LORD GEORGE GORDON BYRON

IL CORSARO

CANTO SECONDO


CANTO SECONDO

"Conosceste i dubiosi desiri?"
Dante

I

Piena è la baia di Corone di galee veloci,
E nel Palazzo di Corone risplendono le faci,
Perché stasera è festa da Seyd Pascià:
Questa è una festa che anticipa il trionfo
Che vi sarà per la cattura dei pirati;
Così giurò Seyd per la sua spada e per Allah;
Fedeli a tale giuramento,
Lungo la costa si raccolgon le galee
E da tutta la ciurma alto si leva il grido d'esultanza,
Ché già ciascun divisi vede bottini e prigionieri,
Benché sia ancor lontano lo spregiato avversario.
"Non resta che far vela, e per certo l'alba di domani
Vedrà la sconfitta dei pirati e deserto il br covo!
Intanto la guardia può dormir, se vuole,
Ché tutti son capaci di scontrarsi anche nel sonno.
E tuttavia chi può vaga sul lido
Per sfogar sui greci l'impetuoso valore:
Bella impresa davvero per quei prodi ch'hanno in testa il turbante
Snudar la spada contro uno schiavo inerme!

Degli schiavi devastan le dimore, eppur non fanno stragi,
Oggi il gagliardo braccio han generoso
E sdegnano colpir sol perché son più forti
A meno che un capriccio non ne ispiri il colpo
Sol per meglio affrontar il nemico in arrivo.
L'ore notturne ingannan fra chiassose gozzoviglie,
E chi ha cara la vita deve far buon viso,
Offrire il meglio agli affamati musulmani,
E trattener le imprecazioni, finché la costa è sgombra".

II

Con la testa cinta dal turbante il superbo Seyd riposa nel palazzo,

Gli stanno intorno i suoi barbuti capitani.
Al levar delle mense, terminato il pilaff,
Osa brindar, così come si dice, col proibito liquor
Mentre alla scorta sua il frutto del più sobrio caffè
Versan gli schiavi come vuol di Allah la dura legge.
Densa è l'aria del fumo delle lunghe pipe
E intanto al suono di scomposte note van danzando le Almah.
Al sorgere dell'alba salperanno i capi,
Ché nell'oscurità l'onda è talvolta infida,
E chi nell'orgia le ore ha consumato
Più sicuro riposa su serici cuscini
Che sul flutto in tempesta.
Chi può, alla festa si attardi, né combatta finché il momento non è giunto,
E più confidi nel Corano che nelle armi sue,
Seppur consentan le numerose e forti schiere
Di sperar più di quanto non ambisca il Pascià.


III

Reverente e cauto, a lenti passi
Entra lo schiavo guardiano della porta;

Il capo inchina e con la mano il pavimento sfiora
Prima di riferir questo messaggio:
"Qui fuori c'è un Derviscio prigioniero,
Ch'è sfuggito dal covo dei pirati,
Egli stesso, se vuoi, potrà narrarti il resco".
Avuto assenso dallo sguardo di Seyd,
Entrare fa il sant'uomo che avanza silenzioso.
Incrociate ha le braccia sopra la veste verde-cupo,
Incerto ha il passo e umile lo sguardo
E par consunto più dai travagli che dagli anni;
Per le astinenze pallido è il suo volto e non per la paura.
In voto del suo Dio, porta lunghe e somposte le sue nere chiome
Che un superbo cappuccio con dignità ricopre.
Lenta gli avvolge la persona una tunica lunga
Su quel petto chiusa, che solo al cielo è consacrato.
Sottomesso all'aspetto, eppur di sé padrone,
Calmo sostien lo sguardo indagatore
Di chi vorrebbe domandar il perché di sua venuta
Ben prima che il Pascià ne dia il permesso.


IV

"Donde vieni Derviscio?".

"Dal covo dei banditi, Io son fuggiasco".
"Dove venisti catturato e quando?".
"La saica salpò da Scalanova diretta all'isola di Chio,
Ma non arrise Allah al nostro viaggio,
Ché i guadagni tutti del mercante musulmano
Furono preda dei pirati, e noi fummo in catene.
Per la mia vita no, io non tremavo,
Né per ricchezze che potessi vantar,
Ma perché già perduta mi vedevo
La libertà di andarmene ramingo.
Alfin d'un pescator l'umile legno che arrivò di notte
La speranza riaccese e mezzo offri di fuga:
Colsi al volo il momento, e trovo qui la mia salvezza;

Accanto a te, sommo Pascià, chi mai tremar potrebbe?".
"Che stanno macchinando quei banditi?
Son sempre all'erta
Per difender le ricchezze depredate e del pirata l'antro?
Sospettan forse che noi già siamo pronti
A sgominar col fuoco quel nido di scorpioni?".
"Pascià Il mesto occhio del prigioniero incatenato,

Ch'è solo intento a cercarsi uno scampo,
Ben poco è adatto a far da spia.
Soltanto udivo l'incessante ruggito delle onde,
Di quelle onde che pur dal lido non mi volevano strappare;
Sol contemplavo lo splendor del sole e il cielo,
Per i miei ceppi troppo luminoso e troppo azzurro;
Allor provai che tutto quel che ama il cuor in libertà
Ancor prima di asciugarmi il pianto
Deve spezzar le mie catene.
Ma questo almen dalla mia fuga puoi capire
Che scarsa o nulla stima essi fanno del rischio:
Vani i miei voti, e vane le ricerche
Di un qualche mezzo che qui mi conducesse
Se fossi stato in sorveglianza posto.
La disattenta guardia che fuggir non mi vide sarà del pari malaccorta
Quando le navi tue saran vicine.
Pascià! Il mio corpo è stremato e la natura
Per la mia fame implora nutrimento
E, dopo la tempesta delle onde, implora quiete.
Or fa' ch'io mi ritiri, e pace sia a te
E pace a tutti i tuoi! A me concedi
Il riposo e il ristoro delle membra!".
"Resta, Derviscio! Ancor per te ho una domanda, resta!
È un ordine, lo intendi? Siedi e obbedisci!

Ancor io debbo interrogarti, porteran gli schiavi i cibi,
Ché dove tutti stanno banchettando, tu non dovrai languir;
Terminata la cena, sii pronto alla risposta
E che sia chiara e piena, perché gli enigmi io non amo".

Vano sarebbe indovinar quel che agita il cuore del sant'uomo

Che tutto ostile a sé sente il Divano,
Né par che apprezzi molto quel convito
E meno ancor tutti quei convitati.
Per un attimo solo sul suo volto
L'ombra trascorre dello sdegno e subito dilegua:
In silenzio si siede e nell'aspetto
Riprende quella calma poc'anzi abbandonata.
Il convito incomincia ma i sontuosi piatti
Quasi a velen commisti, egli tutti allontana.
Per uno costretto tanto a lungo a triboli e a digiuni,
Va pensando il Pascià.
Ben strano è rifiutar un pasto così ricco.
"Qual pena, Derviscio, ti tormenta? Or dunque mangia;
Sospetti forse esser questo un convito di cristiani?
Oppure temi che gli amici miei ti sian nemici?
E perché mai rifiuti il sale? Quel sacro pegno
Che, se condiviso, spunta la spada più affilata,
Riduce in pace le tribù più ostili
E fa apparir fratelli i nemici più fieri?".

"Il sale condisce pasti raffinati,

Mio cibo è sempre la più umile radice
E mia bevanda l'acqua più pura di una fonte.
I miei voti solenni e del mio ordine la legge
Mi fan divieto, con amici o nemici,
Di spezzar e di spartire il pane.
È ver, ti può sembrare strano, se tuttavia per questo

Ho da temere qualche cosa,
Penda pur la minaccia sul mio capo,
Perché per tutto il tuo poter, per il trono stesso del Sultano,
Pane io non assaggerò né altro cibo:
Sol che la santa regola infrangessi,
Più non potrei andar, per l'ira del Profeta,
Pellegrino al santuario della Mecca".

"Poiché sei tanto ascetico, sia pure come vuoi;

Rispondi tuttavia a una domanda e poi vattene in pace.
Quanti sono i pirati? Ah, esser non può già l'alba!
Qual astro mai, e quale sole dardeggia sulla baia?
Come un lago di fuoco essa risplende!
Ah, tradimento! Olà, mie guardie, a me la scimitarra!
Ardon le mie galee e io ne son lontano!
Maledetto Derviscio! questo era dunque il tuo messaggio?
Infame spia! Prendetelo, colpitelo, finitelo all'istante!".

Balza in piedi il Derviscio come vede il fuoco

E nel mutar dell'aspetto appar tremendo;
Balza in piedi il Derviscio e più non pare un santo
Ma un guerrier che monti in groppa al suo destriero.
Getta indietro il cappuccio e si strappa il mantello,
Splende il suo petto ricoperto dalla cotta,
E della sciabola sua sfavilla il raggio!
L'elmo scintillante dalla nera piuma,
L'occhio più scintillante ancor
E del suo nero ciglio l'ombra ancor più fosca
Abbaglian i musulmani come visione di uno spettro Afrita
Che con i colpi suoi mortali
Speranza di lottare più non lascia.
Il selvaggio tumulto delle fiamme lassù,

Delle torce quaggiù la tetra luce,
Le voci di terror e la confuse urla,
Ché già i brandi cominciano a cozzare, e il grido di guerra si fa alto,
Fan di quest'angolo di terra un vero inferno!
Dispersi, or qua or là, gli schiavi van fuggendo,
Altro non vedon che il lido insanguinato e il mare in fiamme,
Né fanno caso all'infuriato grido del Pascià:
"Prendete quel Derviscio! Prendete quel demonio!".
Il Corsaro li vede tremebondi e quell'ardor controlla
Che lo spingeva a cercar la morte in campo,
Ché troppo presto, forse con troppo zelo,
Il fuoco è stato aperto prima del segnale.
Tremebondi li vede, il corno trae dalla cintura,
Il soffio è breve eppure ha un suono disperato:
Risponde un altro corno, "Miei valorosi, avanti!
E dubitar potevo che non fosser solerti?
E potevo pensar che mi lasciasser solo?".
Protende il braccio roteando la possente spada,
E sangue versa per espiar il primitivo indugio;
E quel che il loro spavento ha incominciato
La sua furia conclude,
Così che un uomo solo una turba di vili volge in fuga.
Gli spezzati turbanti volan alti
E quasi non c'è braccio che, a difesa della testa,
Osi levarsi; e lo stesso Seyd, che è colto di sorpresa,
Stravolto, dall'ira sopraffatto, pur continuando a minacciar,
Arretra innanzi a lui.
Non è un vile Seyd, e tuttavia teme il disastro:
Un sì grande tumulto più forte gli fa parer il suo nemico!
Gli distolgon lo sguardo le sue galee in fiamme,
Si strappa la barba e schiumando di rabbia
Veloce dalla mischia s'allontana.
Già i pirati han varcato la porta del Serraglio,

Ecco, v'irrompon: se restare lì dovesse
Resterebbe in attesa della morte.
Tra urla disperate di sgomento, prostrati sono i musulmani,
Invan gettan le spade, il sangue scorre a fiumi!
Incalzano i corsari, si affrettano all'interno,
E Conrad stesso a spronarli col suo corno,
E dei morenti il gemito,
Le grida disperate che implorano salvezza,
Dimostran quanto egli s'impegni nella lotta.
Urlano nel vederlo torvo e solo
Pari a famelica tigre che rabbiosa s'aggira nella tana!
Brevi sono i discorsi dei corsari,
Più breve ancor è la risposta sua:
"Bene, miei prodi, eppur Seyd è in fuga,
Ed è Seyd che uccidere si deve!
Già molto è stato fatto, ma ancora più resta da fare:
Le loro navi sono in fiamme,
Perché non arde ancor la città stessa?".


V

Rapidi al detto impugnano le torce:

Il Palazzo è incendiato,
Dal minareto al portico si levano le fiamme.
Un feroce baglior lampeggia negli occhi del Corsaro,
E subito si spegne, perché gli giungon all'orecchio
Grida di donne che come tocchi di campana a morto
Risuonan nel suo cuor al clamore della guerra indifferente.
"Presto, entrate nell'Harem, che non sia fatto torto a quelle donne,
Ne andrebbe della vostra vita stessa,
Ricordate, noi pure abbiamo spose
Che per un tale oltraggio colpir potrebbe la Vendetta:
Nostro nemico è l'uomo, è l'uomo che uccidere dobbiamo;
Le creature indifese sempre risparmiammo,
E tuttora dobbiamo risparmiare.
Oh, io l'ho dimenticato, ma il Cielo perdonare non potrà
Se il debole muore per mia colpa.
Chi vuoi mi segua, io vado, ora ci è dato
Di sollevar l'animo nostro almeno da un delitto".
Sale Conrad la scala vadilante, quindi abbatte la porta,
Ne sente ardere il piede sull'infuocato pavimento:
Spire di denso fumo gli chiudono il respiro
E tuttavia di stanza in stanza egli un varco si apre.
Cercano, trovano, e alfin traggono in salvo;
Ciascuno regge con le vigorose braccia Una creatura dalle neglette grazie,
Ne calmano i timori, ne rinfrancano il cuore che vien meno
Con tutta quella cura ch'è dovuta a una beltà indifesa.
Così Conrad quei feroci corsari sa domare
E frenar quelle mani che ancor grondano sangue.
Ma chi è costei che Conrad trae in salvo
Da fumanti rovine e dai disastri della mischia?
Ella è la favorita di colui che Conrad vuole morto,
Ella è dell'Harem la regina, ma pur sempre la schiava di Seyd!


VI

Poco tempo ha Conrad di riverir Gulnare,

Brevi son le parole ch'egli dice
Per rinfrancar la bella ansiosa,
Perché in quella sosta in cui pietà lo distraeva dallo scontro,
Il nemico che dianzi lesto e lontano già fuggiva,

Con meraviglia scopre di non esser inseguito,
La corsa allor rallenta, le file ricompone e poi fa fronte.
Se ne accorge Seyd, e vede quanto misere sian,
Paragonate con le sue, del Corsaro le forze.
Per il suo errore avvampa nel contemplare la rovina
Che panico e sconcerto han provocato.
"Allah il Allah!" Alto si leva il grido di Vendetta:
In furor si tramuta la vergogna, non resta che estinguerla o morire
E ripagar fiamme con fiamme e il sangue' con il sangue;
Or rifluisce l'onda del trionfo che s'innalzava minacciosa
Giacché la collera ritorna a riaccender la mischia,
E chi per la conquista combatteva, ora si batte per la vita.
Vede il pericolo il Corsaro e vede i suoi
Schiacciati e volti in fuga dal nemico che accorre imbaldanzito:
"Uno sforzo ancora, uno soltanto,
Che valga a sgominar il nemico che ci stringe!".
Si stringon, serrano le file, si lanciano all'assalto:
Essi vacillano, e or tutto è perduto!
Chiusi da un cerchio sempre più ristretto,
Senza speranza, ma non senza cuore, essi combatton tuttavia,
Ora, però, combattono allo sbando!
Circondati, divisi, sopraffatti, a terra pesti,
Ora ciascun combatte solo e silenzioso, eppur tenace,
E cade vinto da stanchezza più che dai colpi del nemico,
Rendendo l'ultimo suo pegno con la vita,
Finché la spada non sfavilli nella stretta della morte!


VII

Ma prima che il nemico all'assalto tornasse
E a opporre schiera contro schiera e uomo contro uomo,
Gulnare con le sue ancelle liberate

Era al sicuro, per voler di Conrad,
Nella casa di uno che professava la sua fede,

E là s'era asciugata il pianto versato per la vita e per l'onore.
Quando la giovane Guinare dall'occhio bruno
I suoi pensieri raccoglieva, dispersi dal timore,
Grande stupor sentiva per la cortesia
Che addolciva gli accenti del Corsaro
E tenero lo sguardo ne rendeva:
Che strano! Quel bandito che ancor grondava sangue
Ben più genti! assai le parve
Dello stesso Seyd nelle effusioni sue più dolci.
Sì, l'amava il Pascià, ma egli era convinto
Che una schiava potesse esser felice
Sol per il dono che le faceva del suo amore;
Il Corsaro, al contrario, le offriva protezione,
Ne placava i timori, come se tale omaggio
Alla donna spettasse per diritto.
"Folle è questo mio desiderio, e per un cuore femminile
Ancora più che folle è vano:
E tuttavia vorrei veder ancor quell'uomo
Non fosse che per dirgli grazie, me l'ha impedito prima lo spavento,
Per questa vita che l'amante mio Pascià
Sembrò tener in così scarsa cura!".


VIII

Ella lo vede là dove la strage è più cruenta,

A raccoglier l'ultimo respiro
Di chi, più fortunato, ha trovato la morte.
Separato dai suoi, contro un nemico
Che stima conquistato a caro prezzo
Il campo perduto dal Corsaro;
Gettato a terra, sanguinante, beffato dalla morte
Cercata inutilmente,
A espiar costretto tutte le sue colpe,
Condannato a languir e a viver giorni vani,
Mentre Vendetta escogita torture sempre nuove

E ristagnare fa quel sangue ch'essa ha risparmiato
Sol perché a goccia a goccia ancora stilli,
Perché l'avido occhio di Seyd
Lo vuoi veder per sempre in agonia e morto mai!
Questo è dunque il Corsaro? Or ora ella lo vide
Agitar imperioso la spada insanguinata;
Questo è il Corsaro! Disarmato ma non senza coraggio;
Il solo suo rimpianto è il viver che gli resta;
Il solo suo rimpianto
Le sue ferite troppo lievi
Cercate tuttavia con tanto ardore
Da baciar la mano portatrice di morte.
Oh, perché mai fra tanti
Non c'è uno solo che l'anima sua invii al cielo,
O all'inferno, per lui non ha importanza?
Proprio soltanto lui ha da viver ancora,
Che più d'ogni altro s'è battuto per cercar la morte?
Egli sente quello che sente il cuore dei mortali,
Quando schiacciato dall'infedele ruota di fortuna,
Il peso avverte dei delitti commessi
E insieme del vincitore la minaccia
Che fa scontare il fio con torture efferate;
E una profonda, oscura sensazione,
Ma l'orgoglio feroce che a tutto lo spingeva
Ora gli serve per celare tutto.
Eppur nel fiero e inalterato aspetto
Più trionfator appar che vinto.
Pur se è stremato dallo scontro
E soffre assai per le ferite,
Nessuno come lui con tanta calma gli occhi rivolge intorno.
Da lontano si leva il grido della folla,
Resa insolente quand'è passata la paura,
Ma i valorosi che lo vedono dappresso
Non sanno offender un nemico
Che a temere hanno imparato,
E i truci sgherri che lo portano in cella
Lo guardan muti in preda a un indicibile sgomento.


IX

Gli mandano un chirurgo, non certo per pietà,
Ma so! per controllare quanto ancora da vivere gli resti.
E il chirurgo, già pregustando il piacer della tortura,

S'avvede che di vita gliene resta assai
Per caricarlo di catene ancor più gravi.
Domani, si, domani, il sole al suo tramonto

Al supplizio del palo assisterà,
E risorgendo con le consuete rosseggianti tinte dell'aurora,
Constaterà se quei tormenti
Abbiano o no prodotto il loro effetto.
Ma di tutte le pene la più feroce e la più lenta

E quella che la sete aggiunge all'altre sofferenze,
Sicché questo protrarsi della morte
Non consente nemmeno di morire,
Mentre fameico volteggia intorno al palo l'avvoltoio.
"Un sorso d'acqua, un sorso d'acqua!".

E con un ghigno la Vendetta
Irride dell'infelice la preghiera,
Perché placando la sua sete, quell'infelice può morire.
Questo è il destino del Corsaro: parte il chirurgo, partono gli sgherri
Lasciando il fiero Conrad incatenato e solo.


X

Vano sarebbe raccontare del Corsaro la piena degli affetti,
Né d'altronde e certo s'egli stesso ne abbia conoscenza.
Nasce nella mente un conflitto e si produce un caos
Quando tutte le sue parti si confondono convulse e tenebrose
Per contendere tra loro con impeto tremendo,
Fieramente lottando contro l'irriducibile Rimorso,
Quel beffardo demonio che muto è sempre prima che avvenga il fatto,
E che sempre esclama "Ben ti avevo avvertito" quando il fatto è compiuto.
Vane parole! Colui che arde di passioni eppure, non si piega,
Può al modo di un ribelle torturarsi,
Ma non si può pentire come un vile!
Anche in un'ora deserta come quella
Allorché l'anima più soffre e tutto, tutto a sé di sé rivela.
Non c'è passione, non c'è pensiero dominante che le lasci tregua;
Bensì soltanto la terrifica visione di passioni e pensieri
Che nell'anima irrompono dalle infinite loro strade.
L'infrangersi dei sogni più ambiziosi, d'un amore il rimpianto,
La gloria minacciata, la stessa vita in forse,
La gioia non gustata, l'odio rabbioso
Contro colui che vanto trarrebbe dalla nostra morte.
L'irrevocabile passato, e l'incalzar tanto veloce del futuro
Da non permetter di vedere se inferno porti o paradiso;
Fatti, pensieri, parole, nella memoria sempre vivi,
Mai come in quell'ora son ricordati con affanno.
Quel che a suo tempo parve un'inezia o una piacevolezza,
Al ripensano ora con animo severo, altro non è che colpa.
Il pensiero straziante di un delitto occulto,
Che pur se a tutti è ignoto non dà minore angoscia,
In breve, tutto quello che l'occhio non può vedere senza un brivido,
Un sepolcro scoperchiato, un cuore messo a nudo
Con tutte le miserie sue sepolto, finché Orgoglio si desta
Per strappar all'anima il suo specchio e mandano in frantumi!
Ah, sì, Orgoglio tutto può celare e tutto può sfidar Coraggio
Anche correndo incontro al rischio più mortale.
Prova ciascun qualche timore, e chi è più abile a celano,
L'ipocrita, cioè, merita lode:
Non il codardo che con animo meschino
Le sue prodezze vanta e quindi fugge;
Coraggioso è colui che sa affrontar la morte a viso aperto
E che in silenzio muore.
Forte così di sue passate imprese
Egli ardisce sfidar chi lo minaccia!


XI

Nell'alta cella della torre più alta
Giace il Corsaro incatenato, in balia del Pascià.
Il Palazzo è crollato tra le fiamme, e or nella fortezza
Tiene Seyd col prigioniero la sua corte.
Non biasima il Corsaro il castigo voluto dal Pascià,

Perché il nemico suo, se fosse stato soggiogato,
La medesima sorte avrebbe avuto.
Ora egli è solo e in quel deserto
Tutte le colpe del suo cuor va misurando, eppure si dà forza:
Solo un pensier, uno soltanto egli affrontar non osa.
"Ah, come potrà conoscer Medora queste nuove?".
Allora, e solo allora alza le mani incatenate al cielo
E con gran rabbia scrolla le catene su cui posa lo sguardo.
Tosto egli tuttavia trova conforto, O finge, o sogna di trovarlo
Irridendo, beffardo, il suo dolore.
"Venga pur la tortura, quando e come vorrà,

Ora mi occorre il sonno che più forte mi renda a sopportarla".
Ciò detto al suo giaciglio lentamente si trascina
E, quali che siano i fantasmi che l'opprimono,
Rapido s'addormenta.

Non era ancor la mezzanotte quando la mischia aveva inizio,
Ed era tempo che il piano del Corsaro andasse in porto.
Strage non vuole che si perda tempo
Né consente che incompiuto rimanga alcun delitto.
Nell'ora trascorsa dal suo sbarco
Lo si è visto mascherato, scoperto, vincitore e vinto.
Nello spazio di un'ora, quel capitano in terra, quel corsaro dei mari,
Ha portato la morte e la salvezza,
E finito in catene e in preda al sonno!


XII

Dorme il Corsaro e par che il sonno sia dei più sereni,
Tanto calmo e profondo è il suo respiro:
Ah, ben felice sarebbe se quello fosse il sonno della morte!
Dorme il Corsaro, ma di chi è mai quella figura
Che si china sul suo placido sonno?
Son già andati i nemici e gli amici non sono accanto a lui.
E forse un angelo del cielo, inviato a lui
Per portargli la grazia?
No, è creatura terrena con angeliche sembianze!
Con il candido braccio regge un lume

Velato un poco sì che il troppo vivo raggio
All'improvviso non abbagli
Quegli occhi chiusi che s'apron solo per soffrire,
Che s'aprono soltanto per richiudersi ancora.
Quella creatura che ha l'occhio così nero e il viso tanto bello,
Le onde brune dai riflessi d'oro delle ingemmate trecce,
Che come fata appar leggera, e che nudo ha il piede
Al par di neve bianco, e al par di neve silenzioso al passo,
Come è potuta giungere fin qui
Fra tanti sgherri e nella notte fosca?
Ah, perché non chiedere piuttosto Che cosa una donna osar non sappia,
Una donna spronata come te, Guinare, da giovinezza e da pietà!
Gulnare dormire non poteva, e intanto che il Pascià nel sonno immerso,
Vedeva ancor nei suoi turbati sogni il suo pirata prigioniero,
Ella il letto lasciò e prese del suo signor l'anello
Col quale suol talvolta la propria mano ornar per gioco,
E andò senza che le ponessero domande, Tra quegli sgherri insonnoliti,
All'anello regale reverenti.
Stremati dalla mischia, sfiniti dai colpi ricevuti nello scontro,
Invidiosi del sonno del Corsaro,

Hanno gli sgherri chiuso gli occhi
E ciondolando il capo inerte,
Presso la porta della torre, pigri han disteso le membra
Senza curarsi d'altro.
Solo si son riscossi deferenti alla vista dell'anello,
Ma non han chiesto chi lo portasse né perché.


XIII

Ella lo guarda piena di stupore,

"Come può mai dormir così tranquillo
Se altri occhi piangon la sua morte
O la rovina che ha prodotto,
E gli occhi miei lo vanno qui cercando senza posa?
Quale incantesimo improvviso mi ha reso quest'uomo tanto caro?
È vero, a lui debbo la vita, molto più che la vita,
E me e le ancelle mie egli scampò da uno strazio peggiore della morte:
Questo non è il momento di pensarvi. Piano!
Ecco il sonno si rompe, com'è profondo il suo respiro,
Egli si agita, ed è sveglio!".
Egli alza il capo e il lume lo sconcerta,
Ne sa se quel che vede è vero:
Muove le mani e il fragor della catena
Crudelmente gli dice che egli è vivo ancora.
"Che creatura è mai questa?
S'ella non è una visione celestiale, Per certo, il carceriere che m'han dato
Meravigliosamente bello ha il volto!".
"Corsaro, tu non sai chi io sia, io son colei Che è grata a te per quelle imprese
Che troppo raramente tu hai compiuto.
Guardami e rivedrai in me colei

Che la tua mano dalle fiamme scampò
E dalla furia, più temibile ancor, dei tuoi pirati.
Vengo a te nella notte, e a malapena saprei dir perché,
Non per nuocerti, certo, ch'io non vorrei vedere la tua morte".
"Se quanto dici è vero, mia cortese Signora,
L'occhio tuo è il solo che qui non brilli di gioiosa speranza:
Il mio nemico ha la fortuna dalla sua,
Che usi pure il suo diritto.
Tuttavia io son grato a questa cortesia,
Sia essa del nemico o sia la tua,

Che mi concede un confessor tanto leggiadro".
Può apparir strano, eppur con un'estrema pena

Una gioia si lega, senza portare tuttavia conforto.
La celia del Dolor mai non inganna,
Sorride amara, ma pur sempre sorride.
Tavolta anche il patibolo risuona
Delle celie dei più saggi e dei più forti!
Ma quella gioia che a tale celia sembra affine
Ogni cuor può ingannare salvo il proprio.
Come che sia, sul volto del Corsaro or brilla un lampo,
Ora un indefinibile sorriso che la sua fronte spiana:
Hanno un suono di gioia i suoi accenti,
Gioia estrema per lui su questa terra,
E tuttavia contrario questo a sua natura,
Perché nel corso di sua breve vita
Pochi pensieri egli ebbe
Che non fosser di tenebra e di guerra.


XIV

Corsaro, di già è segnato il tuo destino!

E tuttavia io posso addolcire il cuore del Pascià
Quando più debole lo rende tenerezza.
Vorrei salvarti, oh si, vorrei salvarti ora,
Ma né tempo, né speranza, né le tue forze stesse
Posson conceder tanto;
Ma tutto quel che posso io lo farò:
Quanto meno rinviare la sentenza
Che un giorno appena di vita ti concede.
Fare di più ora sarebbe rovinoso,
Tu stesso condanneresti un tentativo vano
Che solo morte recherebbe a entrambi".
"Certo, sarebbe una iattura: l'animo mio a tutto è pronto;
Troppo in basso è caduto per temer una caduta anche più grave.
Non tentare te stessa con il rischio,

Né me con la speranza di scampar da un nemico
Con cui non potrei battermi.
Incapace di vincer, dovrò forse fuggire come un vile,
Il solo fra tutta la mia ciurma a non saper morire?
E tuttavia c'è una persona
A cui sempre ricorre il mio pensiero,
Che con la dolcezza sua profonda
Può far sgorgare il pianto dai miei occhi.
I miei soli sostegni nelle vie ch'io corsi
Furon il mio vascello, la mia spada, il mio amore, il mio Dio!
E questo Dio che in gioventù io abbandonai
Adesso mi abbandona e l'Uomo che vuole la mia morte
Altro non fa che il suo volere.
Io la maestà divina beffare non vorrò con la preghiera
Che solo può disperazion servile
Estorcere al codardo.
Basta così, io vivo ancor e ancor posso soffrire.
La mia spada fu strappata a questa indegna mano
Che ben poteva conservar un brando tanto fido;
Il mio vascello è in fondo al mar o catturato;
Ma il mio amore! Solo per lei la voce mia
Al cielo può levar gli accenti suoi più dolci:
Ella è tutto quello che ancor alla terra mi lega,
Or la mia morte spezzerà quel cuore così tenero
E turberà quel volto che, prima che apparisse il tuo, Gulnare,
Agli occhi miei pareva senza dubbio alcuno Il più bello del mondo".

"Dunque tu ami un'altra? Ma questo a me che importa?

Nulla, davvero, e nulla mai:
E tuttavia, tu ami, e io ho invidia
Per chi può posare il proprio cuore
Su un cuor che gli è fedele,

Né mai conosce il vuoto quell'errante pensier
Che, come il mio, coi fantasmi si strugge".
"Signora, io mi credevo che tu amassi colui
A cui da dura morte io salva ti rendevo".
"Io amare il fiero Seyd? No, non è lui il mio amore;
E tuttavia questo mio cuore una volta tentò
Di ricambiar la sua passione, ora non più.
Sentivo allor e sento ancora che amor vive soltanto
Se vive in libertà.
Sono una schiava, sia pure una schiava favorita,
Per divider con lui i suoi splendori, per apparir la più felice!
Tante volte debbo subir questa domanda:
<Mi ami tu, Gulnare?> e io dal desiderio ardo
Di rispondere: <No, non t'amo!>.
Oh, ben dura cosa è sopportare la passione di Seyd,
Lottando invano per non sentirne ripugnanza!
Ma ancor più dura cosa è sopportare
I palpiti del cuore senza mostrar che forse già per un altro batte.
Egli prende la mano ch'io non gli porgo e che neppur ritraggo,
E il polso mio freddo e tranquillo
Né i suoi battiti frena né li affretta:
Quando la mano egli abbandona, questa ricade come cosa morta
Dalla man di colui ch'io non ho amato a sufficienza per poterlo odiare.
Senza calore queste labbra ricambiano il suo bacio,
E un brivido m'assale al ricordare il resto!
Oh, avessi io mai provato quell'ardore
Che almeno fa sentir il mutarsi in odio dell'amore!
Sempre egli da me si parte senza che io ne soffra,
Sempre senza che io lo desideri, ritorna:
Quando è presente, dai miei pensieri è assente.
Se a lui io penso, e a lui pur debbo pensar,
Temo che ormai non sia che per provar ribrezzo.
Sono la schiava sua, ma contro ogni vanità,

Peggio sarebbe ancor se fossi la sua sposa.
Oh, se mai fine potesse aver questo capriccio del suo cuore
O si cercasse un'altra e a me ridesse libertà!
E se soltanto ieri questo fosse accaduto,
Avrei pur detto: così sia.
Sì, se adesso fingo un'inconsueta tenerezza,
Ascolta, prigioniero, è solo per spezzar la tua catena.
Per ripargarti della vita che ti devo,
Per ridonarti a quella che ti è quaggiù più cara,
Che ti ricambia d'un amor ch'io mai conoscere potrò.
Addio, già si leva il mattino e io debbo lasciarti:
Caro mi costerà, ma non temere
Questo non è per te giorno di morte!".


XV

Gulnare le mani del Corsaro incatenate preme sul suo cuore,

A capo chino si volge per andare
E silente come un sogno incantevole dilegua.
Ella dunque era qui? E ora egli è solo?
Ma che gemma è mai quella che splende sulle sue catene?
La lacrima più sacra, versata per la pena altrui,
Che spunta all'improvviso, splendente, pura,
Estratta dalla miniera di Pietà,
E levigata già dalla celeste mano!
Oh, troppo eloquente e fatalmente cara

E così disarmante è la lacrima che sgorga dagli occhi di una donna!
Dell'arma stessa di sua fragilità ella si serve
Per portar la salvezza e conseguir vittoria,
E se ne fa una lancia e uno scudo al tempo stesso.
Fuggila dunque, ché Virtù vacilla e Saggezza traligna
Se con troppa passione sulle pene di lei posi lo sguardo!
Che cosa infatti mai fece a un eroe perdere un mondo,
Che cosa mai lo costrinse alla fuga?
La timida lacrima nell'occhio di Cleopatra.
Ma si perdoni il fallo del debole triumviro,

Quanti non perdon per una lacrima soltanto
Nonché la terra il cielo?
L'anima essi consegnano al demonio
Dannandosi per sempre per consolar le pene d'una amante lasciva!


XVI

E l'alba e sul viso sconvolto del Corsaro
Brilla un raggio ch'è privo di speranza;
Che sarà mai di lui prima di sera? Egli sarà un resto miserando
Su cui l'ala funesta agiteranno i corvi.
Gli occhi suoi chiusi il tramonto del sole non vedranno
E dell'umida sera la rugiada Come nebbia si poserà sulle rigide sue membra
Rinfrescando la terra e tutto ravvivando tranne il Corsaro solo!