LORD GEORGE GORDON BYRON

IL CORSARO

CANTO TERZO


CANTO TERZO

"Come vedi ancor non m'abbandona".
Dante

I

Lento e più dolce prima di sparir del tutto,
Dietro le alture di Morea tramonta il sole;
Non cinto da caligine come nei nordici paesi
Ma luminoso e vivido come lama splendente!
Sul tranquillo mare dardeggia un biondo raggio
E indora il verde flutto che al tremolar scintilla.
All'antico scoglio di Egina e all'isola di Idra
Manda il dio della gioia l'estremo suo sorriso,
E pur se qui ormai non ha più altari,
Grato gli è ancor indugiar col suo splendore.
Le ombre che veloci discendono dai monti
Baciano il tuo glorioso golfo, invitta Salamina!
Quegli azzurri profili per lungo tratto estesi
Incontrano il suo languido sguardo
Fatto di porpora più accesa;
E le più tenui tinte, sfumanti sulle cime,
Segnano il lieto suo percorso
E del cielo rivelano i colori,
E quando alfin l'ombra la terra e il mare invade,
Il sole, dietro il suo scoglio Delfico, nascosto si riposa.
In una sera come questa il sole mandava il raggio suo più pallido,
Che era anche l'estremo per l'uomo tuo più saggio, Atene!
Ah, quanto affranti i tuoi figli migliori

Mirarono lo spegnersi del raggio
Che chiudeva gli occhi del Maestro loro tratto a morte!
Non ancora sparisce, non ancora: il sole indugia sulla cima,
L'ora preziosa dell'addio rinviando,

Ma mesta è la sua luce agli occhi del morente
E cupi son dei monti i colori un tempo lieti
E par che Febo di tristezza veli quella terra
Che prima d'ora mai non offuscò.
Ma prima che s'immerga sotto il Citerone,
La funesta coppa è già vuotata, e l'anima s'invola;
L'anima di colui che la pavida fuga ebbe a disdegno,
Che visse, morì come nessuno sa vivere e morire!
Ma guarda! Dall'alto dell'Imetto al piano
Regna silente la regina della notte.
Non c'è nebuloso vapor, foriero di tempesta,
Che ne celi il bel volto o cinga d'un alone il suo lucente aspetto.
Scherza la luna scintillando con i fregi
E il suo raggio saluta la candida colonna.
E tremula luce diffondendo intorno,
Brilla la luna sul suo emblema in cima al minareto.
Gli estesi boschetti di ulivi scuri e folti

Che con sue scarse acque attraversa l'umile Cefiso,
Il cipresso che con mesta ombra si leva presso la moschea,
La sfavillante torre dell'ameno chiosco,
E la solenne e fosca palma che solitaria s'erge nella santa quiete
Accanto al tempio di Teseo,

Tutta la variopinta scena attrae lo sguardo
E stolido sarebbe colui che qui passasse con occhio indifferente!
Torna l'Egeo che s'ode non lontano,

A placar dalla furia dei venti l'incollerito grembo,
Tornan le onde sue a dispiegar nelle tinte più dolci
La loro lunga veste di zaffiro e d'oro,
Screziato dall'ombra delle isole lontane,
Che s'infoscan laggiù dove par che l'oceano

Sorrida ancor più dolcemente.


II

Questa non è materia del mio canto, perché mai a te si volge il mio pensiero?

Oh bella Atene! Chi può solcare il tuo nativo mare
Senza indugiare sul tuo nome (qualche che sia la storia),
La cui magia è tale da prevaler su tutto?
E chi quel sole ha visto su di te tramontar,
Come scordar potrebbe il tuo volto nella sera?
A colui che né tempo né distanza posson scioglier
Dall'incanto che alle fitte Cicladi ancor lo tiene avvinto,
Non sembra certo estraneo al suo racconto l'omaggio che ti deve.
L'isola del suo Corsaro fu un tempo di dominio tuo:
Volesse il cielo che al ritornar di libertà Tornasse ancora tua!


III

Il sole è tramontato, e al cader del suo raggio,

Ancor più fosco della notte vien meno il cuore di Medora,
In attesa lassù, in cima al faro.
Già si è levato il terzo giorno e già è trascorso,
Ma egli non ritorna, né di sé dà notizie, l'infedele!
Favorevole fu il vento ancorché lieve, né ci furono nembi.
La barca di Anselmo è tornata ieri sera,

Altro questi non dice se non di non averlo visto mai.
Benché tristi sian queste parole, triste più ancora
Sarebbe la notizia se quella solitaria vela
Si fosse posta alla ricerca del Corsaro.
Fresca è la brezza della notte; per tutto il giorno

Stette Medora con lo sguardo fisso su ogni cosa
Che Speranza apparir le facesse simile a una vela.
Mesta sedeva sulla cima della torre,
Quando, giunta la mezzanotte, Impazienza
Condusse i passi suoi lungo la riva;
E là essa vagava incurante del flutto
Che, come se respingerla volesse, la veste le bagnava.
Medora non vedeva, Medora non sentiva,
Non osava partirsene di là, insensibile al freddo,
Ché tutto il gelo era dentro al suo cuore.
Da tanta angoscia nacque una tal certezza
Che la comparsa stessa del Corsaro
Tolto le avrebbe la vita e la ragione!

Giunge alfine un mesto e sconquassato legno,

E gli occupanti colei vedon per prima che per prima han cercato.
Feriti sono alcuni e derelitti tutti; son questi i pochi
Che a malapena san come sono scampati,
E oltre a questo, niente sanno.
Silenzioso, cupo, ciascuno par che attenda dal compagno
Un indizio ferale sulla sorte del Corsaro:
E qualche cosa forse si son detti,
Temendo tuttavia di confidar quelle parole all'orecchio di lei.
All'istante ella tutto comprende e tuttavia non sviene, e tuttavia non trema.
Nel suo dolore, nel suo destino desolato,
Sotto quel dolce e delicato aspetto nutriva alti sentimenti
Di cui tutto il vigor ella stessa ignorava.
Finché c'era Speranza eran quei sentimenti

Languidi vacillanti e teneri,
Allorché tutto fu perduto, la tenerezza non morì ma rimase assopita
E sul suo sonno si levò quella Forza per parlare così:
"Quando non c'è da amar più nulla, non c'è più nulla da temere".
E questa Forza sovrumana che al pari del delirio
Più violenta si fa col crescer della febbre.
"Voi ve ne state silenziosi, né io vorrei udir da voi...
Ah, non parlate, non fiatate, ché già tutto io so.
Eppur io chiedere vorrei ma il mio labbro ricusa...
Ma presto, ditemi presto, dove giace il Corsaro?".
"Non lo si sa, Signora, a stento ci salvammo;
Uno dei nostri tuttavia afferma ch'egli morto non è:
In catene l'ha visto e sanguinante, ma pur sempre in vita".
Ella più non ascolta; vano lottar sarebbe
Nel tumulto del cuore e dei pensieri; ella più non resiste,
Quelle parole l'han tanto sopraffatta

Ch'ella vacilla e cade e l'infuriata onda
La strapperebbe sol da un'altra tomba,
Se queffi che hanno lacrime negli occhi,
Ancorché rozze mani, non le offrissero il soccorso
Che la Pietà sollecita fornisce:
L'acqua del mar le spruzzano sul volto
Ch'è pallido al pari della morte;
La fanno alzare e le fan vento, la sostengon finché riprende vita;
Svegliano le ancelle e alle matrone affidano
La creatura in deliquio che contemplano affranti.
Alla grotta d'Anselmo vanno poi
Per raccontar del troppo triste evento e del breve trionfo.
In quel fiero concilio nascon strani e infuocati discorsi;
Si fanno piani di riscatto, di soccorso, di vendetta;
A tutto sono pronti, fuorché a fuggire, fuorché a restare inerti,
E par che aleggi in mezzo a loro io pfrito di Conrad
Per vietar che si disperi.
Qual che sia la sua sorte,

Quei prodi ch'egli ha forgiato per farne suoi seguaci,
Se vivo è ancor lo salveranno
O ne placheranno l'anima se è morto.
I suoi nemici stiano in guardia!
I pochi che gli restan sono altrettanto audaci che fedeli.


V

Nella stanza segreta del Serraglio Siede il fiero Seyd e ancor sta meditando
Sulla sorte che tocca al Prigioniero;
Il suo pensier s'attarda or con l'amore ora con l'odio,
Ora è lì con Guinare, or nella cella del Corsaro.
Ai suoi piedi vede giacer l'amata schiava,

Ch'è del suo turbato spirito il conforto,
Gli occhi di lei scuri e profondi
Vanno ansiosi cercando un benevolo segno sul volto del Pascià.
Invano! Egli par tutto intento soltanto ai grani del rosario;
Sta meditando, invece, nel suo cuore
I più crudeli modi per torturar quell'infelice.
"Pascià, questo per te è giorno di vittoria,
E il trionfo corona la tua fronte;
Giace in catene Conrad e tutti gli altri suoi sono caduti!
Segnata è la sua sorte: egli morrà,

E bene ha meritato un tal destino;
E tuttavia mi par che troppo indegna cosa
Per la vendetta tua sarebbe la sua morte.
Una breve libertà in cambio di tutti i suoi tesori
Sarebbe, ne son certa, un accorto mercato.
Grande è la fama intorno ai suoi bottini di pirata
E io vorrei che ne fosse signore il mio Pascià!

Ingannato, stroncato dal fatale scontro,
Preso di mira, stretto dappresso,
Sarebbe per te facile preda;
Ma quando fosse morto, il resto della banda
Tutti gli averi imbarcherebbe
Per far vela su un lido più sicuro".

"Guinare! Se per ogni goccia del suo sangue

Mi fosse data una gemma sontuosa come il diadema d'Istambul;
Se per ogni capello del suo capo
Una miniera mi si offrisse d'oro purissimo e splendente;
Se tutti quanti i tesori, di cui si narra o si fantastica
Nei racconti d'Arabia, fossero qui ai nostri piedi,
Non una di quelle meraviglie gli varrebbe salvezza;
Neanche un'ora di vita gli risparmierebbe!
So bene ch'è incatenato in mio potere,
Eppur nella mia sete di vendetta vado pensando ancora
Al supplizio che più a lungo lo torturi E più lento lo uccida".

"Ah, no, Seyd, non voglio certo raffrenar la tua ira,

Troppo essa è giusta perché a pietà s'indulga.
Pensavo solo di assicurar per te le sue ricchezze:
Se tu lo rilasciassi, libero per certo non sarebbe;
Rovinato com'è, senza potere e senza ciurma,
Sol con un cenno potresti catturano".
"Potrei catturarlo, dici? E dovrei forse conceder

Un giorno di vita, sia pure uno soltanto,
A un miserabile che è già nelle mie mani?
Rilasciare il mio nemico! E proprio tu lo chiedi?
Oh bella supplice! Alla virtuosa gratitudine tua
Che così ripaga la generosità di quel Giaurro
Che te dalle fiamme salvò e le tue ancelle
Senza badar, ah non lo metto in dubbio, alle bellezze vostre,
Vadano il mio grazie e le mie lodi.
Ma ora ascolta! Giunga al tuo amabile orecchio questo avvertimento:
Donna, di te io non mi fido e ogni tua parola
Che pur sembra sincera io con sospetto ascolto.
Dalle sue braccia tratta in salvo, nel mezzo dell'incendio,
Fuori del tuo Serraglio, dimmi,
Bramavi forse di fuggir con lui?
Risponder non ti serve, già manifesta confessione
E il rossor della colpa sul tuo volto.
Dunque, mia bella dama, bada a te!
Non è soltanto alla vita del Corsaro
Che tu devi pensare!
Ancora una parola: no, altro non voglio.
Maledetto il momento in cui fosti salvata dalle fiamme;
Meglio sarebbe stato... ma no,
Che allora io t'avrei pianta con lacrime d'amante,
Ma ora, o sleale creatura, chi t'ammonisce è il tuo Signore.
Ignori forse che io posso tarpar
Queste tue ali licenziose?
La mia collera fatta non è soltanto di parole,
Or bada a te e troppo non ti fidar dei tuoi inganni!".

Si alza e a passi lenti, solenni, si ritira;

C'è ira nel suo sguardo e c'è minaccia nel suo addio.
Ah, ben poco sa questo Signor di donne:

Collera non le frena né soggioga minaccia;
Né stima assai quel che il tuo cuor, Gulnare
Può provar se intenerito,
Quel che può osare nell'offesa.
Di Seyd i sospetti le appaiono un insulto,
Ché non conosce ancora quanto profonda la radice sia
Da cui germoglia la pietà.
Ella è una schiava e quindi un prigioniero
Può ben pretender un sentimento solidale,
Un sentimento che di diverso ha solo il nome.
Ancora inconsapevole e incurante dell'ira del Pascià,
Di nuovo s'avventura sul periglioso suo cammino,
Di nuovo la fa arretrar l'ira di lui,
Finché non si scatena quella tempesta della mente
Che per la donna è causa di rovina!


VI

Frattanto, carico d'ansie e di tormenti,
Trascorso è il giorno e la notte simile al giorno sta giungendo;
L'animo del Corsaro il terror ha domato:
E un atroce intervallo di dubbio e di paura,
Quando ogni ora potrebbe condannarlo
Ancor peggio che a morte,
Quando ogni passo che alla porta s'avvicina
Può condurlo là dove l'attende la mannaia o il palo,
Quando ogni voce che al suo orecchio arriva
Può esser l'ultima per lui.
Il terrore ha potuto domar quello spirito fiero
Che, suo malgrado, ha visto
Di non esser capace di morire.
Stremato, forse già prossimo alla fine,
In silenzio sostiene, tuttavia,
Un conflitto che è fra i più ferali.
L'ardore della lotta e l'infuriar della tempesta
Non consenton di rimanere nella paura inerti;
Ma incatenato, solitario, in una cella,
Sei in balia d'ogni alterno volere,

A languir costretto, a scrutar nell'intimo del cuore,
A meditar su colpe irrevocabili e sul fato imminente
Senza che resti tempo per stornano,
Senza che resti tempo per cancellar le colpe.
Contar le ore che affrettan la tua fine
Senza un amico che ti dia conforto
E ad altri dica che la morte affrontasti con coraggio;
Intorno a te solo nemici pronti nel tramar menzogne
Con la calunnia deturpando l'ultima scena della vita.
Davanti a te torture che può sfidar lo spirito
Ma che la carne, forse, presa da tanto orrore,
Sopportar non potrebbe.
Nell'intimo del cuor senti che un sol lamento
Sminuir potrebbe il pregio del tuo valore,
Estremo e preziosissimo diritto:
La vita che quaggiù tu lasci,
Negata ti è lassù da chi, soave,
Detiene il celestiale amore,
E ancor di più di un incerto paradiso,
Il tuo cielo di speranza terrestre,
L'amata tua da te è disgiunta.
Questi i pensieri che il Corsaro deve sostenere,
Queste le pene d'ogni mortal pena più gravi:
Tutto egli affronta, se bene o male poco importa,
Ed è già tanto se non si sente sopraffatto.


VII

Trascorso è il primo giorno, ma Guinare non si è vista,

Passa il secondo e passa il terzo
Ed ella ancor non giunge.
Eppur devon le sue grazie aver compiuto
Quel che il labbro promise,
Perché altrimenti Conrad non rivedrebbe un altro sole.
Volge alla fine anche il quarto giorno
E con la notte giungono insieme tenebre e tempesta.
Tende l'orecchio Conrad all'infuriar dell'onda

Che mai turbò il suo sonno come ora
E il cuor suo disperato esprime voti più disperati ancora,
Scosso com'è dall'infuriar dei suoi stessi elementi!
Spesso aveva solcato questa alata onda
E ne aveva amato l'irruenza
Che più veloce gli rendeva il viaggio;
Ora risuona nel suo orecchio l'impeto del mare,
Voce ben nota e ahimè, invan troppo vicina!
Forte soffia il vento lassù
E doppiamente forte romba il tuono
Sopra la torre della cella;
Tra l'inferriata guizza il lampo
Gradito a lui più che raggio di stella.
Trascina la catena alla fioca luce della grata,
Sperando che il rischio non sia vano.
Alza le mani incatenate al cielo
E prega che una folgore pietosa incenerisca
La sua persona che dal ciel fu creata.
La cruda ed empia sua preghiera
Come ferro quella folgore attira,
Ma la folgore innanzi gli balena
E non si degna di colpirlo.
Lo strepito della bufera si fa flebile, e cessa poi del tutto;
Egli si sente solo come se un nemico infido
Disprezzato avesse il suo dolore!


VIII

Trascorsa è mezzanotte e alla massiccia porta

Arriva un passo lieve, s'arresta, avanza ancora;
Lento si volge il chiavistello con l'arrugginita chiave:
Il cuor lo presagiva: è la creatura bella!
Forse è una peccatrice, ma a lui pare un angelo celeste
E tanto bello quale mai speranza dipinse ad eremita.
Eppur ella è mutata da quando venne la prima volta nella cella:
Più pallido è il suo volto, più trepidante è tutta la persona.
Su di lui getta uno sguardo ansioso e fosco
Che prima ancor che lo pronunci il labbro, dice: "Morir devi!
Sì, devi morire, non c'è che un espediente,
L'ultimo, il peggiore, se peggior non fosse la tortura".
"Signora! Scampo non cerco già,
Di nuovo affermo quel che già ti dissi: Conrad non è cambiato.
E perché mai vorresti tu risparmiar la vita di un corsaro
Mutando la condanna che giustamente meritai?
Ben ho io meritato, e non soltanto qui,

Il premio della vendetta di Seyd,
Per le mie tante imprese senza legge".

"Perché mai cerco di salvarti? Perché...
Non m'hai tu forse salvata da una sorte
Che è peggiore della stessa schiavitù?
Perché mai cerco di salvarti? La tua sventura ti ha forse reso cieco
Agli affetti che vivon nel cuore di una donna?
E te lo debbo dire? Ancorché il mio cuor contrasti
Con tutti i sentimenti femminili, non posso non parlar
Perché, malgrado i tuoi delitti, il mio cuore è turbato.
Questo mio cuore ti temeva e ti era grato,
Per te pietà sentiva e per amore delirava.
Ah, non ridirmi, non raccontarmi ancora la tua storia,
Che un'altra donna ami e che io amo invano.
Sia pure ardente quanto il mio il suo cuore,

E assai più bella sia la sua persona,
Io oso per te affrontar un rischio

Ch'ella non oserebbe affrontar mai.
Oh, se il tuo affetto caro le fosse per davvero,
E fossi io la sposa tua, tu non saresti qui da solo:
Come può mai la sposa d'un corsaro
Abbandonar il suo signore alla ventura?
Quali mai cure trattengon quella gentildonna in casa?
Ma ora taci; sul capo tuo e sul mio
Pende da un solo filo l'affilata spada.
Se ancora in te resta coraggio e ami libertà,
Prendi questo pugnale, alzati e vieni dietro a me!".

"Come potrei, incatenato come sono?

Con simili ornamenti davvero lieve
Il mio passo sarà su quelle guardie addormentate!
Pensi forse che questo abbigliamento
Adattarsi si possa ad una fuga?
E questi arnesi ti paion forse adatti a sostener lo scontro?".

"Corsaro diffidente! Già comprato ho i guardiani,

Alla rivolta pronti, avidi di ricompensa.
Un cenno mio soltanto basta a slegar la tua catena:
Come potrei senza un aiuto restare qui con te?
Dal nostro incontro ben ho speso il mio tempo
E se l'ho speso in qualche mala azione,
Fatto io l'ho per amor tuo;
Ma delitto non è punir di Seyd i delitti;
Oh, Conrad! Deve morir quell'odioso tiranno!
Rabbrividir ti vedo, l'animo mio è tuttavia mutato;
Oltraggiata e vilipesa ora mi appresto alla vendetta,
Accusata di ciò che fino ad ora disdegnavo;
Benché in odiosa servitù costretta,
Anche troppo fedele sono stata.
Ah, tu sorridi! Colui aveva torto a disprezzarmi,
Non lo ingannavo ancora, né tu mi eri tanto caro
Ed egli mi accusò di tradimento!
Questi tiranni che con la loro gelosia tentano alla rivolta
Ben meritan la sorte che preannuncia il crucciato loro labbro.
Io non l'ho amato mai;
A caro prezzo egli m'ha comperata,
Giacché io gli portavo un cuore ch'egli comprare non poteva.
Una docile schiava sono stata:
Egli ha detto ch'io sarei con te fuggita
Non avessi temuto il suo intervento;
Che questo fosse falso non lo ignori tu certo;
Gli sia amaro dunque quell'auspicio,
Le sue parole son presagi che Offesa sa tradurre in realtà.
Non fu la mia preghiera a ottener il rinvio del tuo supplizio,
Quest'effimera grazia concessa fu soltanto
Per macchinar nuovi tormenti a te e al cuor mio disperato.
Anche la vita mia egli minaccia,
Ma nel suo vaneggiar pur mi vorrebbe salva per i suoi capricci di padrone.
Quando stanco sarà di queste effimere mie grazie,
Allora il sacco si aprirà e negli abissi del mar sprofonderò.
E che? Son io forse il trastullo d'un vecchio rimbambito
Da usar fintanto che non sia consunto lo splendor dei miei vezzi?
Ti ho visto, ti ho amato, tutto io devo a te
E ti vorrei salvare non fosse che per dimostrarti quanto grato
Possa esser il cuore di una schiava.
Non avesse colui minacciato così il mio onore e la mia vita
(egli mantiene sempre i giuramenti formulati nell'ira),
Avrei salvato te e risparmiato la vita del Pascià.

Ora io son soltanto tua, e a tutto pronta;
Tu non mi ami e di me nulla conosci, forse conosci solo il peggio.
Ahimé! Quest'amore e quell'odio sono i miei soli sentimenti.
Se tu potessi credermi, tu non tremeresti,
Né timor avresti del fuoco ch'arde nel cuor d'una donna orientale:
E questo ora il faro della salvezza tua;
Una prora Mainota è già nei porto,
Ma in una stanza, ch'è sul nostro cammino,
Dorme per non risvegliarsi il tiranno Seyd!".
"Gulnare, Guinare! Io non sapevo prima d'ora
Quanto indegna fosse la mia sorte,
Quanto spregiata fosse la mia fama.
Seyd è mio nemico, ha eliminato i miei compagni
Senza pietà eppure a viso aperto.
Per questo su un vascello da guerra son venuto
Per aggredire l'aggressor con la mia scimitarra:
E questa l'arma di cui faccio uso,
Non l'occulto pugnale che risparmia la vita di una donna
E attenta alla vita di chi nel sonno è immerso.
Con gioia, Signora, io ti ho salvato.
Ma non far che la mia pietà io stimi mal riposta.
E ora addio! E pace abbia il tuo cuore.
La notte rapida consuma l'estremo riposo mio terreno".

"Riposo, riposo! Al sorgere del sole,

Tu, legato al palo, avrai i nervi scossi,
Avrai le membra lacerate.
L'ordine udii, io vidi, io non vedrà,
Se tu vorrai perire, con te io stessa perirò.
La mia vita, il mio amore, il mio odio,
Corsaro, tutto io pongo in gioco!
Non resta che un colpo di pugnale,
Senza questo fuggir sarebbe vano;

Ora io son soltanto tua, e a tutto pronta;
Tu non mi ami e di me nulla conosci, forse conosci solo il peggio.
Ahimé! Quest'amore e quell'odio sono i miei soli sentimenti.
Se tu potessi credermi, tu non tremeresti,
Né timor avresti del fuoco ch'arde nel cuor d'una donna orientale:
E questo ora il faro della salvezza tua;
Una prora Mainota è già nei porto,
Ma in una stanza, ch'è sul nostro cammino,
Dorme per non risvegliarsi il tiranno Seyd!".
"Gulnare, Guinare! Io non sapevo prima d'ora
Quanto indegna fosse la mia sorte,
Quanto spregiata fosse la mia fama.
Seyd è mio nemico, ha eliminato i miei compagni
Senza pietà eppure a viso aperto.
Per questo su un vascello da guerra son venuto
Per aggredire l'aggressor con la mia scimitarra:
E questa l'arma di cui faccio uso,
Non l'occulto pugnale che risparmia la vita di una donna
E attenta alla vita di chi nel sonno è immerso.
Con gioia, Signora, io ti ho salvato.
Ma non far che la mia pietà io stimi mal riposta.
E ora addio! E pace abbia il tuo cuore.
La notte rapida consuma l'estremo riposo mio terreno".

"Riposo, riposo! Al sorgere del sole,

Tu, legato al palo, avrai i nervi scossi,
Avrai le membra lacerate.
L'ordine udii, io vidi, io non vedrà,
Se tu vorrai perire, con te io stessa perirò.
La mia vita, il mio amore, il mio odio,
Corsaro, tutto io pongo in gioco!
Non resta che un colpo di pugnale,
Senza questo fuggir sarebbe vano;
Come scampare si potrebbe, infatti,
Al suo sicuro inseguimento?
Gli errori miei senza riscatto, la giovinezza mia consunta,
I lunghi, lunghi anni spesi invano,
Un colpo solo di pugnal cancellerà, tutti i timori cancellando.
Ma poiché a te la daga si addice men che il brando,
Ti proverà quanto sia ferma la mano di una schiava.
Ho comprato i guardiani e docili li ho resi in un istante.
Presto, Corsaro, ci rivedremo in salvo
O più non ci vedremo!
Se dovesse fallir quel colpo la debole mia mano,

Ora io son soltanto tua, e a tutto pronta;
Tu non mi ami e di me nulla conosci, forse conosci solo il peggio.
Ahimé! Quest'amore e quell'odio sono i miei soli sentimenti.
Se tu potessi credermi, tu non tremeresti,
Né timor avresti del fuoco ch'arde nel cuor d'una donna orientale:
E questo ora il faro della salvezza tua;
Una prora Mainota è già nei porto,
Ma in una stanza, ch'è sul nostro cammino,
Dorme per non risvegliarsi il tiranno Seyd!".
"Gulnare, Guinare! Io non sapevo prima d'ora
Quanto indegna fosse la mia sorte,
Quanto spregiata fosse la mia fama.
Seyd è mio nemico, ha eliminato i miei compagni
Senza pietà eppure a viso aperto.
Per questo su un vascello da guerra son venuto
Per aggredire l'aggressor con la mia scimitarra:
E questa l'arma di cui faccio uso,
Non l'occulto pugnale che risparmia la vita di una donna
E attenta alla vita di chi nel sonno è immerso.
Con gioia, Signora, io ti ho salvato.
Ma non far che la mia pietà io stimi mal riposta.
E ora addio! E pace abbia il tuo cuore.
La notte rapida consuma l'estremo riposo mio terreno".

"Riposo, riposo! Al sorgere del sole,

Tu, legato al palo, avrai i nervi scossi,
Avrai le membra lacerate.
L'ordine udii, io vidi, io non vedrà,
Se tu vorrai perire, con te io stessa perirò.
La mia vita, il mio amore, il mio odio,
Corsaro, tutto io pongo in gioco!
Non resta che un colpo di pugnale,
Senza questo fuggir sarebbe vano;
La nebbia mattutina stenderà il suo velo
Sul patibolo tuo e sul mio sepolcro".


IX

Si volge e prima ancora che Conrad possa replicar, sparisce.
Con sguardo ardente egli la segue
E raccogliendo, come può, quelle catene che stringono il suo corpo,
Le attorce per farle meno lunghe, per smorzarne il fragore;
Giacché non sbarra, non chiavistello si oppongono al suo passo,
Rapido per quanto lo consente il peso che trascina, egli segue GuJnare.
È un tenebroso labirinto, né egli può saper
Dove conduca quel passaggio: lume non c'è, non c'è guardiano;
Un fosco baglior vede d'un tratto:
Deve forse seguir, deve forse evitar
Quel raggio tanto debole e indistinto?
Procede a caso, una fresca brezza come d'aria mattutina
Sembra alitargli sulla fronte;
Raggiunge un aperto loggiato;
Vede brillar l'ultima stella della notte e rischiararsi il cielo;
Egli vi bada appena, un'altra luce
Che filtra da una silenziosa stanza attira gli occhi suoi.
A quella si dirige: l'uscio socchiuso
Rivela il lume che v'è dentro, null'altro.
Esce di corsa una figura, s'arresta, si volge, poi s'arresta ancora.
E lei! Non ha il pugnale in mano,
Né segno alcuno che rechi traccia di delitto:
Un cuor tanto soave non può per certo avere ucciso!
Egli guarda di nuovo, ella è stravolta
E sobbalza atterrita all'improvvisa luce del mattino.
Ella si ferma e indietro getta la bruna sua chioma fluente
Che le velava il volto e il dolce seno, Quasi che dianzi curvato avesse il capo
Su qualche cosa che dubbio le ispirasse ovver timore.
Si vedono: sulla fronte di lei, a sua insaputa, O per dimenticanza, la mano frettolosa
Non ha lasciato che una macchia.
Tutto quel ch'egli vede è il suo colore:
Per poco non vien meno: ah, questo è sangue,
Lieve ma indubitabil segno d'omicidio!


X

Egli ha visto battaglie, ha meditato in solitudine
Sulle pene dovute alle sue colpe.
È stato provocato, ha subito tormenti,
E rischia ancora di rimanere prigioniero:
Eppur né per fuoco di guerra, né per prigionia, né per rimorso,
Né per le sofferenze più spietate,
Mai tanto ogni sua fibra fremer poté e rabbrividire come ora,
Per quella rossa macchia raggelata.
Quella stilla di sangue, quella lieve goccia che pur di colpa è segno,
Ha cancellato ogni beltà dal volto di Guinare!
Sangue egli tante volte ha visto con impassibil sguardo,
Ma allora il sangue scorreva nel pieno della mischia
O si versava per mano di guerrieri!


XI

"Tutto è compiuto, stava Seyd per ridestarsi, ma tutto è compiuto.
Corsaro, morto è il tiranno e io ti ho conquistato a caro prezzo.
Vano sarebbe ora ogni discorso; presto si vada!
Già la barca ci attende e ormai è giorno.
Quei pochi che ho reso a me fedeli sono tutti con me,
Potran costoro unirsi a quanto resta della ciurma tua:
Le mie parole discolperanno la mia mano
Quando la nostra vela avrà lasciato questa odiosa terra".


XII

Ella batte le palme e per il loggiato
Giungon, pronti alla fuga, i suoi fedeli, Greci e Mori.
Taciti e lesti si chinan per scioglier le catene del Corsaro:
Le membra sue libere son di nuovo come vento montano!
Ma il suo cuor tanto gravato è di mestizia
Come se avesse assunto delle catene il ferreo peso.
Tacciono entrambi: a un cenno di Guinare
S'apre una porta ch'è passaggio segreto verso il lido.
Già la città è lontana; essi raggiungono veloci
Le onde che scherzano danzando sulla bionda spiaggia;
Conrad obbedisce con gli altri ai cenni suoi,

Né più si cura se può dirsi in salvo per davvero;
Oppure se è ingannato;
Opporsi ora inutile sarebbe, pur se Seyd vivesse ancora
Per assister alla condanna che la sua stessa ira ha decretato.


XIII

Imbarcati son già, dispiegata è la vela,
Lieve soffia la brezza
E quante immagini si destan nel cuore del Corsaro!
Siede egli assorto finché non vede il luogo
Dove ancorato aveva il suo vascello,
E quello scoglio che s'erge in tutta la sua mole.
Ah, da quella fatal notte, sia pure in breve tempo,
S'è consumata un'era di terrore, di pena, di delitti.
E quando l'ombra del promontorio oscura la sua barca,
Egli si copre il volto e affranto ripensa al suo passato;
A tutti pensa: a Gonsalvo e agli altri suoi corsari,
Al trionfo fugace e all'error della sua mano;
Pensa alla sua lontana e dolce sposa:
D'improvviso si volge e vede lei, Gulnare, l'assassina!


XIV

Ella lo fissa in volto finché più reggere non può

Il gelido suo aspetto e il suo sguardo lontano;
Allor, a una fierezza per lei così inconsueta,
Ella prorompe in un pianto senza freno.
Accanto a lui s'inginocchia Guinare e la mano gli stringe:
"Tu devi perdonarmi pur, se Allah mi condanna;
Dove saresti tu, non avessi io compiuto
Quel gesto delittuoso?
Condannami se vuoi, ma non adesso,
Oh, adesso abbi pietà di me!
Io non son quel che sembro: questa tremenda notte
La mente m'ha sconvolto, non far però ch'io impazzisca del tutto!
S'io non avessi mai amato e più lieve fosse la mia colpa,
Tu non vivresti per odiarmi, se pure odiar mi puoi"


XV

Ella fraintende i pensieri del Corsaro
Che più a se stesso che a lei muove rimprovero
Per averla, sia pure senza intento, resa tanto infelice;
Ma ogni suo pensiero resta muto, Cupo e profondo dentro al cuore,
Sanguinante nella tacita cella del suo petto.
Procede il viaggio, dolce è la brezza, placido è il flutto
Scherzan le azzurre onde urtando contro la carena.
Lontano, lungo la linea d'orizzonte,

Appare qualche cosa d'indistinto,
Una macchia, un albero maestro, una vela, una nave in assetto di guerra!
Gli uomini di vedetta scorgono quel legno
E più ampia la vela alla brezza si gonfia.
Superba gli si accosta con la prora veloce e col possente fianco;
Balena un lampo; la palla che si scaglia ha un innocuo rimbombo
E sibilando s'inabissa in mare.
Il fiero Conrad si ridesta dal suo assorto silenzio
E negli occhi ha una gioia da troppo, troppo tempo assente.
"E una nave dei miei, ecco il vessillo rosso sangue,
Allora, non son io dunque del tutto abbandonato!".
Riconoscon il segnale, rispondono al saluto,
E ,tosto issano il battello e sciolgono le vele.
"E Conrad, è Conrad!" si grida dalla tolda;
Nulla potrebbe raffrenar l'esultanza dei corsari!

Agile e fiero nello sguardo
Essi lo vedono di nuovo salir sul suo vascello.
Quei rozzi volti son rischiarati da un sorriso
E a stento essi trattengono un abbraccio.
Conrad, più non pensando quasi al rischio e alla disfatta,
Le accoglienze ricambia con la fierezza che si addice a un capo,
Con stretta cordiale stringe la man di Anselmo,
Pronto a nuove vittorie e a comandare ancora!


XVI

Cessate le accoglienze, placata la piena degli affetti,

Soffrono, tuttavia i corsari ch'egli ritorni invendicato;
Per vendicarlo, appunto, s'erano messi in mare.
Sapesser che una donna con la sua stessa mano
Già compiuto ha l'impresa,
Costei proclamerebbero regina;
Meno scrupoli hanno, per raggiunger lo scopo, dell'austero Corsaro.
Con un sorriso che accenna a una domanda,
Con uno sguardo pieno di stupore,
Bisbigliano tra br, l'occhio fisso a Guinare;
E lei che prima, più forte d'ogni donna
Non atterriva il Sangue,
Ora, come più deboi fosse d'ogni donna,
Sconvolgon quegli sguardi.
Languida volge a Conrad l'occhio suo implorante,
Si toglie il velo e silenziosa gli si pone accanto;
Mansuete le sue braccia si posan su quel petto;
Ora che lui è salvo, al destino tutto il resto affida.
Il cuore di Gulnare, che par pervaso da furore estremo,
Così nell'amor come nell'odio,
Nel bene altrettanto che nel male,
Non ha perduto tenerezza di donna
Neppur con il più orrendo dei delitti.


XVII

Il Corsaro lo sa e prova odio per quel delitto
- come potrebbe non provarne? -
E compassione per l'angoscia di lei.
Quel delitto nessuna lacrima potrà purificare,
Sarà punito dalla collera del cielo.
Compiuto è tuttavia il misfatto,

Conrad sa bene che, per quanto grave sia la colpa,
Solo per lui quel pugnale colpì,
Solo per lui quel sangue fu versato;
Libero è Conrad: per lui Gulnare tutto ha perduto sulla terra
E, più di tutto, in cielo!
Ora si volge a quella schiava dai bruni occhi profondi.
Ed ella china il capo sotto io sguardo del Corsaro.
Ora appare mutata nell'aspetto: umile, languida e soave,
E, pur trascolorando spesso il volto Nelle ombre di un intenso pallor,
Vermiglia ancor resta la macchia ch'è segno del delitto!
Egli le stringe quella mano che solo ora, ah troppo tardi, trema,
Quella mano tenera nell'amore e nell'odio spietata;
Quella mano stringe e la sua mano stessa or più salda non è,
Ne or più ferma è la sua voce.
"Gulnare!". Ma ella tace. "Cara Gulnare!".
Ella leva lo sguardo ed è la sola sua risposta
E all'improvviso si abbandona al sospirato abbraccio.
Se egli l'avesse scostata dal suo petto,
Sarebbe stato più che umano, e al tempo stesso men che umano.
Ma, bene o male che sia, non vuoi ch'ella si sciolga dal suo abbraccio.
E forse, non fosse per il presagio del suo cuore,
Con tutte l'altre se ne andrebbe l'ultima sua virtù.
E, tuttavia, Medora stessa potrebbe perdonar quel bacio,
Un bacio solo che una creatura tanto bella implora,
Il primo bacio e l'ultimo che Debolezza ruba a Fedeltà.
Bacio posato su quelle labbra palpitanti,
Su quelle labbra che Amore dolcemente con le sue ali ha accarezzato
Tanto fragranti ne erompono i sospiri!


XVII

Al crepuscolo l'isola solitaria è già raggiunta
E agli occhi dei corsari le rocce stesse par che salutino festose.
L'onda s'infrange nel porto con lieto mormorio,

I fari volgono intorno il loro raggio,
Sulla sinuosa baia veloci corrono le barche
E vacillar le fanno i delfini che scherzano tra i flutti;
Della rauca rondine marina anche l'acuto dissonante strido
Par che dia il benvenuto col suo sgraziato suono.
Alla luce delle lampade che filtra da ogni imposta

Vedon i corsari con la fantasia
Gli amici che accendono quei lumi.
Oh, che cosa mai può render sacre le gioie della casa
Se non il lieto sguardo di chi ha speranza di tornar dall'oceano in tempesta!


XIX

Alta splende la luce sulla torre del faro e sulle rocche tutte;
Cerca fra queste Conrad la torre di Medora, e cerca invano.
E cosa strana, eppure balza agli occhi,
Solo la torre di Medora è spenta!
Strano davver, mai quel lume in passato mancò di salutano:

Forse spento non è, è soltanto velato.
Con il primo battello si dirige rapido alla spiaggia
E mal sopporta il troppo fiacco remo.
Ah, che cosa mai il Corsaro non darebbe
Per aver ali più veloci del falco,
Per volar come una freccia al sommo della rocca!
Appena i rematori sostano un poco per concedersi riposo,
Egli più non aspetta, e più non guarda,
Si getta in mar, lotta coi flutti, supera la spiaggia
E sale quel sentiero a lui ben noto.

S'arresta presso la porta della torre;

Neppure un suono proviene dall'interno, buio profondo è intorno.
Batte, e batte con forza,
Passo non s'ode né risposta che sia segno
Che qualcuno di sua presenza si sia accorto.
Bussa ancora una volta, ma ora debolmente,
Perché par che ricusi la mano sua tremante
D'assecondar l'irruente richiesta del suo cuore.
S'apre alfine la porta, un viso appar ben noto,
Ma non è quello che anela di baciare.
Il labbro della donna è muto:
Per due volte tenta il Corsaro invano
Di formulare la domanda fin troppo differita;
Di man le strappa il lume che risposta darà all'ansia sua;
Sfugge la lampada alla presa, cade e si spegne.
Conrad non può aspettar che si riaccenda,
Ché sarebbe per lui quasi aspettar che si riaccenda il sole;
Ma un altro fioco lume lungo l'andito buio
Getta tremuli sprazzi sul nero pavimento.
La camera raggiunge e vede quello
Che il suo cuor non credeva eppure presagiva!


XX

Non si volge, non parla, non vien meno,
Fissa lo sguardo e il tremito raffrena che testé io colse:
Guarda - ah, quanto a lungo si guarda, nonostante il dolor,
Sapendo ma non osando confessar che il nostro sguardo è vano!
Medora in vita era così soave e bella
Che la morte la rende anche più bella;
Freschi fiori stringe la gelida sua mano,
E con tanta grazia come se di dormir fingesse
E si facesse gioco dei compianto.
Il velo delle lunghe brune ciglia orla le palpebre di neve,
Ma il pensier si ritrae rabbrividendo da ciò che in esse si nasconde!
Oh, su quegli occhi morte esercita il suo potere più assoluto
E lo spirito scaglia dal suo trono di luce!
Affonda quelle azzurre pupille in un'eclisse senza fine,
Ma risparmia la grazia del suo labbro
Che solo ora, solo ora par chiudersi al sorriso
E chiedere riposo, ma solo per un poco;
Il candido funereo drappo, tuttavia, e quelle sparse trecce,
Lunghe, bionde, senza vita,
Che un tempo a ogni lieve soffio della brezza estiva
Sfuggivano alla ghirlanda che invan le tratteneva
E il pallor del puro viso son l'immagine stessa della morte.
Medora non è più; perché mai Conrad restare ancor dovrebbe?


XXI

Egli non fa domande: ogni risposta egli ebbe
Quando posò io sguardo su quel volto di marmo.
Basta così; Medora non è più, che cosa può importar com'ella è morta?
L'amor degli anni giovanili, la speranza di anni più sereni,
La fonte d'ogni più dolce desiderio, del trepidar più caro,
L'unica creatura al mondo ch'egli non abbia odiato,
Tutto, in un tratto medesimo gli è tolto.
Merita il Corsaro la sua sorte e tuttavia ne soffre.
Il giusto cerca la sua pace nei regni d'innocenza;
Il superbo, il perverso, che al piacer mirano soltanto,

Altro quaggiù non trovan che miserie,
E tutto perdon, tutto, anche una vii moneta.
Ma chi può sopportar di separarsi da quel che gli è più caro?
Uno sguardo stoico e un aspetto severo

Spesso son maschera d'un cuore
A cui il dolore quasi tutto ha insegnato,
E molti pensieri inariditi sono nascosti eppur non cancellati
Da un sorriso che non s'addice affatto a chi l'ostenta.


XXII

Coloro tuttavia che hanno alto sentire
Non fanno mostra del tumulto che al loro cuor dà pena.
Quando mille pensieri son tutti in un solo pensiero

Che in tutti cerca un rifugio che non trova,
Non ha parole il labbro per dir dell'animo l'affanno
E Verità non vuole che Dolore parli.
L'anima ferita del Corsaro è tanto esausta e scossa
Che par che stordimento voglia invitarlo al sonno.
E così vinto che una materna dolcezza s'insinua nello sguardo suo fiero:
Al pari d'un fanciullo scoppia in pianto,
E questo pianto che pur dà sfogo alla mente annebbiata,
Certo, sollievo non procura.

Nessuno in lacrime lo vede; forse se fosse visto,
Non verserebbe quell'inutil fiotto di dolore.
Non scorron a lungo quelle lacrime sul viso,
Egli le asciuga e, derelitto e disperato,
Con il cuore infranto si allontana.
Sorge il sole ma fosco sorge per Conrad il mattino,
Scende per lui la notte, la notte senza fine.
Non c'è tenebra cupa al pari della nube che la mente avvolge,
Sul vuoto occhio del Dolor, cieco fra i ciechi,
Che non può, non ardisce veder,
Ma si ritrae dove più fitta è l'ombra disdegnando una scorta!


XXIII

Per indole era dolce il cuore del Corsaro;
Solo più tardi al male si era volto.
Svelato troppo presto, troppo a lungo ingannato,
Ogni suo casto affetto cadde
Si come l'acqua a goccia a goccia nella grotta cade,
E come quella si era raggelato;
Con minor limpidezza passò le prove sue terrene,
Ma cadde, diventò di ghiaccio e alfin si fece pietra.
Ma le tempeste consumano la roccia, la folgore le fende.
Se come roccia è del Corsaro il cuore,
Or quel colpo lo spezza.
Cresceva un fiore sotto il ciglio della roccia
E, nonostante l'ombra cupa,
Essa lo proteggeva e lo teneva in vita.
La tempesta scoppiò e fiore e roccia la folgore spezzò:
Il solido granito e il delicato giglio.
Quella tenera pianta non ha più alcuna foglia che narri la sua storia.
E appassita e morta là dove è caduta,
E della rupe che proteggeva il fiore
Nereggiano d'intorno sull'infeconda terra
Solo i frammenti che la folgore sparse.


24

E l'alba e pochi ardiscon la solitudine turbare del Corsaro;
Anselmo sol lo cerca nella torre,
Ma Conrad non è là, né lo si è visto sulla spiaggia.
Prima che la notte scenda, tutti d'angoscia trepidanti
L'isola percorron da ogni parte.
Sorge l'alba di nuovo e ancora cercano,
E gridano il suo nome finché l'eco non muore.
Per cime, anfratti, caverne e valli van cercando invano;
Trovano alfin sul lido la catena infranta di un battello.
Con speranza nuova si rimettono in mar sulle sue tracce. Invano.
Non c'è di lui né traccia, né segno che possa rivelar

Dove conduca la sua vita nell'angoscia,
O dove disperato abbia chiuso i suoi giorni.
A lungo lo pianse la sua ciurma
Che mai tanto non pianse per alcuno;
Un degno monumento funebre innalzano i pirati alla sua sposa,
Ma pietra non erigon in memoria di lui,
Ché la sua morte è dubbia, le imprese troppo note e malfamate.
Egli lascia alle future età un nome di Corsaro
Legato a un'unica virtù e a innumeri delitti.