JORIS-KARL HUYSMANS

CONTROCORRENTE III


VI

Sprofondato in una comoda poltrona, di quelle poltrone che offrono appoggio anche alla tempia; i piedi sui pomi d'argento dorato degli alari, le babbucce avvampate dai ceppi che dardeggiavano, crepitando, - quasi li attizzasse il furioso soffiare d'un cannello ferruminatorio - vive lingue di fiamma, Des Esseintes depose, il vecchio in-quarto che leggeva, su un tavolo: si stirò, accese una sigaretta e si lanciò a briglia sciolta in deliziose fantasticherie. Un nome che senza motivo gli si era affacciato alla mente, lo aveva messo sulla traccia di ricordi cancellati da mesi.
Assisteva, come fosse ora, all'imbarazzo di D'Aigurande, un amico, allorché in un crocchio di scapoli induriti aveva dovuto annunciare il suo imminente matrimonio.
Era stato un coro di proteste. Gli vennero dipinti coi più foschi colori gli inconvenienti che presenta il dover dividere con altri le stesse lenzuola. A nulla valse. Accecato da Cupido, D'Aigurande giurava sull'intelligenza della sua futura e pretendeva d'aver constatato in lei doti eccezionali di devozione e d'attaccamento.
Solo della compagnia, Des Esseintes aveva incoraggiato quella decisione, non appena aveva sentito che la fidanzata desiderava abitare una casa d'angolo sui nuovi grandi passeggi; uno di quegli appartamenti a rotonda venuti allora di moda. Facendo pieno assegnamento sull'implacabile azione disgregatrice che, più delle grandi, esercitano sulle persone di carattere le piccole contrarietà, e puntando sul fatto che D'Aigurande non possedeva alcuna fortuna e che ciò che portava la moglie era più che modesto, egli aveva visto in quella unione una fonte infinita di ridicoli guai.
I fatti gli avevano dato ragione. D'Aigurande acquistò mobili adatti al nuovo ambiente: mensole curve, montanti per tendine ad arco, tappeti foggiati a mezza luna; tutto insomma un arredamento eseguito su commissione.
Spese il doppio che per ammobigliare un appartamento normale; e quando la moglie, a corto di danaro per rifornirsi il guardaroba, si stufò di abitare quella rotonda e volle una casa meno cara e come tutte le altre, si vide che nessun mobile stava in piedi né s'inquadrava col nuovo ambiente.
Poco alla volta, l'ingombrante mobilio divenne una fonte inesauribile di contrarietà; l'affiatamento fra i coniugi, già pregiudicato dalla vita in comune, s'andò di settimana in settimana sbriciolando. Seguirono scenate: l'uno buttava in faccia all'altro che era impossibile restare in un salotto, dove mensole e divani non appoggiavano alla parete, per cui bastava scontrarle perché, nonostante le zeppe, traballassero. Per far fare delle riparazioni, del resto pressoché impossibili, mancava danaro. Tutto divenne pretesto a acrimonie, a battibecchi; tutto, dai tiretti che nei mobili male a piombo non chiudevano più, ai ladrocinii della donna che profittava delle dispute tra i padroni per alleggerire, non vista, la cassa.
In breve: fra i due la vita divenne intollerabile. Lui cercò distrazioni fuori di casa; lei, nelle risorse dell'adulterio, l'oblio d'un'esistenza grigia e piatta.
Di comune accordo, disdissero la locazione e chiesero divorzio.
“Non m'ero ingannato nel mio piano” si disse Des Esseintes con la soddisfazione dello stratega che vede riuscire la sua manovra. E ripensando ora, davanti al fuoco, al fallimento di quel matrimonio che egli aveva favorito coi suoi buoni consigli, gettò nuova legna nel caminetto e daccapo si immerse nelle sue fantasticherie.
Dello stesso genere, altri ricordi ora si affollavano.
Questo, risaliva a qualche anno innanzi.
Una sera, in via Rivoli, s'era imbattuto in un monello sui sedici anni: un ragazzo dalla cera sbattuta e dall'aria sveglia; conturbante come una femmina. S'accaniva a tirar fumo da una sigaretta che gli stecchi di tabacco caporale bucavano qua e là. Stizzito, strofinava sulla coscia uno dopo l'altro degli zolfanelli da cucina che non s'accendevano; finché ne restò senza.
Scorgendo Des Esseintes che lo osservava, si avvicinò, la mano alla visiera; e gli chiese gentilmente del fuoco. Des Esseintes gli offrì delle aromatiche sigarette di dubèque ed attaccò discorso.
La storia che il ragazzo gli raccontò era delle più semplici: si chiamava Augusto Langlois, era a bottega da uno scatolaio; aveva perduto la madre, e il padre lo batteva come un tappeto.
Des Esseintes che lo ascoltava pensoso: “Si va a bere?” gli disse; e lo condusse in un caffè dove gli fece servire dei ponci fulminanti. Il ragazzo beveva senza far motto; quando Des Esseintes a bruciapelo:
“Ebbene, di' su, te la vuoi spassare stasera? Son io che pago.”
Ed aveva menato lo sbarbatello in via Mosnier, dove in un appartamento di stanzette rosse, arredate d'un sofà e d'uno specchio tondo, provviste d'un lavabo, Madama Laura teneva a disposizione degli amatori un assortito campionario di fioraie.
Là Augusto che, sbalordito, spiegazzava tra le mani il berretto, s'era visto attorniare da uno sciame di donne che schiudevano tutte a tempo la bocca dipinta.
“Ah, il pupetto! Ve' com'è carino!”
“Ma di' su, piccolo: tu non hai mica l'età!” aveva aggiunto una bruna alta con gli occhi a fior di testa, il naso arcuato che faceva nella casa la parte indispensabile della “bella Ebrea”.
A suo agio là dentro, pocomeno che a casa sua, Des Esseintes parlottava sottovoce con la padrona.
“Che hai paura che ti pappino, sciocchino? Suvvia, scegliene una: te la offro.”
E con una piccola spinta scherzosa mandò il monello a sedere su di un divano in mezzo a due donne. Quelle, ad un cenno di Madama, gli si strinsero addosso, avviluppandogli i ginocchi con le vestaglie; mettendogli sotto il naso il tepore delle spalle, brinate d'una cipria che dava al capo.
Augusto non si muoveva più. Le guance accese, la bocca secca, gli occhi bassi arrischiava alle cosce sguardi in tralice che vi si invischiavano.
Vanda, la bella ebrea, lo abbracciò; e mentre gli impartiva buoni consigli, lo esortava ad obbedire a padre e madre, le sue mani erravano sul ragazzo che le arrovesciava sul collo un viso trasfigurato, in estasi.
“Allora non sei tu che consumi, stasera” disse a Des Esseintes Madama Laura. E vedendo il minorenne sparire rapito dalla bella Ebrea:
“Dov'hai pescato quel marmocchio?”
“Per via, mia cara.”
La vecchia lo guardò: “Pure non hai l'aria d'aver bevuto” mormorò. Ci ripensò sopra e aggiunse con un sorriso materno: “Ci sono. Ah, porco! Ti ci vuole l'erba tenera per te!”
Des Esseintes alzò le spalle:
“Non ci sei; oh, non ci sei proprio! Il vero è semplicemente che m'industrio a fare di questo ragazzo un assassino. Segui il filo del mio ragionamento. Il marmocchio non ha ancora visto donne ed è nell'età che il sangue bolle. Potrebbe come ogni altro correr dietro alle ragazzine del suo rione, restare onesto pur divertendosi; avere insomma come ogni altro la porzioncina di monotona felicità riservata ai poveri. Conducendolo qui in mezzo a un lusso di cui non aveva neppure il sospetto e che gli si imprimerà per forza nella mente; offrendogli ogni quindicina una bazza come questa, prenderà l'abitudine a questi svaghi senza avere il modo di pagarseli. Mettiamo a farla lunga ci vogliano tre mesi perché non possa più farne a meno - che si sazi non c'è rischio, a stecchetto come lo tengo. - Ebbene: in capo ai tre mesi, io serro i cordoni della borsa; ed allora lui ruberà pur di mettere casa qui; non ci sarà mala azione da cui arretri, pur di sdraiarsi su questo divano, sotto la luce di questo gaz!
E se tutto va bene, chi sa che non faccia la pelle, a chi capitasse a sproposito mentre è dietro a scassinargli il tiretto. Allora il mio scopo sarà raggiunto: avrò fatto del mio meglio per mettere in circolazione un mariolo in più, per dare un nemico di più a questa società che ci scoccia.”
Le donne sgranarono tanto d'occhi.
In quella Augusto rientrava, nascondendo confusione e rossore dietro le spalle della sua complice.
Per le scale gli spiegò che tutti i quindici giorni poteva fare un salto da Madama Laura, senza spendere un quattrino. E, come furono sul marciapiede, aggiunse, fissando bene in volto il ragazzo sbalordito:
“È l'ultima volta che ci vediamo. Torna a casa da tuo padre. È da un po' che ha le mani in ozio: gli prudono. E non scordare questo precetto quasi evangelico: Fa agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Con questa massima andrai lontano. - Buona sera. - Soprattutto non mostrarti ingrato: più presto che puoi dammi tue novelle attraverso le gazzette giudiziarie.”
“Il piccolo Giuda!” mormorava ora Des Esseintes, attizzando le braci. “Neanche nella piccola cronaca ho incontrato il suo nome! Vero è che non mi è stato possibile giocar serrato. Ci sono possibilità che potei prevedere, ma non escludere; come sarebbe che Mamma Laura abbia intascato i soldi e si sia tenuta la merce; che una di quelle donzelle abbia fatto un capriccio per Augusto, per cui trascorsi i tre mesi, egli abbia consumato ad ufo; se pure non saran state le viziose carezze dell'Ebrea a spaventare quel monello, troppo giovane ed impaziente per sottoporsi ai lenti preludi ed allo scioglimento, che arriva sempre di sorpresa, dei suoi maneggi. A meno dunque ch'egli abbia avuto a fare con la giustizia da quando mi trovo qui e non vedo giornali, salvo questo caso, il mio danaro mi è stato scroccato.”
Si alzò e andò su e giù per la stanza.
“Sarebbe in ogni modo peccato,” seguitò a dirsi, “perché con quella azione avevo realizzato la parabola laica dell'istruzione universale; che, prefiggendosi nientemeno di trasformare tutti in tanti Langlois, invece di accecare per sempre, mossa da pietà, gli occhi dei poveri, si industria a spalancarli loro per forza, affinché abbian agio di vedere intorno a sé destini immeritati più clementi, gioie più sottili e più acute e, di conseguenza, più desiderabili e più care.”
“Fatto sta,” concluse, “che, siccome il dolore è un prodotto della educazione, ed esso si diffonde e s'intensifica con lo svilupparsi della mente, più ci si sforzerà di dirozzare il cervello e d'affinare il sistema nervoso e più si svilupperanno i germi, già di per sé così vivaci, della sofferenza morale e dell'odio.”
Le lampade lappolavano. Ne rialzò la fiamma e consultò l'oriolo. Le tre del mattino.
Accese una sigaretta e si risprofondò nell'interrotta lettura dell'antico poema latino De laude castitatis, scritto sotto il regno di Gondebaldo, da Avito, vescovo metropolitano di Vienna.

VII

Dalla notte che, senza causa apparente, gli si era affacciato il ricordo di Augusto Langlois, Des Esseintes cominciò a rivivere dentro di sé tutta la propria vita.
I libri adesso li apriva ma non coglieva il significato d'una parola; si sarebbe detto che l'occhio stesso avesse disappreso a leggere. Si disse, che, saturo d'arte e di letteratura, era forse il cervello che rifiutava nuovo cibo.
Come la bestia caduta in letargo che passa l'inverno rintanata, egli campava di sé, si nutriva a spese dell'organismo. Sull'intelletto la solitudine aveva agito a guisa di narcotico; dopo averlo teso e fatto vibrare come corda di violino, lo gettava adesso in un torpore popolato di vaghe fantasticherie, che egli subiva senza tentare neanche di reagire; gli mandava a monte ogni progetto, spezzava ogni sua volontà.
L'argine che aveva cercato di opporre all'urgere dei vecchi ricordi con la congerie delle letture e con le meditazioni sull'arte, la piena se lo era portato via di colpo; ed essa ora ribolliva, travolgendo presente e avvenire, tutto annegando sotto la livellatrice distesa del passato; gli riempiva il cuore d'un'immensa tristezza sulla quale, grotteschi relitti, galleggiavano insignificanti episodi dell'infanzia, ricordi senza consistenza né logica.
Di mano il libro gli cadeva sulle ginocchia; si arrendeva; repugnando e trasalendo, guardava sfilare gli anni defunti che, come in un carosello, giravano intorno al ricordo di madama Laura e d'Augusto: saldo perno, fatto preciso in tutto quel fluttuare.
Che tempo quello! il tempo delle serate in società, delle corse, delle partite a carte, degli amori commissionati in anticipo, imbanditi puntualmente al tocco di mezzanotte nel salottino rosa.
Rivedeva aspetti, volti; parole insignificanti lo assediavano con l'insistenza del motivo popolare che si è costretti a canticchiare e che ci lascia com'è venuto quando meno ci pensiamo.
Il periodo di queste rievocazioni durò poco. Della tregua Des Esseintes profittò per ributtarsi agli studi di latino, nella speranza di cancellare sin la possibilità di quei ritorni.
Ma il primo impulso era dato; ed ecco, subito dopo i ricordi dell'infanzia, affacciarsi quelli degli anni trascorsi in collegio.
Anni lontani che più degli altri gli avevano lasciato nella memoria un'impronta indelebile.
Il folto parco, i lunghi viali, le panche, tutto gli risorse innanzi in ogni dettaglio. Ed ecco i giardini animarsi, squillare voci di compagni, le risate dei professori che prendono parte alla ricreazione, giocano a pallacorda con la sottana rimboccata, stretta fra le ginocchia, o sotto gli alberi s'intrattengono alla buona, senza il minimo sussiego, con gli allievi come con compagni della loro età.
Riandò col pensiero ai modi paterni con cui i Padri esercitavano l'autorità: un'autorità che rifuggiva dalle punizioni; invece di infliggere i cinquecento, i mille versi di pensum si contentavano di far “riparare”, nell'ora di ricreazione, la lezione a chi non l'aveva saputa; o più spesso ancora si limitavano ad una reprimenda. Il ragazzo lo circondavano d'una sorveglianza attiva, ma che si faceva appena sentire; si studiavano di riuscirgli graditi, di dare alla passeggiata del mercoledì la meta più accetta; coglievano il pretesto d'ogni piccola festa non di precetto per passare alla mensa dolci e vino in più, per regalare gli allievi d'una scampagnata. Un'autorità che non mortificava l'allievo, degnava di discutere con lui, e, pur coccolandolo come un bambino viziato, lo trattava già da uomo.
Giungevano per questa via ad acquistare sul ragazzo un vero ascendente, a foggiarne sino ad un certo punto la mente; a dirigerla, ad innestarla di certe idee, a fare che vi si sviluppassero, adoperando blandizie e modi insinuanti; coi quali cercavano di accompagnarli anche nella vita, di assisterli nella carriera, rivolgendo loro affettuose lettere come quelle che il domenicano Lacordaire sapeva scrivere ai suoi antichi allievi di Sorrèze.
In sé Des Esseintes ravvisava il caso d'uno uscito illeso da quel trattamento. Il suo carattere ribelle ai consigli, puntiglioso, investigatore, portato alla contraddizione, lo aveva scampato dal lasciarsi plasmare da quella disciplina, asservire da quell'insegnamento.
Una volta uscito di collegio, il suo scetticismo s'era accentuato; il commercio con una società legittimista, intollerante e di corte vedute, i discorsi scambiati con bigotti di scarsa intelligenza, con piccoli preti d'una dappocaggine che lacerava il velo così sapientemente tessuto dai Gesuiti, avevano rafforzato maggiormente il suo spirito d'indipendenza, accresciuta la sua diffidenza verso una fede qual si fosse.
Egli si riteneva insomma sciolto da ogni legame, da ogni soggezione; soltanto, contrariamente a ciò che succede ai giovani educati nei licei o nei convitti laici, del collegio e dei maestri egli aveva un ottimo ricordo.
Ma ecco che ora s'interrogava; ed arrivava a chiedersi se la semente che, caduta in terreno arido, non aveva sin allora dato frutto non cominciasse per caso a germogliare.
Era qualche giorno infatti che non capiva più niente nello stato d'animo che attraversava. Venivano momenti che credeva; in cui si rifugiava d'istinto nella religione. Senonché bastava il minimo ragionamento perché quell'impulso verso la fede cadesse; ma ciò non bastava tuttavia per fargli recuperare la serenità.
Eppure sapeva bene, esaminandosi, ch'egli non avrebbe mai uno spirito d'umiltà e di penitenza veramente cristiano; con assoluta certezza sapeva che il momento di cui parla Lacordaire, il momento di grazia “in cui l'ultimo sprazzo di luce penetra l'anima e compone intorno ad un unico centro tutte le verità che vi si trovano sparse” per lui non verrebbe mai.
Egli non provava quel bisogno di mortificazione e di preghiera senza del quale - a credere alla maggioranza dei teologi - nessuna conversione è possibile; non sentiva alcun desiderio di implorare un Dio del quale metteva in dubbio la clemenza; eppure la simpatia che gli restava per gli antichi maestri, faceva che s'interessasse ai loro lavori, alle loro dottrine.
Riudiva il loro accento in cui vibrava una convinzione impossibile a fingersi; la loro calda parola di uomini d'un'intelligenza superiore; ed il riudirla lo portava a dubitare della propria intelligenza e delle proprie forze.
Nella solitudine in cui viveva, senza possibilità d'accrescere né di rinnovare il corredo di idee, di ricevere nuovo alimento spirituale come accade a chi vive fra gli uomini e li frequenta; in quell'esilio contro natura nel quale si ostinava, tutti i problemi caduti in oblio durante il soggiorno parigino si riaffacciavano, reclamavano di nuovo una soluzione.
Certo aveva contribuito a portarlo a questo la lettura delle opere latine che amava; opere scritte, quasi tutte, da vescovi e da monaci. Quell'aria di convento, quel sentore d'incenso che stordiva lo aveva esaltato; messi a tacere i ricordi della vita di scapolo, quei libri, per associazione di idee, avevano resuscitato gli anni della giovinezza trascorsi in collegio.
“Non vale negarlo” si diceva Des Esseintes cercando di veder chiaro, di rendersi conto come poco a poco dacché era a Fontenay l'influenza dei gesuiti fosse andata prendendo il sopravvento. “Porto in me sin dall'infanzia, all'insaputa, questo lievito che non aveva sino ad oggi fermentato. Probabilmente anche questo debole che ho sempre avuto per gli oggetti sacri ne è una prova.”
Ma cercava di persuadersi dell'opposto, contrariato di non sentirsi più del tutto padrone in casa propria.
Si trovò delle ragioni. Per forza aveva dovuto orientarsi verso la Chiesa se alla Chiesa si deve d'aver salvato l'arte, d'avere impedito che la bellezza del passato perisse. È la Chiesa che ai lavori d'orafo ha mantenuto, anche nell'andante imitazione d'oggi, la squisitezza del disegno, conservato la grazia ai calici slanciati come petunie, ai ciborii la purezza della linea; serbato sin nell'alluminio, nel falso smalto, nel vetro colorato l'incanto delle antiche fogge.
Non è forse vero, insomma, che dalle abbazie francesi proviene la maggior parte degli oggetti preziosi che s'ammirano al Museo di Cluny, scampati per miracolo alla turpe bestialità dei sanculotti? Come fu la Chiesa nel Medio Evo a scampare dalla barbarie la storia la filosofia e la letteratura, così è essa che ha salvato l'arte plastica, ci ha conservato i meravigliosi tipi di stoffe, i lavori d'orafo, dei quali i fabbricanti d'oggetti sacri non riescon mai, per quanto si industrino, a corrompere la squisita forma primitiva.
Che meraviglia allora ch'egli fosse andato alla ricerca di quegli antichi ninnoli; si fosse accaparrato, come tanti altri amatori, quanto più gli era riuscito di quelle reliquie, battendo le campagne e frugando a Parigi le botteghe d'antiquarii?
Eppure, per quanto valide queste ragioni, non finivano di convincerlo.
Certo, in ultima analisi, la religione, egli la considerava ancora non altro che una splendida leggenda, una meravigliosa impostura; ma non era per questo men vero che, a dispetto di tutte le spiegazioni, il suo scetticismo s'andava intaccando.
C'era un curioso fatto che non si poteva negare: oggi egli era men saldo nelle sue convinzioni che non lo fosse da ragazzo, quando si trovava sottoposto all'amorosa sorveglianza dei Padri, quando non poteva sottrarsi al loro insegnamento, stava nelle loro mani, apparteneva ad essi anima e corpo; quando il loro ascendente non trovava contrasto né in legami di famiglia né in influenze esterne.
I Gesuiti gli avevano pure inoculato un gusto del meraviglioso che in lui, ad insaputa, s'era andato poco a poco sviluppando; che ora nella solitudine, influiva, volesse o no, sul suo spirito taciturno, confinato, che non usciva mai dalla chiusa cerchia delle idee fisse.
Esaminando il cammino che la sua mente aveva percorso, cercando di coordinare fra loro le fila del pensiero, di scoprirne l'origine e le cause, finì per persuadersi che il modo in cui s'era comportato nella vita mondana era stata l'educazione ricevuta a determinarlo. La sua inclinazione all'artificio, i suoi bisogni di eccentricità non erano insomma la conseguenza di studi speciosi, di esigenze estranee, di speculazioni quasi teologiche; erano in fondo aspirazioni, slanci verso un ideale, verso un mondo sconosciuto, un paradiso lontano, desiderabile come quello che promettono le Sacre Scritture.
Troncò a questo punto bruscamente il filo delle riflessioni.
“Andiamo,” si disse stizzito. “Sono anche più ammalato di quanto credessi. Eccomi ad argomentare dentro di me come un casista”.
Restò sovrappensiero, agitato da una sorda inquietudine.
Certo, se l'osservazione di Lacordaire era esatta, egli non aveva nulla da temere: una conversione non si produce di colpo; occorreva perché arrivasse a maturazione, che il terreno fosse a lungo, metodicamente dissodato.
Eppure se i romanzieri parlano di colpo di fulmine nell'amore, non mancano teologi che parlano di colpo di fulmine nelle anime; se essi sono nel vero, nessuno è sicuro di non soccombere. Inutile in tal caso fare esami di coscienza, dare ascolto a presentimenti, prendere precauzioni; una psicologia del misticismo non esiste. Avveniva perché avveniva, ecco tutto.
“Eh, sto incretinendo; se la cosa continua, il timore della malattia causerà la malattia”.
Riuscì a scuotere un po' da sé quell'influsso; i ricordi gli diedero qualche tregua; ma altri sintomi morbosi comparvero.
Adesso, solo il soggetto delle antiche controversie lo assediava; il parco, le lezioni, i Gesuiti passarono in secondo piano; i problemi astratti lo dominarono in pieno. Suo malgrado, pensava a interpretazioni contraddittorie di dogmi, ad eresie estinte, registrate nell'opera sui Concili del padre Labbe. Gli tornarono a mente obbiezioni mosse dagli scismi, proposizioni bandite dalle eresie che divisero per secoli le Chiese d'Oriente e d'Occidente.
Qui, Nestorio contestava alla Vergine il nome di madre di Dio, sostenendo che nell'Incarnazione essa aveva portato in grembo non il Dio, sibbene la creatura umana; là Eutichio dichiarava che nelle sembianze il Cristo non poteva somigliare agli altri uomini, in quanto la Divinità s'era eletta domicilio nel suo corpo e ne aveva per conseguenza mutato interamente l'aspetto; là ancora, altri cavillatori negavano che il Redentore avesse avuto corpo e che la parola “corpo” dei libri santi s'aveva ad intendere in senso metaforico; mentre Tertulliano enunciava il famoso assioma poco meno che materialistico: “Incorporale è solo ciò che non esiste. Tutto ciò che esiste possiede un suo proprio corpo”. Infine lo importunò la vecchia questione dibattuta per anni: “Cristo solo fu appeso alla Croce oppure la Trinità, una e trina, ha sofferto, nella sua triplice ipostasi sul legno del Calvario?”
Questi problemi lo ossessionavano, non gli davan tregua; e macchinalmente, quasi si ripetesse una lezione da tempo appresa, si poneva da sé le domande e si dava le risposte.
Per alcuni giorni fu nel suo cervello un fermentare di paradossi, di sottigliezze. Spaccava un capello in quattro; dipanava regole complicate come articoli di codice, che si prestavano a tutte le interpretazioni, a tutti i giochi di parola, che finivano in una giurisprudenza celeste, delle più sottili e barocche. Finché sotto l'influsso dei Moreau appesi alle pareti, tutte quelle astrazioni sparirono per lasciare il posto alla religione come spettacolo visivo.
Vide allora sfilare tutta una processione di prelati. Archimandriti, patriarchi sollevavano in alto, a benedire la folla genuflessa, braccia scintillanti d'oro; agitavano, nella lettura o nella preghiera, la candida barba. Vide sparire in buie catacombe file silenziose di penitenti; ergersi immense cattedrali, dove monaci biancovestiti tonavano dal pulpito.
Allo stesso modo che, dopo una presa d'oppio, bastava a De Quincey la parola Consul romanus per evocargli intere pagine di Tito Livio, per farlo assistere all'incedere solenne dei consoli, al formidabile mettersi in moto degli eserciti schierati; a lui bastava un termine teologico per animarsi, vedere maree di popolo; sullo sfondo sfolgorante di basiliche stagliarsi sagome di vescovi.
Sotto il fascino di quelle visioni, trascorreva d'età in età sino alle cerimonie religiose d'oggi; cullato in un mare di musica lamentevole e toccante.
Adesso non sottilizzava più, non aveva più dubbi; una sensazione indefinibile di timidezza e di rispetto si impadroniva di lui. La sensibilità dell'artista era soggiogata dall'arte con cui i riti cattolici erano congegnati; al loro ricordo, i suoi nervi trasalivano.
Ma ecco che in un improvviso impeto di ribellione, in un subitaneo voltafaccia, gli germogliavano in mente idee mostruose: la tentazione di commettere qualcuno di quei sacrilegi che il manuale per confessori prevede; di fare un uso turpe e obbrobrioso dell'acqua benedetta, dell'olio santo.
Di fronte a un Dio onnipotente, s'ergeva allora un rivale pieno di forza, il Demonio; e pareva a Des Esseintes che una terrificante grandezza dovesse scaturire da un crimine perpetrato in piena Chiesa da un credente che, in preda a un'orribile esultanza, a una gioia sadica, s'accanisse a bestemmiare, a coprir di contumelie, a caricare d'insulti gli oggetti del culto. Farneticamenti di magia, di messa nera, di tregenda, terrori di possessioni demoniache e d'esorcismo sorgevano in lui. Finiva per chiedersi se non commetteva sacrilegio a tener presso di sé oggetti che erano stati a suo tempo consacrati, carteglorie d'altare, pianeti, custodie di pissidi; e l'idea di trovarsi in peccato mortale in certo modo lo inorgogliva, lo risollevava. Assaporava in quel pensiero il gusto del sacrilegio; d'un sacrilegio però controverso, veniale in tutti i casi, perché quegli oggetti li aveva in grande pregio, non se ne valeva a scopi illeciti.
Si cullava così in pensieri prudenti e codardi; la timidezza gli impediva di giungere a crimini veri e propri; gli toglieva l'ardire necessario per commettere peccati spaventosi, volontari, reali.
Poco a poco alfine questo torturarsi gli diede tregua. Prese in quella vece a contemplare in qualche modo dall'alto, ad abbracciare nel suo complesso la Chiesa. Considerò l'influenza che da secoli di generazione in generazione essa esercita sull'umanità; se la figurò mentre, addolorata e solenne, denuncia all'uomo l'orrore del vivere, l'inclemenza del destino; gli predica la pazienza, la contrizione, lo spirito di sacrificio; ne medica le ferite, additandogli quelle sanguinanti del Cristo; gli garantisce ricompensa in cielo; promette agli afflitti il più eccelso seggio in Paradiso; persuade il nato di donna a patire, a offrire a Dio in olocausto le tribolazioni sofferte, gli oltraggi patiti, ogni sua traversia, ogni sua pena.
In tale missione la Chiesa diventava davvero eloquente: madre per gli infelici, piena di pietà per l'oppresso, di minaccia verso oppressori e tiranni.
Qui Des Esseintes toccava di nuovo terra.
Certo, egli prendeva atto con piacere che la Chiesa riconoscesse in tal modo il male del mondo; ma allora gli veniva di ribellarsi contro il vago rimedio ch'essa porge, alimentando nell'uomo la speranza di un'altra vita.
Schopenhauer rigettava i palliativi. La sua filosofia e quella della Chiesa partivano dalla stessa constatazione; anche lui prendeva le mosse dalla constatazione dell'ingiustizia e della turpitudine regnante nel mondo; lui pure lanciava con la Imitazione di Cristo il doloroso grido: “È veramente un'infelicità vivere sulla terra!” Anche lui predicava il nulla dell'esistenza, i vantaggi della solitudine; avvertiva l'umanità che, qualunque cosa facesse, da qualunque parte si rigirasse, restava infelice: se povera a cagione delle sofferenze che porta con sé l'indigenza; se ricca, per l'invincibile tedio che ingenera l'abbondanza.
Ma egli non propinava nessuna panacea; non ti cullava, per rimediare a mali inevitabili, in alcun miraggio. Schopenhauer non veniva a raccontarci la ripugnante storiella del peccato originale; non tentava neanche di provarti che è immensamente buono un Dio che protegge i furfanti, dà una mano agli imbecilli, opprime l'infanzia, abbrutisce la vecchiaia, punisce gli innocenti. Egli non esaltava la bontà di una Provvidenza che ha escogitato l'inutile, iniquo, stolto abominio della sofferenza fisica. Ben lontano da voler giustificare come necessari, al modo che fa la Chiesa, i dolori e le prove, egli nella sua sdegnata pietà esclamava: “Se ad un Dio si deve questo mondo, non ci terrei ad essere quel Dio: l'infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore.”
Ah lui solo era nel vero! Che diventavano tutte le farmacopee evangeliche a petto dei suoi trattati d'igiene spirituale?
Egli non pretendeva di guarire nessun male, non offriva agli infermi alcun compenso, alcuna speranza! ma la filosofia del Pessimismo era insomma la grande consolatrice delle menti elette, degli animi elevati. Essa rivelava la società qual'è, insisteva sulla stupidità congenere alla donna, ti additava i limiti, ti salvava dalle delusioni insegnandoti a ridurre al minimo possibile le speranze; di non concepirne affatto se ne hai la forza; a chiamarti infine fortunato se, mentre meno te lo aspetti, qualche massiccio tegolo non ti si abbatte sul capo.
Messasi per la stessa via dell'Imitazione di Cristo, ma senza perdersi in bui dedali, senza battere assurde strade, quella teoria metteva capo anche essa alla rassegnazione ed alla rinunzia.
Vero è che se questa rassegnazione, la quale scaturiva dalla pura e semplice constatazione d'un deplorevole stato di cose e dell'impossibilità di porvi un anche minimo rimedio, era accessibile ai ricchi di spirito, difficilmente si lasciava intendere dai poveri, dei quali la religione cullava i rancori e le collere.
Da quella filosofia Des Esseintes traeva un gran sollievo.
Gli aforismi del grande Alemanno calmavano il rovello della sua mente. E intanto, per i loro punti di contatto, le due dottrine si richiamavano l'una l'altra alla sua mente; ed egli non poteva scordare quel cattolicesimo così poetico, così toccante, nel quale era cresciuto, della cui essenza s'era un giorno imbevuto.
Questi ritorni alla fede, queste apprensioni religiose lo tormentavano, specialmente dacché la sua salute si andava alterando: coincidevano con la recentemente comparsa di disturbi nervosi.
Datavano dall'infanzia inesplicabili ribrezzi, brividi che gli ghiacciavano la spina dorsale e gli allegavano i denti, quando, ad esempio, vedeva torcere per strizzarla, della biancheria bagnata. Ribrezzi che non l'avevano lasciato mai; oggi ancora soffriva fisicamente se passava il dito sul gesso, se palpava dell'amoerro, se sentiva lacerare una stoffa.
Gli eccessi della vita da scapolo, l'esagerata tensione del cervello avevano sensibilmente aggravato quella nevrosi costituzionale, impoverito quel sangue già stanco per eredità. A Parigi aveva dovuto sottoporsi a trattamenti idroterapici per tremiti alle dita, dolori atroci, nevralgie che gli tagliavano la faccia in due, gli martellavano le tempie, trafiggevano come spilli le palpebre, provocavano nausee che solo sdraiandosi sul dorso all'ombra riusciva a combattere.
Grazie ad una vita più regolata, più tranquilla, quei sintomi erano poco a poco scomparsi. Ed ecco che ora ricomparivano sotto altra forma, invadevano tutto il corpo; dal capo i dolori si propagavano al ventre che aveva gonfio, indurito; un ferro rovente pareva gli forasse gli intestini, spossati da inutili conati. Poi una tosse nervosa, lacerante, secca che compariva ad ora fissa e durava sempre esattamente un certo numero di minuti, gli interruppe il sonno, lo strozzò.
Infine perdette l'appetito: acidità gasose, calde, aridi bruciori gli percorsero lo stomaco; soffocava. Dopo ogni tentativo di prender cibo, non poteva tollerare un panciotto che stringesse, era costretto a sbottonare i calzoni.
Soppresse le bevande spiritose, il caffè, il tè; bevve latticini, ricorse a docce fredde; s'impinzò d'assafetida, di valeriana, di chinino. Si risolse persino a fare qualche passeggiata nei giorni di pioggia, quando la campagna diventa silenziosa e deserta; si sforzò a camminare, a fare un po' di moto.
Finì per rinunciare temporaneamente alla lettura; e, siccome s'annoiava a morte, per sbarcare l'interminabile giornata, si decise a mettere in atto un progetto che per amore dei suoi comodi, per pigrizia, dacché era Fontenay, differiva di giorno in giorno.
Non potendo cioè inebriarsi più di magie stilistiche, trovar tregua nel godimento che gli dava l'epiteto raro, l'aggettivo che, pur restando preciso, schiudeva alla fantasia dell'iniziato infinite prospettive; deliberò di completare l'arredamento, procurandosi preziosi fiori di serra. Quell'occupazione materiale lo distrarrebbe, gli allenterebbe i nervi, gli riposerebbe la mente.
Chi sa anche che, con lo spettacolo delle strane e smaglianti tinte, non avvenisse che quelle piante lo compensassero dei chimerici e reali colori dello stile di cui temporaneamente lo privava il digiuno letterario.

VIII

Per i fiori Des Esseintes aveva sempre avuto un grande amore; ma questa passione che al tempo delle sue gite a Jutigny abbracciava senza discernimento tutti i fiori s'era andata affinando; ed aveva finito per fissarsi solo su alcuni, su una loro aristocrazia.
Ormai da gran tempo egli disprezzava le piante banali che, al riparo d'un copertone o d'un ombrellone rosso stinto s'offrono sui mercati parigini, in vasi inaffiati, al passante.
Via via che i suoi gusti letterari, le sue esigenze estetiche s'erano raffinate, facendogli accettare più soltanto opere quintessenziate, distillate da cervelli tormentati e sottili; via via che s'era precisata in lui l'avversione per le idee di tutti; anche l'amore per i fiori s'era liberato d'ogni impurità, d'ogni scoria, s'era - come si direbbe per l'alcole - “rettificato”.
Des Esseintes paragonava volentieri il vivaio d'un floricultore ad un mondo in miniatura, dove si trovavano rappresentati tutti i ceti sociali: i fiori poveri e canaglieschi dalle radici pigiate in una latta od in una terrina fuori uso, i fiori da bugigattolo, come ad esempio il garofano, che non stonano solo sull'orlo d'un abbaino; i fiori pretenziosi, convenzionali, stupidi, che sono al posto loro soltanto in portavasi di porcellana dipinti da signorinette: la rosa, poniamo; infine i fiori d'alto lignaggio, quale l'orchidea, delicata e piena di grazia, sensitiva e freddolosa; i fiori esotici, in esilio a Parigi, tenuti al caldo in palazzi di cristallo: i principi del regno vegetale, che se ne vivono in disparte e che più nulla hanno in comune con le piante della strada né con la flora piccolo-borghese.
Insomma, se una punta di interesse, di pietà Des Esseintes non poteva a meno di sentire ancora pel fiore plebeo che nei quartieri poveri campa a stento, avvelenato com'è dalle esalazioni delle chiaviche e delle condutture di piombo, detestava in compenso i fiori da mazzo che s'accordano così bene coi salottini crema ed oro delle case nuove; e gioia intera davan solo ai suoi occhi le piante rare, aristocratiche, venute di lontano, che da noi si mantengono in vita solo grazie a sottili accorgimenti, in fittizi climi torridi prodotti dalle ben regolate calorie delle stufe.
Ma per quanto definitiva, anche questa preferenza pel fiore di serra, non s'era sottratta a ritocchi suggeriti dal suo modo di vedere generale, precisatosi ormai in ogni campo; tanto che un tempo, a Parigi, l'inclinazione per l'artificio l'aveva portato a disdegnare il fiore vero, a posporlo alla sua perfetta imitazione, ottenuta mercé i prodigi della gomma elastica e del filo, della porcellana e del taffetà, delle carte e dei velluti.
Possedeva per ciò una sbalorditiva collezione di piante tropicali, foggiate dalle dita di artisti consumati.
Quei falsi seguivano la natura passo passo, la ricreavano. Prendevano il fiore al suo nascere, lo accompagnavano sino al suo completo sboccio, lo ritraevano sin nel declino; arrivavano a fissare le più labili sfumature, gli aspetti più fugaci del suo risveglio e del suo sonno. Copiavano il portamento dei petali piegati dalla brezza o gualciti dalla pioggia; mediante spruzzature di gomma, ne cospargevano di brina la corolla mattiniera. Mostravano la pianta in piena fioritura, quando i rami piegano sotto il peso della linfa ed allo spogliarsi del calice ed al cadere delle foglie, quando rizza il gambo secco od un frutto che s'accartoccia.
Di quell'arte stupefacente s'era a lungo compiaciuto. Ma ora vagheggiava di mettere insieme un'altra flora: dopo i fiori finti emulanti quelli veri, voleva fiori veri che emulassero fiori finti.
Messosi per questa via, ebbe poco da cercare: non si trovava ad abitare proprio al centro del paese dei più grandi floricultori?
Gli bastò visitare le serre di Val d'Aunay e del viale di Châtillon per tornarne col portafoglio vuoto, stanco morto; sbalordito delle stravaganze e magnificenze intravvedute.
Due giorni dopo avvenne la consegna; le piante riempivano più carretti.
Lista alla mano, Des Esseintes faceva l'appello delle piante, verificava una ad una le sue compere.
I giardinieri scaricarono per prima una intera collezione di Caladium: da gambi turgidi e villosi, enormi foglie si schiudevano a forma di cuore. Sebbene la parentela fosse evidente, non una specie si ripeteva.
Ce n'erano di sbalorditivi: alcuni tiravano al rosa, come il Caladium virginale, che pareva ritagliato in tela verniciata, in taffetà inglese gommato; altri, interamente bianchi come l'albano, che si sarebbe detto ricavato nella trasparenza d'una pleura bovina, nella vescica diafana d'un suino; alcuni, specialmente il Madama Mame, imitavano lo zinco, parodiavano scampoli di metallo stampato, tinti in verde imperatore, sporcati di sgocciolature di pittura a olio, di macchie di minio e di cerussa. Questi qui, ad esempio il bosforo, davano l'illusione d'un calicò inamidato, a bottoncini in rilievo cremisi o verde mirto; quelli là, come l'Aurora boreale, ostentavano una foglia color carne cruda, percorsa di costole purpuree, di venuzze, violacee: una foglia tumefatta, trasudante sangue e cancarone.
Con l'albana, l'Aurora, presentava i due poli opposti del temperamento della pianta: la Clorosi e l'Apoplessia.
Nuove varietà di Caladium vennero deposte a terra. Ostentavano, stavolta, una pelle artificiale, percorsa da false vene; e, per lo più, quasi lue e lebbra le rodesse, tendevano delle carni livide, marmorizzate di roseole, damascate di erpeti; altri mostravano la tinta viva delle cicatrici che si rimarginano o quella scura delle croste che si formano; altri erano coperti di bollicine, di cauterii, enfiate da scottature; altri ancora, presentavano epidermidi pelose, scavate da ulcere, sbalzate da carcinomi; certuni infine parevano coperti di medicazioni, spalmati di sugna nera mercuriale, d'unguento verde di belladonna; trafitti di bruscoli di polvere, di miche gialle di iodoformio.
Così adunati, quei fiori apparvero allo sguardo di Des Esseintes più mostruosi che non quando mescolati ad altri l'avevano sorpreso nella corsia a vetri delle serre.
“Accipicchio!” si disse entusiasmato.
Una nuova pianta, affine per la forma ai Caladium, l'Alocasia metallica, accrebbe ancora quell'entusiasmo. Questa qui, era spalmata d'uno strato verde bronzo e vi giocavano sopra riflessi d'argento. Era il capolavoro del fittizio; l'avresti presa per un tubo di stufa che il capriccio dell'artigiano avesse foggiato a ferro di picca.
Vennero quindi posti a terra ciuffi di foglie a losanga, verdebottiglia. Dal centro sorgeva una verghetta e vi tremolava in cima un grande asso di cuori verniciato come un peperone; come a beffarsi di tutti gli aspetti noti di piante, proprio d'in cima al cuore, d'un intenso cinabro, scaturiva una coda carnosa, cotonosa, bianco-gialla, a volte diritta a volte a cavatappi come un codino di maiale.
Era l'Anthurium, un'aroidea da poco importata dalla Columbia.
D'un assortimento di questa famiglia, faceva parte anche un Amorphophallus: pianta della Cocincina con foglie a spartipesce e lunghi gambi neri coperti di cicatrici, simili a membri deteriorati di negri.
Des Esseintes esultava.
Una nuova serie di mostri veniva intanto sfornata: delle Echinopsis che da piumaccioli di bambagia esprimevano fiori d'un rosa ignobile di moncherino; dei Nidularium che, tra lame di sciabola, lasciavano vedere budella squarciate e scorticate; delle Tillandsia Lindeni che cavavan fuori raschietti tutti denti, color mosto; dei Cypripedium, dalla forma complicata, incoerente, uscita dal cervello d'un progettista in un momento di pazzia.
Somigliavano ad uno zoccolo, ad una borsa per vuotarvi le tasche, al disopra della quale si rovesciasse indietro una lingua umana col frenulo stirato come se ne vedono nelle tavole che illustrano i trattati di malattie della gola e della bocca. Due piccole alette, tolte in prestito, si sarebbe detto, a un mulino per ragazzi, completavano quell'insieme barocco d'un disotto di lingua, color feccia di vino e ardesia, e d'una taschetta che trasudava dalla fodera una colla attaccaticcia.
Des Esseintes non riusciva a staccare gli occhi da questa orchidea oriunda dell'India.
I giardinieri, tediati da quegli indugi, presero ad annunciare essi stessi ad alta voce, via via che recavano i vasi, i nomi che leggevano sulle etichette.
Al suono dei nomi ostrogoti, Des Esseintes si volgeva sconcertato. Ecco l'Encephalartos horridus, un colossale carciofo di ferro arruginito come se ne vedono, destinati ad impedire le scalate, alla porta di castelli; il Cocos Micania, specie di palma gracile, finemente dentata, presa dentro un alto ciuffo di foglie fatte a pala doppia e semplice di remo; la Zamia Lehmanni, un prodigioso pan di cacio di Chester, confitto in terra d'erica, sormontato da un fascio di giavellotti dentati, di frecce da pellirosse; il Cibotium spectabile che batteva tutti i suoi colleghi per la pazza struttura, sfidava ogni fantasia lanciando di tra il fogliame palmato una enorme coda di orangotano, una scura coda villosa che s'incurvava in cima a mo' di pastorale di vescovo.
Ma Des Esseintes dava loro un'occhiata e via. Impaziente aspettava la comparsa delle piante che più di tutte lo calamitavano: i vampiri vegetali, le piante carnivore; il Pigliamosche delle Antille dal lembo di felpa secernente una specie di succo gastrico, armato d'uncini che si ripiegavano uno sull'altro ad imprigionare l'insetto in un graticcio; la Drosera delle torbiere, manina sanguinaria irta di villi glandulosi; le Sarracene, i Cephalotus che spalancavano piccoli voraci imbuti capaci di smaltire e d'assimilarsi della carne vera e propria; infine i Nepenti d'una capricciosità di forma che sorpassa tutto ciò che di eccentrico si conosce nel mondo vegetale.
Des Esseintes volgeva e rivolgeva in mano il vaso in cui s'agitava questa stravaganza vegetale, né si saziava d'ammirarla.
Pareva fatta di gomma elastica. Di caucciù, aveva la lunga foglia allungata d'un cupo verde metallico; ma in vetta a questa foglia penzolava una lenza verde, scendeva un cordone ombelicale cui era appesa un'urna verdastra, screziata di viola, una specie di pipa tirolese di porcellana, un imprevedibile nido d'uccello che oscillava placido, lasciando scorgere un interno tappezzato di peluria.
“Oh questa, poi!” mormorò Des Esseintes.
Lo strapparono al suo giubilo i giardinieri che, impazienti d'andarsene vuotavano di quel che restava le carrette, scaricandone alla rinfusa Begonie tuberose e neri Croton di lamiera, picchiettati di minio.
Non restava che un nome sulla lista. Dov'era la Cattleya della Nuova Granata?
Gli indicarono una campanula alata, d'un lilla stinto, d'un malva quasi spento. S'accostò ad annusarla e subito, ributtato, indietreggiò. Ne usciva un odore d'abete verniciato, di scatola da giocattoli, che evocava la tristezza massacrante di un capodanno.
Meglio diffidarne, di quella pianta. Si rammaricò quasi d'averla accolta fra le piante inodore che possedeva, quell'orchidea, che col suo alito resuscitava i più spiacevoli ricordi!
Una volta, abbracciò con lo sguardo la marea di vegetali di cui il vestibolo traboccava. Mescolati come vien viene, incrocicchiavano spade, corti pugnali, ferri di lance. Era, visto nell'insieme, un esercito di verde irto d'armi, sul quale ondeggiavano, a mo' di gagliardetti barbarici, fiori dalle tinte crude ed accecanti.
L'aria si rarefaceva; ed ecco sorger laggiù, dall'oscurità d'un cantuccio, strisciar raso terra, una luce d'un biancor sommesso. S'avvicinò; e vide ch'erano le Rizomorfe a spandere, respirando, quel chiaror velato di lampada da veglia.
“Chi direbbe che si tratta di piante stupefacenti?” pensò.
Si trasse da parte e giudicò d'un occhiata il complesso dei suoi acquisti.
I suoi voti erano esauditi.
Non una pianta pareva reale; si sarebbe detto che l'uomo avesse imprestato alla natura, per metterla in grado di foggiare quei mostri, la stoffa la carta la porcellana il metallo; e che quando la natura non ce l'aveva fatta ad imitare questi prodotti dell'uomo, si fosse vista costretta a ricopiare le membrane interne degli animali, a plagiare le tinte accese delle loro carni marcescenti, la magnifica laidezza delle loro cancrene.
“Tutto non è che lue” concluse Des Esseintes non riuscendo a staccar l'occhio dalle raccapriccianti tigrature dei Caladium, messe in evidenza da un raggio di luce.
Ed ebbe l'improvvisa visione d'una umanità senza tregua travagliata dall'antichissimo virus.
Dall'inizio del mondo, di padre in figlio, tutti gli esseri viventi si trasmettono l'inconsumabile eredità; l'eterno morbo che saccheggiò gli antenati dell'uomo, che scavò sin le ossa ora esumate degli antichi fossili.
La lue aveva percorso i secoli senza mai esaurirsi. Ancor oggi infieriva ammantandosi di sofferenze sornione, annidandosi sotto sintomi d'emicranie, di nevrosi e di gotte; ogni tanto aggallava attaccandosi di preferenza ad individui malnutriti, malcurati; scoppiando fuori in monete di oro, parando per ironia d'una collana di zecchini falsi la fronte dei poveri diavoli, stampando sulla loro pelle, per colmo di disdetta, l'insegna del danaro e del benessere.
Ed ora eccola lì che ricompariva, in tutto lo splendore primitivo, sul fogliame colorato di quelle piante!
“Bisogna però dire,” seguitò Des Esseintes tornando al punto di partenza del suo ragionamento, “bisogna però dire che nella maggior parte dei casi la natura è inetta per conto suo a procreare da sola specie così morbose e perverse. Essa non ci mette che la materia prima, il seme ed il terreno, la matrice insomma e gli ingredienti. È l'uomo che alleva la pianta, che la foggia, la colora, la scolpisce a modo suo. Per cocciuta, pasticciona e di corta vista ch'essa sia, la Natura s'è alla fine sottomessa; e il suo padrone è riuscito a trasformare con mezzi chimici i terreni, a servirsi di combinazioni, d'incroci preparati di lunga mano, a valersi di sapienti talee, di metodici innesti; ed ora le fa buttare dallo stesso ramo fiori di color diverso, escogita per lei nuove tinte, modifica a piacer suo la forma fissata da secoli delle sue piante, lavora ciò ch'essa ha appena digrossato, porta a compimento i suoi abbozzi, li segna del suo stampo, v'imprime il sigillo dell'arte.
“Non si può negare,” si disse Des Esseintes a mo' di conclusione. “Nel giro di qualche anno l'uomo è in grado di produrre una selezione, a ottener la quale questa infingarda di natura impiegherebbe secoli. Non c'è dubbio: coi tempi che corrono i fioricultori restano i soli veri artisti.”
Avvertì una certa stanchezza; soffocava in quell'aria chiusa, assottigliata da tante piante. L'affaccendarsi di quei giorni l'aveva spossato; troppo repentinamente era passato da una vita sedentaria di recluso al moto e all'aria libera.
Si tolse di là e andò a sdraiarsi sul letto. Ma ormai l'avvio era dato e la fantasia anche nel sonno seguitò a dipanare la sua matassa e passò poco che rotolò in un cupo e sconnesso incubo.
Procedeva per un viale in mezzo ad un bosco. Cadeva la sera. Al suo fianco camminava una donna che egli non aveva mai conosciuto né visto. Sfiancata aveva capelli di stoppa, una faccia da mastino, guance cosparse di lentiggini; denti piantati di traverso sporgevano sotto un naso rincagnato.
Portava un grembiale bianco di bambinaia; sul petto un lungo fisciù a scacchi di cuoio; stivali a mezza gamba di soldato prugsiano, una cuffia nera ornata di gale e guarnita d'un fiocco. Aveva l'aria d'una girovaga, l'aspetto d'una saltimbanca da fiera.
Quella donna, sentiva, era entrata da gran tempo nella sua intimità, s'era da gran tempo sistemata nella sua vita. Si chiedeva chi mai fosse; invano cercava di ricordarsi di dove venisse, come si chiamasse, che mestiere esercitasse, perché fosse al mondo.
Nessun ricordo lo soccorreva: il suo legame con lei restava inesplicabile ma non era per questo men certo.
Rovistava ancora nella memoria, quand'ecco apparire davanti a loro una strana figura a cavallo. Trottò per un minuto, quindi da sella si voltò.
A lui il sangue diede un tuffo; dall'orrore restò inchiodato dov'era.
Era verde quella faccia, ambigua, senza sesso; sotto palpebre violette occhi spaventosi s'aprivano d'un azzurro limpido gelato. Aveva intorno alla bocca tutto un rosario di bollicine. Dalle maniche a brandelli uscivano, nudi sino al gomito, braccia d'un'atroce magrezza, braccia di scheletro, che tremavano di febbre; in stivali troppo comodi, d'antica foggia guerriera, svasati all'orlo, cosce scarnite rabbrividivano.
Lo sguardo dell'apparizione, spaventoso, era fisso su Des Esseintes; lo trapassava come una lama, lo gelava sino alle midolla.
La donna mastino, più impazzita di lui di terrore, gli si strinse contro ed ululò a morte, arrovesciandogli il capo sul collo che lo spavento irrigidiva.
E di colpo gli si svelò il significato della spaventosa visione. Aveva dinnanzi a sé l'immagine della lue.
Incalzato dal terrore, fuor di sé, infilò una scorciatoia. Correndo a perdifiato, raggiunse un chiosco che sorgeva a sinistra, dentro un folto di piante di frassini là, in un corridoio, si lasciò andare per morto su una sedia.
Cominciava a riprender fiato, quando vicino a lui scoppiarono singhiozzi. Alzò il capo: gli era dinnanzi la donna mastino; lamentevole e grottesca, piangeva a dirotto; diceva d'aver nella fuga smarrito i denti e, per sostituirli, cavava di tasca pipe di terra, dal grembiule di bambinaia; ne spezzava le cannucce, se ne conficcava dei pezzi nei buchi delle gengive.
“Oh questa! Ma è matta!” si diceva Des Esseintes. “Come fanno a far da denti delle cannucce di pipa?” E cadevano difatti via via che la donna li metteva.
S'udì in quella un galoppar di cavallo che s'avvicinava.
Invase Des Esseintes un panico folle; le gambe gli mancarono sotto. Il galoppo diventava furioso. Scudisciato dalla disperazione, egli s'alzò; si gettò sulla donna che ora stava calpestando le coccie di pipa; la scongiurò di chetarsi: quello scalpiccio li farebbe scoprire. E siccome l'altra si dibatteva, la trascinò in fondo al corridoio, strozzandola per impedirle di gridare.
Ma ecco gli cade sott'occhio una porta di caffè, con persiane verniciate di verde; è senza nottolino; la spinge: si slancia e si ferma.
In faccia, al centro d'un'ampia radura, immensi, bianchi pierotti saltano come lepri nel chiaro di luna.
Lagrime di scoraggiamento gli salgono agli occhi. Mai, no, mai riuscirebbe a varcar quella soglia. “Mi schiaccerebbero,” pensa. E, quasi a giustificare quel timore, gli immensi pierotti si moltiplicano, si moltiplicano; con le loro capriole riempiono l'orizzonte, riempiono il cielo; che, smisurati come sono, urtano or dei piedi or del capo.
Il galoppo s'arrestò. Il cavallo era lì dietro una tonda finestrella apertasi nel corridoio.
Più morto che vivo, Des Esseintes si volse; attraverso la finestrella scorse delle orecchie diritte, una tastiera di denti gialli, della froge da cui uscivano getti di vapore appestato d'acido fenico.
S'accasciò: rinunciava alla lotta, alla fuga; chiuse gli occhi per non vedere l'atroce sguardo della Lue che, trapassando il muro, gli pesava sopra. Ma anche così quello sguardo s'incrociava sotto le sue palpebre chiuse, lo sentiva scivolare lungo la spina dorsale in sudore, per tutto il corpo inondato dove ogni pelo si rizzava.
Era ormai rassegnato a tutto; sperava anzi, per farla finita, nel colpo di grazia.
Trascorse un secolo che durò certo un minuto. Rabbrividendo, riaprì gli occhi. Non c'era più niente. Di colpo come in un trucco teatrale, in un cambiamento di scena istantaneo, ecco stendersi a perdita d'occhio un atroce paesaggio minerale, un paesaggio livido, deserto, scavato di burroni, morto; e illuminare quella desolazione una luce cheta, bianca che pareva tramandata da fosforo che si disciogliesse nell'acqua.
Qualche cosa da terra si mosse, divenne una donna pallidissima, nuda; con le gambe inguainate in calze verdi di seta.
La osservò con curiosità. Come arricciati da un ferro troppo caldo i suoi capelli s'increspavano, rompendosi in cima; urne di Nepente le pendevano agli orecchi; brillava nelle nari schiuse color di vitello lessato.
Sottovoce, con occhi vogliosi lo chiamò.
Egli non ebbe tempo di rispondere all'invito che già la donna si trasmutava. Riflessi di fuoco le guizzavano nelle pupille; le labbra si tingevano del furibondo rosso dell'Anthurium; i capezzoli, smagliavano d'un rosso lucido, come bacelli di peperone.
In un'improvvisa illuminazione: “Ah è il Fiore” si disse. E la manìa raziocinante persistendo nel sogno come già da desto, deviò dalle piante al Virus.
Allora notò che dall'irritazione seni e bocca parevano escoriati; scoperse sul corpo macchie di bistro e di rame. Sgomento, arretrò; ma l'occhio della femmina lo teneva sotto il suo fascino. Avanzava lentamente suo malgrado, affondando per resistere all'invito i calcagni nel terreno; lasciandosi cadere ma rialzandosi nonostante per procedere verso la donna.
Quasi la toccava, quando dei neri Amorphophallus scaturirono d'ogni parte e si lanciarono contro quel ventre che s'alzava e s'abbassava come un mare.
Egli li aveva scartati da sé, ributtati; provava un disgusto atroce a sentirsi brulicare tra le dita quei gambi caldi e rigidi.
Poi d'un tratto le odiose piante eran sparite, mentre due braccia lo attiravano, lo avvinghiavano. Una angoscia mai provata gli fece rintoccare il cuore a martello; ché gli occhi della donna si eran fatti d'un azzurro limpido gelato, raccapriccianti. In uno sforzo sovrumano tentò di sciogliersi da quell'abbraccio; con un gesto che lo irretì, lei lo trattenne, lo attirò a sé; ed egli vide con lo sguardo che gli si intorbidiva, vide tra le cosce levate in aria sbocciare il feroce Nidularium, che, perdendo sangue, sbadigliava tra lame di sciabola.
Già sfiorava di sé la laida piaga.
Venne meno, si destò di soprassalto, senza fiato, agghiacciato, folle di paura, sospirando:
“Ah non è che un sogno, grazie a Dio!”

IX

Gli incubi si rinnovarono; addormentarsi cominciò a fargli paura.
Restava ore intere insonne in una tensione febbrile o cadeva in sogni paurosi, interrotti dal sobbalzo di chi si sente mancar la terra di sotto, ruzzola di cima in fondo a una scala, senza trovare a che afferrarsi frana in un burrone.
La nevrosi, tenuta qualche giorno a bada, riprendeva più minacciosa; si rivelava per nuovi sintomi d'una gravità e d'un'ostinazione preoccupanti.
Adesso le coperte lo infastidivano, soffocava sotto le lenzuola; formicolii gli correvano per il corpo, bruciori, trafitture di spilli lungo le gambe.
Presto s'aggiunse un dolor sordo ai mascellari; e, alle tempie, la sensazione d'una morsa.
Le sue inquietudini crebbero.
Disgraziatamente mancavano i mezzi per contrastare i progressi del male. Invano aveva cercato di impiantare nel gabinetto da bagno degli apparecchi idroterapici. Le difficoltà che si presentavano gli fecero rinunziare al progetto. A parte il fatto che a Fontenay l'acqua era così scarsa che veniva erogata solo a certe ore, sarebbe stato impossibile farla salire all'altezza cui si trovava la casa.
Dovette di conseguenza rinunziare ai violenti getti d'acqua sulla spina dorsale: l'unico trattamento che, domando l'insonnia, gli avrebbe ridato la calma; e contentarsi di brevi spruzzature prese nel bagno o in un semicupio, di abluzioni fredde seguite da energetiche frizioni che il domestico gli praticava con un guanto di crine.
Ma il progresso della nevrosi non si arrestava per queste sommarie docciature; tutt'al più il paziente ci guadagnava qualche ora di sollievo, pagata cara del resto perché, dopo, gli accessi lo assalivano più dolorosi e violenti di prima.
Un tedio infinito lo accasciò.
La gioia già s'era inaridita di possedere una flora mirabolante; la struttura di quei mostri vegetali, le stranezze delle loro tinte non gli cagionavano più alcuna sorpresa. Aggiungi che a dispetto delle cure di cui le circondava, le piante per la maggior parte intristirono; le fece portar via, ma la sua irritabilità era giunta a tale che per qualche tempo lo indispose il vedere il loro posto vacante.
Per distrarsi ed ammazzare il tempo che stentava a passare, ricorse alla sua raccolta d'incisioni, e riordinò i Goya che possedeva.
Le prime impressioni di certe tavole dei “Capricci”, riconoscibili per prove dal tono rossastro e acquistate a suo tempo nelle aste a peso d'oro, gli spianarono la fronte. Preso a mano dalla fantasia del pittore, s'immerse nelle contemplazioni di quelle scene che davano le vertigini: versiere che cavalcavano gatti, donne che s'accanivano a cavar denti a un impiccato; banditi, succubi, démoni e nani.
Di Goya percorse quindi tutte le altre serie di acqueforti e d'acquetinte, i “Proverbi” d'un così macabro orrore; i soggetti di guerra schizzati con tanta fredda rabbia; infine la tavola della “Garrotta”. Prediligeva, di questa, una mirabile prova tirata per esperimento, stampata su carta spessa priva di colla e che serbava nella pasta le impronte dei regoli di stamperia.
Il selvaggio estro, il talento aspro, eccessivo di Goya lo conquideva; e tuttavia un po' gliene voleva per l'ammirazione che la sua opera aveva riscosso presso tutti; tanto che da anni aveva rinunziato a mettere quelle incisioni in cornice per timore che, esponendole, il primo venuto si sentisse in dovere di snocciolare, vedendole, delle asinerie e d'estasiarsi davanti ad esse d'un entusiasmo imparaticcio.
Lo stesso avveniva per i suoi Rembrandt, che egli si guardava ogni tanto in segreto.
E infatti, com'è vero che il più bel motivo musicale diventa triviale, intollerabile appena tutti lo gorgheggiano e se lo appropriano gli organetti, così l'opera d'arte che riscuote il plauso dei falsi artisti, che non è negata dagli sciocchi, che non si contenta d'entusiasmare soltanto i pochi, diventa, anch'essa, per ciò stesso, agli occhi degli iniziati, contaminata, dozzinale, poco meno che indisponente.
Del resto che all'autentica opera d'arte non andasse solo l'ammirazione dei pochissimi intenditori, era questo per Des Esseintes uno dei più grossi dispiaceri della vita.
Successi di pubblico, difficili a spiegare, gli avevano già guastato per sempre quadri e libri che un tempo gli eran cari; vedendo quelle opere riscuotere il plauso della maggioranza egli finiva per scoprire in esse impercettibili pecche; e, ripudiandole, chiedevasi se per caso il suo fiuto non s'andasse ottundendo, non pigliasse abbagli.
Chiuse le cartelle; e, disorientato, ripiombò nella tetraggine senza causa che ben conosceva.
Per cambiare il corso ai pensieri, ricorse a letture blande, calmanti; sperò che le malvacee dell'arte potessero recargli refrigerio; s'applicò alla lettura di quei libri che fan la gioia dei convalescenti e delle persone cagionevoli, cui le opere titaniche o solo più ricche di fosforo darebbero l'emicrania.
Senonché l'effetto dei romanzi di Dickens fu l'opposto di quello che si riprometteva. Quei ritrosi fidanzati, quelle eroine protestanti accuratamente accollate, si amavano fra le nuvole, si limitavano ad avvallare gli occhi, a farsi di porpora, a lacrimare di felicità, stringendosi a vicenda le mani.
All'istante, quell'esagerata pudibonderia lo fece balzare al polo opposto; per legge di contrasto, saltato il fosso, cercò scampo in ricordi piccanti, in visioni corpose; pensò ad accoppiamenti frenetici, a bocche che si mescolano, a baci in cui le lingue s'incontrano, a quei baci che il riserbo ecclesiastico designa col nome di colombini.
Col libro che chiuse bandì da sé l'ipocrita ritrosaggine inglese; e prese a rimuginare sui peccatuzzi, sui salaci preludi all'amore che la Chiesa riprova.
I suoi sensi non restarono sordi; la frigidità del cervello e del corpo, che egli credeva definitiva, si dissipò. La solitudine agì ancora sul dissesto dei suoi nervi. Una volta in più lo ossessionò, non già la religione, sì la malizia dei peccati e degli atti che la religione condanna. Non vide più altro che quello che la Chiesa non si stanca mai di deprecare e di minacciare di castigo. La carne sorda da mesi, stimolata in un primo tempo e irritata dalle pie letture, risvegliata quindi, resuscitata in una crisi di nevrosi dalla pudibonderia d'oltre Manica, s'impennò. Dall'eccitazione dei sensi ricondotto al passato, sguazzò nel ricordo delle antiche cloache.
S'alzò e, non senza nostalgia, aprì una scatoletta d'argento dorato dal coperchio cosparso di venturine.
Era piena di confetti viola; ne prese uno, lo palpeggiò fra le dita, la mente alle strane virtù di quella chicca candita, come brinata di zucchero.
Un tempo, quando già l'impotenza s'era dichiarata, e che pure il suo pensiero senza amarezze, senza rimpianti, senza nuovi desideri, tornava alla donna, si metteva sulla lingua uno di quei confetti, lasciandovelo fondere; e subito sorgevano in lui, infinitamente soavi, ricordi sbiaditissimi, languidissimi delle antiche lascivie.
Quei confetti ideati da Siraudin e che andavano sotto il ridicolo nome di “Perle dei Pirenei”, contenevano una goccia di profumo di sarcanto, una goccia d'essenza femminile cristallizzata in una briciola di zucchero; penetravano le papille gustative, evocavano rimembranze d'acqua annebbiata da rari aceti, rimembranze di baci intimissimi, tutti impregnati di odori.
Di solito egli sorrideva aspirando quell'aroma di amore, quell'accenno di carezze che gli metteva un po' di nudità nella fantasia e rianimava per un attimo il sapore, che non è molto adorava, di certe donne.
Questa volta il loro effetto non fu più così discreto; non ravvivò più solo l'immagine di dissolutezze lontane e confuse. Lacerò i veli, gli mise sott'occhio la realtà corporea, urgente e brutale.
In testa alla sfilata delle amanti di cui il confetto lo aiutava a ravvivare i tratti con nettezza, una si arrestò.
Mostrava una forte dentatura smagliante, pelle rosea dappertutto, serica, naso tagliato obliquo, occhi di sorcio, capelli biondi tagliati corti, a ricciolini.
Era Miss Urania; un'americana dal corpo snello e ben fatto, le gambe nervose, una muscolatura d'acciaio delle braccia di ghisa.
Era stata una delle acrobate più in vista del circo.
Des Esseintes per sere e sere l'aveva osservata nei suoi esercizi; sin dalla prima volta, gli era apparsa quale era veramente, una solida bellezza; ma non aveva provato alcun desiderio d'avvicinarla. Urania non aveva nulla che la segnalasse alle voglie di un disappetente come lui.
Ciò non tolse che tornasse a vederla; attirato al Circo non sapeva da che, spinto da un sentimento che non avrebbe saputo definire.
Ed ecco, a forza di studiarla, strambe idee germogliargli in capo. Più ammirava l'elasticità e la forza di quel corpo, più notava prodursi in esso una illusoria inversione di sesso; la grazia delle moine, i vezzi e le civetterie della femmina si eclissavano ogni volta di più, mentre ogni volta più s'accentuavano le attrattive d'agilità e di forza di un maschio. In breve dopo essere stata da principio donna, dopo aver esitato e rasentato quindi l'androgino, pareva ora precisarsi, decidersi per l'altro sesso, convertirsi completamente in maschio.
“Allora” si disse Des Esseintes, “allo stesso modo che un giovanottone s'innamora di una ragazzina esile, questa saltimbanca sarà per istinto portata a amare un essere debole, arreso, senza fiato come me.”
A forza di esaminarsi, di confrontarsi, finì per avere l'impressione che a sua volta lui s'infemminisse. Bastò perché ambisse di possedere quella donna; non altrimenti della fanciulla clorotica che sospira dietro il massiccio ercole che in un amplesso la potrebbe stritolare.
Questo scambio di sesso fra Miss Urania e lui lo aveva esaltato: “Siamo fatti un per l'altro” giurava. All'improvvisa ammirazione per la forza bruta fino allora detestata, venne infine ad aggiungersi l'irresistibile attrattiva del fango, della bassa prostituzione, felice di pagar care le grossolane carezze d'un bulo.
Nell'attesa di decidersi a fare dell'acrobata la sua amante, Des Esseintes cercava conferma alle sue fantasticherie mettendo sulle ignare labbra di lei cose che pensava; sforzandosi di leggere il suo stesso desiderio nel sorriso professionale dell'istriona che volteggiava sul trapezio.
Una sera finalmente si risolse a affidare alle maschere una parola per lei.
Miss Urania giudicò necessario non cedere senza il preliminare di un po' di corte; tuttavia non si difese granché, sapendo, per sentito dire, che Des Esseintes era ricco e che il suo nome era un'ottima raccomandazione per le donne che vogliono far carriera.
Senonché appena i suoi voti furono esauditi, Des Esseintes si trovò deluso, al di là d'ogni credere. S'era figurato l'americana stupida e bestiale come un lottatore di piazza; e disgraziatamente la sua stupidità era tutta femminile. Mancava sì di educazione e di tatto: non aveva né buon senso né spirito; e a tavola dava prova di un appetito animalesco. Ma restava intatta in lei l'infantilità donnesca dei sentimenti; aveva la parlantina e tutta la civetteria delle ragazze che hanno la testa piena di fanfaluche; se il corpo aveva qualche cosa di virile, nulla di tale si riscontrava nelle idee.
Aggiungi che a letto mostrava un ritegno puritano: nessuna mai di quelle brutalità d'atleta che egli, pur temendole, s'augurava; né era affatto, come per un momento egli aveva sperato, soggetta agli sconcerti del suo sesso.
Eppure, se avesse ben sondato il vuoto delle aspirazioni erotiche di quella donna, forse Des Esseintes vi avrebbe scorto dell'inclinazione verso un essere delicato e gracile, verso un temperamento opposto al suo; ma allora avrebbe scoperto che quella preferenza non andava già ad una ragazzetta ma ad un giovanottello mingherlino e mattachione, ad un lepido e magro pagliaccio.
Cosicché, Des Esseintes dovette per forza rientrare nella sua parte d'uomo, per un momento dimenticata: la femminilità, la debolezza che si era attribuito, il bisogno di accattare protezione, la stessa paura, sparirono; l'illusione non era più possibile: miss Urania era un'amante come qualunque altra; non giustificava in nessun modo la curiosità cerebrale che aveva suscitato.
Sebbene il fascino di quella freschezza fisica, di quella prepotente bellezza, avesse da principio incantato e trattenuto Des Esseintes, egli cercò subito di sottrarsi da quel legame e ne precipitò la rottura; la sua precoce impotenza non faceva che aggravarsi davanti alle glaciali carezze, alla ritrosa indolenza di quella donna.
Eppure ecco che era lei la prima su cui il suo ricordo s'indugiava nel rievocare le trascorse lussurie; ma in fondo se quella donna gli si era stampata nel ricordo più profondamente di tante altre, di vezzi meno deludenti e che gli avevano dato ben più intensi piaceri, ciò nasceva dal fatto che al suo fianco Des Esseintes aveva respirato un sentore d'animale sano e florido, un traboccare di salute che era proprio il contrario di questa sua povertà di sangue, mascherata di profumi, di cui riconosceva il delicato tanfo di muffito nel confetto di Siraudin.
Come un'antitesi olfattiva, miss Urania s'imponeva fatalmente al suo ricordo; ma quasi subito, urtato dall'imprevisto di quel sentore crudamente naturale, Des Esseintes ritornava ad effluvi più civili e correva col pensiero all'altre amanti: esse in frotta si pigiavano alla sua memoria, ma su tutte ora s'ergeva quella che per la sua mostruosità l'aveva per mesi e mesi così a fondo appagato.
Era questa una piccola bruna; magra, nera di occhi, dai capelli impomatati così aderenti che parevano inverniciarle il capo, divisi ad una tempia da una scriminatura maschile. L'aveva conosciuta in un caffè concerto dove si produceva come ventriloqua.
Tra lo stupore di un pubblico che la sua bravura metteva a disagio, faceva parlare uno alla volta dei ragazzi di cartone disposti a canne di organo su delle sedie; conversava con fantocci che parevano vivi; s'udivano nella sala ronzare le mosche intorno ai lampadari e il brusio di un pubblico ammutolito, stupito di trovarsi lì, e che d'istinto si tirava indietro nei sedili quando lo rasentava il rotolare d'immaginarie carrozze che parevano attraversare il teatro dall'ingresso al palcoscenico.
Des Esseintes era rimasto affascinato; mille idee gli germogliarono in capo. S'affrettò per prima cosa a far capitolare, a biglietti di banca, la donna che, rappresentando il tipo opposto dell'americana, gli piacque.
Quella brunetta che s'impregnava di profumi malsani e stordenti, era come temperamento un vulcano in eruzione. Des Esseintes ebbe bello barare al gioco; in poche ore si ridusse un cencio. Ma continuò lo stesso a lasciarsi compiacentemente demolire da lei, perché, più dell'amante, era il fenomeno che lo attirava.
Nel frattempo i progetti che la donna aveva fatto nascere s'erano maturati; e un bel giorno Des Esseintes si decise ad esaudire fantasie vagheggiate sin allora inutilmente.
Fece recare una sera una piccola Sfinge in marmo nero: accovacciata nella posa classica, le zampe allungate, la testa rigida eretta; ed una Chimera di terracotta policroma che inalberava una criniera arruffata, dardeggiava sguardi feroci, con le volute della coda si sferzava i fianchi gonfi come mantici di forgia.
Collocò i due mostri ad un capo della stanza; spense le lampade in modo che solo la brace del camino diradasse il buio. Al rossastro barlume gli oggetti nell'ombra grandeggiavano. S'allungò quindi su un divano a fianco della donna, immobile, accesa in viso dal riflesso d'un tizzone.
Con strane modulazioni di voce ch'egli le aveva a lungo pazientemente appreso, le labbra chiuse, lo sguardo altrove, la ventriloqua animò i due mostri. E nel silenzio notturno il meraviglioso dialogo ebbe inizio tra la Chimera e la Sfinge, pronunciato da voci fonde e gutturali, prima roche poi acute che non avevano quasi nulla di umano.
“Arréstati, Chimera.”
“No. Giammai.”
Cullato dalla splendida prosa di Flaubert, l'uomo ascoltava fremente il terribile duetto; e brividi lo corsero dalla nuca ai calcagni quando la Chimera proferì la solenne magica frase:
“Nuovi profumi cerco, fiori più vasti, piaceri mai provati.”
Ah era di lui che come in un incantesimo parlava l'arcana voce; era di lui la febbre d'ignoto di cui diceva; suo l'ideale inappagato, il bisogno di sottrarsi alla spaventosa realtà dell'esistenza, di varcare i limiti imposti al pensiero, d'andar tentoni senza approdar mai ad una certezza, nelle nebbie che s'estendono negli al di là dell'arte!
Tutta l'inutilità dei suoi conati gli strizzò il cuore. Timido si strinse alla donna taciturna, rifugiandosi come un bambino contro di lei, senza neanche avvertire l'aria annoiata della commediante, costretta a rappresentare una parte, a continuare il suo mestiere anche in casa propria, in ore di riposo, lontano dalla ribalta.
La relazione seguitò. Ma presto l'impotenza di lui s'aggravò: l'eccitazione cerebrale non bastò più a fondere il gelo dei sensi; i nervi non obbedivano più alla volontà. Cadde in balia d'una demenza erotica senile.
Vedendosi ogni volta più irresoluto presso l'amante, ricorse all'afrodisiaco più efficace in queste congiunture, alla paura.
Mentre abbracciava la donna, una voce avvinazzata scoppiava di dietro all'uscio:
“M'apri sì o no? Che forse non lo so che sei con un merlo! Aspetta, aspetta me, ora, baldracca!”
Lì per lì, come i viziosi che eccita il timore d'esser colti sul fatto mentre si sfogano all'aperto, su una proda, in giardini pubblici, in un vespasiano o su una panchina, Des Esseintes recuperava per un attimo le forze, si precipitava sulla ventriloqua, la cui voce continuava il chiasso di là dell'uscio; ed in quel corpo a corpo, in quel panico d'uomo minacciato, interrotto nella sua oscenità, incitato a spicciarsi, provava godimenti inauditi.
Disgraziatamente quelle sedute durarono poco; sebbene compensata con straordinaria larghezza delle sue prestazioni, la ventriloqua finì per metterlo alla porta; e la sera si diede ad un giovanottone d'esigenze meno complicate e di reni più solide.
Come Des Esseintes l'aveva rimpianta! Al ricordo delle sue arti, divenne insipida ogni altra donna. Persino i corrotti vezzi dell'infanzia perdettero sapore: con tale disgusto subiva quelle smorfiette sempre eguali da non sentirsi più il coraggio d'affrontarle.
Un giorno che passeggiava solo sul viale Latour-Maubourg rimasticando fra di sé la sua nausea, fu avvicinato nei pressi degli Invalidi da un adolescente che lo pregò d'insegnargli la via più corta per recarsi in Rue de Babylone.
Des Esseintes gliela indicò; e, siccome era diretto anche lui da quelle parti, fecero insieme un tratto di strada.
“Allora” insisteva colui camminandogli a fianco “allora lei crede che se prendessi a sinistra la farei più lunga. Eppure m'avevano detto che tagliando pel viale scorcerei.”
La sua voce era supplichevole, timida; sommessa insieme e carezzevole. Sorpreso da quella insistenza, Des Esseintes lo guardò meglio.
Pareva scappato di collegio; indossava una giacchetta strimenzita di lana scozzese che, oltrepassando di poco le reni, gli modellava le anche ed i calzoni aderenti; il colletto rovesciato s'apriva su una cravatta a sboffo, d'un blu chiaro a vermicelli bianchi, di foggia La Vallière. Aveva in mano un libro di scuola, rilegato in cartone, ed in capo una bombetta scura a falde piatte.
Il viso era inquietante; pallido e tirato, abbastanza regolare, incorniciato da lunghi capelli neri, lo illuminavano dei grandi occhi umidi cerchiati, vicini al naso punteggiato di rossori; sotto cui si schiudeva una bocca piccola, ma di labbra carnose, segnate in mezzo da un solco come ciliegie.
Si fissarono in faccia un minuto; sotto lo sguardo dell'altro, l'adolescente abbassò gli occhi e gli si fece più presso. Presto il suo braccio sfiorò quello dell'uomo, che rallentò il passo e prese ad osservare pensoso l'andatura dondolante dell'altro.
E dal casuale incontro era nata una diffidente amicizia che si protrasse per mesi.
Des Esseintes ancora adesso non poteva pensarci senza fremere, mai egli aveva subìto un più attirante e dispotico ascendente; mai aveva conosciuto rischi come quelli; mai s'era sentito più dolorosamente appagato. Dei ricordi erotici che lo assediavano nella solitudine questo era il più pungente. Per esso tutto il lievito di perversità che può in sé contenere un cervello sovreccitato dalla nevrosi, fermentava; e per crogiolarsi in quei ricordi, in quella dilettazione morosa come i teologi chiamano questo rimuginare vecchi obbrobri, egli mescolava alla rievocazione fisica ardori mistici, ravvivati dall'antica lettura dei casisti, dei Busembaum e dei Diana, dei Liguori e dei Sanchez, dov'essi trattano dei peccati contro il sesto ed il nono Comandamento.
La religione facendo nascere in quell'anima che essa aveva cresciuto e predisposta forse da un'eredità che datava dal regno di Enrico III, un ideale trascendente, v'aveva pure fatto fermentare l'illecito ideale della voluttà; ossessioni libertine e mistiche che confondendosi insieme, gli assediavano il cervello assetato d'una perenne brama di fuggire alla volgarità, di perdersi, lontano dalle consuetudini consacrate, in estasi nuove, in crisi celesti o maledette, del pari spossanti per la dispersione di fosforo che portano seco.
Ora egli usciva da quelle fantasticherie annientato, spezzato, quasi boccheggiante; ed accendeva lampade e candele, s'inondava di luce, nella speranza di percepire così meno distintamente che al buio, il batter sordo, persistente, intollerabile delle arterie che gli pulsavano frenetiche sotto la pelle del collo.