FRANCESCO TENTORI

LE CORBUSIER


I CINQUE PUNTI DELL'URBANISTICA

Pur non avendoli mai scritti personalmente, si possono però ricavare dalle sue teorie anche i cinque punti dell'urbanistica:

1. Il concetto di autonomia dell'abitazione dalla strada, per la diversità delle loro funzioni: la prima, destinata all'abitare, e quindi concepita alla scala dell'uomo; la seconda destinata alla circolazione e quindi progettata alla scala dinamica dell'automobile;
2. L'idea di centro direzionale, concepito come nucleo della struttura urbana esclusivamente dedicata alle attività terziarie [le attività produttive dell'uomo si sogliono dividere in: primarie, e cioè agricoltura, caccia e pesca; secondarie, industria; terziarie, tutto il resto, dalle professioni liberali al commercio, dall'impiego ai servizi], e progettato con gli edifici molto alti che pur consentendo un altissimo grado di concentrazione si distribuiscono secondo un notevole diradamento dei volumi;
3. La circolazione dell'automobile, distinta da quella pedonale, è svolta a cinque metri dal suolo che attrezzato con giardini, campi di gioco e così via è lasciato alla libera circolazione dei pedoni;
4. Il prolungamento degli edifici residenziali proprio in questo terreno sgomberato dalle automobili e ricco di attrezzature di servizio; 5 La distinzione anche di forma fra la struttura edilizia residenziale fatta di edifici a nastro su pilotis, con pareti interamente vetrate, e posti in linee parallele a grandi rientranze e sporgenze e gli edifici a carattere direzionale a forma di torre, che hanno finalmente trovato la loro configurazione definitiva nel grattacielo cartesiano" (Giuseppe Samonà: "Le Corbusier architetto e teorico dell'architettura" su Belfagor, novembre 1963).

A dire il vero, i punti dell'urbanistica di Le Corbusier sono ben 95: discussi ed elaborati nei vari Congressi Internazionali di Architettura Moderna, soprattutto ad Atene, nel 1933, essi giungono alla stesura definitiva nel 1942, durante l'ozio forzato cui la guerra e l'occupazione tedesca lo costringono. E la famosa Carta d'Atene, tradotta e conosciuta ormai in tutte le lingue della terra: suddivisa in Osservazioni generali la città e la sua regione (punti da 1 a 8); Stato critico attuale delle città 1. abitazione (da 9 a 29), 2. tempo libero (da 30 a 40), 3. lavoro (da 41 a 50), 4. circolazione (da 51 a 64), 5. patrimonio storico (da 65 a 70); Conclusioni e punti dottrinali (da 71 a 95).

AMERICA, AFRICA, EUROPA: PROGETTI E RIFIUTI

Torniamo a Le Corbusier urbanista e applicatore delle sue teorie nei progetti di città: non solo Parigi stimola la sua fantasia, ma qualsiasi città dove si trovi a passare, a soggiornare: certe volte si tratta di progetti compiuti, lungamente meditati ed elaborati; altre, si tratta di un semplice schizzo, buttato giù durante una conferenza, oppure viaggiando sulla nave, in aereo, in treno. Abbiamo già detto, ripetutamente, che gli elementi cui fa ricorso per comporre questi piani sono sempre i suoi edifici tipo, che si alternano in numero ridottissimo. Bisogna però ora aggiungere che lo spirito di queste composizioni è di volta in volta diverso, profondamente, sostanzialmente perché Le Corbusier crede che ogni città, per il luogo naturale in cui è posta e per lo sviluppo che ha avuto nei secoli, possiede una sua forma di sviluppo, originale, precipua, irripetibile. E per poco che si fermi in una città, Le Corbusier cerca di intuire quale sia questa forma, di captarla dall'ambiente circostante, di annotarla con la sua matita.


L'ARCHITETTURA NEL PAESAGGIO

Così succede durante il viaggio in America Latina nel 1929 per un ciclo di conferenze, di cui abbiamo già riportato la più famosa: a Buenos Aires immagina una grande piattaforma artificiale, che si protende nello sterminato estuario del Paranà, legato alla terra ferma alla città esistente da un 'sottile istmo. Sulla piattaforma sorgeranno i grattacieli della nuova city. Le Corbusier se li immagina di notte, brillanti e riflettentisi nelle acque della baia. Annota questa vivida immagine su un piccolo foglietto ripartendo con la nave. Incaricato nel 1938 dal governo argentino di un vero e proprio piano regolatore della capitale, quel foglietto si trasforma negli elaborati grafici perfetti e complessi del piano: ma conservando inalterata quell'immagine grandiosa, avuta una notte di dieci anni prima.
Lo stesso succede per Rio: la natura tropicale della famosa baia, con le sue isole, le insenature, le tonde e verdi montagne, entusiasmano Le Corbusier. È folle, pensa il Maestro, che la gente, a milioni, che vive in questo luogo stupendo, non debba mai vederlo dalle sue case, dai posti in cui lavora, addensandosi invece nella solita giungla di asfalto e cemento, continuando a espandere la città sempre più all'interno, sempre più remota dalla baia meravigliosa. C'è poi il problema del traffico di questa immensa città: ancora più congestionato di sempre, per via proprio dei dislivelli continui, delle colline, delle montagne. E Le Corbusier si ricorda gli acquedotti romani, di Francia e di Spagna: diritte, aeree linee che attraversano uno scenario naturale senza curarsi di rilievi, dislivelli, montagne: dove manca il terreno un'opera umana sorregge l'acquedotto; spesso quel manufatto serve anche da strada... Nasce il piano di Rio: enormi viadotti attraversano quello stupendo paesaggio, lo completano con l'armonia artificiale di una grandiosa costruzione umana. I viadotti sorreggono le strade, perfettamente orizzontali, sempre allo stesso livello. Sotto le strade, come ha detto nella conferenza, stanno i parcheggi, ancor più sotto, le case e gli uffici degli uomini: dove la quota del terreno naturale scende molto rispetto alla strada, si tratta di veri e propri grattacieli, disposti in fascia continua. Ogni uomo, anche il più povero, vive nel sole, al cospetto dello straordinario paesaggio; la segregazione nei tuguri, pur di poter vivere in città, è finita. Anche a Rio, tornando nel '36 per il progetto della 'nuova città universitaria, Le Corbusier torna a quell'intuizione del '29, ma forte, ora, di tutti i progetti che, a partire dal '30, ha sviluppato per Algeri, altra città costiera e dal rilievo molto accidentato.


RICREARE ALGERI

Dopo Parigi, Algeri è la città che Le Corbusier ha più a lungo e più appassionatamente studiato: dal 1930 e fino alla proposta di piano regolatore generale del 1942. Egli spera che il continente africano, la cui civilizzazione urbana è recentissima e non stratificata per secoli di consuetudine, di tradizione, come in Europa, sia più disposto ad accogliere le sue idee rivoluzionarie. Specie il piano studiato dal '31 al '34 resta tra i suoi massimi capolavori: sul mare, in località Marina, egli immagina la nuova città degli affari, contenuta interamente in due enormi edifici, paralleli alla costa. Dalla sommità di questa città degli affari una passerella aerea per le automobili mette a contatto il centro direzionale con la nuova città residenziale che sorge oltre quella esistente, sulle scoscese colline di Forte Imperatore. Vi è poi bisogno di una grande autostrada che allacci Algeri con gli altri centri della costa, e anche questa autostrada è sospesa su un viadottocittà, una città lineare che si estende per chilometri. In questo piano vi è un disegno particolarmente suggestivo: esso mostra uno scorcio prospettico della città lineare. Dentro la grande incastellatura di cemento armato, Le Corbusier ha segnato abitazioni di ogni genere: persino qualche casa di stile moresco, per far notare come la sua architettura consenta a tutti gli uomini di farsi la propria casa come meglio credono, e su di un terreno artificiale che costa molto meno di quello naturale, oltre a consentire sempre un'esposizione perfetta e un magnifico panorama. Ma più Le Corbusier propone piani, più le autorità si ostinano nel rifiuto. Alla fine, egli si riduce a progettare un solo grattacielo d'uffici: rifiutato anche quello.
Algeri come Parigi, l'Africa come l'Europa non sono ancora pronte per i suoi piani. Le Corbusier insiste. Nel 1930 ha presentato al ClAM di Bruxelles il distillato delle sue idee: le 17 tavole de La Ville Radieuse. Nel '32 piano di Barcellona. Nel '33 piani per Stoccolma, Ginevra, Anversa. Nel '34 piano di Nemours (Africa del Nord). Nel '36 Parigi e Rio. Nel '38 Boulogne e Buenos Aires. Persino a New York, nel '36, non si è fatto pregare per fornire uno schizzo della nuova Manhattan: "Città orribile commenta ma leale". Ammira il macchinismo della civiltà americana, ma lo vede distorto da una concezione sbagliata della vita moderna. I grattacieli sono troppo piccoli, dice, e disegna un albero capovolto con le radici in aria; la sua architettura invece è come un albero rigoglioso: le radici ben piantate nel suolo, il tronco sottile e robusto (i pilotis), in alto la massa della vegetazione (gli alloggi).


COSTRUIRE O DISTRUGGERE?

Nel '38 lancia l'ultimo appello contro la guerra: un libro intitolato “Des canons, des munitions? Merci! Des logis... S.V.P.” ("dopo aver fabbricato in officina aveva scritto nel '21 tanti cannoni, aeroplani, camion, vagoni non si potrebbero fabbricare delle case? Quesito è la stato d'animo dell'epoca!"). Nel '39, mentre scoppia il conflitto, “Le lyrisme des temps nouveaux et l'urbanisme”. Nel '41 ben tre libri: “Destin de Paris”, “Sur les 4 routes”, e un suo nuovo tipo di costruzioni d'emergenza, per far fronte ai disastri della guerra, “Les constructions Murondins”. Da anni studia la costruzione leggera, prefabbricata in pannelli standard, da lui denominata MAS (Maison rnontée à sec), ma non ci sono stabilimenti, non c'è tempo per produrre neanche queste case provvisorie, e allora Le Corbusier consiglia di costruire le case costipando la terra in una cassaforma di tavole (come si fa per il cemento), di mettervi sopra un tetto di tronchi e tavole di pino; per impermeabilizzazione zolle d'erba. Nel '42 l'ultimo libro col suo nome, “La maison des hommes”; la Carta d'Atene, infatti, viene pubblicata anonima, Le Corbusier ha da tempo lasciato Parigi e dipinge sulla Costa Azzurra, in zona non occupata dai tedeschi. Ora (1943) ha fondato l'ASCORAL, associazione dei costruttori per un rinnovamento dell'architettura; come un tempo de L'Esprit Nouveau, ne è il principale, assoluto promotore.
Può ritornare a Parigi, l'ASCORAL raggruppa "undici sezioni e sottosezioni ... da quattro a dieci persone, appartenenti a tutte le discipline e di tutte le età. Ogni sezione si riunisce due volte al mese. L-C. presiede così 22 comitati al mese, per un anno... Le riunioni avevano luogo a Parigi in posti diversi, e particolarmente nello studio di Rue de Sèvres 35, che era stato saccheggiato e abbandonato alla polvere...".
Riprendono i libri: 1943 “Entretien”, 1944 “Les trois établissements humains”, libro rivoluzionario in cui si precisa la concezione delle città lineari industriali. In uno schizzo, Le Corbusier disegna la pianta d'Europa, con questi nastri di vita, di produzione, di lavoro che coprono tutto il continente, riunificano i paesi in lotta, simboleggiano il gran lavoro che si può fare nella pace, nella concordia. Più che nel 1928, quando aveva disegnato per Ginevra il "Mundaneum" (città mondiale, idea piuttosto bislacca del suo amico Paul Otlet), è qui, in questi disegni, in questi pensieri che si ha modo di valutare, con deferenza e con umiltà, le idee costruttive di questo cittadino del mondo. Chiamato nel 1960 a coordinare in un unico libro divulgativo il senso della sua lunga vita e del suo copiosissimo lavoro, Le Corbusier ha voluto distinguere tre ventenni: 1900-1919, il ventennio della formazione a contatto con la realtà, con le più impensate realtà; 1920-1939, cioè da L'Esprit Nouveau alla seconda guerra mondiale; 1940-1960, il ventennio, si può ben dire, del riconoscimento e delle più grandi realizzazioni.


LE BATTAGLIE VINTE

Fin qui abbiamo insistito sui rifiuti continui che il mondo ha posto a Le Corbusier. È doveroso riconoscere anche i molti riconoscimenti, onorificenze, entusiasmi, suscitati da Le Corbusier nel mondo intero. Tuttavia si tratta del successo indiretto, cui si accennava all'inizio. Le sue idee si affermano, ma nei libri, tradotti in tutte le lingue, e nella mente di centinaia di uomini, di discepoli diretti o indiretti. Ma questi sono sempre una sparuta minoranza, senza potere decisionale. Per le molte costruzioni eseguite, le moltissime, le più grandi sono state respinte; è questa la brutale realtà fuori dagli onori inutili e di cui Le Corbusier ha sempre fatto ben poco conto ("LC. è, senza suo desiderio, membro delle accademie di tutto il mondo commenta ne “La mia opera” - dove si è nominati senza essere consultati". L'accademia di Belle Arti francese, invece, lo consulta. E lui rifiuta).
Alla fine della guerra, Le Corbusier ha quasi sessant'anni: un'età da pensione, ma si getta a cuor leggero verso nuove avventure, nuove disillusioni (particolarmente cocente quella per la sede dell'ONU a New York, 1946: proposta accettata, Le Corbusier cacciato) e finalmente le grandi affermazioni della sua urbanistica e della sua architettura.
Nel 1945 si è messo a studiare i piani per la ricostruzione di Saint Dié, nel '45-46 quelli per Saint Gaudens e per la Rochelle La Palisse.
Abbandonato anche il grattacilo "cartesiano", ora i sostantivi principali delle sue composizioni sono dei "grattacieli orizzontali", volumi cioè perfettamente parallelepipedi e sempre molto alti, ma nei quali la lunghezza supera di molto l'altezza. Come sempre, l'idea non è del tutto nuova: Le Corbusier li ha già usati nel piano "Parigi '37" per il "lotto insalubre n. 6", progetto che rappresenta, appunto la fase intermedia tra la primitiva concezione, a "greca" continua, e questi progetti del secondo dopoguerra.
Dai progetti per le tre città consegue, secondo il solito, un nulla di fatto; ma l'idea è buona e Le Corbusier continua a studiarla per la prima occasione, che si presenta infatti quasi subito: a Marsiglia. Egli riceve dal Ministero della Ricostruzione l'incarico di studiare a fondo una "Unità d'Abitazione di grandezza standard" (per 1600, poi 2000 abitanti), e forse per la prima volta in un progetto così vasto l'incarico gli viene riconfermato per la realizzazione (1946). La casa transatlantico, autonoma, autosufficiente per tutti i servizi comuni di prima necessità (negozi alimentari, ristorante, lavanderia, asilo, posta e telegrafo, ecc.), vede finalmente la luce. I mezzi a disposizione non consentono ancora una prefabbricazione totale, e pertanto la casa sarà formata da una grande ossatura di cemento armato, colata nelle casseforme coi metodi usuali, ma dentro questa gabbia si potranno finalmente inserire degli alloggi interamente prefabbricati: pavimenti, pareti, finestre, soffitto, arredamento e servizi. E comunque la prima fase, dietro cui Le Corbusier già anticipa lo sviluppo ulteriore. Una foto del modellino ci fa vedere una mano che infila, nell'ossatura portante dell'edificio, un intero alloggio, così come si può infilare il cassettino di un mobile. È tanto nuova e rivoluzionaria tutta la concezione, ed è così impreparata, immatura l'industria edilizia, che la costruzione va un po' per le lunghe: dal 14 ottobre 1947 al 14 ottobre 1952. Ma presentandola, il giorno dell'inaugurazione, a Claudius Petit, ministro per la Ricostruzione e l'Urbanistica francese, Le Corbusier dice:

"Ho l'onore, la gioia, la fierezza di consegnarvi "l'Unità d'abitazione di grandezza standard". Prima manifestazione oggi di una forma di abitazione veramente moderna... Ringrazio io Stato francese per aver provocato questa esperienza… eretta senza regolamenti, contro i disastrosi regolamenti attuali. Fatta per gli uomini, fatta a scala umana. Fatta anche nella robustezza delle tecniche moderne, e manifestazione dello splendore nuovo del cemento grezzo. Fatta, infine, per mettere le sensazionali risorse dell'epoca al servizio del focolare questa cellula fondamentale della società".

1952: i trent'anni dalla città per tre milioni d'abitanti sono puntualmente scaduti.
Ha progettato intanto un'altra unità per il concorso della CECA a Strasburgo, ne realizza una nuova a Nantes, un'altra a Berlino, altre stanno sorgendo in Francia ancor oggi: "Oggi sta per essere ultimata la quarta Unità scrive Le Corbusier nel '60 - ... a BrieyenForêt. A Meux sorgeranno cinque nuove Unità collegate, che beneficieranno di eccezionali sistemi d'industrializzazione. La decima Unità dominerà la città di Firminy (di cui è sindaco Claudius Petit) in aperta campagna...".


OLTRE IL PURISMO

A Marsiglia ci sono tutti i princìpi di Le Corbusier: dai pilotis alle strade interne, dall'alloggio su due piani e con il soggiorno a doppia altezza alla loggiagiardino privata, dal brise-soleil al tettogiardino. È anche la esemplare applicazione del nuovo principio modulare inventato da Le Corbusier, il Modulor (basato su una misura fondamentale: m 2,26, ossia un uomo con il braccio alzato). Ma insieme a questa dimostrazione di razionalità, l'Unità di Marsiglia esprime anche le insospettate riserve poetiche dell'anziano Maestro. Se la paragoniamo per un momento al Padiglione Svizzero di vent'anni prima altro capolavoro dei "cinque punti" possiamo capire quanto totale sia il rinnovamento. I pilotis sono diventati quasi una scultura, potente e armoniosa come quella del Partenone. Le facciate si arricchiscono di un chiaroscuro profondo, e di colori puri, brillanti che si sposano con quello del cemento grezzo. I volumi tecnici, la scala di sicurezza, il camino, sono altre, straordinarie scultüre, sempre in cemento armato.
D'ora in avanti le architetture di Le Corbusier saranno una continua dimostrazione di questa sua nuova esuberanza plastica, così diversa dal purismo, essenziale ma freddo, degli anni lontani. Viceversa, tornano ad emergere più antiche e remote predilezioni: gli interessi da cui era partito quando, nel 1907, aveva cominciato i suoi viaggi tra l'architettura antica. Mezzo secolo, da quando riempiva i suoi taccuini di annotazioni plastiche, cromatiche, spaziali: sul Bosforo e a Costantinopoli, ad Atene e a Pompei, nei conventi bizantini del monte Athos, nelle certose di Toscana, tra i merletti di pietra di Venezia e di Pisa, ai cospetto dei monumenti antichi e rinascimentali di Roma. Ora quei tesori di sapienza plastica, quell'enorme energia accumulata e rimasta segreta nel suo spirito di architetto, ritorna improvvisamente alla luce, e nutre le sue creazioni, più che mai giovani, nuove, vitali. Le Corbusier ha dedicato la sua vita a ricercare le leggi per la cellula d'abitazione dell'uomo: "L'origine di queste ricerche, per mio conto, risale alla visita della Certosa d'Ema, nei dintorni di Firenze, nel 1907. Io vidi, in quel musicale paesaggio toscano, una città moderna che coronava la collina. Era il profilo più nobile del paesaggio, quella corona minterrotta di cellule dei monaci: ciascuna con la sua vista sulla pianura e, per contrasto, ciascuna aperta su un giardinetto interamente chiuso. Io penso di non poter mai più incontrare un'altra e così gioiosa interpretazione dell'abitazione. Il retro di ciascuna si apre su una strada.., coperta da un portico: il chiostro, per collegarsi ai servizi comuni: la preghiera, le visite, la mensa, i funerali. Questa "città moderna" è del quindicesimo secolo. La sua visione radiosa mi è rimasta, dentro, per sempre" (ancora a Buenos Aires, 1929).
Proprio il religioso spirito della vita che è in queste parole, gli dà modo di esprimere con tanta fede la sua cellula per l'uomo, adatta al ventesimo secolo. Ma è chiaro che questo spirito religioso dell'artista può esprimersi in ben altre creazioni. Finalmente anche le autorità chiesastiche cominciano a dar fiducia a questo eretico: un monaco gli commette lo studio per un santuario in caverna (1948), insieme con tutti i servizi e gli alloggi necessari ad una comunità di pellegrini. Nel '50 gli si affida la ricostruzione di Notre Dame di Ronchamp, capolavoro universalmente noto. Poi i monaci di Evreux sur Arbresle gli fanno costruire il loro convento di La Tourette, e si tratta di un nuovo capolavoro.
Ma nel '50 è cominciata un'altra, grandissima avventura.


AI PIEDI DELL'HIMALAYA

Una nuova nazione, di un paese antichissimo ma solo da poco affiorato alla coscienza, all'organizzazione della vita contemporanea, ha bisogno della nuova capitale. Spedisce in Europa una delegazione, che fa sosta in Rue de Sèvres, poi si reca in visita nel Belgio, in Olanda, Germania e Inghilterra. Ritorna infine da Le Corbusier e gli affida la guida di un gruppo di progettazione di cui fanno parte Pierre Jeanneret, con Maxwell Fry e Jane Drew, architetti inglesi.
Quello che Le Corbusier aveva offerto inutilmente all'Europa, all'America, all'Africa, alla Russia sovietica, viene accolto da un paese asiatico: il Punjab. Il nuovo Stato ha bisogno dell'opera di Le Corbusier in tutta la sua estensione, nella scala di intervento che egli ha sempre sognato. Ha bisogno di una capitale, Chandigarh, per 500 mila persone, e per tutti gli uffici e le sedi governative. Chandigarh è -nel febbraio '51, quando Le Corbusier si reca per la prima volta sul posto - un maestoso altipiano assolutamente deserto, al cospetto dei giganti nevosi dell'Himalaya, circondato dal greto di due grandi fiumi, che però hanno acqua solo due mesi all’anno.
Non è una città d'affari, non la città del dio denaro; si tratta della capitale politica di un nuovo Stato, non ricco: ma che proprio per questo vuole erigere la città, simbolo di fiducia nell'avvenire, e vuole profondervi le migliori energie.
Dunque niente grattacieli d'uffici: fa invece la sua comparsa, su un rilievo che domina la nuova città, la vasta platea dei Campidoglio, con tutti i più importanti edifici dello Stato: Parlamento, Alta Corte di Giustizia, il Palazzo dei Ministeri (Segretariato) e il Palazzo del Governatore. Insieme a questi edifici, simboli dello Stato, Le Corbusier impone un monumento: una mano aperta verso il cielo, infissa su un perno verticale ruotabile, realizzata in lamiera metallica dipinta di smalto arancione, bianco e verde. Ma oltre al Campidoglio si fanno le strade, le case, si piantano gli alberi. Tutta la città nasce nel rispetto delle regole urbanistiche di Le Corbusier: principale quella della rigorosa divisione di tutte le funzioni urbane, a partire dalla circolazione (la distinzione tra traffico pedonale e meccanizzato, e tra i vari tipi di traffico meccanizzato è da poco maturata nella regola delle 7 V, ossia sette velocità, sette tipi di strade, per altrettanti di traffico).
Scrivono, concordi, i critici di tutto il mondo: "Il Campidoglio di Chandigarh rappresenta il vertice delle creazioni di Le Corbusier, come sintesi figurativa di architettura e di urbanistica", e della sua arte plastica, della sua pittura, potremmo aggiungere. Un capolavoro non rimasto sulla carta ma, finalmente, compiuto.

IL LAVORO CONTINUA

Le commissioni gli arrivano ora dai punti più diversi della terra: Tokio (un museo), Boston (un istituto d'arte). Anche gli industriali, finalmente, lo scoprono: dalla Renault per cui sta studiando alloggi di grande serie da montare come automobili, alla Olivetti per cui progetta il reparto più nuovo e rivoluzionario: la sezione elettronica.
Nel 1963, l'amministrazione ospedaliera di Venezia lo avvicina per aflidargli la progettazione del nuovo ospedale per acuti, a San Giobbe. Il maestro è incerto ("i medici mi dicono di lavorare poco, mi consigliano di dedicarmi solo alla pittura"), ma poi si decide e inizia il progetto.
Curiosamente, Le Corbusier non aveva mai progettato, in precedenza, ospedali; fedele forse alla sua abitudine di applicarsi, sempre, soltanto su pochissimi progetti-tipo e sviluppandoli puntigliosamente, per anni. Stavolta ha dovuto bruciare le tappe: meno di due anni di lavoro. L'11 aprile 1965 presenta a Venezia alla stampa di tutto il mondo la nuova creatura.
Una volta tanto, la concezione su cui si basa il funzionamento dell'ospedale non è dettata solo da considerazioni esclusivamente razionali: essa è filtrata, ispirata anche dal grande amore del Maestro per la città lagunare, dalla sua conoscenza profonda di Venezia, maturata in anni di visite e di lunghi soggiorni (nel '34, su La Ville Radieuse, ha dichiarato: per le mie leggi sulla separazione del traffico "je prends Venise a témoin").
E così questo suo ultimo progetto è, insieme, il progettotipo rivoluzionario per un ospedale integralmente nuovo (basato sul più profondo rispetto per l'uomo ammalato; ed ogni malato, senza distinzione sociale, avrà la sua camera personale la stessa per ricchi e poveri una cellula in cui guarire), ma anche la risposta a una domanda egualmente difficile: come costruire modernamente in una città-monumento unica al mondo.
Accusato più volte di insensibilità verso l'architettura dei secoli passati, accusato di cinismo e di barbarie perché voleva radere al suolo certi quartieri di Parigi (ma quartieri di tuguri socialmente e igienicamente infetti, val la pena di precisare), non ci poteva essere miglior prova di questo progetto veneziano, della infondatezza di quelle calunnie e, viceversa, del suo grandissimo amore per la città antica quando si è, come Venezia, conservata alla scala e misura dell'uomo.
Val la pena di riferire qualche particolare della conferenza stampa veneziana:

"Questa città - esordisce il Maestro - ha una grande fortuna: la mancanza di automobili. Essa sembra fatta come un esempio perfetto di applicazione della moderna teoria della circolazione. Il traffico è separato: da una parte i pedoni, liberamente; dall'altra vanno barche e motoscafi. Vi sono quindi due velocità, due sistemi di scorrimento autonomi e interdipendenti. Oltre a questo, Venezia ha un carattere straordinariamente individuale che mi piace, mi è sempre piaciuto. È una città moderna, una città fatta per l'uomo e in cui l'uomo può vivere in una dimensione che gli è prria, senza l'oppressione della civiltà delle macchine. Sono lieto di mettermi a disposizione di Venezia...

Domanda: Come vede il problema generale dell'inserimento dell'architettura moderna in un centro storico?

Risposta: Essere moderni non è una moda, è uno stato. Bisogna capire la storia: e chi capisce la storia sa trovare la continuità tra ciò che era, che è e che sarà.

D. Ha mai pensato alla possibilità di progettare il nuovo ospedale nel cuore del centro storico?

R. Non ho pensato niente, io. La città di Venezia ha adottato un criterio, ed io l'ho seguito. Ho progettato un complesso ospedaliero che può espandersi come una mano aperta: un edificio senza una facciata, nel quale si entra dal si sotto, cioè dal di dentro.

D. Come è arrivato a questa stesura del progetto?

R. Si tratta di una questione che direi animale. Quando mi viene un'idea io la rumino dentro di me come le mucche. E l'idea lavora, pian piano. Dopo qualche mese, se è una buona idea esplode. Altri architetti prendono subito la matita in mano, appena hanno l'idea. Io no... L'idea dell'ospedale veneziano l'ho covata per un certo tempo: poi, quando s'è maturata, l'ho realizzata. I risultati li vedete voi stessi" (Il Gazzettino, 12 aprile 1965).

D. Ha visto quanti disastri in Italia, in fatto di urbanistica?

R. Non ho visto niente. Perché io guardo solo il bello. Altrimenti mi tappo gli occhi.

D. È cambiata Venezia da quando vi arrivò da ragazzo?

R. Sono cambiato io...

D. Che colori userete per l'ospedale?

R. Il buon Dio ha fatto tre colori: il blu, il giallo e il rosso. E sono più che sufficienti, così come con soli dieci numeri si sale alla stratosfera della matematica, e si può fare dell'aritmtica elementare" (Il Giorno, 12 aprile 1965).

Il progetto è, allo stato attuale, ancora uno schema in corso di elaborazione, ma la ricchezza plastica, l'armonia architettonica del grande complesso sono già ben evidenti nel plastico presentato.
L'edificio è tutto portato da pilotis: l'area a disposizione era poca, e Le Corbusier ha trovato un logico pretesto per espandere l'ospedale, sospeso su palaffìtte, sopra la laguna, secondo il vecchio sogno. Le lance scaricano i malati in un apposito bacino sotto l'edificio, ed è prevista anche una galleria sotterranea per le autolettighe (San Giobbe è vicino alla testa di ponte automobilistica di piazzale Roma). A determinare, guidare, l'ordine distributivo di tutto l'edificio è l'ultimo piano, dove son poste le 1200 cellule per i malati, illuminate e ventilate dall'alto: da una serie di slarghi quadrati (dove arrivano ascensori e scale), si dipartono nelle quattro direzioni le corsie per le stanze di degenza. L'idea, dice Le Corbusier, gli è venuta proprio dai campielli veneziani, e dalle calli che da essi si diramano. Da questo piano scendono verso quelli inferiori anche delle lunghe rampe (come nella Villa Savoye a Poissy, del '29), comunicanti col piano delle sale operatorie e gli altri reparti dell'ospedale. Sempre sulla laguna, ma appartato come una specie di isoletta, l'alloggio delle suore con la cappella. Tutto l'edificio è alto meno di m 13,50. I piani sono infatti di m 2,26 da pavimento a soffitto: la mimusa del Modulor e dell'Unità di Marsiglia, che il Maestro è finalmente riuscito ad imporre contro le ottuse e ottocentesche norme dei regolamenti edilizi.


L'EREDITÀ DI LE CORBUSIER

Una illuminata amministrazione pubblica ha avuto il merito, il coraggio, per la prima volta in Italia, di far ricorso a Le Corbusier per risolvere i suoi problemi, e il Maestro ha risposto con un edificio esemplare.
Venezia - l'amministrazione civica e tutti i cittadini - potrà avere domani il coraggio, il merito di realizzare, per la prima volta al mondo, in una cornice monumentale vecchia di secoli, quest'opera straordinaria, modernissima eppure senza tempo; l'orgoglio di rivelare al mondo intero che la città della Laguna è più viva, più umana che mai. La sfida tra intelligenza e stupidità, tra progresso e reazionario conservatorismo è una volta di più aperta. La speranza è grande: che i cinquant'anni di dure lotte sostenute da Le Corbusier non siano passati invano. Questo, in rapida sintesi, il percorso di Le Corbusier nella nostra epoca. Sarà chiaro il senso in cui egli è stato uno dei più vivi protagonisti di quest'epoca, improntando della sua opera tenace, del suo lineare pensiero, della sua arte grandissima gli anni passati e, ancora di più, quelli che verranno.
Certo, il genio non è trasmissibile. Ma Le Corbusier, dal "laboratorio della ricerca paziente", come ama definire il suo studio, lascia ai suoi contemporanei, a tutti gli uomini, un'eredità, una testimonianza forse più grande della sua stessa arte, dei suoi innumerevoli capolavori: la sua costanza e la sua fiducia nell'uomo.