CARL GUSTAV JUNG

ANTOLOGIA III




Ciò che appare ai nostri tempi per lo più come "ombra" e di valore minore della psiche umana, non ha contenuti soltanto negativi. Il solo fatto che attraverso l'autoconoscenza, ossia attraverso l'esplorazione della propria anima, si scoprano gli istinti e il loro mondo d'immagini, dovrebbe gettare luce sulle forze che dormono nell'anima e di cui non ci si rende conto finché tutto va bene. Si tratta di risorse di altissimo dinamismo, e dipende soltanto dalla preparazione e posizione della coscienza se l'ingresso di tali forze e delle immagini e rappresentazioni ad esse connesse porterà a una costruzione oppure a una catastrofe. Solo il medico sa forse per sua esperienza quanto sia precaria la preparazione pschica dell'uomo moderno, perché solo lui è costretto a ricercare nella natura dell'uomo singolo quelle forze e rappresentazioni soccorrevoli che da sempre lo hanno aiutato a trovare la giusta via attraverso tenebre e pericoli. In questo lavoro, che abbisogna anzitutto di pazienza, il medico non può richiamarsi a nessun tradizionale "dovrebbe" o "sarebbe", lasciando così la fatica all'altro e contentandosi della facile parte dell'ammonitore. Sappiamo tutti a questo proposito che non valgono a nulla le prediche sulle cose che si dovrebbero fare, ma la perplessità generale di fronte a questa situazione è tanto grande e l’esigenza così dura, che si preferisce ripetere il vecchio errore piuttosto che rompersi la testa con un problema soggettivo. E poi si tratterà sempre e soltanto di un solo individuo e non di centomila che giustificherebbero meglio quella fatica, per quanto si sappia che nulla accadrà finché non muterà il singolo.
Un'azione esercitata su tutti gli individui che si vorrebbero educare non potrà rendersi manifesta neppure dopo qualche secolo, poiché la trasformazione spirituale dell'umanità si attua quasi insensibilmente, nel processo dei millenni, né vi è modo di accelerarla o rallentarla con processi razionali, a tacere della possibilità di provocarla nel corso di una sola generazione. Sta invece nelle nostre possibilità di provocare, un mutamento nei singoli, i quali avranno o si procureranno a loro volta la possibilità di influenzare, in una cerchia ristretta o più larga, coloro che la pensano in modo non dissimile. Con ciò io non penso a una opera di convincimento o di predicazione, ma accenno al dato sperimentale che ogni uomo che possiede l'intelligenza del proprio fare e ha raggiunto così l'accesso all'inconscio esercita involontariamente un'azione sul proprio ambiente. L'approfondimento e l'allargamento della coscienza genera l'effetto che i primitivi chiamano ‘mana’. Si tratta di un influsso involontario sull'inconscio degli altri, in certo senso di un prestigio inconscio, che conserva tuttavia il suo effetto soltanto finché non avviene deliberatamente. Inoltre lo sforzo verso l'autoconoscenza è fruttifero anche perché giunge qui in soccorso un fattore che è stato sinora fondamentalmente trascurato: l'inconscio spirito del tempo, che compensa la presa di posizione della coscienza e anticipa quasi per presentimento le modificazioni future.
Un chiaro esempio in queslo senso è dato dall'arte moderna, che compie sul pubblico, sotto la parvenza di un problema estetico, un lavoro di educazione psicologica, ossia la distruzione dell'idea estetica sinora vigente, del concetto del bello formale, la dissoluzione del significativo, contenutistico. Alla piacevolezza dell'immagine artistica si sostituiscono fredde astrazioni di natura estremamente soggettiva, che chiudono bruscamente la porta dinanzi alla gioia dei sensi, ingenua e romantica, col suo impegnativo amore dell'oggetto. In tal modo viene apertamente proclamato che lo spirito profetico dell'arte abbandona le sue relazioni con l'oggetto e si rivolge al caos, per ora oscuro, dei presupposti soggettivi. È vero che sinora l'arte non è stata in grado - per quanto ne possiamo giudicare - di scoprire sotto il manto dell'oscurità ciò che potrebbe unire gli uomini e dare un'espressione totale alle loro anime. Ma essendo a tal fine inevitabile la riflessione, può darsi benissimo c le queste scoperte siano riservate ad altri campi dell'esp4ienza. Sinora la grande arte ha sempre tratto ispirazione dal mito, ossia da quell'inconscio processo di simboli che procede lungo gli evi e che, quale manifestazione originaria dello spirito umano, sarà probabilmente la fonte anche di ogni creazione futura. L'evoluzione dell'arte moderna, con la sua tendenza dissolvitrice, apparentemente nichilistica, va intesa come sintomo e simbolo di un'atmosfera di tramonto e rinnovamento del mondo, caratteristica dei nostri tempi. Noi viviamo nell'attesa di un "mutamento delle forme degli dèi" ossia dei principi e simboli fondamentali. Quest'esigenza del nostro tempo, che davvero non abbiamo scelto coscientemente, è l'espressione dell'uomo interiore e inconscio che si trasforma. Di questo mutamento gravido di conseguenze dovranno rendersi conto le generazioni future, sempreché l'umanità voglia salvarsi dall'autodistruzione che la, minaccia per la potenza della sua tecnica e della sua scienza.
Come all'inizio dell'èra cristiana, si pone di nuovo il problema dell'arretratezza morale generale, che non sembra adeguata all'evoluzione moderna, scientifica, tecnica e sociale. La posta è grande e troppo dipende oggi, manifestamente, dalla struttura psicologica dell'uomo. Saprà egli resistere alla tentazione di fare uso del suo potere per mettere in scena un'apocalisse? Si rende conto della strada su cui si trova e delle conseguenze finali che dovrebbe trarre dalla situazione del mondo e della propria anima? Sa che sta perdendo il mito, conservatore di vita, dell'uomo interiore, che il cristianesimo conservò per lui? È in grado di immaginare ciò che accadrebbe se si producesse la catastrofe?
Può in genere immaginare che ciò sarebbe una catastrofe? E finalmente, l'individuo sa che è lui l'ago della bilancia?
Felicità e contentezza, equilibrio spirituale e senso della vita possono essere sperimentati soltanto dall'individuo e non dallo Stato, che, da un lato, non è che una convenzione tra individui autonomi e, dall'altro, minaccia di farsi preponderante e di soffocare l'individuo. Il medico è tra le persone che più sanno delle condizioni del benessere psichico, da cui dipende un'infinità di cose, nel processo di addizione sociale. Le condizioni temporali, sociali e politiche, hanno certo molta importanza, ma vengono smisuratamente sopravvalutate agli effetti della felicità o infelicità individuali, poiché vengono giudicate come gli unici fattori decisivi. Tutto ciò che è inteso a tal fine soffre del difetto di trascurare la psicologia dell'uomo, al quale asserisce di essere destinato, e di favorire, soltanto le sue illusioni.
Sia quindi concesso a un medico che si è occupato nel corso di una lunga vita delle cause e delle conseguenze dei disturbi psichici, di esprimere modestamente la sua opinione sui problemi che la situazione attuale del mondo pone a lui come uomo singolo. Non sono animato da eccessivo ottimismo né accesò da alti ideali, ma solo preoccupato del destino, del bene e del male di ogni uomo, di quell'unità infinitesima da cui dipende un mondo, di, quell'essere individuale in cui - se intendiamo rettamente il messaggio cristiano - Dio stesso cerca il suo scopo.

(La realtà dell'anima, cit., pp. 218-221)

 

NOTA SUPPLEMENTARE ALLA NOZIONE DI ARCHETIPO

Il 25 luglio 1954, giorno dei suo 79° compleanno, all'indomani del Congresso internazionale di psicoterapia, tenuto a Zurigo dal 20 al 24 luglio, il professor ari Gustav Jung mi invitò a partecipare al ricevimento organizzato nella sua villa di Küsnacht, posta sul lago. Il tempo era splendido e gli invitati furono ricevuti in giardino. Io ero in compagnia del professor Charles Baudouin di Ginevra. Il colloquio si svolse in francese.
Dopo che diversi temi furono proposti da Charles Baudouin, io avanzai il seguente quesito direttamente al professor Jung:
Perché le sue ultime opere segnano un netto cambiamento per quanto riguarda la descrizione degli archetipi? Precedentemente si era mantenuto strettamente e costantemente sul piano psicologico, essendo l'archetipo una reazione funzionale, mentre ora la descrizione da lei fornita è ontologica, metafisica e perfino teologica. Si è verificato qualche cambiamento nelle sue concezioni, le sue idee si sono trasformate?
Jung reagì immediatamente e con vivacità: no, le sue idee non erano cambiate, ma ciò che non poteva dire all'inizio poteva essere espresso oggi liberamente.
Perché gli psicologi e coloro a cui si rivolge fanno fatica a capire cosa sia un archetipo. Essi tendono a accostarsi al problema soltanto sotto il suo aspetto razionale e anche razionalista. In fondo l'uomo teme di imbattersi nell'archetipo, poiché si tratta di un'esperienza che sconvolge le abitudini intellettuali. Prima di poter spiegare al pubblico cosa sia veramente un archetipo, bisognerebbe preparare il terreno e restare di conseguenza sul piano puramente psicologico e soggettivo. Per Jung però l'archetipo è sempre stato qualcosa di più: non soltanto la reazione suscitata nell'uomo dall'incontro con l'irrazionale, ma proprio l'irrazionale, questo dato trascendente che sfugge totalmente al controllo della ragione. E l'uomo moderno teme proprio questo, perché ciò che lo rassicura è appunto il controllo esercitato dalla ragione sulla totalità della sua vita intellettuale e spirituale.
Jung a questo punto ci illustrò con un esempio l'intimo dramma che per tanti intellettuali contemporanei - e anche per i non intellettuali - rappresenta l'incontro con l'archetipo.
Uno dei suoi studenti, un tedesco, non riusciva a intendere il significato di archetipo, perché non riusciva ad abbandonare il piano intellettuale. Jung pensò di ricordargli le immagini semi-coscienti che sorgono quando ci si addormenta o al risveglio, e di suggerirgli di guardare nella sua immaginazione una di queste immagini, di contemplarla a lungo. L'intellettuale si prestò all'esperimento. L'immagine che sorse fu quella di una montagna, la cui parete, coperta di foreste, si ergeva davanti a lui, discendendo fino a toccare i bordi dell'acqua. Conservando tale immagine e contemplandola nuovamente, lo studente sulle prime non vide che la foresta. Riguardando però con maggiore attenzione, vi scopri un uccello, un'aquila, la cui testa era posta proprio di fronte a lui e lo guardava. Incuriosito, l'intellettuale continuò a guardare l'immagine; ed ecco che l'uccello girò la testa e fu un essere vivente. Spaventato il giovane balzò fuori dal letto e fuggi. Cos'era accaduto? Per la prima volta nella sua vita aveva preso coscienza del fatto che certi dati della vita spirituale sfuggono totalmente al controllo della ragione e della volontà.
E Jung aggiunse "In seguito quest'uomo divenne nazista, e fu l'unico a divenirlo tra i miei discepoli".

 

LO SPIRITO DELLA PSICOLOGIA

L'inconscio in una prospettiva storica

Forse con maggior chiarezza che qualunque altra scienza, la psicologia dimostra la transizione spirituale dall'epoca classica alla moderna. La storia della psicologia fino al diciassettesimo secolo consiste essenzialmente nella enumerazione di dottrine riguardanti l'anima, senza che l'anima abbia possibilità di interloquire in quanto oggetto investigato. Come dato immediato dell'esperienza essa pareva già talmente nota a ogni pensatore che egli era convinto non ci fosse nessuna necessità di una ulteriore esperienza, tanto meno oggettiva. Questo atteggiamento è totalmente estraneo al punto di vista contemporaneo, giacché oggi siamo dell'opinione che, oltre e al di sopra di ogni certezza soggettiva, è necessaria una esperienza oggettiva per confermare una opinione che avanzi la pretesa di essere scientifica. Nonostante questo è tuttavia ancora difficile, perfino oggi, applicare coerentemente alla psicologia il punto di vista puramente empirico o fenomenologico, poiché l'ingenua idea originaria che l'anima, essendo il dato immediato dell'esperienza, sia il meglio conosciuto di tutti i dati conoscibili, è una delle nostre convinzioni più profondamente radicate. Non solo ogni profano pretende di poter avere un'opinione, ma anche ogni psicologo e non semplicemente nei riguardi der soggetto ma, ciò che ha maggiori conseguenze, anche dell'oggetto. Egli sa, o piuttosto pensa di sapere, quello che accade in un altro individuo; e quello che è bene per lui. Questo è dovuto meno a un sovrano disprezzo delle differenze che a un tacito presupposto che tutti gli individui siano identici. È una conseguenza di ciò l'inclinazione alla fede nella universale validità delle opinioni soggettive. Menziono questo fatto soltanto per dimostrare che, malgrado il crescente empirismo degli ultimi trecento anni, l'atteggiamento originario non è affatto scomparso. Il permanere della sua esistenza dimostra soltanto quanto sia difficile la transizione dal vecchio atteggiamento filosofico a quello moderno empirico.
Naturalmente non venne mai fatto di pensare, ai rappresentanti dell'antica opinione, che le loro dottrine non erano altro che fenomeni psichici, poiché si presupponeva ingenuamente che con l'aiuto dell'intelligenza o ragione l'uomo potesse quasi evadere dalla sua condizione psichica e trasferirsi su un piano sovrapsichico e razionale. Non ci si chiedeva ancora se in fondo le affermazioni dello spirito umano non potessero essere sintomi di certe condizioni psichiche. Questa domanda, assolutamente naturale, ha conseguenze così vaste e rivoluzionarie che possiamo capire fin troppo bene perché passato e presente abbiano fatto del loro meglio per ignorarle. Siamo ancor oggi molto lontani dal concetto di filosofia del Nietzsche, e precisamente della teologia, come "ancilla psychologiae", poiché nemmeno lo psicologo è disposto a considerare le proprie affermazioni del tutto alla stregua di confessioni soggettivamente condizionate. Possiamo parlare di uniformità per i soggetti individuali soltanto in quanto essi sono in larga misura inconsapevoli delle loro reali differene. Quanto più un uom è inconsapevole tanto più si conformerà al canone generale del comportamento psichico. Ma quanto più egli diverrà consapevole della propria individualità, tanto più pronunciata sarà la sua differenza dagli altri soggetti e tanto meno si conformerà alle comuni aspettative. Inoltre le sue reazioni sono molto meno prevedibili. Questo è dovuto al fatto che una coscienza individuale è sempre più altamente differenziata e più estensiva. Ma quanto più estensiva essa diventa, tanto più percepirà le differenze, e si emanciperà dalle regole collettive, poiché la libertà empirica del volere cresce in proporzione alla estensione della coscienza.
A mano a mano che procede la differenziazione individuale della coscienza, la validità oggettiva delle sue opinioni proporzionalmente decresce e la loro soggettività aumenta. Non si può più tenere per certo che i propri preconcetti personali siano applicabili a altri. Questo sviluppo logico ebbe per conseguenza che nel diciassettesimo secolo - un secolo di grande importanza per lo sviluppo della scienza - la psicologia cominciò ad emergere a lato della filosofia, e fu Christian von Wolff (1679-1754) il primo a parlare di psicologia "empirica" o "sperimentale" riconoscendo in tal modo la necessità di porre la psicologia su una nuova base. La psicologia doveva escludere la definizione razionale di verità del filosofo, poiché gradatamente era apparso chiaro che nessuna filosofia aveva una sufficiente validità generale da adattarsi uniformemente alla varietà dei soggetti individuali. E siccome, anche per questioni di principio, era possibile un numero indefinitamente grande di differenti dichiarazioni soggettive, la cui validità a sua volta poteva essere assenta solo soggettivamente, divenne naturalmente necessario abbandonare la discussione filosofica per sostituirla con l'esperienza. In tal modo la psicologia divenne una scienza naturale.
Per il momento la filosofia tuttavia conservò la sua presa sul vasto campo della psicologia "razionale" o "speculativa", e soltanto con il passare dei secoli quest'ultima poté svilupparsi in una scienza naturale. Neppure oggi la trasformazione è completa. La psicologia come materia di studio fa parte ancora nella maggior parte delle Università della Facoltà di Filosofia, e la "psicologia clinica" deve trovare rifugio presso la Facoltà di Medicina. Così, ufficialmente, la situazione è ancora per lo più medievale, dato che perfino le scienze naturali sono ammesse soltanto come "Phil. II" sotto il mantello della Filosofia Naturale. Sebbene sia ovvio da almeno duecent'anni che la filosofia dipende soprattutto da premesse psicologiche, fu fatto tutto quanto era possibile per oscurare l'autonomia delle scienze empiriche, quando la scoperta della rotazione della Terra e delle lune di Giove non poté più a lungo esser negata. Di tutte le scienze naturali la psicologia è stata la meno capace di conquistarsi l'indipendenza.
Questa arretratezza mi sembra significativa. La posizione della psicologia è paragonabile a quella di una funzione psichica che è inibita dalla mente cosciente; è ammessa l'esistenza soltanto di quei componenti di essa che si accordano con la prevalente tendenza della coscienza. Qualunque cosa non sia in accordo viene negata come esistente, nonostante ci siano numerosi sintomi o fenomeni che provano il contrario. Chiunque abbia una certa familiarità con questi processi psichici sa con quali sotterfugi e quali manovre di autoinganno si cerchi di eliminare l'inconveniente. Accade precisamente lo stesso per la psicologia empirica: disciplina subordinata alla generale psicologia filosofica, la psicologia sperimentale è ammessa come una concessione all'empirismo della scienza naturale, ma è appesantita di termini tecnici della filosofia. Per quanto riguarda la psicopatologia, essa è stata collocata nella Facoltà di Medicina come una curiosa appendice alla psichiatria. La psicologia "clinica", come ci si può ben aspettare, trova scarso o nullo riconoscimento nelle università.
Mi esprimo in modo piuttosto drastico sull'argomento perché cerco di mettere in rilievo la posizione della psicologia tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo. Il punto di vista di Wundt è perfettamente indicativo della situazione - anche perché dalla sua scuola è uscita una serie di notevoli psicologi che fissarono la posizione della psicologia agli inizi del ventesimo secolo. Nel suo "Lineamenti di psicologia", Wundt dice:
"Qualunque elemento della psiche che sia scomparso dalla coscienza deve essere chiamato inconscio nel senso che abbiamo in noi la possibilità del suo rinnovamento, cioè della sua riapparizione nella interconnessione pratica dei processi psichici. La nostra conoscenza di un elemento che è divenuto inconscio non si estende oltre la possibilità delsuo rinnovamento... Pertanto esso non ha significato alcuno se non come disposizione all'emergere di elementi futuri... Considerazioni circa lo stato dell’"inconscio" o dei "processi inconsci" di qualunque tipo… sono completamente improduttive per la psicologia. Ci sono, naturalmente, concomitanti fisiche della disposizione psichica menzionata, delle quali alcune possono essere direttamente dimostrate, altre dedotte da varie esperienze."
Un rappresentante della scuola di Wundt ritiene che "uno stato psichico non può essere descritto come tale se non abbia raggiunto perlomeno la soglia della coscienza." Questa argomentazione presume, o piuttosto afferma, che soltanto il conscio è psichico e che perciò ogni psichico è conscio. L'autore dice stato "psichico": logicamente avrebbe dovuto dire "stato" poiché si sta appunto esaminando se un tale stato sia psichico. Segue un'altra argomentazione: il pìú semplice fatto psichico è la sensazione, poiché essa non può essere analizzata in fatti più semplici. Di conseguenza quanto precede o sta sotto una sensazione non è mai psichico, ma soltanto fisiologico. Ergo, l'inconscio non esiste.
J. F. Herbart ha detto una volta: "Quando una rappresentazione [idea] cade al di sotto della soglia della coscienza essa continua a vivere in una forma latente, tentando continuamente di niattraversare la soglia e di rimuovere le altre rappresentazioni." Così formulata, la proposizione è indubbiamente corretta, poiché sfortunatamente ogni cosa veramente dimenticata non tende affatto a niattraversare la soglia. Se Herbart avesse detto "complesso" nel senso moderno della parola anziché "rappresentazione", la sua proposizione sarebbe stata assolutamente esatta: difficilmente potremmo sbagliare supponendo che egli intendesse dire proprio qualcosa del genere. A questo proposito un oppositore filosofico dell'inconscio fa la seguente osservazione assai chiarificatrice: "Una volta che ciò sia stato ammesso, ci si trova alla mercè di ogni forma di ipotesi concernenti la vita inconscia, ipotesi che non possono essere controllate da alcuna osservazione." Questo pensatore non è lontano dal riconoscere i fatti, ma per lui è decisivo il timore di incorrere in difficoltà. Come può pere che queste ipotesi non possono essere controllate, dall'osservazione? Per lui questo è semplicemente un a priori. Ma egli non riesce a confutare l'osservazione di Herbart.
Cito questo caso non per il suo significato positivo ma soltanto perché esso caratterizza l'essenza dell'antiquato atteggiamento filosofico verso la psicologia empirica. Wundt stesso è dell'opinione che per quanto riguarda "i cosiddetti processi inconsci, non si tratta di una questione di elementi psichici inconsci ma soltanto di elementi consci in maniera più oscura" e che "agli ipotetici processi inconsci potrebbero essere sostituiti processi dimostrabili praticamente o comunque processi consci meno ipotetici." Questo atteggiamento implica una chiara ripulsa dell'inconscio come ipotesi psicologica. I casi di "doppia coscienza" egli li spiega come "modificazioni della coscienza individuale che assai spesso si verificano in costante successione, e alle quali, con un violento travisamento dei fatti, viene sostituita una pluralità di coscienze individuali." Queste, così argomenta Wundt, "dovrebbero essere simultaneamente presenti in un solo e medesimo individuo", il che, egli dice, "come è da tutti riconosciuto non è possibile". Senza dubbio è difficile che due coscienze si esprimano si'muitaneamente in un singolo individuo in una forma clamorosamente riconoscibile. Per questa ragione di solito i due stati si alternano. Pierre Janet ha dimostrato che, mentre una coscienza controlla il capo, per così dire, l'altra simultaneamente si mette in comunicazione con l'osservatore per mezzo di un codice di movimenti manuali espressivi. La doppia coscienza può benissimo essere perciò simultanea.
Wundt pensa che l'idea di una doppia coscienza, e quindi di una "supercoscienza" e di una "subcoscienza" nel senso di Fechner, sia "una sopravvivenza del misticismo psicologico" della scuola di Schelling. Ovviamente egli confonde la rappresentazione inconscia con una rappresentazione che nessuno "ha". In questo caso anche la parola "rappresentazione" sarebbe superata, poiché allude a un soggetto cui qualcosa è "presente" o viene "presentato". Questa è la ragione fondamentale per la quale Wundt respinge l'inconscio. Ma possiamo facilmente aggirare questa difficoltà parlando non di "rappresentazione" o di "percezione", ma di contenuto, come di solito faccio io. Qui devo anticipare un punto del quale tratterò abbastanza diffusamente in seguito, cioè che ai contenuti inconsci si riferisce qualcosa di assai simile alla "rappresentatività" o alla coscienza, cosicché la possibilità di un soggetto inconscio diventa una questione seria. Un tale soggetto non si identifica tuttavia con l'ego. Che fossero soprattutto le "rappresentazioni" la bestia nera di Wundt è chiaro anche dal suo insistente rifiuto delle "idee innate". Quanto egli prendesse alla lettera questo concetto lo si può rilevare dal brano seguente: "Se un animale neonato avesse realmente anteriori a un'idea tutte le azioni che si propone di compiere, quale ricchezza di anticipate esperienze vitali giacerebbero immagazzinate negli istinti animali e umani, e quanto dovrebbe sembrare incomprensibile il fatto che non solo gli uomini, ma anche gli animali debbano acquisire la maggior parte delle cose solo attraverso l'esperienza e la pratica!" Esiste tuttavia uno "schema di comportamento" innato, e proprio come cassa del tesoro di esperienze di vita, non anticipate, ma in realtà accumulate; soltanto che non si tratta di "rappresentazioni" ma di abbozzi, di piani o di immagini, che sebbene non siano effettivamente "presenti" all'ego, sono tuttavia altrettanto reali dei cento talleri di Kant, che erano stati cuciti nella fodera di una giacca e dimenticati dal proprietario. Wundt potrebbe essersi ricordato di Christian von Wolff che egli stesso nomina e della sua definizione degli stati "inconsci" che "possono essere dedotti soltanto da ciò che troviamo nella nostra coscienza."
Alla categoria delle "idee innate" appartengono anche le "idee elementari" di Adolf Bastian, che ci permettono di intendere le forme fondamentalmente analoghe di percezione che si possono trovare dovunque; esse corrispondono perciò più o meno a quelli che oggi chiamiamo "archetipi". Wundt, naturalmente, dubita di questa nozione, ancora nella falsa opinione che si tratti di "rappresentazioni" e non di "disposizioni". Egli dice: "Il prodursi di un solo e medesimo fenomeno in luoghi diversi non è assolutamente impossibile, ma, dal punto di vista della psicologia empirica, improbabile al massimo." Egli nega "un comune retaggio psichico dell'umanità" e respinge l'idea stessa di un intelleggibile simbolismo mitico con la caratteristica affermazione che la supposizione di un "sistema di idee" che si nasconda dietro il mito è impossibile. La pedante assunzione che l'inconscio sia, tra tutte le cose, un sistema di idee, non avrebbe retto neppure ai tempi di Wundt, per non parlare di prima o di dopo.
Sarebbe sbagliato credere che il rifiuto dell'idea di inconscio nella psicologia accademica della fine del secolo fosse generale: non è affatto vero, poiché Fechner, e dopo di lui Theodor Lipps, avevano dato all'inconscio un posto di decisiva importanza. Sebbene per Lipps la psicologia sia "una scienza della coscienza" egli parla tuttavia di percezioni e rappresentazioni "inconsce" che considera come processi. "La natura o, più precisamente, l'idea di un processo "psichico" non è tanto un contenufo conscio o una esperienza conscia quanto la realtà psichica che si deve necessariamente pensare alla base dell'esistenza di un tale processo." "L'osservazione della vita conscia ci persuade che non solo a volte si possono ritrovare in noi percezioni e rappresentazioni inconscie, ma che la vita psichica viene influenzata da me costantemente, e che soltanto occasionalmente, in punti particolari, quello che opera dentro di noi rivela direttamente la sua presenza con immagini appropriate." "Pertanto la vita psichica va sempre molto al di là dei limiti di quello che è o può essere presente in noi sotto forma di contenuto conscio o di immagini."
Le osservazioni di Theodor Lipps non contrastano in alcun modo con le nostre teorie moderne, ma anzi esse costituiscono la base teoretica per la psicologia dell'inconscio in generale. Ciononostante per molto tempo dopo di lui persistette la resistenza all'ipotesi dell'inconscio. Per esempio è caratteristjco che Max Dessoir, nella sua storia della psicologia tedesca moderna, non citi nemmeno G. C. Carus e Eduard von Hartmann.

 

Il significato dell'inconscio nella psicologia

L'ipotesi dell'inconscio pone in crisi l'idea della psiche. L'anima, fino a quel momento postulata dalla filosofia e dotata di tutte le facoltà necessarie, minacciò di emergere dalla sua crisalide con proprietà inaspettate e inesplorate. Non rappresentava più l'immediatamente noto di cui non rimanessero da scoprire che alcune ulteriori definizioni più o meno soddisfacenti. Piuttosto appariva ora in una forma stranamente duplice, come nota e come ignota. In conseguenza la vecchia psicologia fu completamente detronizzata e subì una rivoluzione pari a quella della fisica classica dopo la scoperta della radioattività. Questi primi psicologi sperimentali si trovarono nello stesso imbarazzo del mitico scopritore della sequenza numerica che appese delle pere in fila e continuò semplicemente ad aggiungere un'altra uniti a quelle già presenti. Quando contemplò il risultato, questo apparve solo come un centinaio di unità identiche, ma i numeri che aveva pensato come nomi, inaspettatamente si dimostrarono entità peculiari con proprietà irriducibili. Per esempio c'erano numeri pari, dispari e primi; numeri positivi, negativi, irrazionali e immaginari, ecc. Lo stesso accade per la psicologia: se l'anima è realmente soltanto un'idea, questa idea ha intorno a sé un'allarmante atmosfera di imprevedibilità - con qualità che nessuno avrebbe mai immaginato. Si può osare anche asserire che l'anima è la coscienza e il suo contenuto, ma ciò non impedisce, anzi affretta, la scoperta di uno sfondo prima insospettato, una vera matrice di tutti i fenomeni consci, una precoscienza e una post-coscienza, una supercoscienza e una subcoscienza. Come ci si forma un'idea di una cosa e si riesce ad afferrare uno dei suoi aspetti, invariabilmente si è vittima dell'illusione di aver afferrato il tutto. Non si considera mai che una appercezione totale è assolutamente fuori questione. Neppure una idea postulata come totale è totale, poiché essa è ancora un'entità. particolare con qualità imprevedibili. Questo auto-inganno incoraggia certamente la pace mentale; l'ignoto ha un nome, il remoto è stato portato vicino cosicché ognuno può toccarlo con un dito. Ne abbiamo preso possesso ed esso è divenuto una proprietà inalienabile, come un animale selvatico catturato che non può fuggire. È un procedimento magico come quello del primitivo enumeratore sugli oggetti e quello dello psicologo sull'anima. Questi, pur non essendo più alla sua mercé, non sospetta nemmeno che il fatto stesso di comprenderlo concettualmente conferisce all'oggetto una ottima opportunità di mettere in mostra tutte quelle qualità che non sarebbero mai apparse se non fossero state imprigionate in un concetto (ricordiamo i numeri!).
I tentativi che sono stati fatti negli ultimi trecento anni per impadronirsi dell'anima sono tutti manifestazioni essenziali di quella tremenda espansione del sapere che ha portato l'universo tanto vicino a noi da far vacillare l'immaginazione. Le migliaia di ingrandimenti resi possibili dal microscopio elettronico gareggiano con i 500 milioni di anni luce di distanza percorsi dai telescopi. La psicologia è ancora assai lontana da uno sviluppo simile a quello compiuto dalle altre scienze naturali; inoltre… è stata molto meno capace di sciogliersi dalle pastoie della filosofia. Ciononostante ogni scienza è in funzione dell'anima e ogni sapere ha in essa la radice. La psiche è la maggiore di tutte le meraviglie cosmiche e la condizione sine qua non del mondo in quanto oggetto. È estremamente strano che l'uomo occidentale, con pochissime - e sempre minori - eccezioni, presti apparentemente così poca attenzione a questo fatto. Sopraffatta dalla conoscenza degli oggetti esterni, il soggetto di ogni conoscenza è stato temporaneamente eclissato al punto di sembrare del tutto inesistente.
L'anima era un presupposto tacito che sembrava conoscere se stesso in ogni particolare. Con la scoperta di un possibile regno psichico inconscio, l'uomo ebbe l'opportunità di imbarcarsi in una grande avventura dello spirito, e ci si sarebbe potuti aspettare che un appassionato interesse si volgesse in questa direzione. Non solo questo non accadde per nulla, ma perfino si sollevarono da ogni parte forti proteste contro questa ipotesi. Nessuno trasse la conclusione che se il soggetto della conoscenza, la psiche, è in realtà una velata forma di esistenza non accessibile immediatamente alla coscienza, allora tutto il nostro sapere deve essere incompleto e per di più ad un grado che non possiamo determinare. La validità della conoscenza consapevole fu discussa in maniera del tutto differente e più minacciosa di quanto mai lo fosse stata dai procedimenti dell'epistemologia. Questa impose certi limiti alla conoscenza umana in generale, dai quali l'idealismo tedesco postkantiano lottò per emanciparsi: ma la scienza naturale e il senso comune si adattarono ad essa senza grande difficoltà, se accondiscesero a riconoscerla in tutti i suoi aspetti. La filosofia la combatté nell'interesse di una antiquata pretesa della mente umana di essere capace di sostenersi da se stessa per conoscere cose completamente al di fuori dei limiti della conoscenza umana. La vittoria di Hegel su Kant diede il colpo più grave alla ragione e allo ulteriore sviluppo spirituale del pensiero tedesco e poi di quello europeo, tanto più dannoso in quanto Hegel era uno psicologo camuffato che proiettò grandi verità dalla sfera del soggetto verso un cosmo che egli stesso aveva creato. Sappiamo quanto si estenda oggi l'influenza di Hegel. Le forze che compensarono questo calamitoso sviluppo, da un lato, si personificarono in parte nel tardo Schelling, in parte in Schopenhauer e in Carus, dall'altro, quello sfrenato "Dio baccante", che Hegel aveva già subodorato nella natura, alla fine si rivelò a noi con la violenza di Nietzsche.
L'ipotesi dell'inconscio formulata da Carus era intesa a colpire con la maggior durezza possibile la tendenza allora prevalente della filosofia tedesca, in quanto quest'ultima aveva apparentemente appena avuto la meglio sul criticismo kantiano e aveva riaffermato, o meglio ristabilito la sovranità quasi divina dello spirito umano - dello Spirito con la esse maiuscola. Lo spirito dell'uomo medievale era sia nel bene che nel male ancora lo spirito del Dio che egli serviva. Il criticismo epistemologico fu da un lato un'espressione della modestia dell'uomo medievale, e dall’altro una rinuncia o un'abdicazione allo spirito di Dio e conseguentemente una estensione e un rafforzamento moderni della coscienza umana nei limiti della ragione. Dovunque lo spirito di Dio viene estromesso dai nostri calcoli umani, un inconscio prende il suo posto. In Schopenhauer troviamo la Volontà inconscia come nuova definizione di Dio, in Carus l'inconscio e in Hegel, identificazione e esaltazione, l'equazione pratica della ragione filosofica con lo Spirito, che rende così possibile quell'equivoco gioco intellettuale con l'oggetto, che raggiunge un tale orribile splendore nella sua filosofia dello Stato. Hegel offri una soluzione al problema sollevato dal criticismo epistemologico col dare alle idee una possibilità di dimostrare la loro sconosciuta forza di autonomia. Essi provocarono quella hybris della ragione che portò al superuomo di Nietzsche e di lì alla catastrofe che porta il nome di Germania. Non solo gli artisti, ma talvolta anche i filosofi possono essere profeti.
Penso che sia ovvio che tutte le affermazioni filosofiche che superino i limiti della ragione sono antropomorfiche e non hanno alcuna validità oltre quella che compete alle affermazioni psichicamente condizionate. Una filosofia come quella di Hegel è un'autorivelazjone del retroscena psichico, e, filosoficamente parlando, è una presunzione. Dal punto di vista psicologico equivale a un'invasione dell'inconscio. Il particolare linguaggio alato di Hegel conferma questa opinione: ricorda il linguaggio megalomaniaco degli schizofrenici che sano parole terribili e affascinanti per ridurre il trascendente in forma soggettiva, per dare a banalità il fascino della novità, o spacciare luoghi comuni per illuminante saggezza. Una terminologia così ampollosa è un sintomo di debolezza, di inettitudine e di mancanza di sostanza. Ma ciò non impedisce ai più recenti filosofi tedeschi di usare lo stesso linguaggio roboante e di pretendere che non sia psicologia inintenzionale.
Di fronte a questa primordiale irruzione dell'inconscio nella sfera occidentale della ragione umana, Schopenauer e Carus non ebbero una base solida sulla quale sviluppare e applicare la loro influenza compensatrice. La salutare sottomissione dell'uomo a una Deità benevola, e il ‘cordon sanitaire’ tra lui e il demone delle tenebre, il pesante lascito del passato, rimasero inalterate con Schopenauer, perlomeno in linea di massima, mentre con Carus non furono neanche sfiorate poiché egli cercava di attaccare il problema alle radici, trasferendolo dal punto di vista estremamente presuntuoso della filosofia verso quello della psicologia. Dobbiamo chiudere gli occhi al fascino della sua filosofia se desideriamo dare il massimo peso alla sua ipotesi essenzialmente psicologica. Egli era giunto per lo meno un passo più vicino alla conclusione che menzionammo prima, quando tentò di costruire un quadro del mondo che includeva la parte oscura dell'anima. Questa struttura mancava ancora di qualcosa della cui importanza senza precedenti vorrei convincere il lettore.
A questo scopo dobbiamo anzitutto rendere ben chiaro a noi stessi che ogni sapere è il risultato della imposizione di una certa forma di ordine sulle reazioni del sistema psichico che scorrono nella nostra oscienza - un ordine che riflette il comportamento di una realtà meta psichica, di ciò che è di per sé reale. Se, come anche certe correnti moderne vorrebbero, il sistema psichico coincide con la nostra mente conscia, ed è identico ad essa, allora ne consegue per noi la possibilità di conoscere ogni cosa che sia conoscibile, che si trovi cioè entro i limiti della teoria della conoscenza. In questo caso non c'è nessun motivo di inquietudine diverso da quello degli anatomisti o dei fisiologi che contemplano la funzione dell'occhio o l’organo dell'udito. Ma se dovesse risultare che la psiche non coincide con la coscienza, e, ciò che è più grave, che essa funziona inconsciamente in un modo simile, o differente rispetto alla parte conscia di essa, allora la nostra inquietudine dovrebbe trasformarsi in agitazione, poiché non si tratterebbe più di una questione di limiti generali epistemologici, ma di una fragile soglia che ci separa dal contenuto inconscio della psiche. L'ipotesi della soglia e dell'inconscio, significa che l'indispensabile materiale grezzo di ogni conoscenza - cioè le reazioni psichiche - e forse anche i "pensieri" è le "intuizioni" inconscie, si trovano assai vicino, al di sopra o al di sotto della coscienza, separati da noi dalla semplice "soglia", e tuttavia apparentemente irraggiungibili. Noi non abbiamo alcuna nozione di come funzioni questo inconscio, ma siccome si suppone che sia un sistema psichico, esso può forse comprendere tutti gli aspetti della coscienza, inclusa la percezione, l'appercezione, la memoria, l'immaginazione, la volontà, l'affettività, la sensibilità, la riflessione, il giudizio ecc., tutto in forma subliminale.
Qui ci troviamo di fronte alla obiezione di Wundt che non si potrebbe parlare di "percezioni", "rappresentazioni", "sentimenti" inconsci, e tanto meno di "azioni volitive" inconscie, visto che nessuno di questi fenomeni può essere rappresentato senza un soggetto che li esperimenti. L'idea di soglia presuppone una forma di osservazione in termini di energia, secondo la quale la coscienza di contenuti psichici dipende essenzialmente dalla loro intensità, cioè dalla loro energia. Esattamente come solo uno stimolo di una certa intensità può superare la soglia, così si può a ragione ritenere che anche altri contenuti psichici debbano possedere un potenziale di energie molto elevato, se riescono a passare. Se possiedono soltanto una piccola quantità di energia essi rimangono subliminali come le corrispondenti percezioni sensoriali. Come Lipps ha già rilevato, la prima obiezione è annullata dal fatto che il processo psichico resta essenzialmente lo stesso che sia "rappresentato" o no. Chiunque accetti l'opinione che i fenomeni della coscienza comprendono l'intera psiche deve fare un altro passo avanti e dire che le "rappresentazioni che non abbiamo" non possono essere descritte come "rappresentazioni". Deve anche negare ogni qualità psichica a quanto viene trascurato. Per questo rigoroso punto di vista la psiche può avere soltanto la fantasmagorica esistenza che appartiene ai fenomeni effimeri della coscienza. Questo modo di vedere non quadra affatto con l'esperienza comune, che parla in favore di una possibile attività psichica senza coscienza. L'idea di Lipps dell'esistenza di processi psichici ‘an sich’ fa maggiore giustizia ai fatti. Non desidero sprecare tempo per dimostrare questo punto, ma mi limiterò ad affermare che mai finora una qualunque persona ragionevole ha dubitato dell'esistenza di processi psichici in un cane, sebbene nessun cane - a quanto sappiamo abbia mai espresso la consapevolezza dei suoi contenuti psichici.

 

La dissociabilità della psiche

Non c'è nessuna ragione a priori per presumere che i processi inconsci debbano inevitabilmente avere un soggetto, nessuna più di quelle che si hanno per dubitare della realtà dei processi psichici. Evidentemente il problema diventa difficile quando si suppongono atti inconsci della volontà. Se questa non deve soltanto essere una faccenda di "istinti" e di "inclinazioni" ma piuttosto di "scelta" e di "decisione" avvedute, peculiari alla volontà, allora difficilmente si può evitare la necessità di un soggetto discriminatore al quale le rappresentazioni si riferiscono. Ma questo, per definizione, equivarrebbe a situare una coscienza nell'inconscio, sebbene questa sia un'operazione concettuale che non presenta grandi difficoltà per lo psicopatologo. Egli ha familiarità con un fenomeno psichico che sembra del tutto sconosciuto alla psicologia "accademica" e cioè la dissociazione o la dissociabilità della psiche. Questa particolarità nasce dal fatto che il legame che unisce tra loro gli stessi processi psichici è assai incerto. Non solo i processi inconsci sono talvolta stranamente indipendenti dalle esperienze della mente conscia, ma anche i processi psichici dimostrano un chiaro allentamento o distacco. Noi tutti sappiamo di assurdità causate da complessi e osservabili con la massima evidenza nell'esperimento associativo. Esattamente come i casi di doppia coscienza, di cui Wundt dubitava, si verificano realmente, così i casi nei quali non sia scissa a metà l'intera personalità, ma siano dissociate soltanto parti minori, sono assai più probabili e infatti anche più comuni: essi costituiscono una delle antiche esperienze dell'umanità che si riflette nella supposizione generale di una pluralità di anime entro un solo medesimo individuo. Come dimostra la pluralità dei componenti psichici percepita al livello primitivo, lo stato originale è lo stato in cui i processi psichici sono intrecciati molto labilmente e non formano in alcun modo una unità autosufficiente. Inoltre l’esperienza psichiatrica indica che spesso ci vuole ben poco per frantumare l'unità di coscienza così laboriosamente costruita nel corso dello sviluppo e dissociarla di nuovo nei suoi elementi originari.
Questa dissociabilità ci mette anche in grado di evitare le difficoltà che derivano dal presupposto logicamente necessario di una soglia della coscienza. Se è giusto dire che i contenuti consci diventano sub-liminali per perdita di energia, e reciprocamente che i processi inconsci diventano consci per accrescimento di energia, allora, se gli atti inconsci di volizione devono essere possibili, ne segue che questi devono possedere una energia che permetta loro di raggiungere la coscienza, o comunque uno stato di coscienza secondaria che consiste nel fatto che un processo inconscio viene "rappresentato" a un soggetto sub-liminale che sceglie e decide. Questo processo deve necessariamente possedere la quantità di energia richiesta per raggiungere tale coscienza, in altre parole esso è forse obbligato a raggiungere il suo "punto di emergenza". Se è così, ci si deve chiedere il motivo per cui il processo inconscio non va direttamente al di sopra della soglia e non diventa percepibile all'ego. Dato che ovviamente non fa questo, ma apparentemente resta sospeso nel dominio di un soggetto secondario sub-liminale, dobbiamo ora spiegare perché il soggetto, che ‘ex hypothesi’ è carico di sufficiente energia per divenire conscio, non si spinge a sua volta al di là della soglia e non si articola con la coscienza primaria dell'ego. La psicopatologia possiede il materiale necessario per rispondere a questa domanda. Questa coscienza secondaria rappresenta una componente della personalità che non si è separata per mero accidente dalla coscienza dell'ego, ma deve la sua separazione a cause definite. Una tale dissociazione ha due aspetti distinti; in un caso c'è un contenuto originariamente conscio che divenne sub-liminale perché represso a causa della incompatibilità della sua natura, nell'altro caso il soggetto secondario consiste essenzialmente di un processo che non entrò mai per nulla nella coscienza poiché in essa non esistono possibilità di percepirlo. Vale a dire, la coscienza dell'ego non lo può accettare per mancanza di comprensione, e di conseguenza esso rimane per la maggior parte sub-liminale sebbene dal punto di vista dell'energia sia pienamente in grado di divenire conscio. Esso deve la sua esistenza non alla repressione, ma ai processi sub-liminali che di per sé stessi non furono mai consci. Tuttavia, siccome in ambedue i casi c'è sufficiente energia da renderli potenzialmente consci, il soggetto secondario ha veramente un effetto sulla coscienza dell'ego, indirettamente o - come diciamo - "simbolicamente", sebbene questa espressione non sia particolarmente felice. In realtà i contenuti che appaiono alla coscienza sono dapprima sintomatici. Per quanto noi sappiamo, o pensiamo di sapere, su ciò cui essi si riferiscono o su cui si fondano, essi sono semiotici, anche se la letteratura freudiana usa costantemente il termine "simbolico" senza considerare il fatto che in realtà i simboli esprimono sempre quello che non sappiamo. I contenuti sintomatici sono in parte veramente simbolici, essendo i rappresentanti indiretti di stati o di processi inconsci la cui natura può essere dedotta solo imperfettamente e realizzata soltanto dai contenuti che appaiono nella coscienza. E perciò possibile che l'inconscio ospiti contenuti così ricchi di energia che in altre condizioni essi dovrebbero essere percepibili all'ego. Nella maggior parte dei casi essi non sono contenuti repressi ma semplici contenuti che non sono ancora consci e che non sono stati soggettivamente constatati, come i demoni o le divinità dei primitivi o gli "ismi" ai quali crede tanto fanaticamente l'uomo moderno. Questo stato non è né patologico né in alcun modo peculiare; è anzi la norma originale, mentre la integrità psichica inclusa nella unità di coscienza è una meta ideale che non è ancora mai stata raggiunta.
Non a torto noi colleghiamo la coscienza, per analogia, con le funzioni sensoriali, in base alla fisiologia dalla quale deriva l'intera idea di "soglia". Le frequenze sonore percepibili dall'orecchio umano vanno da venti a ventimila vibrazioni al secondo; le lunghezze d'onda della luce visibile all'occhio da 7.700 a 3.900 unità angstrom. Questa analogia rende concepibile il fatto che esista una soglia sia inferiore che superiore per gli eventi psichici, e che la coscienza, il sistema percettivo per eccellenza, possa perciò essere paragonata con la scala percepibile del suono e della luce, avendo al pari di essi un limite inferiore e uno superiore. Forse questo paragone potrebbe essere esteso alla psiche in genere, il che non sarebbe impossibile se ci fossero processi "psicoidi" ad ambedue gli estremi della scala psichica. In base al principio ‘natura non facit saltus’ una tale ipotesi non sarebbe del tutto fuori posto... Se mi servo del termine "psicoide" lo faccio con tre riserve: primo, lo uso come un aggettivo, non come un nome; in secondo luogo esso non implica nessuna qualità psichica nel vero senso della parola, ma solo qualità "quasi-psichiche" quali quella del processo di riflesso; e in terzo luogo, è rivolto a distinguere una categoria di eventi da fenomeni meramente vitalistici da un lato e dall'altro da processi specificatamente psichici. Quest'ultima distinzione ci obbliga anche a definire più attentamente la natura e l'eensione della, psiche, e della psiche inconscia in particolare.
Se l'inconscio può contenere tutto quello che sappiamo essere funzione della coscienza, dobbiamo affrontare la possibilità che anch'esso come la coscienza possieda un soggetto, una specie di ego. Questa conclusione trova la sua espressione nell'uso comune e sempre ricorrente del termine "subcoscienza". Questo ultimo termine si presta certamente ad equivoci in quanto o significa ciò che è "al di sotto della coscienza" o postula una coscienza "inferiore" e secondaria. Nello stesso tempo la ipotetica "subcoscienza" che si associa immediatamente alla "supercoscienza" isola il vero centro della mia argomentazione: il fatto cioè che un secondo sistema psichico coesistente con la coscienza - non importa quali siano le qualità che-sospettiamo possieda - ha una importanza assolutamente rivoluzionaria in quanto potrebbe radicalmente mutare la nostra visione del mondo. Anche se nella coscienza dell'ego non affiorasse di questo secondo sistema psichico altro che le percezioni, avremmo la possibilità di estendere enormemente i limiti del nostro orizzonte mentale.
Una volta che abbiamo preso seriamente in considerazione la ipotesi dell'inconscio ne segue che la nostra visione del mondo può essere soltanto provvisoria; poiché se apportiamo un'alterazione così radicale al soggetto della percezione e della cognizione come questa duplice focalità richiede, il risultato deve essere una visione del mondo molto differente da qualunque altra nota in precedenza. Questo vale soltanto se si mantiene valida l'ipotesi dell'inconscio, che a sua volta può essere verificata soltanto se i contenuti inonsci possono essere mutati in contenuti consci se cioè i disturbi emananti dall'inconscio, gli effetti delle manifestazioni spontanee, di sogni, di fantasie e di complessi, possono essere felicemente, integrati nella coscienza, mediante il metodo dell'interpretazione.

 

Istinto e volontà

Mentre nel corso del diciannovesimo secolo la principale preoccupazione era di porre l'inconscio su una base filosofica, verso la fine di quel secolo furono fatti vari tentativi in diverse parti d'Europa, più o meno contemporaneamente e indipendentemente l'uno dall'altro, di comprendere l'inconscio sperimentalmente o empiricamente. I pionieri in questo campo furono Pierre Janet in Francia e Sigmund Freud nella vecchia Austria. Janet divenne celebre per la sua investigazione degli aspetti formali, Freud per le sue ricerche sui contenuto dei sintomi psicogeni.
Non ho qui la possibilità di descrivere in particolare la trasformazione di contenuti inconsci in contenuti consci, così mi devo limitare a alcuni cenni. In primo luogo l'ipotesi dei processi inconsci ha spiegato soddisfacentemente la struttura dei sintomi psicogeni. Freud partendo dalla sintomatologia delle neurosi, sostenne plausibilmente il fatto che i sogni avevano la funzione di mediatori dei contenuti inconsci. Quello che egli definI come contenuto dell'inconscio sembrava, a giudicare dall'apparenza, consistere di elementi di carattere personale pienamente capaci di coscienza e che dovevano perciò essere stati consci in altre condizioni. Egli opinò che essi fossero stati "repressi" per la loro natura moralmente incompatibile. Quindi, in quanto contenuti dimenticati, essi erano stati un tempo coscienti ed erano divenuti sub-liminali, e più o meno irrecuperabili, per effetto di una reazione esercitata dalla mente cosciente. Con una opportuna concentrazione dell'attenzione e facendosi guidare dalle associazioni - cioè dagli indici che ancora esistevano nella coscienza - il ricupero associativo dei contenuti perduti emergeva come in un esercizio mnemotecnico. Ma mentre i contenuti dimenticati erano irrecuperabili a causa del loro diminuito valore di soglia, i contenuti repressi dovevano la loro relativa irrecuperabilità a un controllo esercitato dalla mente conscia.
Questa scoperta iniziale portò logicamente alla interpretazione dell'inconscio come fenomeno di repressione ie poteva essere compreso in termini persoalistici. I suoi contenuti erano elementi perduti che un tempo erano stati consci. In seguito Freud riconobbe l'esistenza continuativa di vestigia arcaiche in forma di modi primitivi di funzionamento, sebbene anche questi fossero spiegati personalisticamente. In questo modo di. vedere la psiche inconscia appare come una appendice sub-liminale della mente cosciente.
I contenuti che Freud portò alla coscienza erano quelli che sono più facilmente recuperabili perché hanno la capacità di divenire coscienti e tali erano originariamente. Riguardo alla psiche inconscia essi dimostrano solamente l'esistenza di un limbo psichico al di là della coscienza. I contenuti dimenticati che sono ancora recuperabili dimostrano la stessa cosa. Questo non ci direbbe quasi niente circa la natura della psiche inconscia se non esistesse un indubbio collegamento tra questi contenuti e la sfera istintiva. Pensiamo quest'ultima come fisiologica, per lo più come una funzione delle ghiandole. La moderna teoria delle secrezioni interne e degli ormoni conferisce il massimo sostegno a questa interpretazione. Ma la teoria degli istinti umani si trova in una posizione alquanto delicata, poiché è insolitamente difficile non solo dare una definizione concettuale degli istinti ma anche stabilirne il numero e le limitazioni. In questo campo le opinioni divergono. Tutto quello che si può accertare con qualche sicurezza è che gli istinti hanno un aspetto fisiologico e uno psicologico. Ai fini descrittivi è di grande utilità il punto di vista di Pierre Janet sulla "partie supérieure ei in/érieure d'une fonction."
Il fatto che tutti i processi psichici accessibili alla nostra osservazione e alla nostra esperienza siano in qualche modo legati a un substrato organico indica che essi sono articolati con la vita dell'organismo in un tutto unico e perciò partecipano alla sua dinamicità - in altre parole devono avere una parte negli istinti di esso o essere in un certo senso il risultato dell'azione di tali istinti. Ciò non significa che la psiche derivi esclusivamente dalla sfera istintiva e quindi dal suo substrato organico. La psiche come tale non può essere spiegata in termini di chimica fisiologica, se non altro perché, insieme con la "vita" stessa, è il solo fattore naturale capace di convertire organizzazioni statistiche, soggette alla legge naturale, in stati "superiori" o "innaturali"' in contraddizione alla legge di entropia che domina in ogni parte del regno inorganico. Non sappiamo come la vita produca complessi sistemi organici da quelli inorganici, sebbene abbiamo un'esperienza diretta di come lo faccia la psiche. La vita perciò ha una propria legge specifica che non può essere dedotta dalle note leggi fisiche della natura. Anche così la psiche è ad un certo grado dipendente da processi del substrato organico. E assai probabile che ciò avvenga sempre. La base istintiva governa la partie inférieure della funzione, mentre la partie supérieure corrisponde alle sue componenti predominantemente "psichiche". La partie in/érieure si dimostra la parte relativamente inalterabile e. automatica della funzione, la partie supérieure quella volontaria e alterabile.
A questo punto nasce la domanda: quando siamo autorizzati a parlare di "psichico" e come in genere definiamo lo "psichico" per distinguerlo dal "fisiologico"? Ambedue sono fenomeni vitali ma essi differiscono in quanto la componente caratterizzata come la partie in/érieure ha un aspetto inconfondibilmente fisiologico. La sua esistenza e non-esistenza sembra essere collegata agli ormoni. Il suo funzionamento ha un carattere costrittivo: quindi la designazione "impulso". Rivers afferma che ad esso si addice naturalmente l'espressione "tutte le reazioni o nessuna": la funzione cioè agisce totalmente o non agisce per nulla, il che è tipico della costrizione. D'altra parte la partie supérieure, meglio definita come psichica e sentita inoltre come tale, ha perduto il Suo carattere costrittivo, e può essere sottoposta alla volontà e perfino applicata in una maniera contraria agli istinti originari.
Da queste riflessioni appare che lo psichico è una emancipazione della funzione dalla suaforma istintivalla costrittività che, in quanto sola determinante della funzione, la porta a cristallizzarsi in un meccanismo. La condizione o qualità psichica inizia dove la funzione perde il suo determinismo esteriore o interiore e diventa capace di applicazioni più estensive e più libere, cioè quando comincia a dimostrarsi accessibile a una volontà che nasca da altre fonti. A rischio di anticipare il mio programma non posso fare a meno di sottolineare che, se distinguiamo la psiche dalla sfera fisiologica degli istinti verso il basso, una tale delimitazione si impone anche verso l'alto. Infatti, aumentando la sua libértà dai puri istinti, la partie supérieure raggiungerà alla fine un punto nel quale l'energia intrinseca della funzione cessa del tutto di essere orientata dall'istinto nel senso originario e assume una forma cosiddetta "spirituale". Questo non implica una alterazione sostanziale dell'energia motrice dell'istinto, ma semplicemente una forma diversa di applicazione di essa. Il significato o fine dell'istinto non è privo di ambiguità, in quanto l'istinto può facilmente mascherare un senso di direzione differente da quello biologico, che però appare soltanto nel corso del suo sviluppo.
Nell'ambito della sfera psichica la funzione può essere deviata mediante l'azione della volontà e modificata in diversi modi. Questo fatto è possibile poiché il sistema degli istinti non è realmente armonico nella sua composizione, ed è esposto a numerose collisioni interiori. Un istinto disturba'e sposta l'altro, e sebbene nel loro complesso siano gli istinti che rendono possibile la vita individuale, il loro cieco carattere costrittivo crea parecchie occasioni di 'reciproco danno. La differenziazione della funzione dalla istintività costrittiva, e la applicazione volontaria, sono di essenziale importanza per il mantenimento della vita. Ma ciò incrementa la possibilità di collisione e provoca scissioni, le molte dissociazioni che mettono per sempre in pericolo la unità della coscienza.
Come abbiamo visto, nella sfera psichica la volontà influenza la funzione. Essa fa ciò in forza del fatto che è essa stessa una forma di energia e ha il potere di superare un'altra forma. In questa sfera che io definisco psichica, la volontà è in ultima istanza motivata dagli istinti, naturalmente non in modo assoluto, altrimenti non sarebbe una volontà, dato che questa per definizione deve avere una certa libertà di scelta. "Volontà" implica una certa massa di energia liberamente a disposizione della psiche. Ci deve essere tale carica di libido (o di energia) disponibile, o sarebbero impossibili le modificazioni della funzione dato che quest'ultima sarebbe alla fine incatenata agli istinti - che di per sé sono estremamente conservatori e corrispondentemente inalterabili - in modo talmente esclusivo che non potrebbero aver luogo variazioni, a meno che esse non fossero modificazioni organiche. Come già abbiamo detto, la motivazione della volontà in primo luogo deve essere considerata come essenzialmente biologica. Ma al limite superiore (se ci vogliamo permettere questa espressione) della psiche dove la funzione si svincola dalla sua meta originaria, gli istinti perdono la loro influenza di moventi della volontà. Per l'alterazione della sua forma, la funzione è costretta al servizio di altre determinanti o motivazioni che evidentemente non hanno pii:l nulla a che fare con gli istinti. Quello che cerco di rendere chiaro è il fatto notevole che la volontà non può superare i confini della sfera psichica; non può costringere l'istinto, né ha potere sullo spirito, intendendo per spirito qualcosa di pìú che l'intelletto. Spirito e istinto sono autonomi per natura ed ambedue limitano in uguale misura il campo di applicazione della volontà. In seguito mostrerò cosa costituisca la relazione dello spirito con l'istinto.
Come nelle sue zone inferiori la psiche si perde nel substrato organico materiale, così nelle zone superiori essa si risolve in una forma "spirituale" della quale conosciamo così poco come della base funzionale degli istinti. Quella che chiamerei la psiche propriamente detta si estende a tutte quelle funzioni che possono essere assoggettate all'influenza della volontà. La semplice istintività non permette la supposizioedT alcuna coscienza e non ne ha bisogno. Ma per la sua empirica libertà di scelta la volontà ha bisogno di un'autorità ordinata al di sopra di essa, di qualcosa come una coscienza di sé, per poter modificare la fùnzione. Deve "aver conoscenza" di uno scopo diverso da quello della funzione, altrimenti coinciderebbe con la forzamotrice di questa. Driesch giustamente sottolinea: "Non c'è volontà senza conoscenza!". La volizione presuppone una scelta da parte di un soggetto che consideri varie possibilità. Vista sotto questo aspetto, la psiche è essenzialmente un conflitto tra il cieco istinto e la volontà (libertà di scelta). Dove l'istinto predomina intervengono processi psicòidi che appartengono alla sfera dell'inconscio come elementi incapaci di coscienza. Il processo psicoide non è l'inconscio in quanto tale poiché questo ha una estensione assai maggiore. Oltre ai processi psicoidi nell'inconscio ci sono idee e atti volitivi, quindi qualcosa di simile ai processi consci, ma nella sfera istintiva questi fenomeni si ritirano talmente verso lo sfondo che il termine "psicoide" è probabilmente giustificato. Se tuttavia limitiamo la psiche agli atti della volontà, arriviamo alla conclusione che la psiche è pìú o meno identica alla coscienza, poiché difficilmente potremo concepire una libertà di scelta e una volontà senza coscienza. Questo apparentemente ci riporta al punto cruciale, all'assioma psiche-coscienza. Che cosa dunque è avvenuto della postulata natura psichica dell'inconscio?

 

Conscio e inconscio

Questa domanda riguardante la natura dell'inconscio porta con sé le traordinarie difficoltà intellettuali che la psicologia dell'inconscio ci propone. Tali difficoltà devono inevitabilmente sorgere ogni qualvolta la mente si getta arditamente nell'ignoto e nell'invisibile. Il nostro filosofo prende una posizione assai abile al riguardo poiché, rifiutando decisamente l'inconscio, spazza con un colpo solo ogni complicazione dal suo cammino. Una perplessità simile si presentava anche al fisico della vecchia scuola che credeva solamente alla teoria ondulatoria della luce e era poi portato a scoprire fenomeni che possono essere spiegati esclusivamente con la teoria corpuscolare. Per fortuna la fisica ha mostrato allo psicologo che essa pure può tener testa a una apparente contradictio in adiecto. Incoraggiato da questo esempio, lo psicologo può osare di affrontare il suo controverso problema senza avere il sentimento di essere caduto al di fuori del mondo della scienza naturale.
Prima che analizziamo il nostro dilemma più da vicino, mi piacerebbe chiarire un aspetto del concetto di inconscio. L'inconscio non è semplicemente l'ignoto, ma è piuttosto l'ignoto psichico; e definiamo questo, da un lato, come tutto ciò in noi che se giungesse alla coscienza presumibilmente non differirebbe in nessun modo dai contenuti psichici noti, con l'aggiunta, dall'altro lato, del sistema psicoide. così definito, l'inconscio rivela una situazioné estremamente fluida: tutto quello che so, ma a cui in questo momento non sto pensando; tutto quello di cui un tempo ero conscio ma che ora ho dimenticato; tutto quello che è percepito dai miei sensi ma non viene notato dalla mia mente conscia; tutto quello che involontariamente e senza farci, attenzione sento, penso, ricordo, desidero e faccio; tutte le cose future che stanno prendendo forma in me e una volta o l'altra emergeranno nella coscienza: tutto questo è il contenuto dell'inconscio. Questi contenuti sono tutti più o meno capaci, per cösI dire, di coscienza, o erano consci una volta e possono divenire di nuovo consci in un prossimo momento. Fino a questo punto l'inconscio è una "sfrangiatura della coscienza" come dice William James. A questo fenomeno marginale originato da stati alterni di luce e di ombra, appartengono anche le scoperte freudiane delle quali abbiamo già parlato.
Giungiamo ora alla 'domanda: in quale stato si trovano i contenuti psichici stessi quando non sono riferiti all'ego cosciente? (Questa relazione determina ciò che può essere chiamato coscienza). In accordo con il "rasoio di Occam"' entia praeter necessitatem non sunt multiplicanda, l conclusione pi'uta sarebbe che nulla, tranne il rapporto con l'ego conscio, muta quando un contenuto diventa inconscio. Per questa ragione respingo il parere che contenuti momentaneamente inconsci siano soltanto fisiologici. Manca ogni evidenza e, oltre a ciò, la psicologia della neurosi offre convincenti prove del contrario. Basta soltanto pensare ai casi di doppia personalità, di automatisme ambulatoire ecc. Sia Janet che Freud nelle loro scoperte mostrano che ogni cosa continua a funzionare nello stato inconscio esattamente come se fosse conscio. C'è la percezione, il pensiero, la sensibilità, la volizione e l'intenzione, esattamente come se un soggetto fosse presente; in realtà ci sono non pochi casi - p. e. la doppia personalità, che prima abbiamo citato - in cui appare praticamente un secondo ego che lotta con il primo. Tali scoperte sembrano dimostrare che in effetti l'inconscio sarebbe un "subsconcio". Ma da certe esperienze - delle quali alcune note anche a Freud - è chiaro che lo stato dei contenuti inconsci non è affatto quello dei contenuti consci. Per esempio, complessi di tono sentimentale non mutano nell'inconscio allo stesso modo che nella coscienza. Sebbene possano arricchirsi con associazioni, essi non ne vengono modificati ma conservano la loro forma originaria come si può rilevare dall'effetto continuo e uniforme che producono sulla mente cosciente. Parimenti essi assumono il carattere irriducibile e costrittivo di un automatismo del quale possono liberarsi soltapto se vengono resi consci. Quest'ultimo procedimento è considerato a ragione come uno dei più importanti fattori terapeutici. Alla fine tali complessi, presumibilmente in proporzione alla loro distanza dalla coscienza, assumono per autoamplificazione un carattere arcaico e mitologico quindi un'a certa "numinosità" come è perfettamente chiaro nelle dissociazioni schizofreniche. Tuttavia la numinosità è completamente al di fuori della volizione cosciente, poiché trasporta il soggetto in uno stato di rapimento che è uno stato di abdicazione alla volontà.
Queste particolarità dello stato inconscio contrastano molto fortemente con il modo in cui si comportano i complessi nella mente conscia. Qui essi possono essere corretti: possono perdere il loro carattere di automatismo e essere essenzialmente trasformati. Essi si spogliano del loro involucro mitologico e, procedendo nella coscienza mediante un processo di adattamento, si personalizzano e si razionalizzano al punto che diventa possibile una discussione dialettica. Evidentemente lo stato inconscio è, malgrado tutto, differente da quello conscio. Sebbene a prima vista il processo continui nell'inconscio come se fosse conscio, appare con l'aumentare della dissociazione che esso sprofonda a un livello più primitivo (arcaico-mitologico) per avvicinarsi nel carattere al sottostante schema istintivo, e per assumere le qualità che sono i tratti distintivi dell'istinto: automatismo, mancanza di suscettibilità all'influenza, ogni-o-nessuna reazione, e così via. Impiegando l'analogia dello spettro, potremmo paragonare l'abbassamento dei contenuti consci a uno spostamento verso l'estremità rossa della banda cromatica, confronto particolarmente edificante in quanto il rosso, colore del sangue, ha sempre significaio emozione e istinto.
Di conseguenza l'inconscio è un medium differente dal conscio. Nelle aree quasi-conscie non c'è molto cambiamento poiché in esse l'alternarsi delle ombre e delle luci è troppo rapido. Ma è proprio questa terra di nessuno che è di maggior valore per fornire la risposta alla bruciante questione dell'ipotesi: psiche = coscienza. Ci dimostra quanto sia relativo lo stato inconscio, in realtà talmente relativo che si sarebbe tentati di valersi di un concetto come "il subconscio" allo scopo di definire la parte più oscura della psiche. Ma la coscienza è ugualmente relativa poiché essa comprende non solo la coscienza in quanto tale ma un'intera scala di intensità di coscienza. Tra "io faccio questo" e "io sono conscio di fare questo" c'è un mondo di differenza che giunge talvolta all'aperta contraddizione. Quindi c'è una coscienza nella quale predomina l'incoscienza, come pure una coscienza nella quale predomina l'autocoscienza. Questo paradosso diventa immediatamente comprensibile quan4 ci rendiamo etn1t che non esiste nessun contenuto conscio di cui si possa dire con assoluta certezza che è totalmente conscio, poiché ciò richiederebbe una inimmaginabile totalità di coscienza, e questa a sua volta presupporrebbe una completezza e una perfezione ugualrnçnte inimmaginabili della mente umana. così arriviamo, alla paradossale conclusione che non c'è contenuto conscio che non sia sotto qualche altro aspetto inconscio. Forse non c'è nemmeno uno psichismo inconscio che non sia anche conscio nello stesso tempo. Quest'ultima proposizione è più difficile da dimostrare della prima, perché il nostro ego, che solo potrebbe verificare un'asserzione del genere, è il punto di riferimento per ogni coscienza e non ha una associazione tale con i contenuti inconsci da essere in grado di dire qualcosa circa la loro natura.
Per quanto riguarda l'ego essi sono inconsci a qualunque fine pratico, non però in modo assoluto, poiché l'ego può conoscere questi contenuti sotto un aspetto e non conoscerli sotto un altro, quando essi provocano alterazioni di consapevolezza. Inoltre ci sono processi rispetto ai quali non può essere dimostrata alcuna relazione con l'ego conscio e che tuttavia sembrano essere "rappresentati" o "quasi-consci". Infine ci sono casi in cui un ego inconscio, e quindi una seconda coscienza, sono presenti, come già abbiamo visto, sebbene queste siano eccezioni.
Nella sfera psichica lo schema di compdrtamento costrittivo permette- variazioni di comportamento che sono condizionate dall'esperienza e da atti della volizione, cioè da processi consci. Rispetto allo stato psicoide, riflessivo-istintivo, la psiche implica quindi un allenta,mento dei legami ed una costante recessione dei processi meccanici a favore delle modificazioni "selezionate". Questa attività selettiva ha luogo in parte entro la coscienza e in parte fiori di essa, cioè senza riferimento all'ego cosciente e quindi inconsciamente. Nell'ultimo caso il processo è "quasi-conscio"' come se fosse "rappresentato" e conscio.
Siccome non ci sono motivi sufficienti per ritenere che in ogni individuo esista un secondo ego o che tutti soffrano di dissociazione della personalità, dobbiamo scartare l'idea di un secondo ego come origine di decisioni volontarie. Ma siccome l'esistenza di processi altamente complessi e quasi-consci nell'inconscio è già stata dimostrata insolitamente probabile dallo studio della psicopatologia e dalla psicologia dei sogni, siamo costretti bene o male a concludere che, sebbene lo stato dei contenuti inconsci non sia identico a quello dei contenuti consci, è in qualche modo assai "simile" ad esso. In queste circostanze non resta altro che supporre qualcosa e mezza strada tra gli stati consci e inconsci, vale a dire una coscienza approssimativa. Siccome abbiamo immediata esperienza soltanto di uno stato riflesso, che ipso facto è conscio e noto in quanto essenzialmente consiste nel riferire idee o altri contenuti a una struttura egologica che rappresenti la nostra personalità empirica, ne segue che ogni altro genere di coscienza sia senza ego che senza contenuti - è virtualmente impensabile. Ma non occorre affatto inquadrare la faccenda in un modo così assoluto. Su un piano umano un po' pìú primitivo la coscienza dell'ego perde molto del suo significato e la coscienza conseguentemente viene modificata in un modo caratteristico. Soprattutto cessa di essere riflessa. E quando osserviamo i processi psichici nei vertebrati superiori e in particolare negli animali domestici, troviamo fenomeni simili a quelli della coscienza che tuttavia non ci permettono di congetturare l'esistenza di un ego. Come sappiamo dall'esperienza diretta, la luce della coscienza ha parecchi gradi di splendore, e la struttura egologica parecchie gradazioni di intensità. Sul piano animale e primitivo c'è una semplice "luminosità"' che differisce appena da tutti i balenanti frammenti dell'ego dissociato. Qui come al livello dell'infanzia, la coscienza non è ancora unitaria, in quanto non 'è organizzata da una struttura egologica solidamente costruita, e manda appena barlumi di vita qua e là quando avviene che eventi esterni o interni, istinti ed effetti la risvegliano. In questa fase essa è ancora come una catena di isole o un arcipelago. Non è un insieme completamente integrato neppure agli %4""P alti, piuttosto è capace di un'espansione indefinita. Isole scintillanti, e anzi continenti interi, possono ancora aggiungersi alla nostra coscienza moderna - un fenomeno che è divenuto la quotidiana esperienza dello psicoterapeuta. Perciò faremo bene a pensare la coscienza dell'ego come circondata da una moltitudine di piccole luminosità.

(da Questa è la mia filosofia, a c. di Whit Burnett, Milano, Bompiani, 1959, pp. 163-194)