamente Francine, la quale camminava adagio e pensierosa.
Francine vide Giacomo impallidire, e scoprì la causa del suo pallore. -
- Come sei ingenuo! - gli disse abbracciandolo - non siamo che in luglio; per arrivare all’ottobre vi sono tre mesi. Amandoci notte e giorno, come facciamo, raddoppieremo il tempo che ci resta per vivere assieme. Eppoi, se mi sentirò male fra le foglie ingiallite, andremo in un bosco di pini, ove le foglie sono sempre verdi.
In ottobre, Francine fu costretta al letto. L'amico di Giacomo la curava. La loro camera angusta era situata a un ultimo piano, e prospiciente ad un cortile, in cui un albero, ogni giorno andava spogliandosi delle foglie. Giacomo aveva messa una tenda alla finestra per nascondere la pianta alla giovane inferma, ma Francine la fece togliere.
- Amico mio - diceva a Giacomo - ti darò cento baci per ciascuna foglia che mi lasci vedere. D'altra parte, la mia salute va migliorando. Ben presto potrò uscire, ma siccome fa freddo e non voglio che le mie mani diventino rosse, mi comprerai un manicotto.
E durante tutta la malattia, fu il manicotto l’unico suo sogno.
Alla vigilia d'Ognissanti, vedendo Giacomo più desolato del consueto, volle infondergli un po' di coraggio, e per dimostrargli che stava meglio, tentò levarsi un poco.
Il medico arrivò in quel punto, e per forza la rimise in letto.
- Giacomo - diss’egli nell'orecchio all’artista - fatti coraggio! Tutto è finito; Francine sta per morire.
Giacomo diede in uno scoppio di pianto.
- Ora puoi darle tutto quanto ti domanda - continuò il medico - non havvi più alcuna speranza.
Francine comprese cogli occhi ciò che il medico aveva detto al suo amante.
- Non dargli retta! - esclamò stendendo le braccia verso Giacomo. - Egli non dice la verità. Usciremo assieme domani... ma farà freddo comprami il manicotto. Te ne prego, ho paura dei geloni in questo inverno.
Giacomo voleva uscire col suo amico, ma Francine trattenne il medico presso di sè.
- Va' a cercarmi il manicotto - diss'ella a Giacomo lo voglio bello e che duri per molto tempo.
E, quando fu sola, così parlò al medico:
- Fra poco dovrò morire, lo so. Ma prima d’andarmene, datemi qualche cosa che mi restituisca le forze per una notte, ve ne prego. Rendetemi bella ancora, e che io muoia subito dopo, giacché il buon Dio non mi permette di vivere più a lungo.
Mentre il medico la consolava, un vento gelido entrò nella camera, portando sul letto dell'inferma una foglia gialla, strappata all'albero del cortile.
Francine si fece aprire la tendina e vide completamento spoglia quella pianta.
- È l’ultima! - esclamò ponendosi la foglia sotto il guanciale.
- Voi non morrete che domani - osservò il medico. Avete tutta la notte per voi.
- Quale felicità! - esclamò Francine. - Una notte d'inverno! Sarà ben lunga!
Giacomo ritornò portando seco un manicotto.
- Com'è bello! - disse Francine. - L’adoprerò per uscire di casa la prima volta.
E passò la notte con Giacomo.
Il domani, quando suonava mezzogiorno, entrò in agonia e tutto il suo corpo fu scosso da brividi.
- Ho freddo alle mani - disse Francine - dammi il mio manicotto.
Ed in esso infilò le sue povere manine.
- È finito - disse il medico a Giacomo - vai ad abbracciarla.
Giacomo unì le sue labbra a quella dell'amica. Nell’ultimo momento le si voleva togliere il manicotto, ma ella vi ficcò le mani.
- No, no, lasciatemelo, siamo nell'inverno e fa freddo. Ah, mio povero Giacomo! Mio povero amico! Che diverrà di te? Mio Dio!
L'indomani Giacomo era solo.
Il primo lettore:
- Lo prevedevo io che non sarebbe stata allegra questa scena.
Ma che volete! Non sempre si può ridere.

II

Era la mattina del giorno. d'Ognissanti. Francine' era morta.
Due uomini vegliavano al capezzale: uno stava in piedi, ed era il medico; l'altro, inginocchiato presso il letto, premeva le sue labbra sulla mano della morta, e sembrava voler suggellarvele col bacio della disperazione. Era Giacomo, l'amante di Francine. Dalle sei era immerso in una dolorosa insensibilità. Un organetto, che passava sotto la finestra, lo destò.
L'organetto suonava un'arietta, che Francine aveva l'abitudine di canterellare nello svegliarsi.
Una di quelle speranze insensate che non possono nascere se non nelle grandi disperazioni, attraversò la mente di Giacomo. Rivisse nel passato, all'epoca in cui Francine non era che moribonda: dimenticò l'ora presente, e s'immaginò un istante non esser la defunta se non addormentata, e dover fra poco risvegliarsi, cantando il suo motivo prediletto.
Ma i suoni dell'organetto non erano ancora finiti, e Giacomo ripiombava già nella realtà. La bocca di Francine era chiusa per, sempre alle canzoni, ed il sorriso, destato per un momento da quel sogno, spariva dalle sue labbra, su cui la morte cominciava a delinearsi.
- Coraggio! - gli disse il medico.
Giacomo s'alzò e, guardando il medico, gli chiese:
- Tutto è finito, non è vero? Non c'è più speranza?
Senza rispondere a questa triste domanda, l'amico alzò le cortine del letto e, tornando verso lo scultore, gli stese la mano: -
- Francine è morta... lo si doveva prevedere. Abbiamo fatto tutto quanto si poteva per salvarla. Era un'onesta fanciulla, o Giacomo, che ti ha amato molto, più e diversamente da quello che tu l’abbia amata. Il suo amore non era altro che amore, mentre il tuo conteneva qualche altro sentimento. Franoine è morta, ma tutto non è finito: fa d'uopo pensare alle ultime disposizioni per la di lei sepoltura. Ce ne occuperemo insieme, e durante la nostra assenza pregheremo qualche vicina di vegliarla.
Giacomo seguì i consigli del Suo amico. Tutta la giornata la passarono nel recarsi dal sindaco ed alla chiesa pei funerali, dalla chiesa al cimitero. Siccome Giacomo non aveva danaro, il medico impegnò il suo orologio, un anello ed alcuni indumenti personali, per sopperire alle spese del trasporto funebre, che fu stabilito per il domani.
Rientrando entrambi a sera assai tarda, la vicina costrinse Giacomo a mangiare qualche cosa.
- Sì - rispose - lo voglio pur io, ho freddo, ed ho bisogno di acquistare un po' di forza, perché questa notte avrò da lavorare.
La vicina ed il medico non compresero.
Giacomo si pose a tavola, ingoiò alcuni bocconi, così in fretta da soffocarsi quasi, poi chiese da bere, ma avvicinando il bicchiere alle labbra, gli cadde di mano. Il bicchiere, spezzandosi, ridestò nella mente dell'artista un ricordo, che, a sua volta, svegliò il dolore, per un momento assopito. Ii giorno in cui I Francine si era per la prima volta recata da lui, la giovanetta, già sofferente, fu presa da indisposizione, e Giacomo le aveva dato da bere un po' d’acqua zuccherata in quel medesimo bicchiere; in seguito, quando abitavano insieme, ne fecero una reliquia d'amore.
Nei rari giorni d'agiatezza, l'artista comprava per la sua amica una o due bottiglie di vino generoso, di cui le era prescritto l'uso; ed era in quel bicchiere che Francine beveva e nel quale la sua tenerezza attingeva una allegria piena di fascino.
Giacomo restò più di mezz'ora a guardare, senza proferir parola, gli sparsi frantumi di quel fragile e carissimo ricordo; gli pareva che anche il suo cuore si fosse spezzato, e sentiva lacerarsi il petto dal rumore acuto della caduta.
Allorché tornò in sè, raccolse gli avanzi del bicchiere, e li chiuse in un cassetto; quindi pregò la vicina di andargli a prendere due candele, e di mandargli, pel portiere due secchi d'acqua.
- Non andartene - disse al medico che non faceva parola - avrò fra poco bisogno di te.
- Che vuoi tu fare? - domandò il dottore guardando Giacomo, il quale, dopo avere versato dell'acqua in una scodella di legno, vi gettava del gesso fino, a manate uguali.
- Cho cosa voglio fare? E non lo indovini? - rispose l'artista. - Voglio modellare la testa di Francine, e siccome restando solo, forse non ne avrei il coraggio, tu non te n'andrai.
Giacomo andò poi ad alzare le cortine del letto, e levò il panno che avevano steso sul cadavere di Francine. La mano di Giacomo cominciò a tremare, ed un singhiozzo soffocato gli sfuggì dalle labbra.
Dammi le candele - gridò egli all'amico - e reggimi la scodella.
Una delle candele fu posta alla testa del letto, in maniera da spandere tutta la luce sul viso della defunta, l'altra fu messa ai piedi. Con un pennello intinto nell'olio d'oliva, l'artista unse le sopracciglia, le ciglia ed i capelli, accomodandoli come faceva abitualmente Francine.
- Così non soffrirà quando le leveranno la maschera.
Prese queste precauzioni, e disposta la testa della morta in modo acconcio, Giacomo cominciò a colare il gesso in leggieri strati, finché ebbe raggiunto lo spessore necessario. In un quarto d'ora, l’operazione era terminata e completamente riuscita.
Per un caso strano, s'operò un cangiamento sul viso di Francine. Il sangue, che non aveva avuto tempo sufficiente per coagularsi, riscaldato, senza dubbio, dal calore del gesso, era affluito verso la parte superiore, ed una nube, dalle rosee trasparenze, si mischiò gradatamente alla cadaverica bianchezza della fronte e delle guance. Le palpebre, che si erano sollevate quando si era staccato il modello, lasciavano scorgere l'azzurro tranquillo degli occhi, il cui sguardo sembrava illuminato da una vaga intelligenza. Dalle labbra semichiuse, da un principio di sorriso, sembrava uscire, dimenticata nell'ultimo addio, quell'estrema parola, che si ode soltanto col cuore.
Chi può affermare che l'intelligenza finisca assolutamente là ove comincia l'insensibilità del corpo? Chi può dire, se le passioni si spengono e muoiono coll'ultima pulsazione del cuore ch'esso hanno agitato? L'anima non potrebbe restare qualche volta volontariamente prigioniera nel corpo disposto già per la tomba, e, dal fondo della sua prigione carnale, spiare per un momento i rimpianti e le lacrime? Quelli che se ne vanno, hanno tante ragioni per diffidare di coloro che restano!
Nel momento in cui Giacomo studiavasi di conservare i lineamenti di Francine per mezzo dell'arte, forse un pensiero d'oltre vita avevala risvegliata nel suo primo sonno senza fine. Forse s'era ricordata, che quegli cui abbandonava era nello stesso tempo un amante ed un artista; che egli era l'uno e l'altro; perchò non poteva esser l'uno senza esser l'altro; che per lui l'amore era l'anima deli' arte, e che se l'aveva tanto amata, ciò dipendeva dall'aver ella saputo esser per lui donna ed amante, un sentimento nella forma.
Ed allora, forse, Francine, volendo lasciare a Giacomo un'immagine umana, ch'era divenuta per lui un ideale incarnato, aveva saputo, già morta e gelida, rivestire ancora una volta il suo viso di tutti i raggi dell'amore e di tutte le grazie della giovinezza: ella risuscitava oggetto d'arte.
E forse la povera fanciulla aveva pensato il vero: giacché esistono certi artisti, i quali, al contrario di Pigmalione, vorrebbero poter mutare in marmo le loro viventi Galatee.
Davanti alla serenità di quella figura, ove l'agonia non conservava più alcuna traccia, nessuno avrebbe creduto alle lunghe sofferenze, che servirono di preludio alla morte.
Francine sembrava continuare un sogno d'amore; vedendola così, la si sarebbe detta morta di bellezza.
Il medico, affranto dalla fatica, dormiva in un canto.
Quanto a Giacomo, egli era di nuovo ricaduto ne' suoi dubbi. Il suo spirito allucinato s'ostinava a credere che colei, cui tanto aveva amato, stesse per risvegliarsi, e, siccome leggiere contrazioni nervose, causate dall'azione recente del modellamento, rompevano ad intervalli l'immobilità del corpo, questo simulacro d'esistenza conservava Giacomo nella sua beata illusione, la quale durò sino al mattino in cui un commissario venne a costatare la morte e ad autorizzarne la tumulazione.
Del resto, se abbisognava tutta la stranezza della disperazione per dubitare della morte, vedendo quella bella creatura, era necessario altresì, per credervi, tutto il positivismo della scienza.
Mentre la vicina avvolgeva Francine nel funebre lenzuolo, Giacomo era stato trascinato in una camera ove trovò alcuni suoi amici, che erano venuti per seguire il feretro. I bohèmes s'astennero, in faccia a Giacomo, che amavano fraternamente, da tutte quelle condoglianze che potevano irritare il suo dolore. Senza pronunciare una di quelle parole sì difficili a dirsi, e dolorose a sentirsi, stringevano silenziosamente la mano al loro amico.
- Questa morte è una grande disgrazia per Giacomo - disse uno di essi.
- Sì - rispose il pittore Lazzaro, spirito bizzarro che aveva saputo vincere di buon'ora tutti i sentimenti ribelli della giovinezza, imponendo loro l’inflessibilità d’una risoluzione, sicché l’artista aveva finito coll'uccidere l’uomo. - Sì, una disgrazia ch'egli stesso introdusse nella propria vita. Dacché conosce Francine, Giacomo è assai cambiato.
- Ella l'ha reso felice! - disse un altro.
- Felice? - riprese Lazzaro - Chi chiamate voi felice? È forse una felicità la passione, che riduce l’uomo allo stato in cui oggi si trova Giacomo? Mostrategli un capolavoro, egli non gli volgerà neppure uno sguardo, e per rivedere ancora una volta la sua amante, sono certo che calpesterebbe un quadro di Tiziano o di Raffaello. La mia amante, invece, è immortale, e non mi ingannerà mai. Abita il Louvre, e si chiama Gioconda.
Nel momento in cui Lazzaro continuava le sue teorie sull'arte e il sentimento, fu avvertito che si andava in chiesa.
Dopo qualche preghiera, il feretro si diresse verso il cimitero. Siccome era il giorno della Commemorazione dei defunti, una folla immensa si trovava in quel funebre asilo. Molti si voltavano per guardare Giacomo, che camminava colla testa nuda dietro il corteo.
- Povero giovane! - dicevano taluni. - È certamente sua madre.
- Sarà suo padre - diceva un altro.
- È sua sorella? - domandava un terzo.
Venuto in quel luogo per studiare le diverse attitudini del dolore in quella festa dei ricordi, che si celebra una volta l'anno sotto le nebbie del novembre, solo un poeta, vedendo passare Giacomo, indovinò che egli accompagnava il cadavere della sua amica.
Quando furono giunti presso la fossa riservata, i bohèmes, colla testa scoperta, si raggrupparono intorno. Giacomo si mise sull'orlo, ed il medico, suo amico, lo teneva pel braccio.
I becchini avevano fretta, e vollero sbrigarsi presto.
- Non vi sono discorsi - disse uno fra essi - tanto meglio I Oho camerata, su, presto!
E la bara tirata fuori dal carro, fu legata con corde e calata giù nella fossa. Un becchino vi scese, ritirò le corde e ne uscì; poi, aiutato da uno dei compagni, prese una pala e cominciò a gettarvi sopra la terra.
La fossa fu ben presto riempita. Vi piantarono una piccola croce di legno.
In mezzo ai suoi singhiozzi, il modico udì che Giacomo lasciavasi sfuggire questo grido egoistico:
- O mia gioventù! Sei tu che ora si seppellisce!
Giacomo faceva parte d'una società chiamata: i ‘Bevitori d'acqua’, che sembrava fondata per imitare il famoso cenacolo della via dei ‘Quattro Venti’, di cui si parla nel bel romanzo: ‘Un grand'uomo di provincia’. Però, esisteva una gran differenza tra gli eroi del cenacolo ed i bevitori d'acqua, i quali, come tutti gli imitatori, avevano esagerato il sistema che volevano mettere in applicazione.
Tale differenza emerge da questo unico fatto, che nel libro di Balzac i membri del cenacolo finiscono col raggiungere la mèta che si sono proposta, e provano che ogni sistema è buono, se riesce; mentre invece, la società dei ‘Bevitori d'acqua’ dopo alcuni anni di esistenza, si sciolse naturalmente per la morte di tutti i suoi membri, senza che il nome di alcuno sia rimasto unito ad un’opera che attesti la loro esistenza.
Durante la sua relazione con Francine, i rapporti di Giacomo coi ‘Bevitori d'acqua’ divennero meno frequenti. Le necessità dell'esistenza avevano obbligato l'artista a violare certe condizioni stabilite e giurate solennemente dai componenti, il giorno della fondazione di quella società.
Perpetuamente assisi sulle sommità d'un orgoglio assurdo, questi giovani avevano eretto a principio fondamentale della loro associazione, che non dovessero giammai abbandonare le alte cime dell'arte, ossia che, malgrado la loro mortale miseria, nessuno fra essi dovesse accordare alcuna concessione alla necessità. Così il poeta Meichiorre non avrebbe mai acconsentito ad abbandonare la sua lira, per redigere un programma commerciale o politico. Ciò conveniva invece al poeta Rodolfo, un buono a nulla, che era atto a tutto, e che non si sarebbe lasciato passar vicino un pezzo da cinque lire, senza tirargli sopra, con qualsiasi arma. Il pittore Lazzaro, orgoglioso pezzente, non avrebbe mai macchiato il suo pennello col dipingere il ritratto d'un sarto, avente un pappagallo sulle dita, come il nostro amico, il pittore Marcello, aveva fatto una volta per procurarsi quel famoso abito, detto Matusalemme, cui la mano di ciascuna sua amante aveva coperto di stelle con infinite cuciture. Durante tutto il tempo, in cui aveva vissuto in intimità d'idee coi ‘Bevitori d'acqua’, Giacomo aveva subito la tirannia dello statuto sociale, ma dacché ebbe conosciuta Francine, non volle associare questa misera giovanetta, già ammalata, al regime ch'egli stesso aveva sopportato durante il suo isolamento.
Giacomo, anzitutto, era d’una natura proba e leale. Andò a trovare il presidente della società, l’esclusivo Lazzaro, e gli annunziò che d’ora in avanti avrebbe accettato qualunque lavoro, purché rimunerativo.
- Mio caro - gli rispose Lazzaro - la tua dichiarazione d'amore era la tua dimissione d'artista. Noi resteremo tuoi amici, se vorrai, ma non saremo più tuoi associati. Lavora a tuo piacimento: per me cessi dall'essere uno scultore, e diventi un imbrattatore di gesso. È vero che tu potrai bere del vino, mentre noi continueremo a bere la nostra acqua ed a mangiare il pane di munizione, ma noi resteremo artisti.
Benché Lazzaro parlasse così, pure Giacomo restò un artista.
Per trattenere Francine presso di sé, egli dedicavasi (quando si presentavano le occasioni) a lavori rimunerativi. In tal modo, lavorò lungo tempo nello studio d'ornato dello scultore Romagnesi. Abile nell'esecuzione, ingegnoso nell'invenzione, Giacomo avrebbe potuto, senza abbandonar l'arte seria guadagnarsi una bella fama in quelle composizioni speciali, che sono divenute uno dei principali elementi dei commercio di lusso. Ma Giacomo era infingardo come tutti i veri artisti, ed innamorato come i poeti. La giovinezza s'era svegliata in lui un po' tardi, ma ardente e, col presentimento della sua prossima fine, volle consumarla tutta fra le braccia di Francine. Spesso ottime occasioni di lavoro bussarono alla sua porta, senza che Giacomo volesse rispondervi, perché avrebbe dovuto seccarsi, ed egli era troppo contento, sognando nell'azzurro delle pupille della sua amica.
Morta Francine, lo scultore ritornò tra i suoi vecchi amici, i ‘Bevitori d’acqua’. Ma lo spirito di Lazzaro dominava in quel circolo, ove ciascuno viveva pietrificato nell'egoismo dell’arte. Giacomo non trovò tra di loro ciò che cercava.
Si comprendeva poco la sua disperazione e si voleva calmarla con ragionamenti.
Vedendo sì poca simpatia, Giacomo preferì isolare il suo dolore, piuttosto che esporlo alla discussione. Ruppe ogni rapporto coi ‘Bevitori d'acqua’, e se ne andò a vivere solo.
Cinque o sei giorni dopo il trasporto di Francine, Giacomo andò da un marmista del cimitero Montparnasse, e gli offrì di conchiudere il seguente contratto. Il marmista fornirebbe alla tomba di Francine una cancellata che egli si riservava di disegnare, e darebbe inoltre a lui un pezzo di marmo bianco, ed in cambio Giacomo si metterebbe a di lui disposizione per tre mesi, sia come lavoratore di pietre, sia come scultore. Il marmista aveva allora diverse commissioni straordinarie: visitò lo studio di Giacomo, e da alcuni lavori cominciati acquistò la certezza, che il caso, offrendogli l'opera di Giacomo, gli procurava un buon affare.
Otto giorni dopo, la tomba di Francine aveva un cancello di ferro, nel mezzo una croce di marmo era stata sostituita a quella di legno e vi era scritto il di lei nome.
Giacomo, per buona fortuna, aveva a che fare con un uomo onesto, il quale comprese che cento chilogrammi di ferro fuso e tre piedi quadrati di marmo dei Pirenei non bastavano certo a pagare tre mesi di lavoro, perché il talento di Giacomo gli aveva fruttato diverse migliaia di scudi. Gli progettò di associarlo alla sua impresa, ma Giacomo non vi acconsentì. La poca varietà dei soggetti ch’egli doveva trattare, ripugnava al suo ingegno creatore; d'altra parte possedeva ciò che voleva, un gran pezzo di marmo, da cui avrebbe fatto uscire un capolavoro, destinato alla tomba di Francine.
Al principio della primavera, la condizione di Giacomo era migliorata: il medico, suo amico, lo mise in relazione con un gran signore straniero, domiciliato in Parigi, il quale stava erigendo un magnifico palazzo in uno dei più bei quartieri. Ordinò a Giacomo una caminiera per sala. Mi sembra ancora di vedere i suoi cartoni: era un disegno graziosissimo: tutto il poema dell'inverno era raccontato in quel marmo, che doveva servire di cornice alle fiamme. Il suo studio, essendo troppo piccolo, Giacomo domandò ed ottenne, per eseguire il lavoro, una stanza nel palazzo non ancora abitato. Gli si anticipò anzi una discreta somma sul prezzo convenuto. Giacomo cominciò col rimborsare al - suo amico, il medico, il danaro che gli aveva prestato quand’era morta Francine; poi corse al cimitero per coprire sotto un nembo di fiori la terra, ove riposava la sua amante.
Venne la primavera, e sulla tomba della giovanetta mille fiori s'intrecciavano sull'erba. L'artista non ebbe il coraggio di sradicarli, pensando che contenevano qualche cosa della sua amica. Siccome il giardiniere domandava che cosa doveva fare delle rose e delle viole, che Giacomo portava seco, gli ordinò di piantarle sopra una fossa vicina, da poco aperta, povera tomba d'un diseredato, senza cancellata e non avente altra indicazione, se non un pezzo di legno fitto in terra e sormontato da una corona di fiori di carta annerita, meschina offerta del dolore d'un povero. Giacomo uscì dal cimitero ben diverso da quello che era entrato.
Egli guardava con curiosità piena di gioia quel bel sole primaverile, lo stesso che tante volte aveva indorati i capelli di Francine, allorché correva per la campagna, falciando i prati colle sue manine. Un coro di buoni pensieri cantava nel cuore di Giacomo. Passando avanti una piccola bettola del boulevard esteriore, si ricordò che un giorno, sorpreso dall'uragano, erasi colà ricoverato con Francine, e che vi avevano desinato. Giacomo entrò e si fece servire sul medesimo tavolino. Gli diedero da colazione sopra un piatto a disegni: lo riconobbe subito, e si ricordò che Francine aveva impiegata mezz' ora per spiegare il rebus che v'era dipinto; si ricordò altresì d una canzone cantata allora da Francine, resa di buon umore da un vinetto limpido, il quale non costa caro, e contiene maggior allegria che uva. Ma questa affluenza di dolci ricordi ridestava il suo amore, senza risvegliare il dolore. Facile alla superstizione, come tutti gli spiriti poetici e sognatori, Giacomo s'immaginò che Francme, udendolo passeggiare presso di lei pochi minuti prima, gli avesse ispirata quella folla di cari ricordi dalla sua tomba, ed egli non volle bagnarli d'una lacrima. Uscì dall' osteria col piede lesto, la fronte alta, l’occhio vivo, il cuore palpitante, il sorriso sulle labbra e mormorando lungo la via il ritornello della canzone di Francine.
Quel ritornello nella bocca di Giacomo era ancora un ricordo, ma ridiventava già una canzone. Forse, senza accorgersene, Giacomo in quella sera fece il primo suo passo nel cammino della transizione, che dalla tristezza conduce alla malinconia e di là all'oblio. Ahimè! Per quanto si voglia e si faccia, l'eterna e giusta legge della mobilità impone che avvenga così!
E come i fiori, nati forse dal corpo di Francine, erano germogliati sulla sua tomba, così i germi della gioventù fiorivano nel cuore di Giacomo, ove i ricordi dell'antico amore svegliavano vaghe aspirazioni verso nuove passioni. Del resto, Giacomo apparteneva a quella razza d'artisti e di poeti, i quali fanno della passione un istrumento dell'arte e della poesia, ed il cui spirito non ha attività se non è messo in movimento dalle forze motrici del cuore. In Giacomo l'invenzione era veramente figlia del sentimento, ed egli poneva una particella di sè stesso nelle più piccole cose, che operava. S'accòrse che i ricordi più non gli bastavano, e che simile alla pietra da mulino, la quale si logora quando le manca il grano, il suo cuore si consumava per mancanza d'emozioni. Il lavoro non aveva più attrattive per lui; l'invenzione, già febbrile e spontanea, non giungeva più se non cogli sforzi della pazienza. Giacomo era malcontento, e quasi invidiava la vita dei suoi vecchi amici, i ‘Bevitori d'acqua’.
Cercò distrarsi, tese la mano ai piaceri, procurandosi delle nuove relazioni. Frequentò il poeta Rodolfo, che aveva incontrato in un caffè, ed ambedue furono presi da reciproca simpatia. Giacomo gli aveva spiegate le sue noie; Rodolfo ne conobbe ben presto la causa.
- Amico mio - gli disse - conosco ciò... - e, battendogli il petto al posto del cuore, aggiunse: -Orsù, presto, fa d'uopo riaccendere il fuoco là dentro: schizzate senza ritardo una passioncella, e le idee vi ritorneranno.
- Ah! - esclamò Giacomo - amai troppo Francine!
- Ciò non v'impedirà d'amarla sempre. La bacerete sulle labbra di un’altra.
- Oh! - disse Giacomo - se potessi incontrare una donna che le rassomigliasse un poco! - ed abbandonò Rodolfo, gettandosi a corpo perduto nelle fantasticherie.

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Sei settimane dopo, Giacomo aveva ritrovato la sua allegria, riaccesa dai dolci sguardi d'una gentile giovanetta, chiamata Maria, la cui beltà malaticcia ricordavagli un poco quella di Francine. Nulla di più grazioso infatti di questa delicata Maria, che aveva diciotto anni meno sei settimane, com'ella continuava ad asserire. I suoi amori con Giacomo erano nati al chiaro di luna, in un giardino, durante un ballo campestre, al suono d'un violino acuto, d'un contrabbasso etico e d'un clarinetto che zufolava come un merlo. Giacomo l'aveva incontrata una sera, in cui passeggiava gravemente intorno all' emiciclo destinato alla danza. Vedendolo passare dritto, nel suo eterno abito nero abbottonato sino al collo, le rumorose e gentili frequentatrici di quel luogo, che conoscevano Giacomo di vista, dicevano fra loro:
- Che viene a far qui questo becchino ? Vi è forse qualcuno da seppellire?
E Giacomo camminava sempre solo, torturandosi il cuore colle spine d'un ricordo, di cui l'orchestra aumentava la vivacità, eseguendo una quadriglia scapigliata, che suonava all'orecchio dello - scultore come un De Profundis. Fantasticando, Giacomo scòrse Maria, la quale lo guardava in un canto, e rideva come una pazza vedendo il suo serio aspetto. Alzò gli occhi, ed intese a tre passi questo scoppio di risa in cappello rosa. S'avvicinò alla giovanetta, le rivolse alcune parole a cui ella rispose; le offrì il braccio peri far assieme il giro del giardino, ed ella accettò. Le disse che la trovava bella come un angelo, ed ella se lo fece ripetere due, volte; rubò per lei due mele verdi, che pendevano dagli alberi del giardino, ella le mangiò con piacere, facendo sentire quel riso sonoro, che sembrava il ritornello della sua costante allegria. Giacomo pensò alla Bibbia, riflettè che non si deve mai disperare per alcuna donna, ed ancora meno per quelle che amano le mele.
Fece col cappello rosa un secondo giro; dopo di esser andato solo a ballo, ritornò accompagnato.
Eppure Giacomo non aveva dimenticata Francine e, seguendo il consiglio di Rodolfo, egli la baciava tutti i giorni sulle labbra di Maria. Di nascosto lavorava alla statua, che voleva porre sulla tomba della morta.
Un giorno in cui aveva ricevuto del danaro, Giacomo comprò per Maria una veste, una veste nera. La giovanetta fu tutta lieta, ma trovò per altro che in estate il nero non era troppo gaio. Giacomo le disse piacerle assai quel colore, e che sarebbe stato contento se avesse tutti i giorni portata quella veste. Maria l’obbedì.
Un sabato, Giacomo disse alla giovanetta:
- Vieni domani di buon'ora, andremo in campagna.
- Quale fortuna! - rispose Maria. - Ti preparo una sorpresa, vedrai... domani sarà una bellissima giornata.
Maria passò la notte a terminare una veste nuova che ella aveva comprata colle sue economie, una bella veste rosa. Alla domenica venne allo studio di Giacomo, pavoneggiandosi nella sua toilette.
L'artista l’accolse freddamente, quasi brutalmente anzi.
- Ed io che credevo procurarti un piacere, regalandomi questa veste! - disse Maria, la quale non sapeva spiegarsi la freddezza di Giacomo.
- Non andremo in campagna - riprese lo scultore puoi andartene, oggi devo lavorare.
Maria se ne ritornò tutta mesta. Sulla strada incontrò un giovanotto il quale conosceva la storia di Giacomo, e che le aveva fatta là corte.
- Oh! ecco madamigella Maria. Non siete più in lutto? - le domandò.
- In lutto? - rispose Maria - e per chi?
- Come? Non lo sapete? Eppure tutto il mondo lo conosce. La veste nera che Giacomo vi ha donata...
- Ebbene? - interrogò Maria.
- È il lutto che Giacomo vi faceva portare per Francine.
Da quel giorno, Giacomo non rivide più Maria.
Questa rottura gli portò sfortuna. Ritornarono i giorni tristi; egli non ebbe più lavoro e cadde in tale miseria, che non sapendo più ove sarebbe giunto, pregò il medico suo amico, di farlo entrare nell’ospedale. Questi capì, in un batter d'occhio, che questa ammissione non era difficile ad ottenersi, ché Giacomo, per quanto non lo dubitasse, trovavasi sul cammino per ricongiungersi a Francine.
Lo si fece entrare nell’ospedale di San Luigi.
Siccome poteva ancora lavorare e camminare, Giacomo pregò il direttore dell’ospedale di concedergli una piccola stanza che a nulla serviva, e vi fece portare alcuni arnesi di scultura. Durante i primi quindici giorni lavorò alla statua, che destinava alla tomba di Francine. Era un grand'angelo colle ali aperte. Questa statua raffigurante Francine non fu condotta a termine, perché Giacomo non potè più montare la scala, e ben presto non gli fu dato neppure abbandonare il letto.
Un giorno la ricetta del medico gli venne fra le mani, e Giacomo, vedendo i rimedi che gli si ordinavano, comprese che era perduto. Scrisse alla famiglia e fece chiamare a sé suora Genoveffa, che gli prodigava tutte le cure più caritatevoli.
- Sorella mia - disse Giacomo - là in alto della stanzetta che mi avete assegnata, vi è una piccola statua di gesso che rappresenta un angelo, ed era destinata ad una tomba; ma io non ho avuto il tempo di eseguirla in marmo. Eppure nel mio studio ho un bel pezzo di marmo bianco, venato di rosa. Mah! Sorella mia, vi regalo la mia statuetta, perché la mettiate nella cappella dell’ospedale.
Giacomo morì pochi giorni dopo. Siccome il trasporto ebbe luogo il giorno stesso dell'apertura dell'Esposizione di belle arti, i ‘Bevitori d'acqua’ non vi assistettero. "L'arte anzitiitto" aveva loro detto Lazzaro.
La famiglia di Giacomo non era ricca, e l'artista non ebbe un posto distinto. Fu sepolto nel campo comune.