MICHAIL JUREVIC LERMONTOV

BIOGRAFIA IT - WIKIPEDIA EN

UN EROE DEL NOSTRO TEMPO
E ALTRI RACCONTI

VERSIONE CARTACEA GARZANTI

TRADUZIONE DI LUIGI VITTORIO NADAI




UN EROE DEL NOSTRO TEMPO

PREFAZIONE

In ogni libro la prefazione è la prima e, nello stesso tempo, l'ultima cosa; essa funge o da spiegazione dell'intento dell'opera, o da giustificazione e da risposta alle critiche. Ma di solito ai lettori non importa nulla né delle finalità morali, né degli attacchi giornalistici, e perciò essi non leggono le prefazioni. Ed è un peccato che sia così, soprattutto da noi. Il nostro pubblico è ancora così giovane e sempliciotto che non comprende la favola se in fondo a essa non trova la morale. Non subodora lo scherzo, non avverte l'ironia; è semplicemente educato male. Esso ancora ignora che nella buona società e in un libro per bene l'insulto esplicito non può trovar posto; che la buona educazione moderna ha inventato un'arma più affilata, quasi invisibile, e cionondimeno mortale, che, sotto l'apparenza dell'adulazione, infligge un colpo imparabile e sicuro. Il nostro pubblico assomiglia a un provinciale che, dopo aver origliato la conversazione di due diplomatici appartenenti a due corti ostili, rimanesse convinto che ognuno di loro inganni il proprio governo in nome della reciproca, tenerissima amicizia.
Questo libro ha sperimentato a proprie spese or non molto la sventurata credulità di taluni lettori, e persino di talune riviste, rispetto al significato letterale delle parole. Alcuni se la sono avuta terribilmente a male, e sul serio, vedendosi proposto a modello un personaggio così immorale come l'Eroe del Nostro Tempo; altri invece assai finemente hanno osservato che l'autore ha disegnato il proprio ritratto e quello dei suoi conoscenti. Vecchio e penoso espediente! Ma evidentemente la Russia è fatta così: tutto in essa si rinnova, a eccezione di simili assurdità. La favola più piena di sortilegi da noi difficilmente sfuggirebbe all'accusa di offesa a qualche personalità!
L'Eroe del Nostro Tempo, egregi signori miei, è certamente un ritratto, ma non di una persona sola: è un ritratto composto dai vizi di tutta la nostra generazione nel loro pieno sviluppo. Voi di nuovo mi direte che l'uomo non può essere così ignobile, e io vi risponderò che se avete potuto credere alla possibilità dell'esistenza di tutti i ribaldi tragici e romantici, perché mai non dovreste credere all'esistenza di Peèorin? Se vi siete dilettati di invenzioni assai più spaventose e mostruose, perché questo carattere, sia pure come invenzione, non ottiene mercé presso di voi? Non sarà forse perché in esso c'è più verità di quanto non vorreste?...
Obietterete che la verità non ha nulla da guadagnarci. Scusate! Gli uomini si sono nutriti abbastanza di dolciumi che hanno loro guastato lo stomaco: occorrono medicine amare, verità scottanti. Non pensate tuttavia, in base a ciò, che l'autore di questo libro abbia mai cullato il sogno superbo di farsi emendatore dei vizi degli uomini. Dio lo preservi da simile rozzezza! Semplicemente si è divertito a disegnare l'uomo contemporaneo quale lo concepisce e quale per sua e vostra disgrazia troppo spesso lo ha incontrato. È già sufficiente che la malattia sia stata diagnosticata, quanto al come guarirla, Dio solo lo sa!

PARTE PRIMA

I • Bela

Ero partito da Tiflìs viaggiando per le poste. Tutto il mio bagaglio consisteva in una piccola valigia zeppa a metà di appunti di viaggio sulla Georgia. La maggior parte di essi, per vostra fortuna, è andata perduta, mentre la valigia con le altre cose, per fortuna mia, si è salvata.
Il sole cominciava ormai a nascondersi dietro una cresta nevosa quando entrai nella Valle del Kojšaursk. Il cocchiere osseta incitava instancabilmente i cavalli per riuscire a raggiungere prima di notte il Monte Kojšaursk, e cantava a squarciagola. Splendido posto questa valle! Da ogni lato montagne inaccessibili, macigni rossastri tappezzati di edera verde e coronati di platani, gialli dirupi variegati da borri, e lassù, in alto, una frangia dorata di nevi, mentre in basso l'Aragoi, congiuntosi con un altro fiumicello senza nome, che prorompe fragorosamente da una gola nera e tenebrosa, si distende come un filo d'argento e scintilla come un serpente ricoperto di squame. Giunti ai piedi del Monte Kojšaursk, ci arrestammo presso un duchàn davanti al quale si affollavano rumorosamente una ventina di georgiani e di montanari; poco distante si era fermata una carovana di cammelli per passare la notte. Dovevo noleggiare dei buoi per trascinare il mio piccolo carro in cima a quella maledetta montagna poiché si era ormai in autunno, c'era il ghiaccio e la salita è lunga circa due verste.
Così noleggiai sei buoi e alcuni osseti. Uno di essi si caricò sulle spalle la mia valigia, mentre gli altri si misero ad aiutare i buoi quasi esclusivamente con la voce.
Dietro al mio carretto una quadriglia di buoi trascinava un altro carro, benché stracarico, come se niente fosse. Questa circostanza mi stupì. Dietro camminava il suo proprietario, intento a fumare una piccola pipa kabardina incrostata d'argento. Portava un soprabito da ufficiale senza spalline e un irsuto colbacco circasso. All'apparenza doveva avere una cinquantina d'anni; il colore scuro del volto indicava che era da un pezzo familiare col sole transcaucasico, e i baffi incanutiti anzitempo erano in contrasto col passo fermo e l'aspetto vigoroso. Mi avvicinai a lui e mi inchinai; egli rispose in silenzio al mio inchino e sbuffò un'enorme nuvola di fumo.
«A quanto sembra facciamo la stessa strada...».
Lui, in silenzio, si inchinò di nuovo.
«Voi, probabilmente, andate a Stavropol', non è vero?».
«Esattamente, signore... con un carico governativo».
«Ditemi, vi prego, come mai quattro buoi trascinano come fosse uno scherzo il vostro pesante carro, mentre il mio vuoto lo smuovono a stento sei animali con l'aiuto di questi osseti?».
Egli sorrise maliziosamente e mi lanciò un'occhiata significativa.
«Probabilmente siete da poco nel Caucaso, non è vero?».
«Da circa un anno», risposi.
Egli sorrise di nuovo.
«Ebbene?».
«Nulla, signore! Che terribili furfanti questi asiatici! Pensate che siano d'aiuto con le loro grida? Lo sa il diavolo cosa gridano... Ma i buoi invece li capiscono; potete attaccarne anche venti, ma se quelli gridano alla loro maniera, i buoi non c'è verso che si muovano... Sono dei bricconi spaventosi! E cosa ne cavi fuori?... Amano spillare denaro ai viaggiatori... Li abbiamo viziati questi mascalzoni: vedrete che vi estorceranno anche la mancia. Ma io li conosco, a me non la fanno».
«È molto tempo che siete in servizio qui?».
«Sì, ero già qui al tempo di Aleksèj Petroviè», rispose assumendo un'aria solenne. «Quando arrivò sulla Linea ero sottotenente», aggiunse, «e sotto di lui ricevetti due promozioni per fatti d'arme contro i montanari».
«E ora...».
«Ora sono in forza al terzo battaglione di confine. E voi, se mi è consentita la domanda?...».
Glielo dissi.
La conversazione ebbe fine qui e continuammo a camminare l'uno accanto all'altro in silenzio. In cima alla montagna trovammo la neve. Il sole era tramontato e la notte gli era succeduta senza intervallo, come solitamente accade nel Sud; tuttavia grazie al bagliore della neve riuscivamo facilmente a distinguere la strada che continuava a salire, sebbene non più così ripidamente. Ordinai di sistemare la mia valigia sul carretto, di sostituire i buoi con i cavalli e per l'ultima volta mi girai a guardare in giù nella valle, ma una fitta nebbia che affluiva a ondate dalle gole la ricopriva completamente e di laggiù nemmeno un suono giungeva al nostro orecchio. Gli osseti mi circondarono chiedendomi rumorosamente la mancia, ma il capitano in seconda lanciò loro un grido così minaccioso che istantaneamente si dispersero.
«Che razza di gente», esclamò. «Non sanno neppure come si dice "pane" in russo, ma hanno imparato: "Ufficiale, dammi la mancia!". Persino i tartari, secondo me, sono meglio: almeno quelli non bevono...».
Per raggiungere la stazione di posta restava ancora una versta. Tutt'attorno regnava il silenzio, un tale silenzio che, dal suo ronzio, si poteva seguire il volo di una zanzara. A sinistra nereggiava una profonda gola, al di là di essa e davanti a noi le cime azzurro-scure delle montagne, solcate da burroni e coperte da strati di neve, si stagliavano sul pallido orizzonte che ancora conservava l'ultimo bagliore del crepuscolo. Nel cielo buio cominciavano a brillare le stelle e, stranamente, ebbi l'impressione che esse fossero assai più alte che da noi al Nord. Da entrambi i lati della strada spuntavano massi nudi e neri; qua e là sotto alla neve facevano capolino degli arbusti, ma nemmeno una fogliolina secca si muoveva e metteva allegria udire, in mezzo a quel profondo sonno della natura, lo sbuffare della nostra stanca trojka postale e l'ineguale tintinnio del campanellino russo.
«Domani avremo un tempo magnifico», dissi. Il capitano in seconda non rispose e mi indicò col dito un'alta montagna che si innalzava proprio davanti a noi.
«Che cos'è?», domandai.
«È la Gud-Gorà».
«Ebbene?».
«Guardate come fuma».
Effettivamente la Gud-Gorà fumava; lungo i suoi fianchi fluivano leggere volute di nebbia, mentre sulla cima era posata una nuvola nera, così nera che sembrava una macchia nel cielo buio.
Scorgevamo ormai la stazione di posta e i tetti delle sakli che la circondavano, davanti a noi brillavano invitanti minuscole luci, quando prese a soffiare un vento umido e freddo, la gola cominciò a rumoreggiare e iniziò a cadere una pioggia minuta. Feci appena in tempo a gettarmi sulle spalle il mantello che si mise a nevicare. Guardai con venerazione il capitano in seconda...
«Ci toccherà pernottare qui», disse con stizza. «Con una tormenta simile è impossibile valicare le montagne. Ehi, sono cadute delle valanghe dalla Krestovaja?», domandò al cocchiere.
«No, signore», rispose il cocchiere osseta, «ma ce ne sono moltissime lì-lì per cadere».
Non avendo una stanza per i viaggiatori nella stazione ci misero a disposizione un giaciglio in una fumosa saklja. Invitai il mio compagno di viaggio a bere un bicchiere di tè, dato che avevo con me una teiera di ferro, unico mio conforto nei miei viaggi attraverso il Caucaso. La saklja era addossata da un lato alla roccia; gradini bagnati e scivolosi conducevano alla porta. Entrai a tentoni e urtai contro una vacca (presso quelle popolazioni la stalla funge da anticamera). Non sapevo dove passare: qui belavano le pecore, lì ringhiava un cane. Fortunatamente da un canto brillò una fioca luce che mi aiutò a trovare un'altra apertura simile a una porta. Qui mi apparve uno spettacolo abbastanza interessante: un'ampia saklja, il cui tetto poggiava su due pali affumicati, affollata di gente. Nel mezzo scoppiettava un focherello acceso per terra e il fumo, respinto indietro dal vento dall'apertura nel tetto, si stendeva tutt'attorno formando una cortina così densa che per un bel pezzo non riuscii a veder nulla; accanto al fuoco erano sedute due vecchie, una moltitudine di bambini e un georgiano ossuto, tutti coperti di stracci. Nulla da fare: ci sistemammo accanto al fuoco, accendemmo le nostre pipe e ben presto la teiera si mise a sibilare allegramente.
«Povera gente», dissi al capitano in seconda indicando i nostri sudici padroni di casa che in silenzio ci guardavano in preda a una sorta di sbigottimento.
«È gente stupidissima», ribatté lui. «Ci credete che non sono capaci di far nulla e che sono refrattari a qualsiasi educazione? Per lo meno i nostri kabardini o ceceni, sebbene siano dei briganti e degli straccioni, in compenso sono delle teste disperate, mentre questi non hanno nessuna propensione nemmeno per le armi: non vedrete mai un pugnale decente addosso a nessuno di loro. Sono davvero degli osseti!».
«Avete soggiornato a lungo nella Èeènja?».
«Sì, sono stato di stanza laggiù dieci anni col mio reparto, nella fortezza presso il Kàmennyj Brod, la conoscete?».
«Ne ho sentito parlare».
«Oh, mio caro, quante noie ci hanno dato quei briganti! Adesso, Dio sia ringraziato, se ne stanno un po' più quieti, ma una volta, bastava che ti allontanassi cento passi fuori dal fossato, che già ecco che da qualche parte era appostato un diavolo irsuto e, appena ti distraevi, eccoti un laccio al collo o una pallottola nella nuca. Però che gente in gamba!...».
«Avete avuto molte avventure?», domandai spinto dalla curiosità.
«Come no! Ne ho avute...».
Qui egli cominciò a tormentarsi il baffo sinistro, abbassò la testa e si fece pensieroso. Morivo dal desiderio di tirargli fuori qualche bella storia, desiderio proprio di tutte le persone che viaggiano e che scrivono appunti di viaggio. Nel frattempo il tè era ormai pronto; tirai fuori dalla valigia due bicchierini da viaggio, lo versai e ne misi uno davanti a lui. Egli bevve una sorsata e ripeté come fra sé: «Sì, ne ho avute!». Questa esclamazione mi diede grandi speranze. So che i vecchi caucasiani amano parlare, raccontare; ne hanno così di rado l'occasione: qualcuno sta di stanza per cinque anni in qualche angolo remoto col suo reparto e durante tutto questo tempo nessuno gli dice "buongiorno!" (dato che il caporalmaggiore gli dice: "Agli ordini!"). Eppure ci sarebbe di che parlare! Tutt'attorno c'è gente selvaggia, curiosa, ogni giorno pericoli, casi straordinari, tanto che senza volerlo rimpiangi che da noi si scriva così poco.
«Non vorreste aggiungerci un goccio di rhum?», chiesi al mio interlocutore. «Ne ho di quello bianco di Tiflìs; adesso fa freddo».
«No, signore, ve ne ringrazio: non bevo».
«Come mai?».
«Così. Ho dato la mia parola. Quando ero ancora sottotenente, una volta, sapete, abbiamo alzato il gomito fra noi, e durante la notte ci fu un allarme; così uscimmo fuori e ci mettemmo in fila un po' brilli: che lavata di capo ci prendemmo quando Aleksèj Petroviè lo venne a sapere! Ci mancò poco che non ci deferisse alla corte marziale. Il fatto è che a volte te ne stai un anno intero senza vedere nessuno, se poi ci si mette in mezzo anche la vodka, sei fritto».
Sentendo queste parole perdetti quasi le speranze.
«Prendete per esempio i circassi», proseguì lui, «quando si ubriacano di buza a un matrimonio o a un funerale, subito scoppia una rissa. Una volta portai a casa a stento la pelle, benché fossi ospite di un principe pacifico».
«Come è andata?».
«Ecco», egli riempì la pipa, aspirò il fumo e cominciò a raccontare. «Vedete, allora (tra poco saranno cinque anni) ero di stanza con la mia compagnia in una fortezza al di là del Terek. Una volta, d'autunno, arrivò un convoglio di viveri e, assieme a esso, un ufficiale, un giovanotto di circa venticinque anni. Questi mi si presentò in alta uniforme e mi comunicò che aveva avuto l'ordine di restare con me alla fortezza. Era così esile, pallidino e la sua uniforme era talmente nuova di zecca che subito indovinai che doveva trovarsi dalle nostre parti da poco. "Probabilmente siete stato trasferito qui dalla Russia?", mi informai. "Proprio così, signor capitano", mi rispose. Lo presi per un braccio e gli dissi: "Sono molto, molto contento. Vi annoierete un po', ma noi due vivremo da buoni amici. E per favore chiamatemi semplicemente Maksìm Maksimyè; inoltre, per favore, perché questa alta uniforme? Venite da me sempre col berretto". Gli fu assegnato un appartamento ed egli si installò nella fortezza».
«Come si chiamava?», chiesi a Maksìm Maksimyè.
«Si chiamava... Grigorij Aleksàndroviè Peèorin. Era un ragazzo in gamba, ve lo posso assicurare, soltanto un po' strano. Per esempio, a volte se ne stava giornate intere a caccia, sotto l'acqua, al freddo: tutti gli altri erano gelati e stanchi, e lui, invece, come niente fosse... Un'altra volta, al contrario, chiuso in camera sua, bastava uno spiffero che assicurava di essersi raffreddato; sbatteva una persiana, e lui rabbrividiva e impallidiva; eppure l'ho visto io stesso affrontare da solo un cinghiale; a volte non si riusciva a cavargli una parola per ore intere, mentre talora, quando si metteva a raccontare, ti faceva spanciare dalle risa. Sì, si comportava molto stranamente, e doveva essere una persona ricca: quante cosette costose possedeva!...».
«È rimasto a lungo con voi?», domandai di nuovo.
«Circa un anno. Quell'anno, però, me lo ricorderò per un pezzo: quanti guai mi ha combinato, che Dio lo abbia in gloria! In verità ci sono delle persone nel cui destino sta scritto che debbano loro accadere ogni sorta di cose incredibili».
«Incredibili?», esclamai con curiosità versandogli dell'altro tè.
«Sentite questa. A circa sei verste dalla fortezza viveva un principe pacifico. Un suo figlioletto, un ragazzo di sedici anni, aveva preso l'abitudine di venire ogni giorno da noi, ora con un pretesto, ora con un altro, e Grigorij Aleksàndroviè e io l'avevamo veramente viziato. E che scavezzacollo era! Capace di qualsiasi cosa: di raccogliere da terra un colbacco al galoppo come di sparare col fucile. Aveva un solo difetto: era terribilmente avido di denaro. Una volta, tanto per ridere, Grigorij Aleksàndroviè promise che gli avrebbe dato dieci rubli se avesse sottratto per lui il più bel montone dal gregge paterno: ebbene, che cosa credete? La notte successiva lo trascinò fin da noi per le corna. Se poi, a volte, ci saltava in mente di stuzzicarlo, gli occhi gli si iniettavano di sangue e subito metteva mano al pugnale. "Ehi, Azamat", gli dicevo, "non riuscirai a salvare la testa, finirà male la tua zucca!".
«Una volta venne da noi il vecchio principe in persona per invitarci a uno sposalizio: dava in sposa la figliola maggiore e tra noi c'erano vincoli d'ospitalità: non si poteva, quindi, rifiutare, sebbene fosse un tartaro. Ci andammo. Nell'aul fummo accolti dall'abbaiare di una moltitudine di cani. Le donne, vedendoci, si nascondevano e quelle che riuscimmo a vedere in viso erano tutt'altro che bellezze. "Avevo un'opinione assai migliore delle circasse", mi disse Grigorij Aleksàndroviè. "Aspettate", gli risposi con un sorriso. In mente avevo una mia idea.
«Nella saklja del principe era già riunita una grande quantità di persone. Come sapete, gli asiatici hanno l'abitudine di invitare alle nozze chiunque capiti. Fummo accolti con tutti gli onori e condotti nella stanza degli ospiti. Io, comunque, non dimenticai di osservare dove avevano messo i nostri cavalli, sapete, non si sa mai».
«Come festeggiano le nozze?», domandai al capitano.
«Nella maniera consueta. Dapprima il mullah recita qualche passo del Corano, poi vengono offerti i doni agli sposi e ai loro parenti, si mangia, si beve la buza, poi hanno inizio le esibizioni dei cavalieri e c'è sempre qualche straccione bisunto che in groppa a un ronzino zoppo e malandato diverte l'onorata compagnia; più tardi, al tramonto, nella sala degli ospiti ha inizio quello che noi chiameremmo il ballo... Un povero vecchietto strimpella su uno strumento a tre corde... non ricordo più come si chiama nella loro lingua... be', qualcosa di simile alla nostra balalajka. Fanciulle e giovanotti si dispongono in due file, le une di fronte agli altri, battono le mani e cantano. Poi una fanciulla e un uomo avanzano in mezzo alla stanza e cominciano a recitarsi a squarciagola dei versi dicendosi quel che salta loro in mente, mentre gli altri fanno coro. Io e Peèorin eravamo seduti al posto d'onore, quando a un tratto gli si avvicina la figliola minore del padron di casa, una fanciulla che avrà avuto sedici anni, e gli canta... come dire?... una specie di complimento».
«Non ricordate che cosa gli cantò esattamente?».
«Le parole, mi sembra che fossero queste: "Sono belli i nostri giovani cavalieri e i loro caffetani sono ricamati d'argento, ma il giovane ufficiale russo è più bello e porta i galloni d'oro. È come un pioppo in mezzo a loro, soltanto non può crescere e fiorire nel nostro giardino!". Peèorin si alzò in piedi, si inchinò davanti a lei portandosi la mano alla fronte e al cuore, e mi chiese di risponderle; io, che conosco bene la loro lingua, tradussi la sua risposta.
«Quando ella si fu allontanata, sussurrai a Grigorij Aleksàndroviè: "Ebbene, che ve ne sembra?". "È un incanto!" mi rispose. "Come si chiama?". "Bela" replicai io.
«Ed era davvero bella: alta, sottile, con due occhi neri come un camoscio di montagna, che vi penetravano nell'anima. Peèorin, assorto, non distoglieva gli occhi da lei e lei a sua volta lo guardava di continuo di sottecchi. Ma Peèorin non era il solo a contemplare la graziosa principessina: da un angolo della stanza la fissavano altri due occhi, immobili, infuocati. Osservai con attenzione e riconobbi il mio vecchio amico Kazbiè. Era un principe, sapete, non si sa se pacifico od ostile. Nei suoi confronti si nutrivano molti sospetti, sebbene non gli si potesse imputare nulla di preciso. A volte ci portava alla fortezza dei montoni e ce li vendeva a buon prezzo, soltanto non mercanteggiava mai: quel che chiedeva bisognava dargli, neppure a scannarlo avrebbe ceduto. Di lui si diceva che amasse andarsene in giro al di là del Kuban' con gli abreki e, a dire il vero, aveva un aspetto davvero da brigante: era piccolo, secco, con le spalle larghe... Ed era furbo, furbo come il demonio. Il suo bešmet era sempre lacero, rattoppato, ma il suo fucile era incrostato d'argento. Il suo cavallo poi era famoso in tutta la Kabarda e davvero non se ne poteva immaginare uno migliore. Non a caso tutti i cavalieri glielo invidiavano e più di una volta avevano tentato di rubarglielo, ma non ci erano riusciti. Mi sembra di vederlo ancora adesso quel cavallo: un morello nero come la pece, le zampe come corde di violino e due occhi non meno belli di quelli di Bela; e che forza! Era in grado di galoppare anche cinquanta verste; e com'era ammaestrato: accorreva al richiamo del padrone come un cane, ne riconosceva persino la voce! Figuratevi che lui non lo legava neppure mai. Davvero un cavallo da brigante!...
«Quella sera Kazbiè era più cupo che mai e notai che sotto il bešmet indossava una cotta di ferro. "Non per nulla", pensai, "indossa quella cotta di ferro: di certo sta macchinando qualcosa". Nella saklja l'aria si era fatta soffocante, così uscii all'aria aperta per rinfrescarmi. La notte era già calata sulle montagne e la nebbia cominciava a serpeggiare per le gole.
«Mi venne in mente di fare una capatina sotto la tettoia dove erano legati i nostri cavalli per vedere se avessero foraggio e poi perché la prudenza non guasta mai: avevo un cavallo magnifico e già più di un kabardino l'aveva adocchiato pieno d'ammirazione mormorando: "Jakši tche, èek jakši!".
«Mentre camminavo lungo lo steccato, a un tratto sento delle voci; una la riconobbi subito: era quello scavezzacollo di Azamat, il figlio del nostro ospite; l'altro parlava più di rado e a voce più bassa. "Di che mai stanno parlando?", mi domandai. "Non sarà per caso del mio cavallino?". Così mi accoccolai accanto allo steccato e mi misi ad ascoltare sforzandomi di non perdere neppure una parola. A tratti il rumore dei canti e delle conversazioni che giungeva dalla saklja copriva quel colloquio che tanto mi incuriosiva.
«"Hai un cavallo magnifico", diceva Azamat. "Se fossi il padrone a casa mia e avessi un branco di trecento giumente, sarei pronto a darne la metà per il tuo corsiero, Kazbiè!".
«"Ah, è Kazbiè!", pensai e mi rammentai della cotta.
«"Sì", rispose Kazbiè dopo un attimo di silenzio, «in tutta la Kabarda non se ne trova l'eguale. Una volta - questo accadde al di là del Terek - ero andato con gli abreki a rubare dei branchi di cavalli ai russi; non avevamo avuto fortuna e ci eravamo dispersi ognuno in una direzione diversa. Io ero inseguito da quattro cosacchi, alle mie spalle udivo già le grida degli infedeli e davanti a me c'era una fitta boscaglia. Mi rannicchiai sulla sella, mi raccomandai ad Allah e per la prima volta in vita mia offesi il mio cavallo con una frustata. Come un uccello si tuffò in mezzo ai rami; spine aguzze mi laceravano gli abiti, i rami secchi di olmo mi battevano sul viso. Il mio cavallo saltava i ceppi, si apriva un varco tra i cespugli col petto. Avrei fatto meglio ad abbandonarlo al margine del bosco e a cercarmi un nascondiglio a piedi, ma mi dispiaceva separarmi da lui, e il profeta mi ricompensò. Diverse pallottole sibilarono sopra la mia testa e già sentivo i cosacchi che, discesi da cavallo, correvano sulle mie tracce... Improvvisamente ecco davanti a me un profondo borro; il mio corsiero esitò e spiccò il salto. Gli zoccoli posteriori persero la presa ed egli rimase aggrappato alla riva opposta con le zampe anteriori; io lasciai andare le briglie e volai giù nel burrone; questo salvò il mio cavallo che riuscì a balzarne fuori. I cosacchi avevano visto tutto, nessuno però scese nel burrone a cercarmi: di certo pensarono che mi fossi ferito a morte e li udii lanciarsi all'inseguimento del cavallo. Il cuore mi si inondò di sangue; strisciai nell'erba folta lungo il burrone, guardo, e vedo che il bosco è finito, alcuni cosacchi sbucano fuori in una radura e il mio Karagëz galoppa proprio verso di loro; tutti gli si precipitarono dietro gridando; lo inseguirono a lungo e uno specialmente fu lì-lì un paio di volte per gettargli il laccio al collo; io tremai, abbassai gli occhi e mi misi a pregare. Alcuni istanti dopo li rialzai e vedo il mio Karagëz che vola, libero come il vento, con la coda spiegata mentre gli infedeli si trascinano lontano, uno dietro l'altro, per la steppa sui loro cavalli sfiniti. Allah mi vede: questa è la verità, la verità vera! Me ne rimasi fino a tarda notte nel mio burrone. A un tratto, cosa credi, Azamat? Nelle tenebre sento un cavallo che galoppa lungo la sponda del burrone, sbuffa, nitrisce e batte forte gli zoccoli per terra; riconobbi la voce del mio Karagëz: era lui, il mio fedele compagno! Da allora non ci siamo più separati".
«E si sentiva che batteva dolcemente con la mano sul collo liscio del suo destriero chiamandolo con gli appellativi più teneri.
«"Se avessi un branco di mille giumente", disse Azamat, "te lo darei tutto per il tuo Karagëz".
«"Jok, non voglio", rispose Kazbiè con indifferenza.
«"Ascolta, Kazbiè", disse con fare carezzevole Azamat, "tu sei un uomo buono, un cavaliere valoroso, mentre mio padre ha paura dei russi e non mi lascia andare sulle montagne; cedimi il tuo cavallo, e io farò tutto quello che vorrai, ruberò a mio padre, per dartela, la sua carabina migliore, o la sciabola, qualunque cosa tu desideri; la sua sciabola è una vera gurdà: basta appoggiarne il filo contro la mano ed entra da sola nella carne; neanche una cotta di maglia come la tua servirebbe a nulla".
«Kazbiè taceva.
«"Dalla prima volta che ho visto il tuo cavallo", continuò Azamat, "mentre volteggiava e saltava sotto di te, dilatando le froge e facendo volar via in frantumi i selci sotto gli zoccoli, non so quale sentimento si è impossessato della mia anima e da allora ho preso in odio ogni cosa: guardo con disprezzo i migliori corsieri di mio padre, mi vergogno di farmi vedere in sella a loro; in preda alla tristezza trascorro giornate intere sopra una roccia e ogni momento mi si presenta alla mente il tuo morello con la sua andatura elegante, con la sua groppa liscia, diritta come una freccia, e mi guarda con quegli occhi vivaci, come se volesse dirmi qualcosa. Morirò, Kazbiè, se non me lo venderai!", concluse Azamat con voce tremante.
«Mi parve di udire il suo pianto, e dovete sapere che Azamat era un ragazzaccio testardissimo da cui non c'era modo di spremere una lacrima, perfino quando era ancor più giovane.
«In risposta alle sue lacrime risuonò una specie di risata.
«"Ascolta", riprese con voce ferma Azamat. "Vedi che sono pronto a tutto. Vuoi che rapisca per te mia sorella? Come danza! Come canta! E fa ricami d'oro che sono un miracolo! Neppure un pascià turco ha mai avuto una moglie simile... La vuoi? Aspettami domani notte là nella gola dove scorre il torrente: io passerò di lì con lei per recarmi nell'aul vicino, ed ella sarà tua. Forse che Bela non vale il tuo corsiero?".
«Dopo un lunghissimo silenzio infine Kazbiè, per tutta risposta, intonò a mezza voce un'antica canzone:

Nei nostri aul son molte le belle,
Nel nero degli occhi scintillan le stelle,
Invidin pur molti chi del loro amor gode,
Assai più lieta è la libertà del prode.
Con l'oro si compra ben più d'una sposa,
Ma un nobil destrier è cosa più preziosa.
Più veloce del vento con sé ti porterà,
Né mai tradirti o ingannarti potrà.

«Invano Azamat, piangendo, lusingandolo e giurando, lo supplicava di acconsentire; infine Kazbiè con tono impaziente lo interruppe:
«"Vattene via, ragazzetto pazzo! Quando mai potresti cavalcare il mio cavallo? Al terzo passo ti getterebbe giù di sella e ti fracasseresti la nuca sulle pietre".
«"Me!", urlò Azamat fuori di sé e il ferro del suo pugnale da ragazzo stridette contro la cotta. Un braccio robusto lo scagliò lontano ed egli urtò così forte contro lo steccato che questo oscillò. "Ora ci sarà da divertirsi", pensai e mi precipitai nella stalla, slegai i cavalli e li condussi nel cortile posteriore. Due minuti dopo nella saklja si levò un frastuono spaventoso. Ecco cos'era accaduto: Azamat era corso là dentro col bešmet lacerato, dicendo che Kazbiè voleva sgozzarlo. Tutti erano balzati in piedi afferrando i fucili ed era cominciata la festa. Urla, strepiti, spari; ma Kazbiè era già in sella e caracollava in mezzo alla calca come un demonio brandendo la sciabola. "Brutto affare l'ubriachezza in un banchetto in casa di estranei", dissi a Grigorij Aleksàndroviè prendendolo per un braccio. "Non faremmo meglio ad andarcene al più presto?".
«"Aspettate, voglio vedere come andrà a finire".
«"Andrà certamente a finir male; con questi asiatici è sempre così: si riempiono di buza e subito comincia la carneficina!". Montammo in sella e ce ne tornammo a casa al galoppo".
«Ma che fine fece Kazbiè», domandai con impazienza al capitano.
«Cosa volete mai che succeda alla gente come quella!», mi rispose lui finendo di bere il suo tè. «Naturalmente se la cavò».
«Non rimase neppure ferito?», insistetti.
«Lo sa Iddio! Hanno sette vite quei banditi! Ne ho visti taluni in battaglia che, per esempio erano tutti trafitti dalle baionette, come colabrodi, e continuavano a menar fendenti con la sciabola». Il capitano, dopo esser rimasto in silenzio per qualche tempo, batté il piede per terra:
«Una cosa soltanto non mi perdonerò mai: rientrati alla fortezza il diavolo mi spinse a raccontare a Grigorij Aleksàndroviè tutto quello che avevo udito mentre stavo seduto dietro lo steccato; lui ridacchiò - era così furbo! - ma tra sé architettò qualcosa».
«E che cosa mai? Raccontate, vi prego».
«Ebbene non posso fare altrimenti: visto che ho cominciato a raccontare debbo andare avanti.
«Quattro o cinque giorni dopo, Azamat venne alla fortezza. Come al solito si recò da Grigorij Aleksàndroviè che gli offriva sempre delle leccornie. Io ero presente; il discorso cadde sui cavalli e Peèorin cominciò a lodare il cavallo di Kazbiè decantando quanto era vivace, bello, simile a un camoscio, - insomma a suo dire nel mondo intero non c'era l'eguale.
«Gli occhietti del piccolo tartaro cominciarono a sfavillare, ma sembrava che Peèorin non se ne avvedesse; appena provavo a parlare di qualcos'altro, subito riportava il discorso sul cavallo di Kazbiè. La storia si ripeteva ogni volta che veniva Azamat. Circa tre settimane dopo cominciai a notare che Azamat impallidiva e si prosciugava come avviene a causa dell'amore nei romanzi. Che prodigio era mai quello?...
«Solo più tardi, vedete, venni a conoscenza di tutta la faccenda: Grigorij Aleksàndroviè lo stuzzicò a tal punto che sarebbe stato pronto a fare qualsiasi cosa; una volta gli dice: "Vedo, Azamat, che quel cavallo ti piace maledettamente, ma non lo vedrai mai, come la tua nuca! Suvvia, dimmi: cosa daresti a chi te lo regalasse?...".
«"Qualunque cosa volesse", rispose Azamat.
«"In tal caso io te lo procurerò, soltanto a un patto... Giura che lo adempirai...".
«"Lo giuro... Giura anche tu...".
«"Bene! Giuro che avrai il cavallo; soltanto in cambio tu devi consegnarmi tua sorella Bela: Karagëz sarà il suo kalym. Spero che l'affare sia per te proficuo".
«Azamat rimase silenzioso.
«"Non vuoi? Non importa! Credevo che fossi un uomo, e invece sei ancora un bambino: è troppo presto per te per andare a cavallo...".
«Azamat avvampò. "E mio padre?", replicò.
«"Non si allontana forse mai?".
«"È vero...".
«"D'accordo?...".
«"D'accordo", mormorò Azamat, pallido come un cadavere. "Quando allora?".
«"La prima volta che Kazbiè verrà qui: ha promesso di portarci una decina di montoni; il resto è affar mio. Bada, Azamat!".
«Così conclusero questo affare, un losco affare, a dire il vero! Più tardi lo dissi anche a Peèorin, ma lui si limitò a rispondermi che quella piccola selvaggia circassa doveva essere contenta di avere un marito come lui - visto che, secondo i loro costumi, lui sarebbe stato purtuttavia suo marito - e che Kazbiè era un bandito che bisognava punire. Giudicate voi stesso: cosa mai avrei potuto controbattere a questi argomenti?... Ma a quel tempo non sapevo nulla del loro complotto. Un giorno, dunque, venne da noi Kazbiè e ci domandò se non ci occorrevano dei montoni e del miele; gli ordinai di portarceli il giorno appresso. "Azamat!", disse Grigorij Aleksàndroviè. "Domani Karagëz sarà nelle mie mani; se stanotte Bela non sarà qui, tu non vedrai mai il cavallo...".
«"Bene!", replicò Azamat e galoppò all'aul. La sera Grigorij Aleksàndroviè si armò e uscì dalla fortezza: come avessero concordato la faccenda non lo so, so soltanto che durante la notte entrambi ritornarono e la sentinella vide che di traverso sulla sella di Azamat era posata una donna con le mani e i piedi legati e la testa avvolta nella èadra.
«"E il cavallo?", domandai al capitano.
«Adesso, adesso. Il giorno dopo, la mattina presto arrivò Kazbiè, conducendo con sé una decina di montoni che voleva venderci. Dopo aver legato il cavallo accanto allo steccato venne da me; io gli offrii del tè, poiché, sebbene fosse un brigante, era pur sempre mio kunàk.
«Ci mettemmo a chiacchierare di questo e di quello, quando a un tratto vidi Kazbiè sussultare, mutarsi in volto e precipitarsi alla finestra; ma la finestra sfortunatamente dava sul cortile. «Che ti prende?", domandai.
«"Il mio cavallo!... il cavallo!", esclamò tremando tutto.
«In effetti avvertii uno scalpitio di zoccoli: «Di sicuro è qualche cosacco che è arrivato...".
«"No! Urus jaman, jaman!," ruggì lui e si precipitò fuori a rompicollo, come una pantera selvaggia. In due balzi era già nel cortile; alla porta della fortezza una sentinella gli sbarrò la strada col fucile: egli saltò oltre il fucile e si mise a correre per la strada... Lontano si levava una nuvola di polvere: Azamat galoppava in sella al focoso Karagëz; correndo Kazbiè estrasse dal fodero il fucile e sparò: per qualche istante rimase immobile, finché non si fu convinto di aver fallito il bersaglio; poi lanciò uno strido, sbatté il fucile contro un macigno fracassandolo, crollò a terra e scoppiò in singhiozzi come un bambino... Attorno a lui si affollarono parecchie persone uscite dalla fortezza, ma lui non faceva caso a nessuno; dopo esser rimasti li per un po' a chiacchierare, tutti ritornarono dentro; io diedi ordine di deporre accanto a lui il denaro per i montoni, ma lui non lo toccò e continuò a giacere bocconi, come morto. Mi credereste? Rimase lì così fino a tarda sera e per l'intera notte... Soltanto il mattino dopo entrò nella fortezza e chiese che gli dicessero il nome del ladro. La sentinella che aveva visto Azamat slegare il cavallo e fuggire al galoppo non ritenne necessario celarglielo. A quel nome gli occhi di Kazbiè sfavillarono ed egli si incamminò alla volta dell'aul dove abitava il padre di Azamat».
«E il padre che fece?».
«Il fatto è che Kazbiè non lo trovò: se ne era andato da qualche parte per cinque o sei giorni; altrimenti come avrebbe fatto Azamat a rapire la sorella?
«E quando il padre ritornò non trovò né la figlia né il figlio. Quel furbo ne aveva capito che non avrebbe salvato la testa se fosse caduto in mano a suo padre. Così da allora non si fece più vedere, di sicuro si unì a qualche banda di abreki e lasciò la testa ribelle al di là del Terek o del Kuban': è quel che si meritava!...
«Confesso che ebbi anch'io la mia bella parte di guai. Non appena appurai che la piccola circassa era in casa di Grigorij Aleksàndroviè, mi misi le spalline e la spada e mi recai da lui.
«Lo trovai sdraiato sul letto nella prima stanza, con una mano sotto la nuca e la pipa spenta nell'altra; la porta che dava nella seconda camera era chiusa a chiave e la chiave non era nella toppa. Notai immediatamente tutto questo. Mi misi a tossire e a battere coi tacchi sulla soglia, ma lui faceva finta di non sentire.
«"Signor sottotenente!", dissi con tono quanto più possibile severo. "Non vedete, dunque, che sono venuto da voi?".
«"Ah, salve, Maksìm Maksimyè! Non gradireste una pipa?" replicò senza alzarsi.
«"Scusate! Io non sono Maksìm Maksimyè, sono il capitano".
«"Fa lo stesso. Non gradireste del tè? Se sapeste quale preoccupazione mi tormenta!".
«"So tutto", ribattei io e mi avvicinai al letto.
«"Tanto meglio: non sono in vena di raccontare".
«"Signor sottotenente, voi avete commesso un'azione, della quale posso essere chiamato a rispondere anch'io...".
«"Oh, basta! Dov'è il guaio? Sapete bene che da un pezzo dividiamo tutto a metà".
«"Che scempiaggini sono queste? Favorite la vostra spada".
«"Mit'ka, la spada!...".
«Mit'ka portò la spada. Dopo aver fatto il mio dovere, mi sedetti sul letto accanto a lui e gli dissi: «Senti, Grigorij Aleksàndroviè, riconosci che non è una bella cosa".
«"Che cosa non è una bella cosa?".
«"Il fatto che ti sei preso Bela... Ah, che bestia quell'Azamat!... Suvvia, riconoscilo", gli dissi.
«"Ma se mi piace?...".
«Be, cosa avreste risposto a questo? Mi ero infilato in un vicolo cieco. "Sentite, Maksìm Maksimyè", proseguì Peèorin sollevandosi a sedere. "Voi siete un uomo buono: se restituiremo sua figlia a quel selvaggio egli la sgozzerà o la venderà. Ormai la cosa è fatta: bisogna soltanto non guastarla di nostra volontà; lasciatela qui da me e voi tenetevi la mia spada...".
«"Fatemela vedere", dissi.
«"È oltre quella porta, soltanto io stesso ho tentato invano di vederla poco fa: se ne sta seduta in un angolo tutta avvolta in una coperta senza parlare e senza guardare: è timida come un camoscio selvaggio. Ho assoldato la nostra vivandiera che parla il tartaro: lei la accudirà e la abituerà al pensiero che è mia, poiché lei non apparterrà a nessun altro all'infuori di me!", aggiunse battendo il pugno sul tavolo. Acconsentii anche su questo. Che volete farci? Ci sono persone con le quali bisogna acconsentire per forza».
«E come andò a finire?», domandai a Maksìm Maksimyè. «Riuscì veramente ad abituarla a sé, oppure lei in cattività si ammalò di nostalgia per la sua patria?».
«Perché, di grazia, di nostalgia per la patria? Dalla fortezza si vedevano le stesse montagne che si vedevano dal suo aul e a questi selvaggi non occorre altro. Inoltre Grigorij Aleksàndroviè ogni giorno le regalava qualcosa: i primi giorni lei respingeva orgogliosamente i suoi regali che finivano nelle mani della vivandiera, dando esca alla sua eloquenza. Ah, i regali! Cosa non farebbe una donna per uno straccetto colorato!... Be', lasciamo perdere. Grigorij Aleksàndroviè lottò a lungo con lei; tra l'altro imparò il tartaro, mentre lei cominciò a capire la nostra lingua. A poco a poco ella si abituò a guardarlo, dapprima furtivamente, di sbieco, ma era sempre triste e cantava sottovoce le sue canzoni in maniera tale che, a volte, anch'io ero preso dalla tristezza sentendola dalla stanza accanto. Non dimenticherò mai una scena che vidi un giorno, passando lì accanto e guardando dalla finestra; Bela stava seduta sulla panca col capo chino sul petto e Grigorij Aleksàndroviè era in piedi davanti a lei. "Ascolta mia peri", le diceva, "sai bene che presto o tardi dovrai esser mia, perché quindi mi tormenti? Ami forse qualche ceceno? Se è così, ti lascerò subito tornare a casa tua". Lei sussultò impercettibilmente e scosse la testa. "Oppure", continuò lui, "ti sono tanto odioso?". Lei sospirò. "O la tua fede ti impedisce di amarmi?". Lei impallidì e rimase in silenzio. "Credimi, Allah è uno solo e identico per tutte le stirpi, perché dovrebbe proibirti di ricambiare il mio amore?". Lei lo guardò fisso in viso come colpita da quel nuovo pensiero; nei suoi occhi si leggevano incredulità e desiderio di convincersi. Che occhi! Sfavillavano come due carboni accesi!
«"Ascolta, cara, buona Bela", proseguì Peèorin, "tu vedi come ti amo; sono pronto a dare qualsiasi cosa pur di rallegrarti: voglio che tu sia felice; se invece sarai di nuovo triste io ne morirò. Dimmi, sarai più allegra?". Ella si fece assorta senza distogliere da lui i suoi occhi neri, poi sorrise e accennò con la testa in segno di consenso. Egli le prese la mano e tentò di persuaderla a baciarlo; lei si difendeva debolmente ripetendo soltanto: "Per fafore, per fafore, non fare, non fare". Egli insistette; lei cominciò a tremare e scoppiò a piangere. "Io sono tua prigioniera", diceva, "sono la tua schiava; naturalmente tu puoi costringermi...", e giù di nuovo lacrime.
«Grigorij Aleksàndroviè si diede un pugno sulla fronte e si precipitò fuori nell'altra stanza. Io entrai da lui; cupo in volto camminava avanti e indietro a braccia conserte. "Che succede, mio caro?", gli chiesi. "È un diavolo, non una donna", rispose lui. "Ma vi do la mia parola d'onore che sarà mia...". Scossi la testa. "Volete scommettere?", replicò lui. "Entro una settimana". "A vostra disposizione!". Ci stringemmo la mano e ci separammo.
«Il giorno successivo mandò subito una staffetta a Kjzljar a fare svariati acquisti; gli fu portata un'infinità di stoffe persiane di ogni sorta, impossibile enumerarle tutte.
«"Che ne pensate, Maksìm Maksimyè", mi chiese mostrandomi i regali. "Resisterà la bella asiatica a questo fuoco di batteria?".
«"Voi non conoscete le piccole circasse", replicai. "Sono tutt'altra cosa rispetto alle georgiane o alle tartare transcaucasiche, tutt'altra cosa. Hanno le loro regole: sono allevate diversarmente". Grigorij Aleksàndroviè sorrise e si mise a fischiettare una marcia.
«Ma risultò che avevo ragione io: i regali ebbero effetto soltanto a metà. La fanciulla divenne più affettuosa, più confidente e nulla più; cosicché lui si decise all'estremo passo. Una mattina ordinò che gli sellassero il cavallo, si vesti alla maniera circassa, si armò ed entrò nella sua stanza. "Bela!", le disse. "Tu sai quanto ti amo. Mi sono risolto a rapirti pensando che, una volta conosciutomi, mi avresti amato; mi sono sbagliato: addio! Resta pure qui padrona assoluta di tutto quello che ho, se lo desideri, oppure ritorna da tuo padre: sei libera. Io sono in colpa davanti a te e debbo punirmi; addio, me ne vado. Dove? Che mai ne so! Forse non correrò a lungo dietro a una fucilata o a un colpo di sciabola; allora ricordati di me e perdonami". E, voltata la faccia dall'altra parte, le tese la mano in segno di addio. Lei non la prese e rimase silenziosa. In piedi dietro la porta riuscii appena a scorgere da una fessura il suo viso e fui sopraffatto dalla pietà: che pallore mortale aveva coperto quel grazioso visetto! Non udendo risposta, Peèorin fece alcuni passi verso la soglia; egli tremava... che debbo dirvi? Penso che sarebbe stato veramente capace di mettere in atto quel che aveva detto per scherzo. Era fatto così, com'è vero Iddio! Soltanto quando fu giunto alla soglia lei saltò su, scoppiò in singhiozzi e gli si gettò al collo. Ci credereste? Anch'io, ritto dietro la porta, mi misi a piangere, cioè, sapete, non che mi sia messo a piangere, ma insomma, così... che sciocchezza!...».
Il capitano tacque.
«Sì, lo confesso», aggiunse poi tormentandosi i baffi. «Mi rammaricai che mai nessuna donna mi avesse amato così».
«E la loro felicità fu duratura?», domandai.
«Sì, lei ci confessò che dal giorno che aveva visto Peèorin lo aveva sovente sognato e che nessun altro uomo aveva prodotto su di lei una simile impressione. Sì, furono felici!».
«Com'è noioso tutto questo», non potei trattenermi dall'esclamare. In effetti mi aspettavo uno scioglimento tragico e invece, così inaspettatamente, le mie speranze erano andate deluse!... «Ma possibile», ripresi, «che il padre non indovinasse che lei era da voi nella fortezza?».
«Sembra che lo sospettasse, ma alcuni giorni dopo venimmo a sapere che il vecchio era stato ucciso. Ecco come accadde...».
La mia attenzione si risvegliò di nuovo.
«Dovete sapere che Kazbiè aveva immaginato che Azamat gli avesse rubato il cavallo col consenso del padre, così almeno suppongo. Così un giorno lo aspettò sulla strada a circa tre verste dall'aul; il vecchio stava ritornando dalle sue vane ricerche della figlia; i servi erano rimasti indietro, era il crepuscolo ed egli procedeva al passo, pensieroso, quando a un tratto Kazbiè come un gatto sbucò fuori da un cespuglio, balzò sul cavallo dietro di lui, con una pugnalata lo fece stramazzare a terra e, afferrate le redini, si dileguò. Alcuni servi, che da un'altura avevano visto tutto, si lanciarono all'inseguimento, ma non riuscirono a raggiungerlo».
«Si era rifatto della perdita del cavallo e si era vendicato», dissi per sondare l'opinione del mio interlocutore.
«Naturalmente, secondo il loro modo di pensare, egli aveva perfettamente ragione».
Rimasi involontariamente colpito dalla capacità del russo di adattarsi alle usanze dei popoli in mezzo ai quali gli capita di vivere. Non so se tale caratteristica mentale sia degna di biasimo o di lode, ma essa dimostra la sua incredibile flessibilità e il possesso di quel lucido buon senso che perdona il male ovunque veda la sua necessità o l'impossibilità di eliminarlo.
Nel frattempo avevamo finito di bere il tè; i cavalli, che erano stati attaccati da un pezzo e ci attendevano fermi sulla neve, tremavano tutti; la luna impallidiva a occidente ed era ormai pronta a immergersi tra le nere nubi che, simili a brandelli di una tenda lacerata, pendevano dalle cime lontane. Uscimmo dalla saklja. Contrariamente alle previsioni del mio compagno di viaggio il tempo era migliorato e ci prometteva un mattino sereno; le stelle intrecciavano stupendi arabeschi sull'orizzonte lontano e, una dopo l'altra, si spegnevano a mano a mano che il pallido bagliore dell'alba si diffondeva sulla volta del cielo d'un color lilla scuro, illuminando a poco a poco i ripidi pendii delle montagne coperte di nevi immacolate. A destra e a sinistra nereggiavano cupi, misteriosi abissi e le nebbie, avvolgendosi e contorcendosi come serpenti, vi scivolavano dentro lungo le pieghe delle rocce vicine, come se avvertissero e paventassero l'approssimarsi del giorno. Tutto era quieto in cielo e sulla terra, come nel cuore dell'uomo nel momento della preghiera mattutina; soltanto di tanto in tanto giungeva da oriente un soffio di vento freddo sollevando le criniere dei cavalli coperte di brina. Ci mettemmo in cammino; a fatica cinque magre rozze trascinavano i nostri carri lungo la tortuosa strada della Gud-Gorà; noi li seguivamo a piedi, ponendo pietre sotto le ruote quando i cavalli si fermavano sfiniti; sembrava che la strada portasse al cielo perché, per quanto l'occhio riusciva a vedere, continuava a salire e infine spariva nella nuvola che fin dalla sera prima era posata sulla cima della Gud-Gorà, come un avvoltoio in attesa della preda; la neve scricchiolava sotto i nostri piedi, l'aria si era così rarefatta che faceva male respirare; il sangue di continuo affluiva alla testa, ma con tutto ciò una sensazione gioiosa pervadeva tutte le mie vene e provavo una sorta di allegria per il fatto di trovarmi così in alto al di sopra del mondo - un sentimento infantile, non discuto, ma quando ci allontaniamo dalle convenzioni della società e ci avviciniamo alla natura, ridiventiamo involontariamente fanciulli: tutto quello che è acquisito cade dalla nostra anima ed essa diventa di nuovo qual era un tempo e quale indubbiamente sarà ancora un giorno. Chi, come me, ha avuto la ventura di vagare per le montagne deserte, di osservare a lungo le loro capricciose forme e di respirare con avidità l'aria vivificante delle loro gole, certamente comprenderà il mio desiderio di trasmettere, di raccontare, di disegnare quei quadri portentosi. Finalmente arrivammo in cima alla Gud-Gorà, ci fermammo e ci guardammo intorno: sopra di noi incombeva una nuvola grigia e il suo freddo alito minacciava un'imminente tormenta, ma a oriente tutto era così limpido e dorato che noi, cioè il capitano e io, ce ne dimenticammo completamente... Sì, anche il capitano: nei cuori semplici il sentimento della bellezza e della grandiosità della natura è cento volte più forte e più vivo che in noi, narratori entusiastici a parole e sulla carta.
«Voi, credo, siete abituati a questi quadri stupendi, non è vero?», gli dissi.
«Sì: ci si può abituare anche al sibilo delle pallottole, cioè ci si può abituare a nascondere l'istintivo batticuore».
«Ho sentito dire, al contrario, che per certi vecchi soldati quella musica è persino gradevole».
«Si capisce, se volete è anche gradevole, ma soltanto perché il cuore batte più forte. Guardate», aggiunse indicandomi l'oriente. «Che paesaggio!».
E in effetti un panorama simile difficilmente mi capiterà ancora di vederlo: sotto di noi si stendeva la valle di Kojšaursk, solcata dall'Aragvi e da un altro fiumicello, simili a due fili d'argento; la nebbia azzurrina scivolava lungo di essa sfuggendo nelle gole vicine i caldi raggi del mattino; a destra e a sinistra crinali di montagne, l'uno più alto dell'altro, si intersecavano e si distendevano coperti di neve e di arbusti; in lontananza altre montagne come queste, ma ci fossero state due, almeno due, rocce simili l'una all'altra! E tutte quelle nevi ardevano di un riflesso vermiglio così allegramente, così vividamente che si sarebbe desiderato di rimanere lì per sempre. Il sole cominciava a far capolino da dietro una montagna di colore azzurro cupo che soltanto un occhio abituato poteva distinguere dalla nuvola foriera di tempesta, ma al di sopra del sole si stendeva una striscia sanguigna alla quale il mio compagno rivolse una particolare attenzione.
«Ve l'avevo detto», esclamò, «che oggi avremmo avuto cattivo tempo... Bisogna affrettarsi, altrimenti ci sorprenderà sulla Krestovaja. In cammino!», gridò ai vetturali.
Misero delle catene alle ruote in luogo di freni, perché non prendessero l'abbrivo, presero i cavalli per il morso e cominciarono a scendere; a destra c'era la roccia, a sinistra un precipizio tale che l'intero villaggio di osseti che vivevano sul fondo di esso sembrava un nido di rondini. Rabbrividii al pensiero che spesso di là, a notte fonda, per quella strada dove due carri non potevano incrociarsi un corriere qualunque passava una decina di volta all'anno senza nemmeno scendere dal suo traballante veicolo. Uno dei nostri vetturali era un contadino russo di Jaroslàvl', l'altro un osseta: l'osseta conduceva il cavallo da stanga per il morso con tutte le precauzioni possibili, dopo aver distaccato i cavalli anteriori, mentre il nostro noncurante russo non era nemmeno sceso di serpa! Quando gli feci osservare che avrebbe potuto preoccuparsi almeno della mia valigia che non avevo voglia di andare a cercare in fondo a quell'abisso, mi rispose: «Eh, signore! Se Dio vorrà, arriveremo a destinazione non peggio di loro: non è la prima volta che facciamo questa strada...», e aveva ragione: in effetti avremmo anche non potuto arrivare a destinazione, tuttavia ci arrivammo e se tutti gli uomini ragionassero un po' di più si persuaderebbero che la vita non merita che ci si preoccupi tanto di essa.
Ma voi, forse, vorreste sapere come finì la storia di Bela? Innanzitutto non sto scrivendo una novella, ma degli appunti di viaggio, di conseguenza non posso costringere il capitano a raccontare prima di quando in realtà cominciasse a farlo. Quindi aspettate, oppure, se volete, saltate alcune pagine, però non ve lo consiglio perché la traversata della montagna Krestovaja (o le Mont St.-Christophe, come la chiama il dottor Gamba) merita la vostra curiosità. Dunque scendemmo dalla Gud-Gorà nella Valle Èertova... Che nome romantico! Voi già vedete il nido dello spirito del male in mezzo a picchi inaccessibili: niente di tutto questo! Il nome della valle Èertova deriva dalla parola èertà, perché qui un tempo passava il confine della Georgia. Questa valle era ingombra di monticelli di neve che ricordavano vivamente Saratov, Tambòv e altri graziosi luoghi della nostra patria.
«Ecco la Krestovaja!», mi disse il capitano quando fummo discesi nella valle Èertova, indicandomi una collina ricoperta da un sottile strato di neve; in cima a essa nereggiava una croce di pietra accanto alla quale passava una strada a malapena distinguibile, che si percorre soltanto quando quella laterale è ostruita dalla neve.
I nostri vetturali dichiararono che non c'erano ancora valanghe e, per risparmiare i cavalli, decisero di fare il giro. A una svolta incontrammo cinque o sei osseti che ci offrirono i loro servigi e, afferrando le ruote e gridando, cominciarono a trascinare e a sostenere i nostri carri. E a ragione, la strada infatti è pericolosa: a destra incombevano sopra le nostre teste cumuli di neve che sembravano lì-lì per precipitare nella gola al primo soffio di vento; la strada era stretta e in parte coperta di neve che, in taluni punti, sprofondava sotto i piedi, in altri si era trasformata in ghiaccio per l'azione dei raggi del sole e dei geli notturni, di modo che noi stessi riuscivamo a stento a passare e i cavalli cadevano; a sinistra si spalancava un profondo dirupo in fondo al quale scorreva un torrente, ora nascondendosi sotto una scorza di ghiaccio, ora saltellando e spumeggiando sopra i sassi neri. In due ore riuscimmo a malapena ad aggirare la montagna Krestovaja: due verste in due ore! Nel frattempo le nuvole si erano addensate e cominciò a grandinare e a nevicare; il vento irrompendo nelle gole ruggiva e fischiava come il brigante Usignuolo, e ben presto la croce sparì nella nebbia che da oriente affluiva a ondate l'una più densa e spessa dell'altra... A proposito, su questa croce esiste una strana ma universalmente nota leggenda, secondo cui essa sarebbe stata eretta dall'imperatore Pietro I durante un suo viaggio nel Caucaso; ma, prima di tutto Pietro è stato soltanto nel Dagestàn, e, in secondo luogo, sulla croce è scritto a caratteri cubitali che venne eretta per ordine del generale Ermolov, e precisamente nell'anno 1824. Tuttavia questa leggenda, nonostante la scritta, si è talmente radicata che davvero non si sa a che cosa credere, tanto più che noi non siamo abituati a prestar fede a quel che si scrive.
Dovevamo ancora scendere per circa cinque verste per rocce ghiacciate e neve molle per raggiungere la stazione di Kobi. I cavalli erano sfiniti, noi eravamo intirizziti; la tormenta fischiava sempre più forte come quella a noi familiare del nord, soltanto le sue selvagge canzoni erano più tristi, più desolate. «Sei anche tu un esule», pensai, «piangi le tue steppe sterminate! Là sì che puoi stendere a piacimento le tue gelide ali, mentre qui sei allo stretto e ti senti soffocare come un'aquila che si dibatte urlando contro le sbarre di ferro della sua gabbia».
«Si mette male», esclamò il capitano. «Guardate, attorno non si vede più nulla, soltanto nebbia e neve, non ci vuoi niente a finire nel precipizio o a impantanarci, mentre laggiù più in basso forse la Bajdara sarà talmente in piena che non riusciremo a passare dall'altra parte. Ah, non ne posso più di quest'Asia! I fiumi sono tali e quali la gente: non ci puoi assolutamente fare affidamento». I vetturali con urla e imprecazioni battevano i cavalli, che sbuffavano, si impuntavano e non volevano saperne di smuoversi da dove si trovavano, nonostante l'eloquenza delle fruste. «Vostra eccellenza», disse finalmente uno, «con questo tempo non ce la faremo ad arrivare a Kobi; non ordinereste, finché è possibile, di svoltare a sinistra? Laggiù sul pendio del monte si vede qualcosa, probabilmente è la saklja dove quelli che passano di qui si fermano sempre quando fa brutto tempo; quelli dicono che ci condurranno fin laggiù, se darete loro qualcosa per la vodka», aggiunse indicando un osseta.
«Lo so, fratellino, lo so da me», replicò il capitano. «Uh, queste bestie! Son felici di ogni occasione per strappare una mancia!».
«Riconoscete, almeno», dissi io, «che senza di loro ce la saremmo vista brutta...».
«Sempre così, sempre così», borbottò lui. «Ve le raccomando queste guide! Sentono al fiuto dove c'è da scroccare qualcosa, come se senza di loro non si potesse trovare la strada!».
Così prendemmo a sinistra e in qualche modo, con non poco affanno, raggiungemmo un misero rifugio costituito da due sakli costruite con lastre e ciottoli e circondate da un muro fatto allo stesso modo; i padroni di casa, coperti di cenci, ci accolsero cordialmente. In seguito venni a sapere che il governo fornisce loro un compenso in denaro e del cibo a condizione che diano ricovero ai viaggiatori sorpresi dalla tormenta.
«Torna a proposito», dissi, sedendomi accanto al fuoco. «Adesso finirete di raccontarmi la storia di Bela; sono sicuro che non si è conclusa così...».
«Perché ne siete così convinto?», mi rispose il capitano strizzandomi l'occhio con un sorriso furbo.
«Perché ciò non è nell'ordine delle cose: quel che è cominciato in maniera straordinaria deve anche finire allo stesso modo».
«In verità avete indovinato...».
«Me ne rallegro».
«Voi ve ne rallegrate, io invece provo tristezza quando ci ripenso. Che meravigliosa ragazza era quella Bela! Alla fine mi ero affezionato a lei come a una figlia, e anche lei mi voleva bene. Dovete sapere che io non ho famiglia: di mio padre e di mia madre non ho più notizie da dodici anni e non ho pensato prima di provvedermi di una moglie, così che adesso, sapete, non starebbe nemmeno più bene Perciò ero lieto di aver trovato qualcuno da coccolare. Lei, a volte, ci cantava qualche canzone o danzava una lezginka... Ah come danzava! Ne ho viste io delle nostre signorine di provincia, e una volta, una ventina d'anni fa, sono stato anche al Circolo dei Nobili a Mosca, ma volete mettere? Non c'è paragone!... Grigorij Aleksàndroviè la agghindava come una bambola, la circondava di attenzioni e la coccolava, e lei, stando da noi, era diventata così bella che pareva un miracolo; il volto e le braccia avevano perduto l'abbronzatura e le guance si eran fatte colorite. Com'era allegra, a volte, e immancabilmente la birbantella si prendeva gioco di me... Che Dio la perdoni! ».
«Ma cosa accadde quando le annunciaste la morte del padre?».
«Gliela tenemmo a lungo nascosta, finché non si fu abituata alla nuova situazione; quando poi glielo dicemmo pianse per due giorni e poi se ne scordò.
«Per circa quattro mesi tutto andò come meglio non si sarebbe potuto desiderare. Grigorij Aleksàndroviè, mi sembra di avervelo già detto, amava appassionatamente la caccia: ogni momento spariva nei boschi a inseguire cinghiali e capre selvatiche; ora invece non metteva nemmeno più piede fuori del bastione della fortezza. Un giorno, però, mi accorsi che si era fatto di nuovo pensieroso e camminava per la stanza con le mani dietro la schiena; poi una volta, senza dir niente a nessuno, se ne andò a caccia e sparì per una mattinata intera; la cosa si ripeté una, due volte e poi sempre più spesso... "Brutto segno", pensai. "Di sicuro il gatto nero è passato tra loro!".
«Una mattina mi reco da loro - mi sembra di vedere ancora la scena: Bela era seduta sul letto avvolta in un bešmet nero di seta, così pallida e triste che mi spaventai.
«"Dov'è Peèorin?", domandai.
«"A caccia".
«"È partito oggi?". Lei rimase in silenzio come se le pesasse rispondere.
«"No, sin da ieri", disse finalmente con un profondo sospiro.
«"Non gli sarà forse successo qualcosa?".
«"Ieri non ho fatto altro che pensarci", replicò lei tra le lacrime, "ho immaginato disgrazie di ogni genere: ora mi veniva in mente che fosse stato ferito da un cinghiale selvaggio, ora che un ceceno l'avesse trascinato prigioniero sui monti... Ma adesso mi sembra che non mi ami più...".
«"Davvero, cara, non potevi immaginarti nulla di peggiore". Ella scoppiò a piangere, poi con fierezza rialzò la testa, si asciugò le lacrime e continuò:
«"Se non mi ama, chi gli impedisce di rimandarmi a casa mia? Io non lo costringo. Ma se le cose continueranno così, me ne andrò da me: non sono la sua schiava, sono la figlia di un principe!...".
«Cercai di calmarla. "Ascoltami, Bela, capisci bene che lui non può starsene qui in eterno, attaccato alla tua gonna; è un uomo giovane e gli piace correr dietro alla selvaggina: se ne starà via un po' e poi ritornerà; ma se tu sarai triste gli verrai a noia più in fretta".
«"È vero, è vero", rispose lei. "Sarò allegra". E ridendo afferrò il suo tamburello e cominciò a cantare, a danzare e a saltare davanti a me; ma non durò a lungo e ben presto si gettò di nuovo sul letto coprendosi il viso con le mani.
«Cosa dovevo fare con lei? Io, sapete, non ho mai avuto dimestichezza con le donne: mi spremetti le meningi per trovare un modo per confortarla, ma non mi venne in mente nulla; per un po' rimanemmo tutt'e due in silenzio una situazione davvero spiacevole, signor mio!
«Finalmente le dissi: "Vuoi che andiamo a passeggiare sul bastione? Il tempo è magnifico". Era settembre e la giornata era davvero meravigliosa, limpida e non afosa; si vedevano tutte le montagne come sul palmo della mano. Uscimmo, passeggiammo sul bastione della fortezza avanti e indietro, in silenzio; infine ella si sedette sull'erba e io mi sedetti accanto a lei. Davvero a pensarci mi vien da ridere: le correvo dietro come una bambinaia.
«La nostra fortezza sorgeva sopra un punto elevato e dal bastione si godeva una veduta magnifica: da un lato c'era una vasta pianura solcata da burroni e delimitata da un bosco che si stendeva fino al crinale dei monti; qua e là su di essa fumavano alcuni aul e pascolavano branchi di cavalli; dall'altro lato scorreva un fiumicello dalle acque poco profonde; una macchia di arbusti copriva le sue rive e le alture pietrose che andavano a congiungersi con la catena principale del Caucaso. Noi eravamo seduti sopra una punta del bastione, cosicché potevamo vedere ogni cosa da entrambi i lati. A un tratto vidi qualcuno sbucar fuori dal bosco in sella a un cavallo grigio e avvicinarsi sempre più, fin che si fermò dall'altra parte del fiume a circa cento sažen, da noi mettendosi a volteggiare sul cavallo come un pazzo. Che commedia era mai quella ? "Guarda, Bela", dissi, "i tuoi occhi sono più giovani dei miei, chi è quel cavaliere, chi è venuto a divertire?...".
«Ella guardò e lanciò un grido: "È Kazbiè!...".
«"Ah, è lui, brigante! È venuto dunque a prendersi gioco di noi?". Guardo più attentamente: era proprio Kazbiè: col suo muso scuro, lacero, sporco come sempre. "È il cavallo di mio padre", disse Bela afferrandomi la mano; tremava come una foglia e gli occhi le sfavillavano. "Ah", pensai, "nemmeno in te, anima mia, tace il sangue dei briganti".
«"Vieni qua", dissi a una sentinella, "controlla il fucile e buttami giù quel bravaccio: avrai un rublo d'argento".
«"Agli ordini, Vostra Eccellenza; però quello non sta fermo...".
«"E tu ordinaglielo!", replicai ridendo...
«"Ehi, caro!", gridò la sentinella facendo segno con la mano. "Aspetta un momento, perché continui a girare come un lupacchiotto?"
«Kazbiè effettivamente si fermò e si mise in ascolto; senza dubbio pensò che si volesse entrare in trattative con lui, che altro potevamo volere?... Il mio granatiere prese la mira e... pam!... Mancato... Kazbiè diede un colpo di calcagni al cavallo che fece uno scarto da un lato. Egli si drizzò sulle staffe, gridò qualcosa nella sua lingua, fece un gesto minaccioso con lo scudiscio e chi s'è visto, s'è visto!
«"Non ti vergogni?", dissi alla sentinella.
«"È andato a morire da qualche altra parte, Vostra Eccellenza!", mi rispose lui. "Questi maledetti non c'è modo di ucciderli sul colpo".
«Un quarto d'ora dopo Peèorin tornò dalla caccia; Bela gli si gettò al collo senza una lagnanza, senza un rimprovero per la lunga assenza... Io mi arrabbiai persino con lui.
«"Di grazia", dissi, "poco fa c'era qui Kazbiè, dall'altra parte del fiume, e gli abbiamo sparato: passerà molto prima che vi incontriate? Questi montanari sono gente vendicativa: credete che non si immagini che avete aiutato Azamat? Inoltre scommetto che adesso ha riconosciuto Bela. So che un anno fa lei gli piaceva terribilmente, me l'ha detto lui stesso, e se fosse riuscito a mettere insieme un decente kalym, sicuramente l'avrebbe chiesta in moglie...". Qui Peèorin si fece pensieroso: "Sì", replicò, "bisogna essere più prudenti... Bela, da oggi non devi recarti più sul bastione della fortezza".
«La sera ebbi con lui una lunga spiegazione: mi dispiaceva che fosse così mutato nei confronti di quella povera fanciulla; oltre al fatto che passava metà delle sue giornate a caccia, il suo modo di trattarla era diventato freddo, la coccolava di rado, e lei aveva cominciato a sciuparsi: il suo visetto si era allungato, i grandi occhi si erano offuscati. A volte le domandavo: "Perché hai sospirato, Bela? Sei triste?". "No!". "Desideri qualcosa?". "No!". "Senti nostalgia dei tuoi parenti?". "Io non ho parenti". Accadeva che per giornate intere da lei non si riuscisse a cavar altro che sì e no.
«Di questo appunto presi a parlargli. "Sentite, Maksìm Maksimyè", mi rispose lui, "io ho un carattere infelice; se sia stata l'educazione a rendermi tale, oppure Dio a farmi così, non lo so; so soltanto che se sono causa di infelicità per gli altri, io stesso non sono meno infelice; naturalmente questo per loro è una magra consolazione, ma sta di fatto che è così. Nella mia prima gioventù, dall'istante stesso in cui mi sottrassi alla tutela dei miei parenti, mi diedi furiosamente a tutti i piaceri che è possibile procurarsi col denaro e, naturalmente, ne rimasi nauseato. Poi mi lanciai nel bel mondo e ben presto anche la vita di società mi venne in uggia; mi innamorai delle bellezze dell'alta società e ne fui riamato, ma il loro amore eccitava soltanto la mia immaginazione e il mio orgoglio, lasciandomi vuoto il cuore... Mi misi a leggere, a studiare: anche gli studi mi vennero a noia; mi resi conto che né la gloria né la felicità dipendono da essi, poiché le persone più felici sono gli ignoranti e la gloria consiste nel successo e per conquistarlo occorre soltanto essere abili. Allora la noia si impadronì di me... Ben presto fui trasferito nel Caucaso: è stato il periodo più felice della mia vita. Speravo che la noia non esistesse sotto le pallottole dei ceceni, sbagliavo: dopo un mese mi ero talmente abituato al loro sibilo e alla vicinanza della morte che, in verità, facevo più caso alle zanzare, e provai più noia di prima, poiché avevo quasi perduto l'ultima speranza. Quando vidi Bela in casa mia, quando per la prima volta, tenendola sulle ginocchia, baciai i suoi riccioli neri, stupidamente pensai che fosse un angelo inviatomi dal destino pietoso... Mi sbagliavo di nuovo: l'amore di una selvaggia vale poco di più di quello di una signora dell'alta società: l'ignoranza e la semplicità dell'una vengono altrettanto a noia della civetteria dell'altra. Se volete, io l'amo ancora, le sono riconoscente per alcuni momenti abbastanza dolci, per lei sono pronto a dare la vita, ma insieme a lei mi annoio... Non so se sono uno stupido o uno scellerato, ma è certo che sono altrettanto degno di commiserazione di lei, o forse di più: la mia anima è stata guastata dalla società, l'immaginazione è inquieta, il cuore insaziabile; tutto mi sembra poco: mi avvezzo altrettanto facilmente alla tristezza che al piacere e la mia vita diventa ogni giorno più vuota; mi è rimasta una sola risorsa: viaggiare. Non appena sarà possibile partirò, soltanto non per l'Europa, Dio ne liberi! Andrò in America, in Arabia, in India, forse morirò da qualche parte durante il viaggio! Sono convinto, almeno, che quest'ultimo conforto non mi verrà meno tanto presto, con l'aiuto delle tempeste e delle strade cattive". Continuò a parlare così a lungo e le sue parole mi si impressero nella memoria perché era la prima volta che sentivo simili cose da un giovane venticinquenne e, Dio lo voglia, l'ultima... Cose da non credersi! Ma ditemi, vi prego», continuò il capitano rivolto a me, «voi, a quanto sembra, siete stato nella capitale non molto tempo fa: davvero la gioventù di laggiù è tutta così?».
Risposi che c'erano molte persone che dicevano le stesse cose, che talune di loro, verosimilmente, erano anche sincere; che la disillusione, come tutte le mode, dopo esser nata negli strati superiori della società, si era diffusa in quelli inferiori, che finivano di logorarla, e che ora coloro che in realtà si annoiavano più di tutti si sforzavano di nascondere questa disgrazia come un vizio. Il capitano non capì queste sottigliezze, scosse la testa e sorrise con aria astuta:
«Sono stati i francesi a introdurre la moda di annoiarsi?».
«No, gli inglesi».
«Ah, ecco come stanno le cose! », replicò. «Si sa bene che sono sempre stati degli ubriaconi di tre cotte!...».
Involontariamente mi tornò alla mente una signora di Mosca che sosteneva che Byron non era altro che un ubriacone. Del resto l'osservazione del capitano era più scusabile: per astenersi dall'alcool cercava di convincersi, è naturale, che tutte le disgrazie del mondo hanno origine dall'ubriachezza.
Dopo questa interruzione egli continuò così il suo racconto:
«Kazbiè non ricomparve. Tuttavia, non so perché, non potevo scacciare dalla testa il pensiero che non fosse venuto invano e che stesse macchinando qualche brutto tiro.
«Una volta Peèorin tentò di convincermi ad andare con lui alla caccia al cinghiale; a lungo mi feci pregare: capirete che razza di novità era per me il cinghiale! Tuttavia riuscì a trascinarmi con sé. Prendemmo con noi cinque o sei soldati e partimmo il mattino presto. Fino alle dieci battemmo palmo a palmo i canneti e il bosco senza trovar traccia della belva. "Ehi", dissi, "non faremmo meglio a tornarcene a casa? Perché intestardirsi? Si vede che non è giornata". Ma Grigorij Aleksàndroviè, nonostante la calura e la stanchezza, non voleva tornare a casa a mani vuote: era fatto così: quello che voleva doveva ottenerlo a tutti i costi; evidentemente da piccolo la mammina lo aveva viziato. Finalmente a mezzogiorno scovammo il maledetto cinghiale e... pam! pam! Niente da fare: si rifugiò tra le canne... Era proprio una giornata sfortunata!... Così, dopo esserci un po' riposati, ci avviammo verso casa.
«Procedevamo fianco a fianco, in silenzio, a briglie abbandonate, ed eravamo ormai giunti quasi alla fortezza, soltanto gli arbusti ce la nascondevano. A un tratto risuonò uno sparo... Ci guardammo a vicenda, colpiti dallo stesso sospetto. Ci lanciammo a briglia sciolta in direzione dello sparo. Guardiamo: sul bastione i soldati facevano segni verso la piana dove volava all'impazzata un cavaliere che portava sulla sella qualcosa di bianco... Grigorij Aleksàndroviè urlando non peggio di un ceceno estrasse il fucile dal fodero e si lanciò all'inseguimento.
«Fortunatamente, a causa della caccia andata a vuoto, i nostri cavalli non erano affaticati e divoravano la pianura guadagnando sempre più terreno... Finalmente riconobbi Kazbiè, ma non riuscivo a distinguere che cosa portasse davanti a sé. Allora mi affiancai a Peèorin e gli gridai: "È Kazbiè!...". Lui mi guardò, assentì col capo e frustò il cavallo.
«Finalmente giungemmo a distanza di tiro: o che il cavallo di Kazbiè fosse sfinito, o che fosse peggiore dei nostri, sta di fatto che, nonostante tutti i suoi sforzi, perdeva sempre più terreno. Penso che in quegli istanti Kazbiè rimpiangesse il suo Karagëz...
«Guardo: Peèorin al galoppo stava puntando il fucile... "Non sparate!", gli gridai. "Risparmiate il colpo; lo raggiungeremo lo stesso". Ah, questi giovani! Si infiammano sempre oltremisura... Risuonò lo sparo e la pallottola spezzò la gamba posteriore dei cavallo; per lo slancio questo fece ancora una decina di passi, incespicò e cadde in ginocchio. Kazbiè balzò giù di sella e allora vedemmo che reggeva tra le braccia una donna avvolta nella èadra Era Bela... povera Bela! Egli ci gridò qualcosa nella sua lingua e levò il pugnale sopra di lei... Non c'era da indugiare: sparai a mia volta a casaccio; certamente la pallottola lo colpì alla spalla perché a un tratto egli abbassò il braccio. Quando il fumo si fu diradato a terra giaceva il cavallo ferito e, accanto a esso, Bela. Kazbiè, gettato il fucile, fuggì attraverso gli arbusti e si arrampicò come un gatto sopra una roccia; avrei voluto tirarlo giù con una fucilata, ma il fucile non era carico! Balzammo giù da cavallo e ci precipitammo verso Bela. La poveretta giaceva immobile e il sangue le sgorgava a torrenti dalla ferita... Quella canaglia! Almeno l'avesse colpita al cuore... così, almeno, se così doveva essere, tutto sarebbe finito in un attimo, invece l'aveva pugnalata alla schiena... un colpo davvero da brigante! Lei era priva di conoscenza. Facemmo a pezzi la èadra e fasciammo la ferita il più strettamente possibile. Invano Peèorin le baciava le labbra gelide: nulla poteva farla tornare in sé.
«Peèorin montò a cavallo; io la sollevai da terra e in qualche maniera gliela posai sulla sella; lui la cinse con un braccio e ritornammo indietro. Dopo qualche istante di silenzio Grigorij Aleksàndroviè mi disse: "Sentite, Maksìm Maksimyè, così non la riporteremo indietro viva". "È vero!", replicai io, e lanciammo i cavalli pancia a terra. Alla porta della fortezza ci attendeva una folla di persone; con cautela trasportammo la ferita in casa di Peèorin e mandammo a chiamare il medico. Benché fosse ubriaco, questi venne, esaminò la ferita e dichiarò che non sarebbe sopravvissuta più di un giorno; ma si sbagliava ».
«È guarita?», domandai al capitano, afferrandogli la mano con un involontario moto di gioia.
«No», rispose lui. «Tuttavia il medico si sbagliava perché ella sopravvisse ancora due giorni».
«Ma spiegatemi: come aveva fatto Kazbiè a rapirla?».
«Ecco come: nonostante la proibizione di Peèorin lei era uscita dalla fortezza per recarsi al fiume. Faceva molto caldo, sapete; si era seduta su un sasso e aveva immerso i piedi nell'acqua. A questo punto Kazbiè le si era avvicinato di soppiatto, l'aveva afferrata tappandole la bocca e l'aveva trascinata tra gli arbusti, lì era saltato sul cavallo e via! Lei però era riuscita a lanciare un grido, le sentinelle avevano dato l'allarme, avevano sparato, ma avevano fallito il bersaglio, e a questo punto eravamo sopraggiunti noi».
«Ma per quale motivo Kazbiè voleva portarla via?».
«Di grazia, si sa bene che questi circassi sono un popolo di ladri: quel che è mal custodito non possono fare a meno di portarselo via; non occorre altro motivo, portan via ogni cosa... di questo si può scusarli! E poi lei gli piaceva da tanto tempo».
«E Bela è morta?».
«È morta, però soffrì a lungo e anche noi soffrimmo da non dire assieme a lei. Verso le dieci di sera ritornò in sé; noi eravamo accanto al suo letto; appena riaprì gli occhi cominciò a chiamare Peèorin. "Sono qui, accanto a te, o mia džaneèka" (cioè, nella nostra lingua, anima), rispose lui prendendole la mano. "Io muoio!", esclamò lei. Prendemmo a confortarla dicendole che il medico aveva promesso che l'avrebbe sicuramente guarita, ma lei scosse la testa e si girò con la faccia contro il muro: non voleva morire!...
«Durante la notte cominciò a delirare; la testa le ardeva e a momenti tutto il suo corpo era scosso da brividi di febbre; pronunciava parole sconnesse su suo padre e suo fratello, voleva tornarsene sui monti, a casa sua... Poi parlò anche di Peèorin, chiamandolo con svariati nomi affettuosi, oppure rimproverandolo perché aveva cessato di amare la sua džaneèka.
«Lui la ascoltava in silenzio, col capo appoggiato sulle braccia, ma durante tutto quel tempo non notai nemmeno una lacrima sulle sue ciglia: veramente non era capace di piangere? Oppure si dominava? Non lo so. Quanto a me non avevo mai veduto prima nulla di più straziante.
«Verso il mattino il delirio cessò; per un'ora circa ella giacque immobile, pallida e così debole che a stento si notava che respirasse; poi si sentì meglio e si mise a parlare, ma sapete di cosa?... Un'idea simile può venire soltanto a un morente! Cominciò a lamentarsi di non essere cristiana e del fatto che nell'altro mondo la sua anima non avrebbe mai incontrato quella di Grigorij Aleksàndroviè e un'altra donna sarebbe stata la sua amica in paradiso. Mi venne l'idea di battezzarla prima che morisse e glielo proposi: lei mi guardò indecisa e a lungo non fu in grado di dire una parola; infine rispose che sarebbe morta nella fede in cui era nata. Così passò una giornata intera. Come cambiò in quelle ore!... Le sue guance pallide si incavarono, gli occhi si fecero sempre più grandi, le sue labbra bruciavano. Sentiva dentro di sé un fuoco nascosto, come se avesse avuto dentro al petto un ferro rovente.
«Sopravvenne di nuovo la notte; noi non chiudemmo occhio e non ci allontanammo un attimo dal suo letto. Lei soffriva terribilmente, gemeva e non appena il dolore cominciava ad attenuarsi un po' cercava di convincere Grigorij Aleksàndroviè che stava meglio, insisteva perché andasse a coricarsi, gli baciava la mano senza lasciarla un momento. Prima dell'alba cominciò a sentire l'angoscia della morte, cominciò a dibattersi, si strappò le bende e il sangue riprese a sgorgare. Dopo che le avemmo di nuovo fasciato la ferita, per un istante si acquietò e si mise a pregare Peèorin che la baciasse. Egli si inginocchiò accanto al letto, le sollevò la testa dal cuscino e premette le sue labbra su quelle di lei che stavano diventando fredde; lei gli abbracciò forte il collo con le braccia tremanti, come se attraverso quel bacio volesse trasmettergli la sua anima... No, fece bene a morire: che cosa ne sarebbe stato di lei, se Grigorij Aleksàndroviè l'avesse abbandonata? E questo, presto o tardi, sarebbe accaduto...
«Per metà del giorno successivo ella fu tranquilla, silenziosa e obbediente, per quanto il medico la tormentasse con impacchi e pozioni. "Di grazia", gli dissi, "avete ben detto voi stesso che morirà di sicuro, a che servono, dunque, tutti i vostri preparati?". "Comunque è meglio così, Maksìm Maksimyè", mi rispose lui. "Per scarico di coscienza". Bella coscienza davvero!
«Nel pomeriggio Bela cominciò a essere tormentata dalla sete. Aprimmo la finestra, ma fuori faceva ancor più caldo che nella stanza. Mettemmo del ghiaccio accanto al letto, ma non servì a nulla. Sapevo che quella sete insopportabile era il sintomo dell'approssimarsi della morte e lo dissi a Peèorin. "Acqua, acqua...", implorava lei con voce roca, sollevandosi sul letto.
«Lui si fece pallido come un cencio, versò dell'acqua in un bicchiere e glielo porse. Io mi coprii la faccia con le mani e mi misi a recitare una preghiera, non ricordo quale... Eh, mio caro, ho visto molta gente morire negli ospedali e sul campo di battaglia, ma non era assolutamente così, non era assolutamente così!... Debbo anche confessare che c'è un'altra cosa che mi rattrista: prima di morire ella non si è ricordata nemmeno una volta di me, eppure io l'avevo amata come un padre... be', che Dio la perdoni!... E poi, a dire il vero, cosa sono mai, perché ci si ricordi di me in punto di morte?
«Non appena ebbe bevuto un sorso d'acqua provò un po' di sollievo, e tre minuti dopo spirò. Le accostarono uno specchio alle labbra: pulito!... Condussi Peèorin fuori dalla stanza e andammo sul bastione; camminammo a lungo avanti e indietro fianco a fianco senza dire una parola, con le mani dietro la schiena; il suo volto non esprimeva alcuna particolare emozione e questo mi irritò: al suo posto sarei morto di dolore. Finalmente si sedette per terra, all'ombra, e si mise a disegnare qualcosa nella polvere con un bastoncino. Io, sapete, più che altro per educazione, volendo confortarlo mi misi a parlare, ma lui sollevò la testa e scoppiò a ridere... Quella risata mi fece rabbrividire... Andai a ordinare la bara.
«Debbo confessare che mi occupai di ciò in parte per distrarmi; avevo un pezzo di termalama, con esso rivestii la bara, che adornai poi con nastri d'argento circassi che Grigorij Aleksàndroviè aveva acquistato in grande quantità per lei.
«Il giorno dopo al mattino presto la seppellimmo fuori della fortezza, in riva al fiume, vicino al posto dove si era seduta per l'ultima volta; attorno alla sua tomba adesso sono cresciuti dei cespugli di acacia bianca e di sambuco. Avrei voluto piantare una croce, ma, sapete, ho avuto ritegno: nonostante tutto lei non era cristiana...".
«E che ne fu di Peèorin?», domandai.
«Peèorin fu a lungo malato e dimagrì moltissimo, poveretto; però da allora non parlammo mai più di Bela: capivo che la cosa gli sarebbe riuscita sgradita, perché dunque parlarne? Circa tre mesi dopo fu destinato al reggimento E...j e partì per la Georgia. Da allora non ci siamo più incontrati... Mi sembra di ricordare che qualcuno poco tempo fa mi abbia detto che è ritornato in Russia, ma nei fogli d'ordine del corpo non c'è stata menzione di ciò. D'altra parte, si sa, le notizie impiegano parecchio ad arrivare fino a noi».
Qui, verosimilmente per scacciare i tristi ricordi, egli si lanciò in una lunga dissertazione su quanto sia spiacevole venire a sapere le notizie con un anno di ritardo.
Io non lo interruppi, ma non lo ascoltavo.
Un'ora dopo si presentò la possibilità di rimettersi in viaggio; la tormenta si era placata, il cielo si era rasserenato e così ripartimmo. Lungo la strada non potei trattenermi dal riportare il discorso su Bela e Peèorin.
«E di Kazbiè, non avete saputo più nulla?», domandai.
«Di Kazbiè? Davvero non saprei... Ho sentito dire che sul fianco destro, tra gli sciapsughi, c'è un certo Kazbiè, un temerario che indossando un bešmet rosso cavalca al passo sotto le nostre fucilate, inchinandosi assai cortesemente quando una pallottola gli sibila accanto, ma è difficile che si tratti della stessa persona! ».
A Kobi, Maksìm Maksimyè ed io ci separammo; io continuai il viaggio per le poste, mentre lui non poté seguirmi a causa del suo pesante carico. Non speravamo di rivederci mai più, e invece ci incontrammo di nuovo e, se volete, ve lo racconterò: è tutta una storia... Riconoscete, tuttavia, che Maksìm Maksimyè è una persona degna di stima... Se lo riconoscerete sarò pienamente ricompensato della mia forse troppo lunga narrazione.

II • Maksim Maksimyè

Dopo essermi separato da Maksìm Maksimyè attraversai di gran carriera, al galoppo, le gole del Terek e del Dar'jal', feci colazione a Kazbèk, presi il tè a Lars e per ora di cena arrivai a Vladykavkàz. Vi risparmio la descrizione delle montagne, le esclamazioni che non significano nulla, le immagini che non descrivono nulla, specialmente per coloro che non sono stati laggiù, e le osservazioni statistiche che decisamente nessuno si darebbe la pena di leggere.
Presi alloggio all'albergo dove si fermano tutti i viaggiatori di passaggio e dove, tra l'altro, non si trova nessuno a cui si possa ordinare di arrostire un fagiano e di cucinare degli šèi, dato che i tre invalidi cui l'albergo è affidato sono così stupidi o così ubriachi che è impossibile cavarne nulla.
Mi annunciarono che avrei dovuto rimanere lì altri tre giorni, perché l'«occasione» da Ekaterinogràd non era ancora arrivata e, di conseguenza, non poteva ripartire in direzione opposta. Bella occasione!... Ma uno scadente calembour non è una consolazione per un russo, così, per distrarmi, mi venne l'idea di trascrivere il racconto di Maksìm Maksimyè su Bela, senza immaginare che esso sarebbe diventato il primo anello di una lunga catena; vedete come, talvolta, un caso di scarsa importanza può avere dolorose conseguenze!... Ma voi, forse, non sapete cosa sia l'«occasione» È una scorta formata da mezza compagnia di fanteria e da un cannone che accompagna i convogli che viaggiano attraverso la Kabarda, da Vladykavkàz a Ekaterinogràd.
Il primo giorno mi annoiai moltissimo; l'indomani, il mattino presto, entrò nel cortile un carro... Ah, era Maksìm Maksimyè!... Ci incontrammo come vecchi amici. Gli offrii la mia camera. Lui non fece complimenti e mi batté persino sulla spalla storcendo la bocca a mo' di sorriso. Che tipo strano!...
Maksìm Maksimyè aveva delle profonde conoscenze di arte culinaria e arrostì con straordinaria maestria il fagiano, lo innaffiò con felice risultato con salamoia di cetrioli e debbo riconoscere che senza di lui sarei stato costretto ad accontentarmi di cibi secchi. Una bottiglia di kachetìnskoe ci aiutò a dimenticare il modesto numero delle portate, che furono in tutto una, dopo di che, accese le pipe, ci sedemmo, io accanto alla finestra e lui vicino alla stufa accesa poiché era una giornata umida e fredda. Tacevamo. Di che cosa avremmo dovuto parlare?... Lui mi aveva già raccontato tutto quello che c'era di interessante su se stesso e io non avevo nulla da raccontare. Guardavo dalla finestra. Una infinità di casette basse, sparpagliate lungo la riva del Terek, spuntavano da dietro gli alberi; più in là si ergeva una parete frastagliata di montagne azzurrine e, dietro di esse, faceva capolino il Kazbèk col suo bianco berretto cardinalizio. Mi congedai mentalmente da loro: cominciavo a rimpiangerle...
Rimanemmo a lungo seduti così. Il sole si era nascosto dietro le gelide cime e una nebbia biancastra cominciava a diffondersi nelle valli, quando nella via echeggiò il suono di un campanello da viaggio e il grido di un vetturale. Entrarono nel cortile alcuni carri condotti da sudici armeni e, dietro a essi, una carrozza da viaggio vuota; la sua andatura leggera, la comoda costruzione e l'aspetto elegante avevano un'impronta straniera. Dietro a essa camminava un uomo dai grandi baffi, con una casacca all'ungherese, abbastanza ben vestito per essere un lacchè: sulla sua condizione era impossibile sbagliarsi vista la maniera arrogante con cui scuoteva la cenere dalla pipa e urlava ordini al vetturale. Era evidentemente il servo viziato di un padrone pigro, una specie di Figaro russo.
«Dimmi, caro», gli gridai dalla finestra, «è forse arrivata l'occasione?». Egli mi lanciò un'occhiata abbastanza insolente, si aggiustò la cravatta e si girò dall'altra parte; l'armeno che camminava accanto a lui mi rispose sorridendo in sua vece che era proprio arrivata l'occasione e che la mattina dopo sarebbe ripartita, per il viaggio di ritorno.
«Dio sia ringraziato», esclamò Maksìm Maksimyè, che nel frattempo si era avvicinato alla finestra. «Che splendida carrozza!», aggiunse. «Si tratterà certamente di qualche funzionario in ispezione a Tiflìs. Evidentemente non conosce le nostre collinette! No, caro mio, non c'è da scherzare: sconquassano anche una carrozza inglese! Ma andiamo a vedere chi è...».
Uscimmo nel corridoio. In fondo a esso era aperta una porta che dava in una stanza laterale. Il lacchè e il vetturale stavano trasportandovi delle valige.
«Senti, fratellino,», gli chiese il capitano, «di chi è quella magnifica carrozza, eh?... Splendida davvero! ». Il lacchè senza voltarsi borbottò qualcosa fra sé continuando a sciogliere le cinghie di una valigia. Maksìm Maksimyè si arrabbiò; urtò il maleducato sulla spalla e disse: «Sto parlando con te, caro...».
«Di chi è la carrozza?... del mio padrone...».
«E chi è il tuo padrone?».
«Peèorin ».
«Cosa dici? Cosa dici? Peèorin? Ah, mio Dio! Ma non è stato in servizio nel Caucaso?...», esclamò Maksìm Maksimyè tirandomi per la manica. Gli occhi gli brillavano di gioia.
«Mi sembra di sì, ma e poco tempo che sto con lui».
«Ma sì!... Ma si!... È Grigorij Aleksàndroviè!... Si chiama così, non è vero?... Io e il tuo padrone eravamo amici», aggiunse battendo amichevolmente sulla spalla al lacchè in maniera tale da farlo barcollare
«Scusatemi, signore; voi mi disturbate», ribatté quello aggrondandosi.
«Però che tipo sei, fratellino!... Ma lo sai che io e il tuo padrone eravamo intimi amici, che vivevamo insieme? Ma dov'è rimasto?...».
Il servitore ci comunicò che Peèorin era rimasto a cena e a trascorrere la notte dal colonnello N.
«Ma non passerà di qui stasera?», domandò Maksìm Maksimyè. «Oppure tu, caro, non devi andare da lui per qualche incombenza?... Se ci vai digli che qui c'è Maksìm Maksimyè; digli così... lui sa... Ti darò ottanta copechi di mancia...».
Il lacchè assunse un'espressione sprezzante nell'udire una così modesta promessa, però assicurò Maksìm Maksimyè che avrebbe eseguito l'incarico.
«Di sicuro correrà qui subito!...», mi disse Maksìm Maksimyè con aria esultante. «Andrò ad aspettarlo fuori dal portone Eh! Peccato che io non conosca N.».
Maksìm Maksimyè si sedette fuori dal portone su una panca, mentre io mi ritirai nella mia camera. Confesso che attendevo anch'io con una certa impazienza l'apparizione di questo Peèorin: sebbene dal racconto del capitano mi fossi fatta di lui un'opinione non molto lusinghiera, tuttavia taluni tratti del suo carattere mi erano parsi notevoli. Un'ora dopo uno degli invalidi portò un samovàr bollente e una teiera.
«Maksìm Maksimyè, non volete del tè?», gli gridai dalla finestra.
«No grazie, non ne ho voglia...».
«Suvvia, venite a berlo! È già tardi e fa freddo».
«Non importa, grazie...».
«Be', come volete!». Mi misi a bere il tè da solo; circa dieci minuti dopo entrò il mio vecchietto:
«Avete ragione voi: è sempre meglio bere un po' di tè... Stavo ancora ad aspettare... È un pezzo che il suo servitore si è recato da lui, si vede che qualcosa lo ha trattenuto...».
Bevve in fretta una tazza di tè, rifiutò la seconda e se ne andò di nuovo fuori dal portone in preda a una certa inquietudine: era evidente che il vecchio era amareggiato dalla negligenza di Peèorin, tanto più che recentemente mi aveva parlato della sua amicizia con lui e appena un'ora prima si era dichiarato tanto convinto che sarebbe accorso non appena avesse udito il suo nome.
Era ormai tardi e faceva buio quando aprii di nuovo la finestra e mi misi a chiamare Maksìm Maksimyè dicendogli che era ora di andare a dormire; lui borbottò qualcosa fra i denti; io ripetei di nuovo l'invito, ma lui non rispose.
Mi distesi sul divano avvolgendomi nel mantello, dopo aver lasciato la candela sulla panca della stufa. Ben presto mi assopii e avrei dormito tranquillamente tutta la notte se, molto tardi, Maksìm Maksimyè non mi avesse svegliato entrando nella stanza. Gettò la pipa sul tavolo, si mise a camminare per la stanza, a frugare nella stufa... finalmente si coricò, ma continuò a lungo a tossire, a sputare, a rivoltarsi...
«Vi mordono per caso le cimici?», domandai.
«Sì, le cimici...», rispose con un profondo sospiro.
La mattina dopo mi svegliai presto, ma Maksìm Maksimyè mi aveva preceduto. Lo trovai accanto al portone seduto sulla panca. «Debbo andare al comando», mi disse, «perciò, per favore, se verrà Peèorin mandatemi a chiamare...».
Glielo promisi e lui corse via come se le sue membra avessero riacquistato la forza e l'elasticità giovanile.
La mattinata era fresca ma bellissima. Nuvole dorate erano ammassate sopra le montagne come una nuova schiera di aerei monti; davanti al portone si stendeva una vasta piazza oltre la quale il bazar formicolava di gente perché era domenica: scacciai alcuni ragazzi osseti scalzi che mi si aggiravano attorno con bisacce piene di favi di miele sulle spalle: avevo altro a cui pensare, dato che cominciavo a condividere l'inquietudine del buon capitano.
Non erano trascorsi neppure dieci minuti quando in fondo alla piazza apparve colui che attendevamo. Era col colonnello N., il quale, dopo averlo accompagnato fino all'albergo, si congedò da lui e tornò indietro verso la fortezza. Mandai subito uno degli invalidi a chiamare Maksìm Maksimyè.
Il servitore si fece incontro a Peèorin annunciandogli che avrebbero subito attaccato i cavalli; gli porse una scatola di sigari e, dopo aver ricevuto alcune disposizioni, si allontanò per eseguirle. Il suo padrone, dopo essersi acceso il sigaro, sbadigliò un paio di volte e si sedette sulla panchina dall'altra parte del portone. Adesso debbo disegnarne il ritratto.
Era di media statura; la vita snella e sottile e le ampie spalle erano indizio di una solida complessione non compromessa né dalla dissolutezza della vita nella capitale, né dalle tempeste spirituali, e in grado di sopportare tutti i disagi di un'esistenza nomade e i cambiamenti di clima; il suo impolverato soprabito di velluto, di cui erano abbottonati soltanto i due bottoni inferiori, lasciava intravedere biancheria di un candore abbagliante, che rivelava le abitudini di una persona raffinata; i suoi guanti macchiati sembravano confezionati su misura per la piccola mano aristocratica e quando se ne tolse uno rimasi stupito dalla magrezza delle pallide dita. La sua andatura era pigra e noncurante, ma osservai che non agitava le braccia, segno sicuro di un carattere piuttosto chiuso. D'altronde queste sono impressioni personali, basate sulle mie osservazioni e non pretendo affatto che voi le accettiate ciecamente. Quando si lasciò andare sulla panca il suo busto eretto si piegò come se la schiena fosse priva di ossa; la posizione del suo corpo dava l'idea di una sorta di debolezza nervosa; sedeva come siede la civetta trentenne di Balzac sui suoi divani di piume dopo un ballo estenuante. A prima vista guardando il suo viso non gli avrei dato più di ventitré anni, sebbene poi fossi pronto a dargliene trenta. Nel suo sorriso c'era qualcosa di fanciullesco. La sua pelle aveva una certa delicatezza femminile; i capelli biondi, naturalmente ondulati, incorniciavano così pittorescamente la nobile, pallida fronte, sulla quale soltanto dopo un'attenta osservazione si potevano scoprire tracce di rughe che si intersecavano l'una con l'altra e che probabilmente si delineavano in maniera assai più evidente nei momenti di collera o di inquietudine spirituale. Nonostante il color chiaro dei capelli, i suoi baffi e le sopracciglia erano neri: segno nell'uomo di nobile razza, come la criniera e la coda nere in un cavallo bianco; per terminare il ritratto, dirò che aveva il naso un poco all'insù, denti di un candore abbagliante e occhi castani; su questi ultimi dovrò aggiungere ancora qualche parola.
Innanzitutto non ridevano quando lui rideva! Non avete avuto occasione di notare questa stranezza in talune persone?... È un sintomo o di carattere maligno, o di una profonda, costante tristezza. Sotto alle palpebre semiabbassate brillavano di una sorta di bagliore fosforescente, se così posso esprimermi. Non era il riflesso di un calore spirituale o di una fervida immaginazione: era un riflesso simile a quello dell'acciaio, abbagliante ma freddo; il suo sguardo, rapido ma penetrante e pesante, lasciava l'impressione sgradevole di una domanda indiscreta e avrebbe potuto sembrare insolente se non fosse stato così indifferente e tranquillo. Può darsi che tutte queste osservazioni mi siano venute alla mente soltanto perché conoscevo alcuni dettagli della sua vita e, forse, su un altro il suo aspetto avrebbe prodotto un'impressione totalmente diversa, ma dato che voi non ne sentirete parlare da nessun altro all'infuori di me, dovrete, volenti o nolenti, accontentarvi di questa descrizione. Per concludere dirò che, nel complesso, era tutt'altro che brutto e che aveva una di quelle fisionomie originali che piacciono in modo particolare alle donne del bel mondo.
I cavalli erano già attaccati; il campanello appeso all'arco a tratti tintinnava e il lacchè si era già avvicinato due volte a Peèorin per riferirgli che tutto era pronto; ma Maksìm Maksimyè ancora non arrivava. Per fortuna Peèorin era sprofondato nei suoi pensieri con lo sguardo rivolto alle azzurre vette del Caucaso e, a quanto pareva, non aveva alcuna fretta di mettersi in viaggio. Mi accostai a lui e gli dissi: «Se avrete la bontà di aspettare ancora un po' avrete il piacere di incontrarvi con un vecchio amico ».
«Ah, è vero!», rispose in fretta. «Me l'hanno detto ieri; ma dov'è dunque?».
Mi voltai verso la piazza e scorsi Maksìm Maksimyè che correva a perdifiato... Alcuni istanti dopo era già accanto a noi; respirava a stento, grondava sudore, ciocche bagnate di capelli grigi che gli spuntavano di sotto il berretto gli si erano appiccicate sulla fronte, gli tremavano le ginocchia... avrebbe voluto gettarsi al collo di Peèorin, ma questi, abbastanza freddamente, sebbene con un sorriso affabile, gli tese la mano. Il capitano per un attimo rimase interdetto, ma poi la afferrò avidamente con entrambe le sue: non era ancora in grado di parlare.
«Come sono contento, caro Maksìm Maksimyè. Be', come state?», disse Peèorin.
«E... tu... e voi?...», farfugliò il vecchio con le lacrime agli occhi... «Quanti anni... da quanto tempo... Dove siete diretto?...».
«Vado in Persia e poi più oltre ».
«Possibile che partiate subito?... Ma aspettate, carissimo!.. Possibile che dobbiamo separarci subito? Non ci vediamo da tanto tempo...».
«Devo andare, Maksìm Maksimyè», fu la risposta.
«Mio Dio, mio Dio! Ma dove andate tanto di fretta?...
Avrei tante cose da dirvi... tante cose da domandarvi... Vi siete dunque congedato?... Come mai?... Cosa avete fatto?...».
«Mi annoiavo!», rispose Peèorin sorridendo.
«Vi ricordate la nostra vita alla fortezza?... Splendido posto per la caccia!... Eravate un cacciatore appassionato... E Bela?...».
Peèorin impallidì impercettibilmente e voltò la faccia dall'altra parte...
«Sì, ricordo!», replicò quasi subito con uno sbadiglio forzato...
Maksìm Maksimyè si diede a implorarlo di rimanere con lui altre due ore. «Faremo un pranzo magnifico», diceva, «ho due fagiani e il kachetìnskoe qui è splendido... si capisce non è come in Georgia, ma è di prima qualità... Parleremo un po'... mi racconterete della vostra vita a Pietroburgo... Eh?...».
«Non ho davvero niente da raccontare, caro Maksìm Maksimyè... Addio, devo andare... Vado di fretta... Vi ringrazio di non avermi dimenticato...», aggiunse prendendolo per la mano.
Il vecchio aggrottò le ciglia... Era triste e arrabbiato, benché si sforzasse di nasconderlo. «Dimenticato!», borbottò. «Io non ho dimenticato nulla... Ebbene, Dio sia con voi!... Non pensavo che ci saremmo riincontrati così...».
«Suvvia, basta, basta!», esclamò Peèorin abbracciandolo amichevolmente. «Non sono forse sempre lo stesso?... Che fare?... A ognuno la sua strada... Chissà se ci rivedremo ancora!...». Pronunciò queste parole ormai seduto in carrozza mentre il vetturale già sollevava le briglie.
«Ferma! Ferma!», si mise a gridare a un tratto Maksìm Maksimyè aggrappandosi allo sportello della carrozza. «Mi ero completamente dimenticato... Mi sono rimaste le vostre carte, Grigorij Aleksàndroviè... le porto sempre con me... pensavo di trovarvi in Georgia e guardate dove mai Dio ci ha concesso di incontrarci... Cosa ne debbo fare?...».
«Fatene quel che volete!», rispose Peèorin. «Addio...».
«Dunque andate in Persia?... E quando ritornerete?...», gli gridò dietro Maksìm Maksimyè...
La carrozza era ormai lontana, ma Peèorin fece un gesto con la mano che si sarebbe potuto tradurre così: «Ben difficilmente ritornerò! E poi, a che scopo?...».
Da un pezzo ormai non si sentivano più né il tintinnio del campanello né il rumore delle ruote sul selciato, ma il povero vecchio se ne stava ancora lì allo stesso posto profondamente assorto.
«Sì», disse infine, sforzandosi di assumere un'aria indifferente, benché a tratti una lacrima di dispetto gli brillasse sulle ciglia, «naturalmente eravamo amici, ma che cosa vuol dire l'amicizia al giorno d'oggi?... Che cosa ci può trovare in me? Io non sono ricco né altolocato, e anche per la mia età non posso assolutamente stare a paro con lui... Guarda un po' che elegantone è diventato dopo che è stato di nuovo a Pietroburgo... Che carrozza!... Quanti bagagli e che arie quel lacchè!...». Queste parole furono pronunciate con un sorriso ironico. «Ditemi», continuò rivolgendosi a me, «cosa ne pensate? Quale diavolo lo porta mai adesso in Persia?... È ridicolo, in fede mia, è ridicolo! Sì, l'ho sempre saputo che era un uomo frivolo, sul quale non si poteva fare affidamento... Tuttavia davvero mi dispiace che vada a finir male... ma non poteva essere altrimenti!... L'ho sempre detto che non vale niente chi dimentica i vecchi amici!...». Qui si voltò per nascondere la propria emozione e si mise a camminare per il cortile accanto al suo carro, facendo finta di esaminare le ruote, mentre gli occhi gli si riempivano ogni momento di lacrime.
«Maksìm Maksimyè», dissi avvicinandomi a lui, «quali carte vi ha lasciato Peèorin?».
«Lo sa Dio! Certi appunti...».
«Che ne farete?».
«Che ne farò? Cartucce».
«Datele a me piuttosto».
Egli mi guardò meravigliato, borbottò qualcosa fra i denti e si mise a frugare nella valigia; ne tirò fuori un quadernetto che scaraventò a terra con disprezzo, poi un secondo, un terzo e così via finché il decimo non ebbe avuto la stessa sorte: nella sua rabbia c'era qualcosa di infantile; trovai la cosa buffa e penosa insieme...
«Ecco, sono tutti qui», disse, «mi felicito con voi per l'acquisto ».
«E posso farne ciò che voglio?».
«Pubblicateli pure sul giornale! Che me ne importa?... Sono forse un suo amico? O un suo parente?... A dire il vero siamo vissuti a lungo sotto lo stesso tetto... Ma sono tante le persone con cui ho vissuto!...».
Afferrai quelle carte e me le portai subito via nel timore che il capitano avesse un ripensamento. Poco dopo vennero ad annunciarci che tra un'ora l'occasione sarebbe partita; ordinai di attaccare i cavalli. Il capitano entrò nella stanza nel momento in cui stavo già mettendomi il berretto; lui, a quanto pareva, non si accingeva a partire; aveva una strana espressione, tirata e fredda.
«Ma voi, Maksìm Maksimyè, dunque non partite?».
«No, signore».
«Come mai?».
«Non ho ancora veduto il comandante e devo consegnargli certe cose...».
«Eppure siete stato da lui...».
«Ci sono stato, naturalmente», replicò con esitazione, «ma non era in casa... e io non l'ho aspettato».
Compresi il suo stato d'animo: il povero vecchio per la prima volta forse in vita sua aveva trascurato i doveri di servizio per una necessità personale, per dirla in linguaggio burocratico, ed ecco come ne era stato ricompensato!
«Mi dispiace molto, Maksìm Maksimyè», gli dissi, «che per il momento dobbiamo separarci».
«Come volete che facciamo noi, vecchi ignoranti, a tenervi dietro?... Voi siete giovani di mondo, superbi: ancora finché siamo qui, sotto le pallottole circasse, voi... più o meno... ma poi, incontrandoci, vi vergognereste perfino di tendere la mano a gente come noi».
«Io non mi son meritato questi rimproveri, Maksìm Maksimyè».
«Ma ho detto così, tanto per dire; del resto vi auguro ogni felicità e un piacevole viaggio».
Ci congedammo abbastanza freddamente. Il buon Maksìm Maksimyè si era trasformato in un capitano testardo e bisbetico! E perché? Perché Peèorin per distrazione o per qualche altro motivo gli aveva porto la mano mentre lui avrebbe voluto gettarglisi al collo! È triste quando un giovane perde le sue speranze e i suoi sogni migliori, quando davanti a lui si squarcia il velo roseo, attraverso il quale guardava le faccende e i sentimenti umani, sebbene vi sia speranza che egli possa sostituire i vecchi errori con altri nuovi, non meno passeggeri, ma in compenso non meno dolci... Ma con che cosa sostituirli all'età di Maksìm Maksimyè? Involontariamente il cuore si indurisce e l'anima si chiude...
Partii solo.

PARTE SECONDA


Diario di Peèorin • Prefazione

Poco tempo fa sono venuto a sapere che Peèorin, tornando dalla Persia, era morto. Questa notizia mi ha rallegrato molto poiché mi dava il diritto di pubblicare queste memorie, così ho approfittato dell'occasione per apporre il mio nome a un'opera altrui. Voglia Iddio che i lettori non mi condannino per questa innocente debolezza!
Ora debbo dare qualche spiegazione sui motivi che mi hanno indotto a rivelare al pubblico i segreti del cuore di un uomo che non ho mai conosciuto. Passi se fossi stato suo amico: la perfida indiscrezione di un autentico amico è comprensibile a chiunque, ma io l'ho visto soltanto una volta in vita mia per la strada e quindi non posso nutrire per lui quell'odio inspiegabile che, nascondendosi sotto la maschera dell'amicizia, attende soltanto la morte o la sventura dell'oggetto del proprio amore per scatenare sulla sua testa una grandine di rimproveri, di consigli, di irrisioni e di compatimenti.
Rileggendo questi ricordi mi sono convinto della sincerità di colui che così spietatamente ha rivelato le proprie debolezze e i propri vizi. La storia di un'anima umana, sia pure la più insignificante, è forse quasi più interessante e più utile della storia di un intero popolo, specialmente quando è il frutto delle osservazioni di una mente matura su se stessa e quando è scritta senza il vanaglorioso desiderio di suscitare simpatia o stupore. Le confessioni di Rousseau hanno già il difetto che egli le leggeva ai propri amici.
È, dunque unicamente il desiderio di fare qualcosa di utile che mi ha indotto a pubblicare questi brani di diario, di cui casualmente sono venuto in possesso. Benché io abbia cambiato tutti i nomi propri, tuttavia coloro di cui in esso si parla probabilmente si riconosceranno e, forse, troveranno una giustificazione alle azioni di cui finora hanno attribuito la colpa a un uomo che ormai non ha più nulla a che spartire con questo mondo: noi quasi sempre scusiamo ciò che comprendiamo'.
Ho incluso in questo libro soltanto ciò che si riferisce alla permanenza di Peèorin nel Caucaso; è rimasto in mio possesso un altro grosso quaderno, nel quale egli narra tutta la propria vita. Un giorno anch'esso sarà sottoposto al giudizio del mondo, ma ora, per molte importanti ragioni, non ardisco prendere su di me tale responsabilità.
Forse taluni lettori desidereranno conoscere la mia opinione sul carattere di Peèorin. La mia risposta è il titolo di questo libro. «Ma questa è una maligna ironia!», diranno costoro. Non lo so.

I • Taman'

Taman' è la più squallida tra tutte le città costiere della Russia. Laggiù sono quasi morto di fame e per soprammercato hanno cercato di affogarmi. Arrivai laggiù a tarda notte su una vettura di posta. Il vetturale arrestò lo stanco tiro a tre davanti al portone dell'unico edificio in muratura che si trova vicino all'ingresso della città. Sentendo il tintinnio del campanello, la sentinella, un cosacco del Mar Nero, nel dormiveglia gridò con voce selvaggia: «Chi va là?». Uscirono fuori un sergente e un caporale. Spiegai loro che ero un ufficiale in viaggio per raggiungere un reparto di linea e pretesi un alloggio governativo. Il caporale ci condusse in giro per la città. A qualunque izba bussassimo ci rispondevano che era già occupata. Faceva freddo, non dormivo da tre notti, ero sfinito e cominciavo ad arrabbiarmi. «Portami da qualunque parte, brigante!», urlai. «Magari anche a casa del diavolo, purché mi trovi un posto!». «Ci sarebbe un'altra abitazione», replicò il caporale grattandosi la nuca, «ma a Vostra Eccellenza non piacerà: è un posto impuro». Non comprendendo l'esatto significato dell'ultima parola gli ordinai di andare avanti e, dopo un lungo girovagare per vicoli sudici, sui lati dei quali non vidi altro che decrepiti steccati, giungemmo a una piccola chata proprio sulla riva del mare.
La luna piena splendeva sopra il tetto di canne e i muri bianchi della mia nuova abitazione; nel cortile, circondato da un muretto di sassi, sorgeva un'altra casupola sbilenca, più piccola e vecchia della prima, situata quasi sul margine di un pendio scosceso che scendeva al mare; in basso le onde azzurro-scure si frangevano con ininterrotto fragore. La luna guardava placidamente l'elemento irrequieto, ma a lei sottomesso, e alla sua luce potei distinguere, lontano dalla riva, due navi le cui nere alberature, simili a ragnatele, si stagliavano immobili sulla linea pallida dell'orizzonte. «Ci sono delle navi alla fonda», pensai. «Domani partirò per Gelendžik».
Era ai miei ordini in qualità di attendente un cosacco di frontiera. Dopo avergli ordinato di scaricare la mia valigia e di licenziare il vetturale, mi misi a chiamare il padron di casa: silenzio; busso: silenzio... Non sapevo cosa pensare. Finalmente dall'ingresso sbucò fuori un ragazzino di circa quattordici anni.
«Dov'è il padrone?».
«Non c'è».
«Come? Non esiste affatto?».
«No».
«E la padrona?».
«È andata al villaggio».
«Chi mi aprirà la porta, allora?», dissi dandole un
calcio.
La porta si apri da sé e dall'interno spirò un sentore di umidità. Accesi uno zolfanello e lo avvicinai al naso del ragazzo illuminando due occhi bianchi. Era cieco, completamente cieco dalla nascita. Se ne stava immobile davanti a me e io mi misi a esaminare i tratti del suo viso.
Confesso di nutrire una forte prevenzione contro tutti i ciechi, i guerci, i muti, gli storpi, i monchi, i gobbi eccetera. Ho osservato che c'è una strana rispondenza fra l'aspetto di un uomo e la sua anima: come se con la perdita di un membro l'anima perdesse una facoltà.
Dunque mi misi a esaminare il viso del cieco: ma che cosa volete mai leggere in un volto privo di occhi? Rimasi a lungo a guardarlo con involontaria compassione, quando a un tratto un sorriso impercettibile balenò sulle sue labbra sottili, producendo su di me, chissà perché, una sgradevolissima impressione. Nella mente mi nacque il sospetto che quel cieco non fosse poi cieco come sembrava, benché cercassi invano di convincermi che era impossibile contraffare il leucoma negli occhi (a che scopo, poi?). Ma che fare? Io sono sovente incline alle prevenzioni...
«Sei il figlio della padrona?», gli chiesi infine.
«No».
«Chi sei, allora?».
«Un orfano, un mendicante».
«E la padrona ha figli?».
«No, aveva una figlia, ma è scappata per mare col tartaro».
«Con quale tartaro?».
«Lo sa il diavolo! Un tartaro di Crimea, un barcaiolo di Kerè'».
Entrai nella chata: due panche, un tavolo e un'enorme cassa accanto alla stufa costituivano tutto l'arredamento. Alla parete non c'era nemmeno una icona: brutto segno! Attraverso un vetro rotto irrompeva il vento marino. Tirai fuori dalla valigia un mozzicone di candela, lo accesi e cominciai a sistemare le mie cose: appoggiai in un angolo la sciabola e il fucile, deposi sul tavolo le pistole, distesi il mantello sopra una panca, mentre il cosacco faceva lo stesso col suo sull'altra; dieci minuti dopo lui si mise a russare, ma io non riuscivo a prender sonno: vedevo continuamente davanti a me nell'oscurità il ragazzo dagli occhi bianchi.
Passò così circa un'ora. La luna splendeva attraverso la finestra e i suoi raggi giocavano sul pavimento di terra della chata. All'improvviso un'ombra passò rapidamente attraverso la fascia luminosa che lo intersecava. Mi alzai a sedere e guardai dalla finestra: qualcuno passò di nuovo in fretta davanti a essa e sparì Dio sa dove. Non potevo supporre che questo essere fosse corso giù per la riva scoscesa, d'altra parte non c'era altro luogo dove potesse ficcarsi. Mi alzai, mi gettai addosso il bešmet, mi misi alla cintura il pugnale e pian piano uscii dalla chata; mi si fece incontro il ragazzo cieco. Mi nascosi accanto al muretto e lui con passo sicuro ma cauto passò accanto a me. Portava sottobraccio non so che fagotto e, dopo aver svoltato verso l'approdo, cominciò a scendere per un ripido sentiero. «Quel giorno i muti grideranno e i ciechi vedranno», pensai mentre lo seguivo tenendomi a distanza tale da non perderlo di vista.
Frattanto la luna cominciò a coprirsi di nuvole e sul mare si levò la nebbia; si scorgeva a stento il fanale di poppa della nave più vicina; a riva la spuma scintillava sopra gli scogli che a ogni istante minacciavano di affondarlo. Scendevo a fatica lungo il sentiero scosceso ed ecco che vedo il cieco fermarsi e poi svoltare a destra. Camminava così vicino all'acqua che ogni momento sembrava che l'onda l'avrebbe afferrato e trascinato via, ma era evidente che non era la prima volta che faceva quella passeggiata, a giudicare dalla sicurezza con la quale passava da una pietra all'altra, evitando gli scoscendimenti. Finalmente si fermò come se tendesse l'orecchio a qualcosa, si sedette a terra e depose accanto a sé il fagotto. Io osservavo i suoi movimenti nascosto dietro un masso sporgente. Alcuni istanti dopo dalla direzione opposta comparve una figura bianca che si avvicinò al cieco e si sedette accanto a lui. Il vento a tratti portava sino a me la loro conversazione.
«Ebbene, cieco», disse una voce femminile, «la tempesta è forte, Janko non verrà».
«Janko non ha paura della tempesta», rispose il ragazzo.
«La nebbia si fa più fitta», obiettò di nuovo la voce femminile con tono triste.
«Nella nebbia è più facile sfuggire alle navi della guardia costiera», fu la risposta.
«E se annegasse?».
«Ebbene domenica andresti in chiesa senza il nastro nuovo».
Seguì un silenzio; fui colpito da un particolare: il cieco aveva parlato con me in dialetto ucraino, mentre ora si esprimeva correttamente in russo.
«Vedi che ho ragione?», riprese il cieco battendo le mani. «Janko non ha paura né del mare, né dei venti, né della nebbia, né delle guardie costiere: ascolta, questo non è il rumore della risacca, il mio orecchio è infallibile: sono i suoi remi lunghi».
La donna balzò in piedi e si mise a guardare lontano con aria inquieta.
«Vaneggi, cieco», disse, «io non vedo niente».
Confesso che, per quanto mi sforzassi di distinguere in lontananza qualcosa che assomigliasse a una barca, non ci riuscii. Passarono così circa dieci minuti, quand'ecco che in mezzo a onde alte come montagne apparve un punto nero che ora si ingrandiva, ora si rimpiccioliva. Salendo lentamente sopra le creste delle onde e scendendone velocemente, una barca si avvicinava alla riva. Era impavido il marinaio che si era deciso in una notte simile a intraprendere la traversata di un braccio di mare di venti verste e importante doveva essere la causa che a ciò lo aveva indotto! Mentre così pensavo guardavo con involontario batticuore la misera barca che, come un'anatra, si tuffava per poi guizzar fuori dall'abisso battendo i remi come ali in mezzo a spruzzi di spuma. «Ecco», pensai, «per l'abbrivo andrà a sbattere contro la riva e volerà in pezzi». Ma essa si girò abilmente di fianco e si infilò indenne in una piccola insenatura. Ne saltò giù un uomo di statura media con un colbacco di montone tartaro in testa. Egli fece un gesto con la mano e tutti e tre si misero a scaricare qualcosa dalla barca; il carico era talmente grande che ancora adesso non capisco come questa non fosse affondata. Ognuno si mise sulle spalle un fagotto e tutti assieme si avviarono lungo la riva; ben presto li persi di vista. Avrei dovuto ritornarmene a casa, ma confesso che tutte quelle stranezze mi avevano messo in agitazione, così che a stento attesi il mattino.
Il cosacco rimase molto stupito quando, svegliandosi, mi vide vestito di tutto punto; io però non gliene rivelai la ragione. Dopo aver contemplato per un po' dalla finestra il cielo azzurro, cosparso di piccole nubi sfilacciate, e la lontana costa della Crimea, che si stendeva come una fascia violacea e terminava con uno scoglio sulla cima del quale biancheggiava la torre del faro, mi avviai alla fortezza di Fanagorija per sapere dal comandante l'ora della mia partenza per Gelendžik.
Ma, ahimè!... il comandante non fu in grado di dirmi niente di preciso. Le navi alla fonda erano tutte o della guardia costiera o mercantili che non avevano ancora nemmeno cominciato le operazioni di carico. «Forse fra tre o quattro giorni arriverà il postale», disse il comandante, «e allora si vedrà».
Tornai a casa irritato e di malumore. Sulla porta mi si fece incontro il mio cosacco con un'aria spaventata.
«Brutta faccenda, Vostra Eccellenza», mi disse.
«Sì, fratello, Dio sa quando ce ne andremo di qui». A queste parole egli, ancor più agitato, si chinò verso di me e mi sussurrò:
«Questo posto è impuro! Oggi ho incontrato un caporale del Mar Nero, che conosco perché l'anno scorso era nel nostro reparto, e non appena gli ho detto dove alloggiamo, mi fa: "Quel posto è impuro, fratello, è gente cattiva!...". E in effetti che razza di cieco è mai quello, che se ne va dovunque da solo, perfino al mercato a prendere il pane, a prendere l'acqua... Si vede che qui ormai ci hanno fatto l'abitudine».
«E con questo? Almeno la padrona è arrivata?».
«Oggi, mentre non c'eravate, è arrivata una vecchia con la figlia».
«Quale figlia? Lei non ha figlie».
«Dio sa chi è, se non è sua figlia; adesso la vecchia è là, nella sua chata».
Entrai nella casupola. La stufa ardeva a tutto spiano e in essa cuoceva un pranzo abbastanza lussuoso per dei poveri diavoli. A tutte le mie domande la vecchia rispose che era sorda e che non mi sentiva. Che fare con lei? Mi rivolsi al cieco che, seduto accanto alla stufa, aggiungeva dei ramoscelli al fuoco.
«Allora, diavoletto cieco», gli dissi prendendolo per un orecchio, «dimmi un po' dove te ne andavi ieri notte con quel fagotto...». Improvvisamente il mio cieco scoppiò a piangere, a gridare, a sospirare: «Dove andavo?... Non sono andato da nessuna parte... Con un fagotto?... Quale fagotto?». La vecchia questa volta sentì e si mise a borbottare: «Ma guarda cosa si inventano, per di più contro un infelice! Perché ve la prendete con lui? Cosa vi ha fatto?». La cosa mi venne a noia e uscii, fermamente deciso a trovare la chiave di quell'enigma.
Mi avvolsi nel mantello e, seduto sopra una pietra accanto al muretto, mi misi a guardare il paesaggio; davanti a me si stendeva il mare agitato dalla tempesta notturna. Il suo rumore monotono, simile a quello di una città che si addormenta, mi ricordò gli anni andati, trasportandomi col pensiero al Nord, nella nostra fredda capitale. Immerso nei ricordi mi assopii... Trascorse così circa un'ora, forse anche più... Improvvisamente qualcosa che assomigliava a una canzone colpì il mio orecchio. Era proprio una canzone, cantata da una vocina femminile sottile, fresca, ma da dove proveniva? Tesi l'orecchio era un motivo strano, ora lento e triste, ora veloce e vivace. Mi guardai attorno: nessuno; tesi di nuovo l'orecchio e mi parve che quei suoni scendessero dal cielo. Alzai gli occhi: sul tetto della mia chata era ritta una fanciulla con un abito a righe e con le trecce sciolte, una vera rusalka. Proteggendosi gli occhi dai raggi del sole coi palmo della mano ora guardava lontano, ora rideva e parlava con se stessa, ora intonava di nuovo la sua canzone. La ricordo parola per parola:

Per la libera immensità
Del verde mare
Corrono le navi
Dalle bianche vele.

In mezzo a esse.
C'è la mia barchetta,
La mia barca senza sartie,
A due remi.

Se si leva la tempesta
Le vecchie navi
Alzeran l'ali
E si disperderanno per il mare.

Al mare mi inchinerò
Profondamente.
«Non toccare, o mare cattivo,
La mia barchetta.

La mia barchetta porta
Cose preziose,
La guida nella notte scura
Una testolina ribelle».

Involontariamente mi colpì il pensiero che la notte passata avevo udito la stessa voce; per un momento rimasi assorto e quando guardai di nuovo sopra il tetto la ragazza non c'era più. A un tratto ella passò accanto a me di corsa cantarellando un'altra canzone e, schioccando le dita, corse dentro dalla vecchia; tra loro cominciò subito una discussione. La vecchia si arrabbiava mentre lei rideva fragorosamente. Ed ecco che vedo la mia ondina correr fuori di nuovo saltellando; arrivata accanto a me si fermò e mi guardò fisso negli occhi, come meravigliata della mia presenza, poi si girò con noncuranza e in silenzio si diresse all'approdo. Ma non era finita: per tutto il giorno ella si aggirò vicino al mio alloggio e il canto e i saltelli non cessarono nemmeno un istante. Che strana creatura! Sul suo viso non c'era alcuna traccia di follia, al contrario i suoi occhi, che sembravano dotati di una sorta di forza magnetica, si soffermavano su di me con un'espressione ardita e penetrante e ogni volta parevano in attesa di una domanda. Ma non appena cominciavo a parlare lei fuggiva via con un sorriso malizioso.
Decisamente non avevo mai veduto una donna simile. Era tutt'altro che bella, ma io ho i miei pregiudizi anche a proposito della bellezza. Era di razza... e la razza nelle donne, come nei cavalli, è una cosa molto importante. Questa scoperta appartiene alla Giovane Francia. Essa, alludo alla razza, non alla Giovane Francia, si rivela nell'andatura, nelle mani e nei piedi; il naso specialmente conta molto. Un naso regolare in Russia è più raro di un piede piccolo. La mia cantatrice, all'apparenza, non aveva più di diciotto anni. La straordinaria flessuosità del busto, il modo particolare, tutto suo, di piegare il capo, i lunghi capelli biondo-scuri, una certa sfumatura dorata della pelle lievemente abbronzata sul collo e sulle spalle e, soprattutto, il naso regolare, tutto questo mi pareva affascinante. Sebbene nei suoi sguardi obliqui leggessi qualcosa di selvaggio e infido, sebbene nel suo sorriso ci fosse qualcosa di indeterminato, tuttavia tale è la forza dei pregiudizi che quel naso regolare mi fece uscire di senno. Immaginai di aver trovato la Mignon di Goethe, questa bizzarra creazione della sua fantasia tedesca, e in effetti tra loro c'erano molti punti di somiglianza: gli stessi rapidi passaggi dalla più grande agitazione all'immobilità totale, gli stessi discorsi enigmatici, gli stessi saltelli, le strane canzoni.
Verso sera, dopo averla fermata sulla porta, ingaggiai con lei la seguente conversazione:
«Dimmi, bellezza», le chiesi, «cosa ci facevi oggi sul tetto?».
«Guardavo da che parte spirava il vento».
«Che te ne importa?».
«Da dove spira il vento, da lì arriva la felicità».
«Allora col tuo canto cercavi di attirare la felicità?».
«Dove si canta si è felici».
«E se, putacaso, col tuo canto attirassi la sventura?».
«Ebbene, dove non sarà meglio, sarà peggio e dal male al bene la distanza non è molta».
«Chi ti ha insegnato questa canzone?».
«Nessuno me l'ha insegnata: mi vien l'estro e mi metto a cantare: chi deve sentire sentirà, mentre chi non deve sentire non capirà».
«Come ti chiami, o mia cantatrice?».
«Lo sa chi mi ha battezzato».
«E chi ti ha battezzato?».
«Che ne so?».
«Come sei misteriosa! Ma io ho saputo qualcosa su di te». (Ella non si mutò in viso e le sue labbra non ebbero nemmeno un fremito, come se non stessi parlando di lei).
«Ho saputo che ieri notte sei scesa alla riva». E qui con grande sussiego le riferii tutto quello che avevo visto, pensando di turbarla... Macché! Scoppiò a ridere a gola spiegata: «Avete visto molte cose, ma sapete poco e quel che sapete tenetelo sotto chiave».
«E se, per esempio, mi saltasse in testa di riferirlo al comandante?», e qui feci un'espressione assai seria, severa perfino. Di colpo ella fece un balzo, si mise a cantare e si nascose come un uccellino stanato da un cespuglio. Le mie ultime parole erano del tutto fuori luogo: allora non ne sospettai l'importanza, ma in seguito ebbi occasione di pentirmene.
Appena cominciò a farsi buio ordinai al cosacco di riscaldare la teiera da campo, accesi la candela e mi sedetti a tavola fumando la pipa da viaggio. Stavo già finendo di bere il secondo bicchiere di tè, quando a un tratto la porta cigolò e dietro a me risuonò un lieve fruscio di stoffa e di passi. Sussultando mi voltai: era la mia ondina. Si sedette davanti a me quieta e silenziosa, fissandomi negli occhi, e, non so perché, il suo sguardo mi parve meravigliosamente dolce: mi ricordò uno di quegli sguardi che un tempo giocavano così tirannicamente con la mia vita. Sembrava che attendesse una domanda, ma io tacevo pieno di inspiegabile turbamento. Il suo viso era coperto da un opaco pallore che tradiva un'intima agitazione; la sua mano vagava senza scopo sopra la tavola e notai un lieve tremore; il suo petto ora si sollevava, ora pareva che trattenesse il respiro. Quella commedia cominciava ad annoiarmi ed ero pronto a interrompere il silenzio nella maniera più prosaica, ossia offrendole un bicchiere di tè, quando improvvisamente lei balzò in piedi, mi avvinse il collo con le braccia e un umido, infuocato bacio risuonò sulle mie labbra. Gli occhi mi si offuscarono, la testa incominciò a girarmi, la strinsi tra le mie braccia con tutta la forza della passione giovanile, ma lei, come una serpe, sgusciò via sussurrandomi all'orecchio: «Stanotte, quando tutti dormiranno, vieni sulla riva », e volò fuori dalla stanza rapida come una freccia. Nell'andito rovesciò la teiera e la candela posata sul pavimento.
«Che diavolo di ragazza!», gridò il cosacco che si era sistemato sulla paglia e sognava di riscaldarsi con gli avanzi del tè. Soltanto allora tornai in me stesso.
Un paio d'ore dopo, quando all'approdo era cessato ogni rumore, svegliai il mio cosacco.
«Se sparerò un colpo di pistola», gli dissi, «corri giù alla riva».
Lui sgranò gli occhi e macchinalmente rispose:
«Agli ordini, Vostra Eccellenza».
Infilai la pistola nella cintura e uscii. Ella mi stava aspettando all'inizio della discesa; indossava un abito leggerissimo e un piccolo fazzoletto le cingeva la vita flessuosa.
«Seguitemi», mi disse prendendomi per mano e cominciammo a scendere. Non riesco a capire come non mi sia rotto il collo; arrivati in basso svoltammo a destra e ci avviammo per lo stesso sentiero sul quale la sera prima avevo seguito il cieco. La luna non si era ancora levata e soltanto due stelline, simili a due fari salvatori, brillavano sulla volta del cielo azzurro-scura. Pesanti ondate rotolavano una dietro l'altra sollevando appena una barca solitaria ormeggiata a riva.
«Saliamo sulla barca», disse la mia compagna.
Esitai (non sono un amante delle passeggiate sentimentali sul mare), ma non era più il momento di tirarsi indietro. Ella saltò nella barca, la seguii e non avevo ancora fatto in tempo a raccapezzarmi che mi accorsi che la barca si muoveva.
«Che significa questo?», domandai adirato.
«Significa», mi rispose lei facendomi sedere sul banco e cingendomi la vita con le braccia, «significa che io ti amo...».
E la sua guancia si strinse alla mia e sentii sul viso il suo respiro ardente. All'improvviso qualcosa cadde rumorosamente nell'acqua: portai la mano alla cintura... la pistola non c'era più! A quel punto un terribile sospetto si insinuò nella mia anima e il sangue mi affluì alla testa. Mi guardo attorno: eravamo a circa cinquanta sažen' dalla riva e io non so nuotare! Volevo scostarla da me, ma lei si aggrappava come un gatto al mio vestito; a un tratto una forte spinta per poco non mi sbalzò in mare. La barca oscillò, ma riuscii a impedire che si rovesciasse; tra noi cominciò una lotta disperata; il furore accresceva le mie forze, ma ben presto mi avvidi che il mio avversario mi superava e vinceva in destrezza.
«Che vuoi?», urlai stringendole forte le piccole mani; le sue dita scricchiolarono, ma lei non gridò: la sua natura di serpente sopportò quel tormento.
«Tu hai visto», rispose, «tu ci denuncerai», e con forza sovrumana mi rovesciò sopra il bordo della barca. Sporgevamo entrambi fino alla cintola fuori dalla barca, i suoi capelli toccavano l'acqua: era un momento decisivo. Mi appoggiai con un ginocchio sul fondo della barca, la afferrai con una mano per la treccia, con l'altra per la gola e, quando lasciò andare il mio vestito, fulmineamente la gettai nelle onde.
Era già abbastanza buio; la sua testa balenò un paio di volte tra la spuma delle onde e poi non vidi più nulla.
Sul fondo della barca trovai la metà di un vecchio remo e in qualche maniera, dopo lunghi sforzi, arrivai ad attraccare all'approdo. Mentre camminavo lungo la riva diretto alla mia chata, involontariamente volsi lo sguardo dalla parte dove, la vigilia, il cieco aveva aspettato il navigatore notturno; la luna già era alta nel cielo e mi parve di scorgere qualcuno vestito di bianco seduto sulla riva. Spinto dalla curiosità, mi avvicinai di soppiatto e mi distesi bocconi sull'erba sul ciglio della scarpata; di là sporgendo un poco la testa, potevo vedere bene tutto ciò che accadeva in basso e non mi meravigliai molto, anzi quasi mi rallegrai quando riconobbi la mia rusalka. Stava strizzando la schiuma del mare dai lunghi capelli, la camicia bagnata disegnava la sua vita flessuosa e l'alto seno. Poco dopo in lontananza apparve una barca che si avvicinò rapidamente; da essa, come la vigilia, scese un uomo con un colbacco tartaro, ma coi capelli tagliati alla cosacca; dalla cintura gli spuntava un grosso coltello. «Janko», disse lei, «tutto è perduto».
Poi la conversazione continuò, ma così a bassa voce che non riuscii a udire nulla.
«Ma dov'è il cieco?», domandò infine Janko, alzando la voce.
«L'ho mandato a prendere la roba», fu la risposta.
Alcuni minuti dopo comparve il cieco con un sacco sulle spalle che caricarono sulla barca.
«Ascolta, cieco», disse Janko, «custodisci bene quel posto... lo sai, ci sono merci preziose... Di' a (non afferrai il nome) che non sono più al suo servizio; gli affari sono andati male e non mi rivedrà più; qui c'è troppo pericolo, andrò a cercar lavoro altrove, ma lui un altro coraggioso come me non lo troverà. Digli che se lo avesse pagato meglio per le sue fatiche, Janko non lo avrebbe abbandonato, mentre posso trovare la mia strada dappertutto, ovunque soffi il vento e rumoreggi il mare». Dopo esser rimasto per un po' in silenzio, Janko prosegui: «Lei partirà con me, non può più rimanere qui; quanto alla vecchia, dille che è ora che muoia, ha vissuto abbastanza e bisogna pur rispettare la decenza. Non ci rivedrà più».
«E io?», domandò il cieco con voce lamentosa.
«Che me ne faccio di te?», fu la risposta.
Nel frattempo la mia ondina salì sulla barca e fece un cenno con la mano al suo compagno: questi mise qualcosa in mano al cieco dicendo: «Ecco, comprati del pan pepato».
«Soltanto?», replicò il cieco.
«Eccotene ancora», e si udì il tintinnio di una moneta che cadeva su una pietra. Il cieco non la raccolse. Janko salì sulla barca; il vento soffiava da terra; issarono una piccola vela e rapidamente si allontanarono. Alla luce della luna la vela biancheggiò a lungo tra le onde scure; il cieco rimase seduto sulla riva e a un tratto mi parve di udire dei singhiozzi; il ragazzo cieco piangeva e continuò a lungo... Provai un senso di tristezza: perché il destino mi aveva fatto capitare in mezzo a una pacifica brigata di "onesti contrabbandieri"? Come una pietra scagliata in uno stagno tranquillo avevo turbato la loro quiete e, come una pietra, per poco non ero finito io stesso a fondo!
Tornai a casa. Nell'andito la candela consumata crepitava nel piattino di legno e il mio cosacco, nonostante l'ordine ricevuto, dormiva della grossa stringendo il fucile con entrambe le mani. Lo lasciai dormire e, presa la candela, entrai nella chata. Ahimè! la mia cassetta, la sciabola con l'impugnatura d'argento, il pugnale daghestano, dono di un amico, tutto era sparito. A quel punto indovinai cosa ci fosse nel fagotto che il cieco maledetto portava sulle spalle. Dopo aver svegliato in maniera piuttosto sgarbata il cosacco lo strapazzai alquanto e mi arrabbiai, ma non c'era nulla da fare! E non sarebbe stato ridicolo reclamare presso le autorità perché un bambino cieco mi aveva derubato e una ragazza diciottenne per poco non mi aveva affogato?
Grazie a Dio quel mattino si presentò la possibilità di partire e lasciai Taman'. Che ne fosse della vecchia e del povero cieco lo ignoro. E del resto cos'ho a che fare con le gioie e le disgrazie umane io, ufficiale errante, per di più con foglio di viaggio per ragioni di servizio?

II • La principessina Mary

11 maggio
Ieri sono arrivato a Pjatigòrsk, ho affittato un appartamento all'estremità della città, nella zona più alta, ai piedi del Mašùk: durante i temporali le nuvole si abbasseranno fino al mio tetto. Poco fa, alle cinque del mattino, quando ho aperto la finestra, la mia stanza si è riempita del profumo dei fiori che crescono nel modesto giardinetto. I rami fioriti dei ciliegi si protendono fin dentro alle mie finestre e il vento talvolta cosparge la mia scrivania dei loro petali bianchi. Da tre lati godo una vista stupenda. A occidente si scorge l'azzurro Beštu con le sue cinque vette, simile all'ultima nuvola di una tempesta che si disperde; a settentrione si innalza il Mašùk, simile a un irsuto colbacco persiano, coprendo tutta questa parte dell'orizzonte. A oriente la vista è più allegra: in basso, davanti a me, si stende la cittadina, variopinta, linda, tutta nuova, rumoreggiano le sorgenti curative, risuona il brusio di una folla che parla lingue diverse, mentre laggiù, più lontano, si ammassano ad anfiteatro le montagne sempre più azzurre e nebbiose e all'estremità dell'orizzonte si staglia un'argentea catena di vette nevose che comincia col Kazbèk e termina col bicipite El'borus. Com'è allegro vivere in una terra simile! Un senso di gioia pervade tutte le mie vene. L'aria è fresca e pulita come il bacio di un bambino; il sole è vivido, il cielo è azzurro: che cosa si potrebbe desiderare di più, sembrerebbe, a che pro passioni, desideri, rimpianti? Ma è ora che mi avvii! Andrò alla sorgente Elizavetinskij: là, a quel che si dice, il mattino si riunisce tutta la società acquatica...
Disceso nel centro della città ho imboccato il viale dove ho incontrato alcuni malinconici gruppi che lentamente salivano verso la montagna: erano per lo più famiglie di possidenti della steppa, lo si poteva subito indovinare dai soprabiti consunti e antiquati dei mariti e dagli abiti ricercati delle mogli e delle figlie. Evidentemente tenevano sott'occhio tutta la gioventù che passava le acque, dato che mi hanno guardato con tenera curiosità: il taglio pietroburghese del soprabito le aveva indotte in errore, ma ben presto, scorgendo le mie spalline militari, si sono girate dall'altra parte con stizza.
Le mogli delle autorità locali, le padrone di casa, per così dire, delle acque, sono state più benevole: esse hanno l'occhialino e fanno meno caso alla divisa. Nel Caucaso si sono abituate a incontrare sotto un bottone numerato un cuore ardente e sotto un berretto bianco una mente coltivata. Queste signore sono assai dolci e lo sono a lungo! Ogni anno i loro adoratori vengono sostituiti da altri e forse in questo appunto consiste il segreto della loro instancabile gentilezza. Salendo per lo stretto sentiero che conduce alla fonte Elizavetinskij ho superato una folla di civili e di militari che, come sono venuto a sapere in seguito, costituiscono una categoria a parte di persone tra coloro in attesa del movimento delle acque. Essi bevono, ma non acqua, passeggiano poco, fanno i cascamorti soltanto occasionalmente... Giocano e si lamentano della noia. Sono degli elegantoni che quando immergono il loro bicchiere impagliato nel pozzetto dell'acqua sulfurea assumono pose accademiche; i civili portano cravatte azzurro-chiare, i militari lasciano spuntare di sotto l'uniforme i colletti pieghettati. Professano un profondo disprezzo per le case di provincia e sospirano i salotti aristocratici della capitale dove non vengono ricevuti.
Ecco infine la fonte!... Sulla piazzuola accanto a essa sorge una casetta dal tetto rosso per i bagni e, un po' più lontano, un porticato dove si passeggia in caso di pioggia. Alcuni ufficiali feriti erano seduti su una panchina con le stampelle posate a fianco, pallidi, tristi. Alcune signore camminavano avanti e indietro per la piazzuola a passi frettolosi attendendo l'effetto delle acque. Tra loro c'erano due o tre visetti graziosi. Sotto i pergolati che coprono i pendii del Mašùk balenavano a tratti i cappellini variopinti delle amanti della solitudine a due, dato che accanto a ogni cappellino del genere scorgevo o un berretto militare o uno stomachevole cappello tondo. Sulla roccia scoscesa sulla quale si erge il padiglione detto "L'Arpa di Eolo" spuntavano gli amanti di paesaggi intenti a puntare il telescopio sull'El'borus; tra loro c'erano due precettori coi loro pupilli, venuti qui per curarsi la scrofola.
Mi sono arrestato in cima alla salita e, appoggiato all'angolo della casetta, mi sono messo a osservare i pittoreschi dintorni, quando improvvisamente sento dietro di me una voce nota:
«Peèorin! è tanto che sei qui?».
Mi volto: era Grušnickij! Ci siamo abbracciati. Ci siamo conosciuti in un reparto impegnato in zona di operazioni. Lui è stato ferito da una pallottola a una gamba ed è venuto alle acque circa una settimana prima di me.
Grušnickij è un allievo ufficiale. È in servizio soltanto da un anno e per una ricercatezza di genere particolare porta un pesante pastrano da soldato. Ha la crocetta di San Giorgio che danno ai soldati. È ben fatto, scuro di carnagione e ha i capelli neri; all'aspetto gli si possono dare venticinque anni, anche se a stento ne ha ventuno. Quando parla getta la testa all'indietro e si arriccia continuamente i baffi con la mano sinistra, dato che con la destra si appoggia alla stampella. Parla in fretta e in maniera astrusa: è una di quelle persone che per tutti i casi della vita hanno sempre pronta una frase enfatica, che non sono assolutamente toccate dal bello e che si drappeggiano con solennità in sentimenti eccezionali, sublimi passioni e sofferenze straordinarie. Fare effetto è il loro godimento: piacciono alla follia alle provinciali romantiche. In vecchiaia diventano o pacifici possidenti o ubriaconi, talvolta l'una e l'altra cosa insieme. Nella loro anima sovente ci sono molte buone qualità, ma nemmeno un briciolo di poesia. La passione di Grušnickij era la declamazione: vi sommergeva di parole non appena la conversazione usciva fuori dalla cerchia dei concetti comuni; non sono mai riuscito a discutere con lui: non risponde alle vostre obiezioni, non vi ascolta. Appena vi fermate attacca una lunga tirata che evidentemente ha un qualche rapporto con ciò che avete detto, ma che in realtà è soltanto la continuazione del suo discorso.
È abbastanza arguto, i suoi epigrammi sono spesso spiritosi, ma in nessun caso azzeccati e cattivi: non ucciderà mai nessuno con una parola; non conosce gli uomini e i loro punti deboli perché per tutta la vita non si è occupato che di se stesso. La sua aspirazione è diventare un eroe da romanzo. Si è sforzato così spesso di convincere gli altri di essere una creatura non fatta per questo mondo e destinata a chissà quali misteriose sofferenze, che quasi se ne è convinto lui stesso. Perciò porta con tanta fierezza il suo pesante pastrano da soldato. Io l'ho capito e per questo lui non mi ama, sebbene esteriormente siamo in rapporti cordialissimi. Grušnickij passa per uomo di straordinario coraggio; io l'ho visto in battaglia: agita la sciabola, grida e si slancia in avanti chiudendo gli occhi. Questo tipo di coraggio è poco russo!...
Neanch'io lo amo: sento che un giorno ci incontreremo su una strada stretta e uno di noi due farà una brutta fine.
La sua venuta nel Caucaso è anch'essa una conseguenza del suo fanatismo romantico: sono sicuro che alla vigilia della partenza dal villaggio paterno ha detto con espressione tenebrosa a qualche graziosa vicina che non si recava semplicemente a servire sotto le armi, ma che cercava la morte perché... a questo punto di certo si è coperto gli occhi con la mano e ha aggiunto: «No, questo voi (oppure tu) non dovete saperlo!... La vostra anima pura ne tremerebbe!... E poi a che scopo? Cosa sono per voi? Mi comprendereste?...» e così via.
Egli stesso mi ha detto che la causa che lo ha spinto ad arruolarsi nel reggimento K. rimarrà per sempre un mistero tra lui e il Cielo.
D'altronde nei momenti in cui si spoglia del suo manto tragico Grušnickij è abbastanza piacevole e divertente. Sono curioso di vederlo alle prese con le donne: penso che in questo campo ce la metta tutta!
Ci siamo incontrati come vecchi amici. Ho cominciato a fargli domande sul genere di vita che si conduce alle acque e sulle persone degne di nota.
«Conduciamo una vita piuttosto prosaica», mi ha detto con un sospiro. «Quelli che bevono acqua il mattino sono svigoriti, come tutti i malati, e quelli che bevono vino la sera sono insopportabili come tutti i sani. Compagnie femminili ce ne sono, ma sono una magra consolazione: giocano a whist, si vestono male e parlano orribilmente francese. Quest'anno da Mosca è venuta soltanto la principessa Ligovskàja con la figlia, ma io non la conosco. Il mio cappotto da soldato è come un marchio d'infamia. La simpatia che esso suscita è umiliante come un'elemosina».
In quel momento si sono avvicinate alla fonte due signore, una anziana, l'altra giovane e snella. Non sono riuscito a vedere i loro volti nascosti dai cappelli, ma erano vestite secondo le severe regole del gusto più raffinato: nulla di superfluo! La seconda indossava un vestito gris de perles e una leggera sciarpa di seta le avvolgeva il collo flessuoso. Gli stivaletti couleur puce fasciavano così graziosamente alla caviglia il suo piedino sottile, che persino una persona non iniziata ai misteri della bellezza avrebbe immancabilmente lanciato un'esclamazione se non altro di stupore. Il suo portamento lieve ma nobile aveva un che di verginale che sfuggiva alla definizione, ma risultava evidente allo sguardo. Quando ci è passata accanto da lei è spirato quell'inspiegabile profumo che a volte emana dal biglietto della donna amata.
«Ecco la principessa Ligovskàja», ha detto Grušnickij, «con sua figlia Mary, come la chiama lei alla maniera inglese. Sono qui appena da tre giorni».
«Tuttavia tu conosci già il suo nome».
«Sì, l'ho sentito per caso», mi ha risposto lui arrossendo. «Confesso che non desidero far conoscenza con loro; questa nobiltà altezzosa guarda noi militari come fossimo dei selvaggi. Che importa loro se c'è dell'ingegno sotto un berretto numerato e un cuore sotto un ruvido cappotto?».
«Povero cappotto!», ho esclamato sorridendo. «E chi è quel signore che si avvicina e porge loro così premurosamente i bicchieri?».
«Oh, è Raeviè, un bellimbusto di Mosca! è un giocatore: si vede subito dall'enorme catena d'oro che gli pende sul panciotto azzurro. E che canna robusta! Sembra quella di Robinson Crusoe! E guarda che barba e che capigliatura à la mougik!».
«Tu hai in odio tutto il genere umano».
«Ce n'è ben donde».
«Oh! Veramente?».
In quell'istante le signore si sono allontanate dalla fonte e ci sono passate accanto. Grušnickij ha fatto in tempo ad assumere una posa drammatica con l'ausilio della stampella e mi ha risposto ad alta voce in francese:
«Mon cher; je haïs les hommes pour ne pas les mépriser, car autrement la vie serait une farce trop dégoûtante».
La graziosa principessina si è voltata e ha elargito al declamatore un lungo sguardo pieno di curiosità. L'espressione di quello sguardo era indeterminata, ma non irridente, del che, dentro di me, mi sono sinceramente congratulato con lui.
«Questa principessina Mary è estremamente graziosa», gli ho detto. «Ha degli occhi davvero di velluto, proprio di velluto, ti consiglio di adottare questa espressione parlando dei suoi occhi: le sue ciglia inferiori e superiori sono così lunghe che i raggi del sole non si riflettono nelle sue pupille. Amo questi occhi senza scintillìo, sono così morbidi, sembra che ti accarezzino. D'altra parte, mi sembra che nel suo viso tutto sia bello... Come sono i suoi denti? Bianchi? È una cosa molto importante! Peccato che non abbia sorriso alla tua frase magniloquente».
«Parli di una donna graziosa come di un cavallo inglese», ha replicato Grušnickij con irritazione.
«Mon cher», gli ho risposto sforzandomi di adeguarmi al suo tono, «je méprise les femmes pour ne pas les aimer, car autrement la vie serait un mélodrame trop ridicule».
Mi sono voltato e mi sono allontanato. Per mezz'ora circa ho passeggiato per i viali fiancheggiati da viti, lungo le rocce calcaree tra cui pendevano festoni di arbusti. Si era fatto caldo e mi sono affrettato a rincasare. Passando accanto alla fonte sulfurea mi sono fermato sotto il porticato per riprender fiato all'ombra di esso e ciò mi ha fornito l'occasione di assistere a una scena abbastanza curiosa. I personaggi erano così disposti: la principessa e il bellimbusto moscovita erano seduti su una panchina sotto il porticato apparentemente impegnati in una conversazione di argomento serio. La principessina, dopo aver verosimilmente finito di bere l'ultimo bicchiere, passeggiava pensierosa accanto alla fonte. Grušnickij era in piedi accanto a quest'ultima; sulla piazzuola non c'era nessun altro.
Mi sono avvicinato di più e mi sono nascosto dietro l'angolo del porticato. In quel momento Grušnickij che aveva lasciato cadere il bicchiere sulla sabbia si sforzava di chinarsi a raccoglierlo, ma la gamba inferma glielo impediva. Poveretto! Per quanto si sforzasse appoggiandosi alla stampella non ci riusciva. Sul suo viso espressivo effettivamente si leggeva la sofferenza.
La principessina Mary aveva visto tutto ciò meglio di me.
Più leggera di un uccellino è accorsa verso di lui, si è chinata, ha raccolto il bicchiere e glielo ha porto con un gesto pieno di indicibile grazia; poi è arrossita violentemente, si è voltata a guardare il porticato e, assicuratasi che la mammina non avesse visto nulla, è sembrata subito tranquillizzarsi. Quando Grušnickij ha aperto bocca per ringraziarla, lei era già lontana. Un attimo dopo è uscita dal porticato assieme alla madre e al bellimbusto, ma, passando accanto a Grušnickij, ha assunto un'aria straordinariamente grave e solenne, non si è voltata né si è accorta dello sguardo appassionato con cui lui a lungo l'ha accompagnata finché, giunta al termine della discesa, non è sparita sotto i tigli del viale... Ma ecco che il suo cappellino è balenato ancora dall'altra parte della strada mentre entrava di corsa nel portone di una delle migliori case di Pjatigòrsk seguita dalla madre che sulla soglia si è congedata da Raeviè.
Soltanto allora il povero, appassionato allievo ufficiale si è accorto della mia presenza.
«Hai visto?», mi ha detto stringendomi forte la mano. «È semplicemente un angelo».
«Perché?», ho domandato con l'aria più ingenua di questo mondo.
«Ma non hai visto dunque?».
«No, ho visto: ti ha raccolto il bicchiere. Se il guardiano fosse stato lì avrebbe fatto la stessa cosa, e anche più premurosamente, nella speranza di ricevere una mancia. D'altronde è ben comprensibile che ella abbia provato pietà di te: hai fatto una smorfia così orribile quando ti sei appoggiato sulla gamba ferita...».
«E non ti sei sentito affatto commosso guardandola in quel momento, quando l'anima le brillava in volto?...».
«No».
Mentivo. Ma volevo farlo andare in bestia. In me è innato lo spirito di contraddizione: tutta la mia vita non è stata altro che una catena di tristi e sventurate contraddizioni sentimentali o cerebrali. La presenza di un entusiasta mi rende freddo come il ghiaccio e sono convinto che la frequentazione di una persona fiacca e flemmatica farebbe di me un appassionato sognatore. Confesso anche che un sentimento spiacevole ma ben noto in quel momento ha leggermente sfiorato il mio cuore: questo sentimento era l'invidia. Pronuncio coraggiosamente questa parola perché ho l'abitudine di essere completamente sincero con me stesso. Del resto è ben difficile trovare un giovane che, incontrando una donna graziosa che catturi la sua oziosa attenzione, la quale improvvisamente, in sua presenza, dimostri interesse per un altro, a lei parimente sconosciuto, è ben difficile, dico, trovare un tal giovane (che frequenti, si intende, il gran mondo e sia abituato a coccolare il proprio amor proprio) che non rimanga spiacevolmente colpito dalla cosa.
In silenzio Grušnickij e io abbiamo disceso la collina e siamo passati per il viale davanti alle finestre della casa dove era sparita la nostra bella. Lei era seduta al davanzale. Grušnickij, tirandomi per la manica, le ha lanciato uno di quegli sguardi teneri e offuscati che tanto poco effetto fanno sulle donne. Ho puntato su di lei l'occhialino e ho notato che sorrideva allo sguardo di lui, mentre il mio insolente occhialino l'ha fatta arrabbiare sul serio: come osava, in verità, un militare caucasico puntare il suo occhialino su una principessina moscovita?

13 maggio
Stamane è passato da me il dottore; si chiama Werner, ma è russo. Che c'è di strano? Ho conosciuto un Ivanov che era tedesco.
Sotto molti aspetti Werner è una persona straordinaria. È uno scettico e un materialista, come quasi tutti i medici, ma nello stesso tempo è un autentico poeta, sempre nei fatti e sovente nelle parole, sebbene non abbia mai scritto un verso in vita sua. Ha studiato tutte le vive corde del cuore umano come si studiano le vene di un cadavere, ma non è mai stato capace di servirsi delle proprie conoscenze. Così, talvolta, un ottimo anatomista non è capace di guarire una febbre. Di solito Werner sotto sotto rideva dei suoi malati, ma una volta l'ho visto piangere al capezzale di un soldato morente. È povero, sogna i milioni, ma per il denaro non muoverebbe un dito: una volta mi ha detto che preferirebbe fare un favore a un nemico che a un amico, perché ciò significherebbe far mercato della propria bontà, mentre l'odio non fa che accrescersi in proporzione della magnanimità dell'avversario. Ha una lingua mordace: grazie ai suoi epigrammi più di un bonaccione è passato per un volgare stupido; i suoi rivali, gli invidiosi medici delle acque, hanno messo in giro la voce che fa la caricatura dei suoi malati e questi se ne sono risentiti e l'hanno quasi tutti abbandonato. I suoi amici, ossia tutte le persone veramente per bene in servizio nel Caucaso, hanno inutilmente tentato di risollevare la sua reputazione rovinata.
Il suo aspetto è di quelli che a prima vista producono un effetto sgradevole, ma in seguito piacciono non appena l'occhio ha imparato a leggere in quei tratti irregolari l'impronta di un'anima elevata e ricca di esperienza. Ci sono stati casi di donne che si sono innamorate alla follia di simili uomini e che non avrebbero scambiato la loro deformità con la bellezza dei più freschi e rosei Endimioni. Bisogna render giustizia alle donne: esse hanno l'istinto della bellezza spirituale; per questo, forse, gli uomini come Werner amano così appassionatamente le donne.
Werner è basso di statura, mingherlino ed esile come un bambino; ha una gamba più corta dell'altra, come Byron; in confronto al busto la sua testa pare enorme. Porta i capelli tagliati cortissimi e le irregolarità del suo cranio, in tal modo messe a nudo, stupirebbero un frenologo per la strana combinazione di inclinazioni opposte. I suoi piccoli occhi neri, sempre irrequieti, cercano di penetrare nei vostri pensieri. Il suo modo di vestire denota buon gusto e pulizia; le sue mani piccole, ossute e forti sono messe in rilievo da guanti giallo chiari. Soprabito, cravatta e panciotto sono sempre neri. La gioventù l'ha soprannominato Mefistofele; egli dà a credere di essere contrariato da tale soprannome, ma in realtà esso lusinga il suo amor proprio. Ben presto ci siamo intesi a vicenda e siamo diventati buoni conoscenti, dato che io sono incapace di amicizia. Tra due amici uno è sempre lo schiavo dell'altro, sebbene spesso nessuno di loro sia disposto a confessarlo a se stesso, io invece esser schiavo non posso, mentre comandare in questo caso è una fatica snervante perché bisogna nello stesso tempo ingannare, e poi non mi mancano né denaro né servitori! Ecco come ci siamo conosciuti: ho incontrato Werner a S. in una numerosa e rumorosa compagnia di giovani; verso sera la conversazione ha preso un indirizzo filosofico-metafisico; si parlava delle convinzioni e ognuno ne aveva di diverse.
«Per quanto mi concerne sono convinto di una cosa soltanto», ha detto il dottore.
«Di che cosa?», ho chiesto, desideroso di conoscere l'opinione del dottore che fino a quel momento era rimasto in silenzio.
«Del fatto», mi ha risposto, «che, prima o poi, un bel mattino morirò».
«Sono più ricco di voi», ho replicato, «ho anche un'altra convinzione, e precisamente questa: che una bella sera ho avuto la disgrazia di nascere».
Tutti hanno trovato che stessimo dicendo delle sciocchezze, ma in verità nessuno di loro aveva detto niente di più intelligente. Da quel momento ci siamo distinti a vicenda tra la folla. Spesso ci incontriamo e discutiamo a quattr'occhi con estrema serietà di argomenti astratti, finché non ci accorgiamo entrambi che stiamo prendendoci in giro a vicenda; allora, dopo esserci fissati negli occhi come facevano gli auguri romani secondo quanto afferma Cicerone, scoppiamo a ridere e dopo aver riso a sazietà ci separiamo soddisfatti della nostra serata.
Quando Werner è entrato nella mia camera ero sdraiato sul divano con le mani sotto la nuca e gli occhi fissi al soffitto. Si è seduto sulla poltrona, ha deposto la canna in un angolo, ha sbadigliato e mi ha annunciato che fuori cominciava a far caldo. Gli ho risposto che ero infastidito dalle mosche, dopo di che entrambi abbiamo taciuto.
«Notate, caro dottore», ho ripreso, «che il mondo sarebbe assai noioso senza gli stupidi!... Guardate per esempio noi due, persone intelligenti: sappiamo in anticipo che di tutto si può discutere all'infinito e perciò non discutiamo, conosciamo quasi tutti i più intimi pensieri l'uno dell'altro, una parola per noi contiene una storia intera, vediamo il nocciolo di ogni nostro sentimento anche attraverso una triplice scorza. Ciò che è triste per noi è ridicolo e ciò che è ridicolo è triste, ma in generale, a dir la verità, siamo indifferenti a tutto, fuorché a noi stessi. E quindi lo scambio di sentimenti e di pensieri tra noi non può sussistere: sappiamo l'uno dell'altro tutto quello che vogliamo sapere e non vogliamo sapere niente di più. Resta una sola risorsa: raccontarci le novità. Raccontatemi dunque qualche novità!».
Affaticato dal lungo discorso ho chiuso gli occhi e ho sbadigliato.
Dopo aver un po' riflettuto lui mi ha risposto:
«Nel vostro sproloquio tuttavia c'è un'idea».
«Due», ho ribattuto io.
«Ditemene una e io vi dirò l'altra».
«Va bene, cominciate», ho detto continuando a osservare il soffitto e sorridendo dentro di me.
«Voi desiderate sapere qualche particolare a proposito di qualcuna delle persone venute a fare la cura delle acque e io ho già indovinato chi vi sta a cuore perché laggiù hanno già chiesto di voi».
«Dottore! Decisamente noi non possiamo parlare: ci leggiamo nell'anima a vicenda».
«Adesso l'altra...».
«Eccola: volevo spingervi a raccontare qualcosa, in primo luogo perché ascoltare è meno faticoso, in secondo luogo perché è impossibile lasciarsi sfuggire qualcosa di inopportuno, in terzo luogo perché si può scoprire il segreto altrui, in quarto luogo perché le persone intelligenti come voi preferiscono gli ascoltatori ai narratori. Ma ora veniamo al dunque: cosa vi ha detto di me la principessina Ligovskàja?».
«Siete proprio sicuro che sia stata la principessina, e non la principessa?...».
«Assolutamente».
«Perché?».
«Perché la principessa ha domandato di Grušnickij».
«Avete una grande intuizione. La principessa ha detto di essere convinta che quel giovane col cappotto da soldato sia stato degradato a causa di un duello...».
«Spero che l'abbiate lasciata in questo piacevole errore...».
«Si capisce».
«L'intreccio c'è!», ho esclamato con entusiasmo. «Quanto allo scioglimento di questa commedia ci penseremo noi. Evidentemente il destino si premura di adoperarsi perché non mi annoi».
«Ho il presentimento», ha replicato il dottore, «Che il povero Grušnickij sarà la vostra vittima...».
«Continuate, dottore...».
«La principessina ha detto che il vostro viso le era familiare... Le ho fatto osservare che probabilmente vi aveva incontrato a Pietroburgo, da qualche parte in società... le ho detto il vostro nome... Lo conosceva. A quanto sembra la vostra storia laggiù ha fatto molto scalpore! La principessa ha cominciato a raccontare le vostre avventure, aggiungendo probabilmente ai pettegolezzi mondani le proprie osservazioni... La figlia ascoltava con curiosità. Nella sua immaginazione siete diventato un eroe da romanzo di nuovo genere... Non ho contraddetto la principessa, sebbene sapessi che diceva delle sciocchezze».
«Mio degno amico!», ho esclamato tendendogli la mano. Il dottore me l'ha stretta calorosamente e ha proseguito:
«Se volete, vi presenterò...».
«Per carità!», ho replicato battendo le mani. «Forse che gli eroi vengono presentati? Essi non fanno conoscenza in altro modo che salvando da sicura morte la loro amata...».
«E voi volete davvero correr dietro alla principessina?».
«Al contrario, assolutamente al contrario!... Dottore, finalmente esulto: voi non mi comprendete!... Ciò d'altronde mi rattrista, dottore», ho continuato dopo un attimo di silenzio. «Io non rivelo mai i miei segreti, invece amo terribilmente che li si indovini perché in tal modo posso sempre all'occasione rinnegarli. Però voi mi dovete descrivere l'aspetto della madre e della figlia. Che persone sono?».
«Cominciamo dalla principessa: è una donna di quarantacinque anni», ha risposto Werner, «ha un bellissimo stomaco, ma il sangue è guasto: ha delle macchie rosse sulle gote. Ha trascorso la seconda parte della sua vita a Mosca dove è ingrassata in pace. Le piacciono gli aneddoti piccanti e lei stessa talvolta racconta cose sconvenienti quando la figlia non è nella stanza. Mi ha dichiarato che sua figlia è innocente come una colomba. A me cosa importa?... Le avrei voluto rispondere di stare tranquilla che non lo avrei detto a nessuno! La principessa è qui per curarsi i reumatismi, mentre la figlia Dio sa cosa deve curarsi: ho prescritto a entrambe di bere due bicchieri d'acqua sulfurea al giorno e di fare il bagno nella vasca termale due volte la settimana. La principessa, a quanto sembra, non è abituata a comandare: nutre ammirazione per l'intelligenza e le conoscenze della figlia che ha letto Byron in inglese e conosce l'algebra; a Mosca, evidentemente, le signorine si sono date alle scienze, e fanno bene, in verità! I nostri uomini sono in genere così poco amabili che civettare con loro deve essere insopportabile per una donna intelligente. La principessa ama molto gli uomini giovani; la principessina li guarda invece con un certo disprezzo: è l'usanza moscovita! A Mosca si nutrono soltanto di begli spiriti quarantenni».
«Ma voi siete stato a Mosca, dottore?».
«Sì, ho fatto pratica laggiù per un certo tempo».
«Continuate».
«Ma, credo di avervi detto tutto... Ah, sì! ecco un'altra cosa: la principessa, a quanto sembra, ama parlare dei sentimenti, delle passioni ecc. Ha trascorso un inverno a Pietroburgo, ma non le è piaciuto: probabilmente è stata accolta con freddezza».
«Non avete incontrato nessuno da loro stamane?».
«Al contrario: c'erano un aiutante di campo, un ufficiale della guardia tutto impettito e una signora arrivata da poco, parente della principessa per parte del marito, molto graziosa, ma, a quanto sembra, molto malata... Non l'avete incontrata alla fonte? È di statura media, bionda, dai tratti regolari, con un colorito da tisica e un neo sulla guancia destra: il suo viso mi ha colpito per la sua espressività».
«Un neo!», ho borbottato fra i denti. «Possibile».
Il dottore mi ha guardato e ha profferito solennemente posandomi una mano sul cuore: «Voi la conoscete». Proprio così: il mio cuore batteva più forte del solito.
«Ora è il vostro turno di trionfare», ho detto. «Però mi affido a voi: non mi tradirete. Ancora non l'ho vista, ma sono certo di riconoscere dal vostro ritratto una donna che ho amato molto tempo fa. Non ditele nemmeno una parola su di me e se lei vi fa delle domande parlate male».
«Come volete», ha replicato Werner stringendosi nelle spalle.
Quando se n'è andato una tristezza spaventosa mi ha serrato il cuore. È stato il destino a ricongiungerci nel Caucaso, oppure ella vi è venuta apposta, sapendo che mi avrebbe incontrato?... e come ci rivedremo?... e poi, sarà davvero lei?... I miei presentimenti non mi hanno mai ingannato. Non c'è al mondo un uomo sul quale il passato abbia acquisito un tale potere come su di me: ogni ricordo di un dolore o di una gioia passati colpisce tormentosamente la mia anima e ne trae sempre gli stessi suoni; sono fatto in maniera stupida: non dimentico nulla, nulla.
Dopo pranzo, verso le sei, mi sono recato sul viale: c'era una gran folla; la principessa e la principessina erano sedute su una panchina attorniate da parecchi giovani che facevano a gara nel colmarle di gentilezze. Mi sono sistemato a una certa distanza sopra un'altra panchina, ho fermato due ufficiali che conoscevo e ho cominciato a raccontar loro qualcosa; evidentemente si trattava di qualcosa di molto buffo, dato che si sono messi a ridere come pazzi. La curiosità ha attirato verso di me alcuni tra coloro che attorniavano la principessina; poco a poco tutti l'hanno abbandonata per far cerchio attorno a me. Io non tacevo un momento: i miei aneddoti erano intelligenti fino alla stupidità, le mie battute sui tipi originali che passavano accanto a noi erano cattive fino alla ferocia... Ho continuato a sollazzare il pubblico fino a che il sole è calato. Diverse volte la principessina mi è passata accanto a braccetto della madre, accompagnata da non so che vecchietto zoppicante; diverse volte il suo sguardo è caduto su di me esprimendo dispetto, mentre si sforzava di esprimere indifferenza...
«Che cosa vi ha raccontato?», ha domandato a uno dei giovanotti tornato da lei per cortesia. «Certamente qualche storia molto avvincente: forse le sue gesta in battaglia?...». Queste parole le ha pronunciate abbastanza ad alta voce, verosimilmente con l'intenzione di punzecchiarmi. «A-hà», ho pensato. «Vi siete arrabbiata sul serio, cara principessina; aspettate, non è finita qui!».
Grušnickij la seguiva come un animale da preda senza toglierle gli occhi di dosso: scommetto che domani domanderà a qualcuno di presentarlo alla principessina. Lei ne sarà assai contenta perché si annoia.

16 maggio
Negli ultimi due giorni i miei affari hanno fatto progressi incredibili. La principessina decisamente mi odia; mi sono stati riferiti due o tre epigrammi sul mio conto, abbastanza mordaci, ma nello stesso tempo assai lusinghieri. Le appare terribilmente strano che io, abituato alla buona società, in intimità con le sue cugine e ziette pietroburghesi, non cerchi di far conoscenza con lei. Ci incontriamo ogni giorno alla fonte e sul viale, e io metto in opera tutte le mie forze per stornare da lei i suoi adoratori, i brillanti aiutanti di campo, i pallidi moscoviti ecc., e quasi sempre ci riesco. Ho sempre odiato avere ospiti; ora invece ho ogni giorno la casa piena di gente che pranza, cena, gioca... e, ahimè, il mio champagne ha la meglio sulla forza magnetica dei suoi occhiucci!
Ieri l'ho incontrata nella bottega di Èelachov dove stava contrattando uno stupendo tappeto persiano. La principessina pregava la madre di non tirare sul prezzo: quel tappeto era così adatto al suo gabinetto da lavoro!... Io ho offerto quaranta rubli di più e mi sono portato via il tappeto: ne sono stato ricompensato con uno sguardo nel quale scintillava il più delizioso furore. Verso l'ora di pranzo ho ordinato a bella posta di far passare sotto le sue finestre il mio cavallo circasso coperto con quel tappeto. Werner che in quel momento si trovava da loro mi ha riferito che l'effetto di quella vista è stato veramente drammatico. La principessina vuole bandire una crociata contro di me: ho addirittura notato che già due aiutanti di campo al suo seguito mi salutano assai seccamente, ma ciononostante pranzano ogni giorno da me.
Grušnickij ha un'aria misteriosa: va in giro con le mani dietro la schiena senza salutare nessuno; la sua gamba improvvisamente è guarita: quasi non zoppica più. Ha trovato l'occasione di attaccar discorso con la principessa e di fare un complimento alla principessina: evidentemente lei non è molto esigente dato che da allora risponde al suo saluto col più grazioso dei sorrisi.
«Sei davvero deciso a non far conoscenza con le Ligovskìe?», mi ha domandato ieri.
«Assolutamente».
«E pensare che è la casa più gradevole qui alle acque! C'è tutta la migliore società di qui!...».
«Amico mio, anche quella non di qui mi è venuta terribilmente a noia. Ma tu vai da loro?».
«Ancora no; ho parlato un paio di volte con la principessina, o forse più, ma, sai, andare a casa loro senza essere invitato sarebbe imbarazzante, anche se qui si usa Sarebbe tutt'un'altra faccenda se portassi le spalline...».
«Ma via! Così sei molto più interessante! Semplicemente non sei capace di approfittare della tua vantaggiosa situazione: il cappotto da soldato, infatti, agli occhi di qualunque signorina sensibile fa di te un eroe, un martire...».
Grušnickij ha sorriso compiaciuto.
«Che assurdità!», ha replicato.
«Sono convinto», ho proseguito, «che la principessina è già innamorata di te».
Egli è arrossito fino alle orecchie e si è ringalluzzito.
O vanità! Sei tu la leva con la quale Archimede voleva sollevare il globo terrestre!
«Non fai altro che scherzare», ha ribattuto facendo finta di arrabbiarsi. «In primo luogo mi conosce ancora così poco».
«Le donne amano soltanto quelli che non conoscono».
«E poi non pretendo affatto di piacerle: voglio semplicemente essere ricevuto in una casa gradevole e sarebbe assai ridicolo se nutrissi speranze di qualsiasi genere... Piuttosto per voi, per esempio, sarebbe un'altra faccenda! Voi conquistatori pietroburghesi... basta che le guardiate e le donne si sciolgono... Ma lo sai, Peèorin, che la principessina ha parlato di te?...».
«Come? Ti ha già parlato di me?».
«Non te ne rallegrare, tuttavia. Per caso ho attaccato discorso con lei alla fonte e alla terza parola mi ha domandato: "Chi è quel signore dallo sguardo così sgradevole e greve che era con voi quando...". A questo punto è arrossita e non ha voluto precisare che giorno fosse, ricordando il suo grazioso gesto. "Non occorre che diciate il giorno", le ho risposto. "Esso rimarrà impresso per sempre nella mia memoria". Amico mio, Peèorin, non posso rallegrarmi con te: ti ha messo sul suo libro nero... Peccato davvero, perché Mary è molto graziosa!...».
Bisogna osservare che Grušnickij è una di quelle persone che, parlando di una donna con la quale hanno appena fatto conoscenza, la chiamano "la mia Mary, la mia Sophie", se ella ha avuto la fortuna di piacer loro.
Ho assunto un'aria seria e gli ho risposto.
«Sì, non è male... Però guardatene, Grušnickij! Le signorine russe per lo più si nutrono di un amore soltanto platonico, senza mescolare a esso il pensiero del matrimonio, e l'amore platonico è il più travagliato. La principessina, mi sembra, è una di quelle donne che vogliono essere divertite; se accanto a te si annoierà due minuti di fila, sei irrimediabilmente perduto: il tuo silenzio deve stuzzicare la sua curiosità, la tua conversazione non deve mai soddisfarla completamente; devi tenerla senza sosta in apprensione; per dieci volte trascurerà l'opinione della gente e definirà questo un sacrificio, ma per risarcirsi di ciò comincerà a tormentarti e poi semplicemente dirà che non ti può più soffrire! Se non acquisirai potere su di lei, nemmeno il suo primo bacio ti darà diritto al secondo; civetterà con te a sazietà, ma dopo un paio d'anni sposerà uno sgorbio per obbedire alla mammina, e comincerà ad assicurare a se stessa di essere infelice, di aver amato un solo uomo, cioè te, ma che il cielo non ha voluto congiungerla con lui perché portava un cappotto da soldato, sebbene sotto quel pesante cappotto grigio battesse un cuore nobile e appassionato...».
Grušnickij ha picchiato il pugno sul tavolo e si è messo a camminare avanti e indietro per la stanza.
Dentro di me ridevo e un paio di volte ho persino sorriso, ma lui, per fortuna, non se n'è accorto. È chiaro che è innamorato perché è diventato ancor più ingenuo di prima. Al suo dito è persino apparso un anello d'argento niellato di fattura locale che ha suscitato i miei sospetti. L'ho esaminato attentamente e cosa credete? All'interno reca inciso a caratteri piccolissimi il nome "Mary" e accanto la data del giorno in cui ella ha raccolto da terra il famoso bicchiere. Ho tenuto nascosta la mia scoperta: non voglio estorcergli delle confessioni! Voglio che sia lui stesso a scegliermi come suo confidente e a quel punto mi divertirò...
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Oggi mi sono alzato tardi, sono andato alla fonte e non c'era già più nessuno. Si era fatto caldo; bianche nuvolette sfilacciate accorrevano dalle montagne coperte di neve promettendo un temporale; la cima del Mašùk fumava come una fiaccola spenta; attorno a essa si contorcevano e strisciavano come serpenti grigi brandelli di nuvole, trattenuti nel loro slancio e come impigliati nei suoi arbusti pungenti. L'aria era satura di elettricità. Mi sono addentrato nel viale fiancheggiato da vigneti che conduce alla grotta; ero triste. Pensavo alla giovane donna con un neo sulla guancia di cui mi aveva parlato il dottore. Perché è qui? Ed è davvero lei? E perché penso che sia lei?... Perché ne sono tanto convinto? Sono tante le donne con un neo sulla guancia...
Immerso in tali pensieri sono arrivato alla grotta. Guardo: all'ombra fresca della sua volta, sulla panca di pietra, era seduta una donna con un cappellino di paglia avvolta in uno scialle nero, con la testa china sul petto; il cappellino le nascondeva il volto. Già volevo tornare indietro per non disturbare le sue fantasticherie quando ella mi ha guardato.
«Vera!», ho esclamato involontariamente.
Lei ha sussultato ed è impallidita.
«Sapevo che eravate qui», mi ha detto. Mi sono seduto accanto a lei e le ho preso la mano: un fremito da tanto tempo dimenticato mi è corso per le vene al suono di quella cara voce; ella mi ha guardato negli occhi con i suoi, profondi e tranquilli, nei quali c'era un'espressione di diffidenza e una sorta di rimprovero.
«È tanto tempo che non ci vediamo», ho detto.
«Sì, e siamo molto cambiati entrambi!».
«Dunque non mi ami più?...».
«Sono sposata», ha replicato lei.
«Di nuovo? Tuttavia questo ostacolo esisteva anche alcuni anni fa, eppure...».
Ella ha strappato la sua mano dalla mia e le sue guance si sono infiammate.
«Forse ami il tuo secondo marito?».
Lei non ha risposto e si è voltata dall'altra parte.
«Oppure lui è molto geloso?».
Silenzio.
«Allora di che si tratta? È giovane, bello, certamente ricco e tu hai paura...». L'ho guardata e mi sono spaventato: il suo viso esprimeva una profonda disperazione e negli occhi le brillavano le lacrime.
«Dimmi una buona volta», mi ha sussurrato, «ti diverti tanto a tormentarmi? Ti dovrei odiare: da quando ci conosciamo non mi hai dato altro che sofferenze...». La voce le è tremata, si è chinata verso di me appoggiando la testa sul mio petto.
«Forse», ho pensato, «è proprio per questo che mi hai amato: le gioie si dimenticano, i dolori mai!...».
L'ho abbracciata forte e siamo restati così a lungo. Infine le nostre labbra si sono avvicinate e si sono congiunte in un bacio ardente, inebriante; le sue mani erano fredde come il ghiaccio, mentre il viso le bruciava. A questo punto tra noi è cominciato uno di quei dialoghi che sulla carta non hanno senso, che è impossibile ripetere e neppure ricordare: il significato dei suoni sostituisce e completa il significato delle parole, come nell'opera italiana.
Lei decisamente non vuole che faccia conoscenza con suo marito, quel vecchietto zoppicante che ho visto di sfuggita nel viale; l'ha sposato a causa del figlio. Lui è ricco e soffre di reumatismi. Non mi sono permesso nemmeno uno scherzo sul suo conto: lei lo venera come un padre! e lo tradirà come un marito!... Strana cosa il cuore umano in generale e quello femminile in specie!
Il marito di Vera, Semën Vasil'eviè G., è lontano parente della principessa Ligovskàja e alloggia vicino a lei; Vera si reca spesso dalla principessa; le ho promesso di far conoscenza con le Ligovskìe e di far la corte alla principessina per distogliere l'attenzione da lei. Così i miei progetti non vengono affatto ostacolati e mi divertirò!
Che spasso!... Sì, io ho già superato quel periodo della vita dell'anima quando si cerca soltanto la felicità, quando il cuore sente la necessità di amare fortemente e appassionatamente qualcuno: adesso desidero soltanto di essere amato e da pochissime persone; mi sembra persino che mi sarebbe sufficiente un unico affetto costante: una misera abitudine del cuore!
Una cosa mi è sempre parsa strana: io non sono mai diventato schiavo delle donne amate, al contrario, senza affatto volerlo, ho sempre acquisito un potere incontrastato sulla loro volontà e sul loro cuore. Come mai? Forse perché non tengo mai caro nulla ed esse temevano ogni momento di perdermi? Oppure ciò è opera dell'influsso magnetico che si sprigiona da un organismo forte? Oppure semplicemente non mi è mai capitato di imbattermi in una donna dal carattere tenace?
Bisogna riconoscere che in effetti non amo le donne di carattere: non è una qualità che si addica loro!
A dire il vero, ora me ne ricordo, una volta, una sola volta, ho amato una donna dalla volontà forte, della quale non sono mai riuscito ad aver ragione... Ci siamo separati come nemici, ma forse, se ci fossimo incontrati cinque anni dopo, ci saremmo separati in altro modo...
Vera è malata, molto malata, sebbene non lo ammetta; temo che abbia la tisi o quella malattia che chiamano fièvre lente, una malattia niente affatto russa, per la quale nella nostra lingua non esiste denominazione.
Il temporale ci ha sorpreso nella grotta e ci ha trattenuto lì un'altra mezz'ora. Lei non mi ha costretto a giurarle fedeltà e non mi ha chiesto se avevo amato altre donne dopo la nostra separazione... Si è affidata a me con la medesima sconsideratezza di un tempo e io non l'ingannerò: lei è l'unica donna al mondo che non sarei capace di ingannare! So che presto ci separeremo di nuovo e forse per sempre: ce ne andremo per sentieri diversi fino alla tomba, ma il suo ricordo rimarrà intatto nella mia anima; questo gliel'ho sempre ripetuto e lei mi crede, anche se afferma il contrario.
Finalmente ci siamo separati; l'ho seguita a lungo con lo sguardo finché il suo cappellino non è scomparso dietro gli arbusti e le rocce. Il cuore mi si è stretto dolorosamente come dopo la prima separazione. Oh, come mi sono rallegrato di questo sentimento! È forse la giovinezza, con le sue benefiche tempeste, che vuole ritornare di nuovo da me, oppure è soltanto il suo sguardo d'addio, l'ultimo dono che mi fa per ricordo?... Vien da ridere a pensare che all'aspetto sembro ancora un ragazzino: il volto, sebbene pallido, è ancora fresco, le membra flessibili e armoniose, i riccioli folti, gli occhi ardenti, il sangue bollente...
Tornato a casa sono montato in sella e mi sono lanciato al galoppo per la steppa; amo galoppare su un cavallo focoso attraverso l'erba alta contro il vento del deserto; aspiro avidamente l'aria profumata e punto lo sguardo verso la lontananza azzurrina, cercando di cogliere i contorni nebulosi degli oggetti che si fan via via sempre più distinti. Qualsiasi amarezza mi pesi sul cuore, qualsiasi inquietudine mi angosci il pensiero, tutto all'istante si disperde; l'anima si fa leggera, la stanchezza del corpo vince l'affanno della mente. Non v'è sguardo femminile che io non dimentichi alla vista dei monti selvosi illuminati dal sole meridionale, alla vista del cielo azzurro o ascoltando il rumore del torrente che precipita di roccia in roccia.
Penso che i cosacchi che sbadigliano sopra le loro torrette, vedendomi galoppare senza necessità né scopo si siano arrovellati a lungo sopra questo enigma, scambiandomi sicuramente dall'abito per un circasso. In effetti mi hanno detto che, in abito circasso, a cavallo, assomiglio più a un cabardino di molti cabardini. E infatti, per quel che riguarda questa nobile tenuta guerresca, sono un perfetto dandy: non un gallone di troppo, armi preziose con semplici ornamenti, il pelo del colbacco né troppo lungo, né troppo corto; stivali e gambali perfettamente aderenti, bemèt bianco, tunica circassa bruno-scura. Ho studiato a lungo il modo di cavalcare delle popolazioni montanare: non si può lunsingare maggiormente la mia vanità che riconoscendo la mia maestria nel cavalcare alla maniera caucasica. Tengo quattro cavalli: uno per me e tre per gli amici, per non annoiarmi a cavalcare da solo per la campagna; essi prendono con piacere i miei cavalli, ma non cavalcano mai con me. Erano ormai le sei del pomeriggio, quando mi sono ricordato che era ora di pranzare; il mio cavallo era sfinito; sono uscito fuori sulla strada che conduce da Pjatigòrsk alla colonia tedesca dove sovente la società delle acque si reca en piquenique. La strada si snoda in mezzo agli arbusti, scendendo in piccoli burroni dove scorrono ruscelli fragorosi all'ombra di alte erbe; attorno si innalzano ad anfiteatro le moli azzurrine del Beštù, della Zmejnaja, della Zelënaja e della Lisaja. Disceso in uno di questi burroni, che nel dialetto locale sono chiamati balki, mi sono fermato ad abbeverare il cavallo. In quel momento sulla strada è comparsa una rumorosa e splendida cavalcata: dame in amazzoni nere e azzurre, cavalieri in costumi circassi e di Nižnij Novgorod. Davanti a tutti cavalcavano Grušnickij e la principessina Mary.
Le signore delle acque credono ancora alle aggressioni dei circassi in pieno giorno; verosimilmente per questo Grušnickij sopra il cappotto da soldato aveva appeso la sciabola e un paio di pistole: era alquanto ridicolo in quella tenuta da eroe. Un alto cespuglio mi nascondeva alla loro vista, ma attraverso le foglie potevo vedere tutto e indovinare, dall'espressione dei loro visi, che la loro conversazione era di carattere sentimentale. Infine si sono avvicinati alla discesa; Grušnickij ha preso per la briglia il cavallo della principessina e allora ho afferrato le ultime parole della loro conversazione:
«E volete rimanere per tutta la vita nel Caucaso?», ha domandato la principessina.
«Cosa rappresenta per me la Russia?», ha ribattuto il suo cavaliere. «Un paese dove mille persone, per il fatto che sono ricche, mi possono guardare con disprezzo, mentre qui questo ruvido pastrano non mi ha impedito di far conoscenza con voi...».
«Al contrario...», ha replicato arrossendo la principessina.
Il viso di Grušnickij esprimeva soddisfazione. Egli ha continuato:
«Qui la mia vita trascorrerà tumultuosamente, inavvertitamente e in fretta, sotto le pallottole dei selvaggi, e se ogni anno mi concedesse un luminoso sguardo di donna, uno sguardo simile a quello...».
In quell'istante sono giunti all'altezza del punto in cui io mi trovavo: ho frustato il cavallo e sono sbucato fuori da dietro il cespuglio
«Mon Dieu, un Circassien!...», ha strillato la principessina atterrita.
Per disingannarla completamente le ho risposto in francese, inchinandomi lievemente:
«Ne craignez rien, madame, je ne suis pas plus dangereux que votre cavalier».
Ella è rimasta turbata, ma perché? Per il suo errore, oppure perché la mia risposta le era parsa insolente? Mi augurerei che quest'ultima mia supposizione fosse quella giusta. Grušnickij mi ha lanciato un'occhiata scontenta.
A tarda sera, cioè verso le undici, mi sono recato a passeggiare sul viale dei tigli. La città dormiva, solo alcune finestre erano illuminate. Da tre lati nereggiavano creste rocciose, propaggini del Mašùk, sulla cui sommità era posata una nuvoletta sinistra; la luna stava sorgendo a oriente; lontano scintillavano come una frangia argentea le montagne coperte di neve. I richiami delle sentinelle si confondevano col fragore delle sorgenti bollenti che venivano lasciate scorrere liberamente durante la notte. A tratti nella strada risuonava lo scalpitio sonoro di un cavallo accompagnato dal cigolio di un carro e da una malinconica cantilena tartara. Mi sono seduto su una panchina assorto nei miei pensieri... Sentivo la necessità di effondere i miei pensieri in una conversazione intima ma con chi?... «Cosa sta facendo in questo momento Vera?», ho pensato... Avrei dato qualsiasi cosa in quell'istante per poter stringere la sua mano.
A un tratto ho avvertito dei passi rapidi e irregolari... Era sicuramente Grušnickij... Proprio così!
«Di dove vieni?».
«Da casa della principessa Ligovskàja», mi ha risposto con grande solennità. «Come canta Mary!...».
«Sai una cosa?», gli ho detto. «Scommetto che lei non sa che sei un cadetto; pensa che tu sia un ufficiale degradato...».
«Può darsi! Che me ne importa!...», ha ribattuto lui distrattamente.
«No, dico così. per dire».
«Ma sai che poco fa l'hai fatta terribilmente arrabbiare? Ha trovato che la tua fosse un'insolenza inaudita, a stento sono riuscito a convincerla che sei una persona tanto ben educata e che conosci così bene la buona società che era impossibile che avessi l'intenzione di offenderla; lei dice che hai uno sguardo impudente, che di sicuro hai un'alta opinione di te stesso».
«Non si sbaglia... Ma non vuoi prendere le sue difese?».
«Mi rammarico di non avere ancora questo diritto».
«O-hò!», ho pensato. «Evidentemente nutre già delle speranze...».
«Del resto peggio per te», ha proseguito Grušnickij. «Adesso ti riuscirà difficile fare la loro conoscenza, ed è un peccato: è una delle case più gradevoli che io conosca...».
Dentro di me ho sorriso.
«La casa più gradevole adesso per me è la mia», ho ribattuto sbadigliando e mi sono alzato per andarmene.
«Riconosci, tuttavia, che ti sei pentito...».
«Che assurdità! Se voglio, domani sera stessa sarò ospite della principessa...».
«Vedremo».
«Per farti piacere farò perfino la corte alla principessina...».
«Se lei vorrà parlare con te...».
«Aspetterò soltanto il momento in cui la tua conversazione le sarà venuta a noia... Addio!...».
«Io invece andrò a zonzo, per nulla al mondo adesso andrei a dormire... Senti, andiamo al ristorante, lì si gioca... adesso ho bisogno di sensazioni forti...».
«Ti auguro di perdere tutti i tuoi soldi...».
E sono tornato a casa.

21 maggio
È trascorsa quasi una settimana e ancora non ho fatto conoscenza con le Ligovskìe. Aspetto l'occasione adatta. Grušnickij segue la principessina dappertutto come un'ombra; le loro conversazioni sono interminabili: quando le verrà dunque a noia? La madre non fa caso a ciò perché lui non è un partito. Ecco la logica delle madri! Ho notato due o tre sguardi teneri: bisogna porre fine alla faccenda.
Ieri Vera è apparsa per la prima volta alla fonte... Non era più uscita di casa dal giorno in cui ci eravamo incontrati alla grotta. Abbiamo immerso il bicchiere nello stesso momento e, chinandosi verso di me, mi ha sussurrato:
«Tu non vuoi far conoscenza con le Ligovskìe! è soltanto lì che possiamo vederci...».
Un rimprovero!... che noia. Ma me lo sono meritato...
A proposito: domani c'è un ballo per sottoscrizione nella sala del ristorante e ballerò una mazurka con la principessina.

22 maggio
La sala del ristorante si è trasformata in salone del circolo dei nobili. Alle nove tutti erano arrivati. La principessa e la figlia sono arrivate tra gli ultimi; molte dame l'hanno guardata con invidia e malevolenza perché la principessina Mary si veste con gusto. Quelle che si ritengono le aristocratiche locali, nascondendo l'invidia, si sono affollate attorno a lei. Cosa volete: dove c'è una società femminile, lì immediatamente si formano la cerchia superiore e quella inferiore. Sotto la finestra, in mezzo a una folla di persone, era ritto Grušnickij. Col viso incollato al vetro non staccava gli occhi un momento dalla sua dea; passando accanto, lei gli ha fatto un cenno impercettibile con il capo e lui si è fatto raggiante come il sole... Le danze sono iniziate con una polacca; poi hanno attaccato un valzer. Hanno cominciato a tintinnare gli speroni e le falde si sono sollevate e si sono messe a roteare.
Ero in piedi dietro a una signora grassa col capo adorno di piume rosa; la pomposità del suo abito ricordava il tempo delle crinoline e la sua pelle chiazzata e ruvida la felice epoca dei nei di taffetà nero; la verruca più grossa sul collo era coperta da un fermaglio. Ella diceva al suo cavaliere, un capitano dei dragoni:
«Questa principessina Ligovskàja è una ragazzina assolutamente insopportabile! Figuratevi che mi ha urtato e, non solo non si è scusata, ma per giunta si è voltata e mi ha guardata con l'occhialino. C'est impayable! Perché poi tanta superbia? Bisognerebbe darle una lezione...».
«Non mancherà l'occasione», ha risposto il servizievole capitano, e si è diretto nella stanza accanto.
Subito mi sono avvicinato alla principessina e l'ho invitata per un valzer, approfittando della libertà delle consuetudini locali che consentono di ballare con signore che non si conoscono.
Lei ha trattenuto a stento un sorriso nascondendo la propria esultanza; tuttavia è riuscita abbastanza in fretta ad assumere un'aria del tutto indifferente e persino severa: ha appoggiato con noncuranza la mano sulla mia spalla e ci siamo lanciati. Non conosco vita più voluttuosa e flessibile! Il suo alito fresco mi sfiorava il viso; a tratti un ricciolo, separandosi nel turbine dai suoi compagni, scivolava sulla mia guancia ardente... Ho fatto tre giri. (Danza straordinariamente bene). Ansimava, aveva gli occhi velati e i labbruzzi socchiusi sono riusciti a stento a sussurrare il «merci, monsieur» di rigore.
Dopo qualche istante di silenzio, assumendo l'aria più mansueta possibile, le ho detto:
«Ho sentito dire, principessina, che, pur essendovi del tutto sconosciuto, ho già avuto la disgrazia di meritarmi il vostro disfavore... che mi avete trovato insolente... Possibile che ciò sia vero?...».
E adesso vorreste confermarmi in questa opinione?», mi ha risposto con una smorfietta ironica, che, d'altronde, si addice molto bene alla sua mobile fisionomia.
«Se ho avuto l'insolenza di offendervi in qualche cosa, permettetemi di avere l'insolenza ancor maggiore di chiedervi perdono... Desidererei molto davvero dimostrarvi che vi siete ingannata nei miei riguardi».
«La cosa vi riuscirà piuttosto difficile...».
«Perché mai?».
«Perché voi non venite da noi e questi balli, probabilmente, non si ripeteranno spesso».
Ciò significa, ho pensato, che le porte di casa loro per me rimarranno chiuse per sempre.
«Sapete, principessina», ho replicato con un certo dispetto, «non bisogna mai respingere il colpevole pentito: per la disperazione egli potrebbe fare qualcosa di doppiamente più colpevole... e allora...».
Le risate e i mormorii di coloro che ci circondavano mi hanno costretto a voltarmi lasciando a mezzo la mia frase. Ad alcuni passi da me c'era un gruppo di uomini e tra essi il capitano dei dragoni che aveva manifestato intenzioni ostili nei confronti della graziosa principessina; pareva assai contento di non so che cosa, si soffregava le mani, rideva e si scambiava strizzatine d'occhio con i compagni. Improvvisamente dal gruppo si è staccato un signore in frac, dai lunghi baffi e dal muso rosso, e si è avviato con passo vacillante diritto verso la principessina: era ubriaco. Fermatosi davanti a lei tutta turbata, le ha puntato addosso due occhi grigi e torbidi e con un falsetto stridulo le ha detto:
«Permetè... ma sì, insomma, quante storie! semplicemente vi prenoto per la mazurka».
«Cosa desiderate?», ha profferito lei con la voce che le tremava lanciando attorno uno sguardo implorante. Ma ahimè!... sua madre era lontana e attorno a lei non c'era nessuno dei cavalieri suoi conoscenti; anzi, mi sembra un aiutante di campo che aveva visto tutto si era nascosto dietro la folla per non restare coinvolto nella faccenda.
«Ebbene?», ha continuato il signore ubriaco strizzando l'occhio al capitano dei dragoni che gli faceva cenni di incoraggiamento, «la cosa forse non vi aggrada? Io tuttavia ho ancora l'onore di prenotarvi pour mazure... Forse pensate che sia ubriaco? Non fa nulla!... Posso assicurarvi che ballo con molta più scioltezza...».
Ho visto che lei era sul punto di svenire per la paura e lo sdegno.
Mi sono avvicinato al signore ubriaco, l'ho preso abbastanza energicamente per un braccio e, fissandolo negli occhi, l'ho pregato di allontanarsi perché la principessina aveva da tempo promesso che avrebbe ballato la mazurka con me.
«Be', nulla da fare!... Sarà per un'altra volta!», ha replicato lui scoppiando a ridere e si è allontanato verso i suoi compagni confusi che subito l'hanno condotto in un'altra stanza.
Sono stato ricompensato con un intenso, meraviglioso sguardo.
La principessina si è accostata a sua madre e le ha raccontato tutto; questa, rintracciatomi tra la folla, mi ha ringraziato. Mi ha detto che conosceva mia madre ed era amica di una mezza dozzina di mie zie.
«Non so come sia successo che ancora non abbiamo fatto la vostra conoscenza», ha aggiunto, «ma riconoscete che la colpa è soltanto vostra: voi sfuggite tutti in maniera incredibile. Spero che l'aria del mio salotto disperderà il vostro spleen..., non è vero?».
Le ho risposto con una di quelle frasi che ognuno deve aver sempre pronte per casi del genere.
Le quadriglie si sono protratte terribilmente a lungo.
Infine dalla galleria è rimbombata la mazurka; io e la principessina ci siamo seduti.
Non ho accennato neppure una volta né al signore ubriaco, né alla mia condotta precedente, né a Grušnickij. L'impressione prodotta su di lei da quella scena sgradevole a poco a poco si è dissolta; il suo visetto ha ripreso colore; ha scherzato assai graziosamente; la sua conversazione era spiritosa senza averne le pretese, vivace e disinvolta, le sue osservazioni a tratti profonde... Con una frase molto contorta le ho fatto intendere che da molto tempo mi piaceva. Lei ha inclinato la testolina ed è lievemente arrossita.
«Siete un uomo strano!», ha detto sollevando su di me gli occhi vellutati e scoppiando in una risata forzata.
«Non volevo far conoscenza con voi», ho continuato, «perché siete circondata da una folla troppo fitta di adoratori e temevo di scomparire completamente in mezzo a loro...».
«Temevate a torto! Sono tutti ultranoiosi...».
«Tutti? Davvero tutti?».
Lei mi ha guardato fisso, come sforzandosi di rammentarsi qualcosa, poi è di nuovo arrossita leggermente e infine ha profferito con decisione: «Tutti!».
«Anche il mio amico Grušnickij?».
«È dunque vostro amico?», ha detto mostrando qualche dubbio.
«Sì».
«Lui, naturalmente, non rientra nella categoria dei noiosi...».
«Bensì in quella degli infelici», ho detto ridendo.
«Naturalmente! E la cosa vi fa ridere? Vorrei che foste al suo posto...».
«Che volete che sia... io stesso un tempo sono stato cadetto e, vi assicuro, è stato il periodo più bello della mia vita!».
«Dunque è un cadetto?...» ha esclamato lei in fretta e poi ha aggiunto: «Io invece pensavo ».
«Cosa pensavate? ».
«Nulla!... Chi è quella signora?».
Qui la conversazione ha cambiato direzione e non è più ritornata sull'argomento.
A questo punto la mazurka è terminata e noi ci siamo congedati con un «arrivederci». Le signore sono partite in carrozza... Io sono andato a cena e ho incontrato Werner.
«A-hà!», ha esclamato. «E bravo!... E così non volevate far conoscenza con la principessina se non per salvarla da morte sicura...».
«Ho fatto di meglio», gli ho risposto. «L'ho salvata da uno svenimento al ballo!...».
«Come è andata? Raccontate!...».
«No, indovinate, voi che indovinate ogni cosa al mondo!».

23 maggio
Verso le sette di sera stavo passeggiando per il viale. Grušnickij scorgendomi da lontano mi si è avvicinato: negli occhi gli brillava un ridicolo entusiasmo. Mi ha stretto forte la mano e con voce tragica mi ha detto:
«Ti ringrazio, Peèorin... Mi capisci?...».
«No, ma in ogni caso non merito la tua riconoscenza», ho risposto non avendo con certezza sulla coscienza nessuna buona azione.
«Come? E ieri? Te ne sei forse scordato? Mary mi ha raccontato tutto...».
«E allora? Avete forse già tutto in comune, anche la riconoscenza?».
«Ascolta», mi ha detto Grušnickij assai solennemente. «Ti prego di non scherzare sul mio amore, se vuoi restare mio amico... Vedi, io l'amo alla follia... e io penso, io spero che anche lei mi ami... Ho una preghiera da rivolgerti: stasera verrai a casa loro... promettimi di osservare tutto: so che sei esperto in queste cose, tu conosci le donne meglio di me... Ah, le donne! le donne! Chi le capisce? I loro sorrisi contraddicono i loro sguardi, le loro parole promettono e allettano, mentre il suono della loro voce respinge... Ora colgono e indovinano all'istante il nostro pensiero più riposto, ora non comprendono le allusioni più trasparenti... Prendi ad esempio la principessina: ieri i suoi occhi ardevano di passione quando mi guardavano, oggi sono opachi e freddi...».
«Forse è l'effetto delle acque», ho replicato.
«Tu vedi in tutto il lato cattivo materialista!», ha ribattuto lui con disprezzo. «Del resto cambiamo materia...», e soddisfatto dello scadente gioco di parole si è fatto allegro.
Verso le nove ci siamo recati assieme a casa della principessa.
Passando davanti alle finestre di Vera l'ho vista al davanzale. Ci siamo scambiati un fuggevole sguardo. Poco dopo di noi ha fatto anche lei il suo ingresso nel salotto delle Ligovskìe. La principessa me l'ha presentata come una propria parente. Abbiamo bevuto il tè; gli ospiti erano numerosi; la conversazione era animata. Mi sono sforzato di piacere alla principessa, ho scherzato costringendola diverse volte a scoppiare a ridere di cuore; anche la principessina più di una volta avrebbe avuto voglia di ridere, ma si tratteneva per rimaner fedele alla parte prescelta: trova che il languore le si addice e, forse, non si sbaglia. Grušnickij, a quanto sembra, è assai contento che la mia allegria non la contagi.
Dopo il tè tutti sono passati nel salone.
«Vera, sei contenta che ti ho obbedito?», le ho detto passandole accanto.
Lei mi ha lanciato uno sguardo pieno di amore e di riconoscenza. Sono abituato a tali sguardi, ma un tempo essi costituivano la mia beatitudine. La principessa ha fatto sedere la figlia al pianoforte e tutti l'hanno pregata di cantare qualcosa. Io sono rimasto zitto e ho approfittato della confusione per appartarmi accanto a una finestra con Vera che voleva dirmi qualcosa di estremamente importante per noi due... È risultato invece che si trattava di una sciocchezza...
Frattanto la mia indifferenza aveva irritato la principessina, come ho potuto indovinare da uno sguardo scintillante d'ira... Oh, comprendo alla perfezione questo linguaggio muto, ma espressivo, conciso, ma potente!...
Lei ha cominciato a cantare: la sua voce non è brutta, ma canta male... del resto non l'ascoltavo. In compenso Grušnickij, con i gomiti appoggiati sul pianoforte la divorava con gli occhi ripetendo ogni momento a bassa voce: «Charmant! Délicieux!».
«Ascolta», mi diceva Vera, «non voglio che tu faccia conoscenza con mio marito, ma devi assolutamente piacere alla principessa; la cosa ti è facile: tu puoi ottenere tutto ciò che vuoi. Ci vedremo soltanto qui...».
«Soltanto qui?...».
Lei è arrossita e ha continuato:
«Sai che sono la tua schiava: non sono mai stata capace di resisterti... e di ciò sarò punita: tu cesserai di amarmi! Per lo meno voglio salvare la mia reputazione... non per me: lo sai bene!... Oh, ti prego, non tormentarmi come sempre con inutili dubbi e la tua finta freddezza: forse morirò presto, sento che divento ogni giorno più debole e nonostante ciò non posso pensare alla mia vita futura, ma penso soltanto a te... Voi uomini non comprendete la voluttà di uno sguardo, di una stretta di mano... io invece, te lo giuro, nell'ascoltare la tua voce sento una beatitudine cosìprofonda e strana che nemmeno i baci più ardenti potrebbero eguagliarla».
Nel frattempo la principessina Mary aveva terminato di cantare e attorno a lei era risuonato il brusio delle lodi; mi sono avvicinato e con fare alquanto noncurante le ho detto qualcosa sul suo canto.
Lei ha fatto una smorfietta sporgendo il labbro inferiore e si è inchinata assai ironicamente.
«La cosa tanto più mi lusinga», ha replicato, «che non mi avete ascoltato affatto... Ma forse voi non amate la musica».
«Al contrario, specialmente dopo pranzo».
«Grušnickij ha ragione quando dice che avete dei gusti estremamente prosaici... e vedo che apprezzate la musica dal punto di vista gastronomico...».
«Di nuovo vi sbagliate: io non sono affatto un gastronomo; ho uno stomaco pessimo. Ma la musica che fa addormentare e dormire dopo pranzo è salutare; quindi amo la musica da un punto di vista medico. La sera, al contrario, eccita troppo i miei nervi e divento o troppo triste, o troppo allegro, e l'una e l'altra cosa affaticano, quando non c'è una ragione positiva di essere tristi o allegri, e inoltre la tristezza in società è ridicola, mentre l'eccessiva allegria è indecente».
Lei non è rimasta ad ascoltarmi fino in fondo, si è allontanata ed è andata a sedersi accanto a Grušnickij. Tra loro è cominciata non so quale conversazione sentimentale: a quanto sembra la principessina rispondeva abbastanza distrattamente e a sproposito alle sue sagge frasi, pur sforzandosi di mostrare di ascoltarlo attentamente, infatti a volte lui la guardava con stupore, tentando di indovinare la causa dell'agitazione interiore che a tratti si esprimeva nel suo sguardo inquieto...
Ma io vi ho indovinato, cara principessina, state in guardia! Voi volete ripagarmi della stessa moneta, volete ferire il mio amor proprio: non ci riuscirete! E se mi dichiarerete la guerra, io sarò implacabile!
Nel corso della serata di proposito ho tentato alcune volte di intromettermi nella loro conversazione, ma lei ha risposto abbastanza seccamente alle mie osservazioni, cosicché infine mi sono allontanato con finta irritazione. La principessina era esultante; Grušnickij anche. Esultate, amici miei, affrettatevi... non vi resta molto tempo per esultare!... Che fare? Ho una sorta di presentimento Ogni volta che faccio conoscenza con una donna, infallibilmente indovino sempre se mi amerà oppure no...
Il resto della sera l'ho trascorso accanto a Vera parlando a sazietà dei vecchi tempi! Perché ella mi ami a tal punto, davvero non lo so! Tanto più che si tratta dell'unica donna che mi ha capito alla perfezione, con tutte le mie meschine debolezze, le mie ignobili passioni... Possibile che il male sia così attraente?...
Sono uscito assieme a Grušnickij; per la strada lui mi ha preso sotto braccio e, dopo un lungo silenzio, mi ha detto:
«Ebbene?...».
«Sei uno stupido», avrei voluto rispondergli, ma mi sono trattenuto limitandomi a stringermi nelle spalle.

29 maggio
Durante tutti questi giorni non mi sono mai scostato dalla mia linea di condotta. Alla principessina comincia a piacere la mia conversazione; le ho raccontato alcune strane vicende della mia vita ed ella comincia a vedere in me un uomo fuori dal comune. Io rido di ogni cosa al mondo, soprattutto dei sentimenti: questo comincia a spaventarla. In mia presenza non osa lanciarsi in disquisizioni sentimentali con Grušnickij e già diverse volte ha risposto alle sue uscite con un sorriso ironico, ma io, ogni volta che Grušnickij le si avvicina, assumo un'aria umile e li lascio soli: la prima volta lei se ne è rallegrata, o per lo meno ha tentato di darlo a vedere; la seconda si è arrabbiata con me, la terza con Grušnickij.
«Avete assai poco orgoglio», mi ha detto ieri. «Perché mai pensate che mi diverta di più con Grušnickij?».
Le ho risposto che sacrificavo il mio piacere alla felicità dell'amico...
«E anche il mio», ha aggiunto lei.
L'ho guardata fisso e ho assunto un'aria seria. Poi, per tutto il giorno, non le ho più detto nemmeno una parola... La sera era pensierosa, stamane alla fonte lo era ancor di più; quando mi sono avvicinato ascoltava distrattamente Grušnickij, che si era lanciato, a quanto pare, in un'entusiastica tirata sulla bellezza della natura, ma, non appena mi ha scorto, ha cominciato a ridere (del tutto a sproposito), facendo finta di non vedermi. Dopo essermi allontanato mi sono messo a osservarla di nascosto: ha girato le spalle al suo interlocutore e ha sbadigliato due volte.
Decisamente Grušnickij le è venuto a noia.
Per altri due giorni non parlerò con lei.

3 giugno
Spesso mi domando perché mai cerco con tanta tenacia di ottenere l'amore di una giovane fanciulla che non voglio sedurre e che non sposerò mai. A che scopo questo capriccio femminile? Vera mi ama più di quanto mai mi possa amare la principessina Mary; se ella mi paresse una bellezza inaccessibile, allora, forse, sarei tentato dalla difficoltà dell'impresa. Ma è tutt'altro che così! Di conseguenza non si tratta di quell'inquieta necessità d'amore che ci tormenta nei primi anni della giovinezza, che ci getta da una donna all'altra, finché non ne troviamo una che non ci può soffrire: a questo punto ha inizio la nostra perseveranza, la vera passione infinita, che si può esprimere con una linea che si protende da un punto verso lo spazio; il segreto di questa infinità consiste soltanto nell'impossibilità di raggiungere lo scopo, cioè la fine.
Perché dunque mi affanno? Per invidia verso Grušnickij? Poveretto, non la merita affatto. Oppure è la conseguenza di quell'ignobile ma invincibile sentimento che ci costringe a distruggere le dolci illusioni del nostro prossimo per avere il meschino piacere di dirgli, quando in preda alla disperazione ci chiederà a che cosa deve credere:
«Amico mio, a me è accaduto lo stesso! E tuttavia, come vedi, pranzo, ceno e dormo in tutta tranquillità e, spero, saprò morire senza urla e lacrime!».
C'è invero una voluttà sconfinata nel possesso di un'anima giovane, che appena si schiude alla vita! Essa è come un fiore che esala il suo profumo più fragrante al primo raggio di sole; bisogna coglierlo in quell'istante e, dopo averlo odorato a sazietà, gettarlo sulla strada: forse qualcuno lo raccoglierà. Io sento in me stesso questa avidità insaziabile, che divora tutto ciò che incontra sul proprio cammino; guardo le gioie e le sofferenze degli altri solo in rapporto a me stesso, come un cibo che alimenta le mie forze spirituali. Io stesso non sono più capace di delirare sotto l'influsso della passione; l'ambizione in me è stata repressa dalle circostanze, ma si è manifestata sotto un altro aspetto, poiché l'ambizione non è altro che sete di potere, e il mio piacere preminente è quello di sottomettere alla mia volontà tutto ciò che mi circonda; suscitare nei propri confronti un sentimento di amore, di dedizione e di paura non è forse il primo segno e il più grande trionfo del potere? Essere per qualcuno causa di sofferenze e di gioie, pur non avendone alcun positivo diritto, non è forse l'alimento più dolce del nostro orgoglio? E che cos'è mai la felicità? Orgoglio soddisfatto. Se mi ritenessi migliore, più potente di ogni altro al mondo sarei felice; se tutti mi amassero troverei in me stesso inesauribili fonti d'amore. Il male genera il male; la nostra prima sofferenza crea l'idea del piacere di tormentare un altro. L'idea del male non può entrare nella testa dell'uomo senza che egli desideri tradurlo in pratica; le idee sono creature organiche, ha detto qualcuno: la loro origine dà loro forma e questa forma è azione; colui nella cui testa nascono più idee agisce più degli altri; perciò il genio incatenato a una scrivania d'ufficio deve morire o uscire di senno, esattamente come un uomo dotato di una complessione possente muore di un colpo apoplettico se è costretto a condurre una vita sedentaria e a tenere una condotta morigerata.
Le passioni non sono altro che idee al loro primo grado di sviluppo: esse sono un attributo della giovinezza del cuore ed è uno stupido chi pensa che sarà agitato da esse per tutta la vita: molti placidi fiumi cominciano con fragorose cascate, mentre nessuno ribolle e spumeggia fino al mare. Ma questa placidità sovente è segno di una grande forza, sebbene nascosta: la pienezza e la profondità dei sentimenti e dei pensieri non consentono slanci frenetici; l'anima, soffrendo e godendo si rende rigorosamente conto di tutto e si convince che così deve essere; essa sa che senza tempeste l'ardore costante del sole la inaridirebbe; essa si compenetra della propria vita, si coccola e si punisce come un bambino amato. Solo in questo stato superiore di autoconsapevolezza l'uomo può apprezzare la giustizia divina.
Rileggendo questa pagina mi accorgo che mi sono parecchio allontanato dal mio argomento... Ma che importa?...
Questo diario, infatti, lo scrivo per me stesso e, di conseguenza, qualunque cosa vi metta dentro col tempo diventerà per me un prezioso ricordo.
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È venuto Grušnickij e mi ha gettato le braccia al collo: è stato promosso ufficiale. Abbiamo brindato con lo champagne. Il dottor Werner è entrato subito dopo di lui.
«Non mi congratulo con voi», ha detto a Grušnickij.
«Perché?».
«Perché il cappotto da soldato vi sta molto bene e, convenitene, una divisa da ufficiale di fanteria confezionata qui alle acque non vi renderà affatto interessante... Sinora, vedete, siete stato un'eccezione, mentre ora rientrerete nella normalità».
«Elucubrate, elucubrate, dottore! Non mi impedirete di essere felice. Egli non sa», ha proseguito Grušnickij sussurrandomi all'orecchio, «quante speranze mi danno queste spalline... Oh, spalline, spalline! Le vostre stellette saranno le mie stelle polari... No, adesso sono completamente felice!».
«Vieni a passeggio con noi fino all'orrido?», gli ho domandato.
«Io? Per nulla al mondo mi farò vedere dalla principessina finché non sarà pronta l'uniforme».
«Vuoi che le diamo l'annuncio della tua gioia?...».
«No, per favore, non dirglielo... Voglio farle una sorpresa!...».
«Dimmi, tuttavia, come vanno le cose con lei?».
Egli si è confuso ed è diventato pensieroso: avrebbe voluto vantarsi, mentire, ma provava imbarazzo, e nello stesso tempo si vergognava di ammettere la verità.
«Che ne pensi, ti ama?...».
«Se mi ama? Ma scusa, Peèorin, che razza di modo di pensare è il tuo?... com'è possibile così in fretta?... Se anche fosse, una donna perbene non lo direbbe mai...».
«Bene! E, verosimilmente, secondo te un uomo perbene deve anch'egli tacere la propria passione...».
«Eh, mio caro! Ogni cosa con la dovuta maniera; molte cose non si dicono, bensì si indovinano...».
«È vero... Soltanto che l'amore che si legge negli occhi non impegna in alcun modo una donna, mentre le parole... Sta' in guardia, Grušnickij, lei ti prende in giro...».
«Lei!», ha replicato sollevando gli occhi al cielo e sorridendo soddisfatto di sé. «Ho compassione di te, Peèorin!...».
Se ne è andato.
La sera una numerosa compagnia si è avviata a piedi verso l'orrido.
Secondo l'opinione degli scienzati locali quest'orrido non è altro che un cratere spento; esso si trova sulle pendici del Mašùk, a una versta dalla città. Vi si giunge per uno stretto sentiero tra rocce e arbusti; mentre salivamo la montagna ho porto il braccio alla principessina e lei non l'ha più lasciato per tutta la durata della passeggiata.
La nostra conversazione ha preso avvio dalle maldicenze: ho cominciato a passare in rassegna i nostri conoscenti, presenti e assenti, mettendone in evidenza dapprima i tratti ridicoli e poi i difetti. Mi si è eccitata la bile: avevo cominciato scherzando e ho terminato in preda a un autentico furore. Dapprima ciò l'ha divertita, ma poi l'ha spaventata.
«Siete un uomo pericoloso», mi ha detto. «Preferirei capitare nella foresta sotto il coltello di un assassino che sulla vostra lingua... Vi prego, e non per scherzo: quando vi salterà in mente di parlar male di me, prendete piuttosto un coltello e sgozzatemi, penso che la cosa non vi riuscirà molto difficile».
«Somiglio forse a un assassino?...».
«Siete peggio ».
Sono rimasto pensieroso un momento e poi, assumendo un'espressione assai commossa, ho detto:
«Sì! Questo è stato il mio destino fin dall'infanzia. Tutti leggevano sul mio viso i segni di cattive qualità che non esistevano; ma le supponevano, ed esse nacquero. Ero modesto - mi accusavano di malizia: sono diventato chiuso. Sentivo profondamente il bene e il male; nessuno mi accarezzava, tutti mi offendevano: sono diventato vendicativo; ero cupo, mentre gli altri bambini erano allegri e loquaci; mi sentivo superiore a loro e venivo considerato inferiore. Sono diventato invidioso. Ero pronto ad amare tutto il mondo, ma nessuno mi ha capito: ho imparato a odiare. La mia incolore giovinezza è trascorsa in una lotta con me stesso e con la società; temendo la derisione ho seppellito i miei migliori sentimenti in fondo al cuore e lì essi sono morti. Dicevo la verità e non mi credevano: ho cominciato a ingannare. Dopo aver conosciuto bene il mondo e le molle della società sono diventato esperto nella scienza della vita e ho visto come altri erano felici senza quella scienza poiché godevano gratuitamente di quei vantaggi che io tanto instancabilmente mi sforzavo di ottenere. E allora nel mio petto è nata la disperazione, non quella disperazione che si guarisce con la canna della pistola, ma una disperazione fredda, impotente, celata sotto la cortesia e un sorriso bonario. Sono diventato un invalido morale; metà della mia anima non esisteva più, si era disseccata, era evaporata, morta, l'avevo amputata e gettata via, mentre l'altra palpitava e viveva a capriccio di chiunque, senza che nessuno si accorgesse di ciò perché nessuno sapeva dell'esistenza dell'altra metà perita. Voi però ora avete risvegliato in me il ricordo di essa e io vi ho letto il suo epitaffio. A molti tutti gli epitaffi in genere appaiono ridicoli, ma a me no, specialmente quando penso a chi riposa sotto di essi. D'altronde non vi chiedo di condividere la mia opinione: se la mia sortita vi pare ridicola, ridete pure: vi avverto che la cosa non mi amareggerà affatto».
In quell'istante ho incontrato i suoi occhi: erano pieni di lacrime; la sua mano, appoggiata sopra la mia, tremava, le sue gote ardevano... le facevo pena! La compassione, sentimento a cui così facilmente soggiacciono le donne, aveva affondato i propri artigli nel suo cuore inesperto. Per tutta la durata della passeggiata è stata distratta, non ha civettato con nessuno e questo è un grande segno!
Siamo giunti all'orrido; le dame hanno lasciato il braccio dei loro cavalieri, ma lei non ha abbandonato il mio. Le arguzie dei dandies locali non la facevano ridere; lo strapiombo dell'abisso, sull'orlo del quale si trovava, non la spaventava, mentre le altre signore lanciavano gridolini e si coprivano gli occhi.
Sulla strada del ritorno non ho ripreso la nostra triste conversazione, ma alle mie domande e ai miei scherzi frivoli lei rispondeva brevemente e distrattamente.
«Avete amato?», le ho chiesto infine.
Lei mi ha guardato fissamente e ha scosso la testa... e di nuovo si è fatta pensierosa; era evidente che aveva voglia di dire qualcosa, ma che non sapeva da che parte cominciare; il suo petto era in agitazione Che fare? Una manica di mussolina è una debole difesa e una scintilla elettrica scoccò dal mio braccio al suo; quasi tutte le passioni cominciano così e sovente inganniamo noi stessi pensando che la donna ci ami per le nostre doti fisiche o morali; certamente esse preparano, predispongono il loro cuore ad accogliere il sacro fuoco, ma è tuttavia il primo contatto che decide la faccenda.
«Non è vero che oggi sono stata molto gentile?», mi ha domandato la principessina con un sorriso forzato al ritorno dalla passeggiata.
Ci siamo congedati...
È scontenta di sé: si accusa di freddezza! Oh, questo è il primo, importante trionfo! Domani ella vorrà ricompensarmi. Tutte queste cose le so già a memoria, ecco quel che è noioso!

1 giugno
Poco fa ho visto Vera. Mi ha tormentato con la sua gelosia. La principessina, a quanto sembra, ha avuto la bella idea di confidarle i segreti del suo cuore: una scelta indovinata, bisogna riconoscerlo!
«Prevedo come andrà a finire», mi ha detto Vera. «Faresti meglio a dirmi subito semplicemente che l'ami».
«Ma io non l'amo».
«Allora perché perseguitarla, turbarla, eccitare la sua immaginazione?... Oh, io ti conosco bene! Ascolta, se vuoi che ti creda, vieni tra una settimana a Kislovòdsk: dopodomani ci trasferiamo laggiù. La principessa rimane qui più a lungo. Affitta un appartamento accanto a noi; andremo ad abitare in una grande casa vicino alla fonte, al mezzanino; sotto abita la principessa Ligovskàja e accanto c'è una casa dello stesso proprietario ancora libera... Verrai?...».
Gliel'ho promesso e quello stesso giorno ho mandato a fissare l'appartamento.
Grušnickij è venuto da me alle sei di sera e mi ha annunciato che domani sarà pronta la sua uniforme, giusto in tempo per il ballo.
«Finalmente potrò ballare con lei tutta la sera... Così potrò parlare a sazietà!», ha aggiunto.
«Quand'è dunque il ballo?».
«Ma domani! Possibile che tu non lo sappia? È una grande festa, organizzata dalle autorità locali...».
«Andiamo sul viale...».
«Per nulla al mondo! Con questo orrendo cappotto...».
«Come, ha cessato di piacerti?...».
Sono uscito da solo e, incontrata la principessina Mary, le ho chiesto di ballare con me la mazurka. Mi è sembrata sorpresa e rallegrata.
«Pensavo che ballaste soltanto in caso di necessità, come la volta scorsa», mi ha risposto sorridendo assai graziosamente...
A quanto sembra, non si accorge affatto dell'assenza di Grušnickij.
«Domani avrete una piacevole sorpresa», le ho detto.
«Di che si tratta? ».
«È un segreto... al ballo lo scoprirete da voi».
Ho concluso la serata dalla principessa; non c'erano ospiti eccetto Vera e un divertentissimo vecchietto. Ero di buon umore e ho inventato sui due piedi una quantità di aneddoti straordinari; la principessina era seduta di fronte a me e ascoltava le mie sciocchezze con un'attenzione così profonda, tesa e tenera persino, che ho provato vergogna. Dove sono andati a finire la sua vivacità, la sua civetteria, i suoi capricci, la sua aria impertinente, il suo sorriso sprezzante, il suo sguardo distratto?...
Vera ha notato tutto: sul suo viso malato era dipinta una profonda tristezza; era seduta nell'ombra, accanto a una finestra, sprofondata in un ampio divano; mi ha preso compassione di lei.
Allora ho raccontato tutta la drammatica storia della nostra conoscenza, del nostro amore, naturalmente nascondendo tutto sotto nomi fittizi.
Ho descritto con tanta vivezza la mia tenerezza, le mie inquietudini e i miei slanci, presentando sotto una luce così favorevole le sue azioni e il suo carattere, che ella ha dovuto, suo malgrado, perdonarmi la mia galanteria con la principessina.
Vera si è alzata, si è seduta accanto a noi, si è rianimata e soltanto alle due di notte ci siamo ricordati che i dottori prescrivono di andare a dormire alle undici.

5 giugno
Mezz'ora prima del ballo è comparso a casa mia Grušnickij in tutto lo splendore della sua uniforme della fanteria dell'esercito. Al terzo bottone era attaccata una catenella di bronzo, alla quale era appeso un occhialetto doppio; le spalline, di grandezza incredibile, erano piegate all'insù, come le ali di un amorino; i suoi stivali scricchiolavano; nella mano sinistra teneva dei guanti di daino marroni e il berretto, mentre con la destra si aggiustava ogni momento il ciuffo acconciato a piccoli riccioli. Compiacimento e insieme una certa insicurezza erano dipinti sul suo viso; il suo aspetto maestoso e il suo portamento fiero mi avrebbero fatto scoppiare a ridere se ciò fosse stato consono alle mie intenzioni.
Ha gettato il berretto e i guanti sul tavolo e si è messo a stirarsi le falde e ad aggiustarsi la divisa davanti allo specchio; dal colletto gli sporgeva di mezzo palmo un enorme fazzoletto nero, avvolto sopra un altissimo sottocravatta le cui setole gli sostenevano il mento; gli pareva poco e se l'è tirato su fino alle orecchie; a causa di questa difficile operazione, dato che il colletto della divisa era assai stretto e ribelle, il viso gli si è imporporato.
«Si dice che in questi giorni tu ti sia terribilmente dato da fare dietro alla mia principessina», ha detto con una certa noncuranza e senza guardarmi.
«Come vuoi che noi, poveri diavoli, beviamo di quel tè!», gli ho risposto, riprendendo l'espressione favorita di uno dei più abili scavezzacollo dei passato, cantato a suo tempo da Puškin.
«Dimmi, mi sta bene l'uniforme?... Oh, quel maledetto ebreo!... come mi stringe sotto le ascelle!... Non hai del profumo?».
«Ma scusa, cos'altro vuoi? Già così odori lontano un miglio di lozione di rosa...».
«Non fa niente, dammelo...».
E se n'è versato mezza boccetta sulla cravatta, sul fazzoletto da naso, sulle maniche.
«Ballerai?», mi ha domandato.
«Non credo».
«Temo che io e la principessina dovremo cominciare la mazurka e non conosco, si può dire, nemmeno una figura...».
«Ma tu l'hai invitata per la mazurka?».
«No, non ancora...».
«Bada che qualcuno non ti preceda...».
«È vero!», ha esclamato battendosi la fronte. «Addio... vado ad aspettarla all'ingresso». E, afferrato il berretto, è uscito di corsa.
Mezz'ora dopo mi sono avviato anch'io. Per strada faceva buio e non c'era nessuno; attorno al circolo, o alla taverna, se preferite, la gente faceva ressa; le finestre erano illuminate e la brezza della sera portava fino a me le note della banda del reggimento. Camminavo adagio; mi sentivo triste. Possibile, pensavo, che la mia unica funzione sulla terra sia quella di distruggere le speranze altrui? Da quando vivo e agisco, il destino, chissà come, mi ha sempre condotto a determinare lo scioglimento dei drammi altrui, come se, senza di me, nessuno potesse morire o abbandonarsi alla disperazione. Sono sempre stato l'indispensabile personaggio del quinto atto; involontariamente ho sempre recitato la penosa parte del boia o del traditore. Quale scopo aveva il destino volendo questo?... Per caso non mi avrà designato a essere l'autore di tragedie borghesi o di romanzi familiari, il collaboratore di un fornitore di novelle, ad esempio per la «Biblioteca di lettura»?... Vai a saperlo!... Sono forse poche le persone che all'inizio della loro vita sognano di terminarla come Alessandro Magno o come Lord Byron, e invece restano eternamente dei consiglieri titolari!
Entrato nella sala, mi sono nascosto in mezzo alla folla degli uomini e mi sono dedicato alle mie osservazioni. Grušnickij era in piedi accanto alla principessina e le diceva qualcosa con grande calore; lei lo ascoltava distrattamente e si guardava in giro appoggiando il ventaglio ai labbruzzi; il suo viso esprimeva impazienza, i suoi occhi cercavano intorno qualcuno. Mi sono avvicinato da dietro senza far rumore per ascoltare la loro conversazione.
«Voi mi torturate, principessina», diceva Grušnickij. «Siete terribilmente cambiata da quando non ci siamo più visti...».
«Anche voi siete cambiato», gli rispondeva lei lanciandogli un rapido sguardo, nel quale lui non riusciva a cogliere l'irrisione nascosta.
«Io? Cambiato io? Oh, mai! Voi sapete che ciò è impossibile! Chi vi ha visto una volta porterà in eterno dentro di sé la vostra divina immagine...».
«Smettetela!...».
«Come mai adesso non volete ascoltare ciò a cui, ancor non è molto, prestavate benignamente orecchio?...».
«Perché non amo le ripetizioni», le rispondeva lei ridendo...
«Oh, mi sono amaramente sbagliato! Io pensavo, pazzo, che queste spalline mi avrebbero dato almeno il diritto di sperare... No, sarebbe stato meglio che avessi continuato in eterno a indossare quello spregiato cappotto da soldato, al quale, forse, dovevo la vostra attenzione...».
«In effetti, quel cappotto vi si addice assai di più ».
In quell'istante mi sono avvicinato e mi sono inchinato alla principessina; lei è leggermente arrossita e ha profferito in fretta: «Non è vero, m'sjè Peèorin, che il cappotto grigio si addiceva assai di più a m'sjè Grušnickij?...».
«Non sono d'accordo con voi», ho risposto. «In divisa sembra ancora più giovane».
Grušnickij non ha retto a questo colpo: come tutti i ragazzini ha la pretesa di essere un vecchio; egli ritiene che sul suo viso le profonde tracce delle passioni sostituiscano l'impronta degli anni. Mi ha lanciato un'occhiata furibonda, ha battuto il piede per terra e si è allontanato.
«Riconoscete, tuttavia», ho detto alla principessina, «che, sebbene egli sia sempre stato assai ridicolo, ancora poco tempo fa vi sembrava interessante nel suo cappotto grigio ».
Lei ha abbassato gli occhi senza rispondere.
Grušnickij ha perseguitato per tutta la sera la principessina, danzava con lei, la divorava con gli occhi, sospirava e la importunava con implorazioni e rimproveri. Dopo la terza quadriglia lei già lo odiava.
«Questa da te non me l'aspettavo», mi ha detto lui avvicinandosi a me e prendendomi per il braccio.
«Che cosa?».
«Tu danzi con lei la mazurka?», mi ha domandato con voce solenne. «Me l'ha confessato lei...».
«Be', che c'è? È, forse un segreto?».
«Naturalmente me lo dovevo aspettare da una bambinetta, da una civetta... Ma mi vendicherò!».
«Prenditela col tuo cappotto oppure con le tue spalline, ma perché scagliarsi contro di lei? Che colpa ne ha se non le piaci più?...».
«Perché dunque darmi delle speranze?».
«E tu perché hai sperato? Desiderare e cercare di ottenere qualcosa, questo lo capisco... ma chi mai spera?».
«Hai vinto la scommessa, solamente non del tutto», ha replicato lui con un sorriso cattivo.
È cominciata la mazurka. Grušnickij sceglieva soltanto la principessina e così facevano gli altri cavalieri: era, evidentemente una congiura contro di me. Tanto meglio. Lei desidera parlare con me e glielo impediscono: lo desidererà due volte di più.
Un paio di volte ho stretto la sua mano; la seconda volta lei l'ha liberata bruscamente senza dire una parola.
«Dormirò male questa notte», mi ha detto quando la mazurka è terminata.
«Il colpevole di ciò è Grušnickij».
«Oh, no!». E il suo viso si è fatto così pensieroso, così triste, che ho dato a me stesso la parola che le avrei immancabilmente baciato la mano quella sera stessa.
La gente aveva cominciato ad andarsene. Aiutando la principessina a salire in carrozza ho premuto rapidamente la sua minuscola manina contro le mie labbra. Era buio e nessuno ha potuto vederci.
Sono ritornato nella sala assai contento di me stesso.
Seduta a un grande tavolo la gioventù stava cenando e tra loro c'era Grušnickij. Quando sono entrato tutti si sono azzittiti: evidentemente stavano parlando di me. Molti ce l'hanno con me fin dal ballo precedente, specialmente il capitano dei dragoni, e ora, a quanto sembra, decisamente si è formata una banda ostile a me, capeggiata da Grušnickij. Ha un'aria così fiera e impavida...
Mi fa molto piacere. Amo i nemici. Mi divertono, mi mettono il sangue in movimento. Star sempre in guardia, cogliere ogni sguardo, il significato di ogni parola, indovinare le intenzioni, mandare a monte le congiure, fingersi ingannati e, ad un tratto, abbattere d'un solo colpo tutto l'enorme edificio delle loro astuzie e delle loro macchinazioni costato loro tante fatiche - ecco quel che chiamo vita!
Per tutta la durata della cena Grušnickij ha continuato a bisbigliare e a scambiarsi strizzatine d'occhio col capitano dei dragoni.

6 giugno
Stamane Vera è partita col marito per Kislovòdsk. Ho incontrato la loro carrozza mentre mi recavo dalla principessa Ligovskàja. Lei mi ha fatto un cenno con la testa: nel suo sguardo c'era un rimprovero.
Ma chi è il colpevole? Perché non vuol darmi l'occasione di incontrarmi con lei a tu per tu? L'amore è come il fuoco: se non viene alimentato si spegne. Chissà che la gelosia non riesca a ottenere quello che non sono riuscite a ottenere le mie preghiere.
Sono rimasto dalla principessa un'ora intera. Mary non è comparsa: è indisposta. La sera sul viale non c'era. Di nuovo la banda che si è formata contro di me, armata di occhialini ha assunto un atteggiamento minaccioso. Sono contento che la principessina sia malata: le avrebbero fatto qualche insolenza. Grušnickij ha la capigliatura in disordine e un'aria disperata: a quanto sembra è davvero amareggiato, il suo amor proprio, soprattutto, è ferito, ma in realtà ci sono persone nelle quali anche la disperazione è ridicola.
Ritornato a casa mi sono accorto che mi manca qualcosa. Non l'avevo vista! Lei è malata! Mi son forse innamorato per davvero? Che assurdità!

7 giugno
Alle undici del mattino, ora in cui solitamente la principessa Ligovskàja suda nel bagno Ermòlovskaja, sono passato accanto a casa sua. La principessina era seduta pensierosa accanto alla finestra; vedendomi è balzata in piedi.
Sono entrato nell'anticamera; non c'era nessuno della servitù e così, approfittando della libertà dei costumi locali, sono entrato nel salotto senza farmi annunciare.
Un opaco pallore ricopriva il grazioso viso della principessina; ella era in piedi accanto al pianoforte e si appoggiava con una mano alla spalliera di una sedia: quella mano tremava lievemente. Mi sono avvicinato a lei pian piano e le ho detto:
«Siete in collera con me?...».
Ella ha sollevato su di me uno sguardo languido, profondo, e ha scosso la testa; le sue labbra volevano dire qualcosa, ma non potevano; gli occhi le si sono riempiti di lacrime, si è lasciata cadere su una poltrona e si è coperta il viso con le mani.
«Che avete?», le ho chiesto prendendola per la mano.
«Voi non mi rispettate! Oh!... Lasciatemi!...».
Ho fatto alcuni passi... Lei si è drizzata sulla poltrona con gli occhi scintillanti...
Mi sono fermato con la mano sulla maniglia della porta e ho detto:
«Perdonatemi, principessina! Mi sono comportato come un pazzo ciò non accadrà più: prenderò le misure necessarie!... A che scopo rivelarvi ciò che finora è accaduto nel mio animo? Non lo saprete mai, e sarà tanto meglio per voi. Addio».
Uscendo mi è parso di sentirla piangere.
Fino a sera ho girovagato a piedi nei dintorni del Mašùk, mi sono stancato terribilmente e, ritornato a casa, mi sono gettato sul letto completamente spossato.
È venuto da me Werner.
«È vero che sposate la principessina Ligovskàja?».
«Cosa?».
«Tutta la città ne parla; tutti i miei malati non fanno che parlare di questa straordinaria novità, e questi malati sono una razza speciale: sanno tutto!».
«Questa è una trovata di Grušnickij», ho pensato.
«Dottore, per dimostrarvi l'infondatezza di queste voci, vi annuncio in via confidenziale che domani mi trasferisco a Kjslovòdsk...».
«Con la principessina?...».
«No, lei resta qui un'altra settimana...».
«Dunque non vi sposate!...».
«Dottore, dottore! Guardatemi: ho forse l'aria di un fidanzato, o qualcosa del genere?».
«Non dico questo! Ma, sapete, ci sono casi in cui un uomo dabbene è obbligato a sposarsi, e ci sono delle mammine che per lo meno non prevengono tali casi. Dunque io vi consiglio, come amico, di essere prudente! Qui alle acque tira un'aria pericolosissima; quanti magnifici giovani, degni di miglior sorte, ho visto partir di qui per recarsi diritti all'altare... Perfino me - ci credereste? - volevano ammogliare! Precisamente una mammina di provincia che aveva una figlia assai pallida. Ho avuto l'imprudenza di dirle che il colorito le sarebbe tornato dopo le nozze; allora lei, piangendo di gratitudine, mi ha offerto la mano di sua figlia e tutte le sue sostanze, cinquanta anime, se non erro! Ma le ho risposto che non ero portato per queste cose».
Werner se ne è andato convinto di avermi messo in guardia a tempo.
Dalle sue parole ho dedotto che per la città sono state messe in giro delle voci malevole su me e la principessina: questa Grušnickij me la pagherà.

10 giugno
Sono già tre giorni che sono a Kislovòdsk. Ogni giorno vedo Vera alla fonte e al passeggio. La mattina, quando mi sveglio, mi siedo accanto alla finestra e punto l'occhialino sul suo balcone; lei è vestita già da un pezzo ed è lì che aspetta il segnale convenuto. Ci incontriamo come per caso nel giardino che dalle nostre case scende fino alla fonte. La vivificante aria dei monti le ha restituito il colorito e le forze. Non per nulla Narzàn viene chiamata la sorgente degli eroi. Gli abitanti del luogo asseriscono che l'aria di Kislovòdsk predispone all'amore e che qui, in un modo o nell'altro, hanno il loro epilogo i romanzi intrecciati ai piedi del Mašùk. E in effetti tutto qui spira solitudine, tutto qui è misterioso: le dense ombre dei viali di tigli lungo il torrente che con fragore precipita spumeggiando di roccia in roccia, aprendosi la via tra le montagne verdeggianti; le gole piene di foschia e di silenzio che si diramano in ogni direzione; la frescura dell'aria impregnata dalle esalazioni delle alte erbe meridionali e della bianca acacia; il rumore incessante e dolcemente soporifero dei ruscelli gelati che, incontrandosi in fondo alla vallata, corrono in allegra gara a gettarsi nel Podkumok. Da questa parte la gola si allarga e si trasforma in una piccola vallata verdeggiante, lungo la quale si snoda una strada polverosa. Ogni volta che la guardo mi sembra di vedere arrivare una carrozza dal cui finestrino spunta un visetto roseo. Molte carrozze sono già passate per questa strada, ma quella ancora no. Il piccolo sobborgo dietro la fortezza si è popolato; nel ristorante, costruito sulla collina a pochi passi dal mio appartamento, la sera cominciano a brillare le luci attraverso la doppia fila di pioppi; vocio e tintinnio di bicchieri risuonano fino a tarda notte.
Da nessuna parte si beve tanto vino del Caucaso e acqua minerale come qui,

Ma mescolare questi due mestieri
A molti piace - non a me.

Grušnickij assieme alla sua banda imperversa ogni giorno alla taverna e quasi non mi saluta.
È arrivato soltanto ieri ed è già riuscito a litigare con tre vecchietti che volevano entrare al bagno prima di lui: decisamente le sventure eccitano in lui lo spirito battagliero.

11 giugno
Finalmente sono arrivate. Ero seduto accanto alla finestra quando ho udito il rumore della loro carrozza: il mio cuore ha avuto un sussulto... Cosa significa? Sono dunque innamorato?... Sono fatto in modo così stupido che da me ci si potrebbe aspettare anche questo.
Ho pranzato da loro. La principessa mi guarda assai teneramente e non si allontana di un passo dalla figlia... brutta faccenda! In compenso Vera è gelosa della principessina: sono riuscito a procurarmi questa fortuna! Cosa non farebbe una donna per far dispetto a una rivale! Ricordo che una si è innamorata di me perché ne amavo un'altra. No, non c'è nulla di più paradossale dell'intelletto femminile: è difficile convincere le donne di qualcosa, bisogna far sì che si convincano da sole; l'ordine degli argomenti con cui dissipano i propri pregiudizi è assai originale; per apprendere la loro dialettica bisogna capovolgere nella propria mente tutte le regole della logica apprese a scuola. Ad esempio, ragionamento comune: «Quell'uomo mi ama, ma io sono sposata, quindi non debbo amarlo». Ragionamento femminile: «Io non devo amarlo perché sono sposata, di conseguenza...»; qui seguono dei puntini di sospensione, perché la ragione non dice niente, mentre per lo più parlano la lingua, gli occhi e, al loro seguito, il cuore, se c'è.
Che accadrà, se queste osservazioni cadranno un giorno sotto gli occhi di una donna? «Calunnie!», griderà indignata.
Dai tempi in cui i poeti scrivono e le donne li leggono (cosa per cui sono loro profondamente riconoscenti), esse sono state chiamate tante volte «angeli» che, in semplicità di cuore, hanno creduto a tale complimento, dimenticando che quegli stessi poeti per denaro onoravano Nerone con l'epiteto di semidio...
Sarebbe fuor di luogo che parlassi di loro con tanta cattiveria, io che non ho amato altro al mondo all'infuori di loro, io che sono sempre stato pronto a sacrificar loro la tranquillità, l'orgoglio, la vita... Ma in verità non è in un accesso di rabbia e di amor proprio offeso che mi sforzo di strappar loro quel velo magico attraverso il quale penetra soltanto uno sguardo esperto. No, tutto quel che dico sul loro conto è la conseguenza

Delle fredde osservazioni dell'intelletto
E delle amare chiose del cuore.

Le donne dovrebbero desiderare che tutti gli uomini le conoscessero altrettanto bene di me, perché io le amo cento volte di più di quanto non le tema e ho compreso le loro piccole debolezze.
A proposito: poc'anzi Werner ha paragonato le donne alla foresta incantata di cui parla il Tasso nella sua Gerusalemme liberata. «Appena vi entri», sosteneva, «da ogni parte si avventano su di te tali orrori che Dio ne scampi: il dovere, l'orgoglio, la decenza, l'opinione altrui, il ridicolo, il disprezzo. Basta soltanto non guardare e tirar diritto: a poco a poco i mostri scompaiono e si apre davanti a te una quieta e luminosa radura in mezzo alla quale fiorisce un verde mirto. Ma guai se ai primi passi ti trema il cuore e ritorni indietro».

12 giugno
La serata è stata ricca di avvenimenti. A circa tre verste da Kislovòdsk, nella gola dove scorre il Podkumok, c'è una rupe chiamata «L'anello»; è una sorta di porta formata dalla natura che si erge sopra un alto colle. Il sole al tramonto lancia attraverso di essa il suo ultimo sguardo infuocato sul mondo. Una numerosa cavalcata si è diretta laggiù a guardare il tramonto del sole attraverso quella finestrella di pietra. Nessuno di noi, a dire il vero, pensava al sole. Io cavalcavo accanto alla principessina; tornando indietro bisognava attraversare a guado il Podkumok. I fiumicelli di montagna, anche i più piccoli, sono pericolosi, specialmente per il fatto che il fondo di essi, sotto l'impeto delle acque, muta ogni giorno come un caleidoscopio: dove ieri c'era una pietra ora c'è una fossa. Ho preso per le briglie il cavallo della principessina e l'ho fatto scendere nell'acqua che non arrivava più su del ginocchio; abbiamo cominciato a muoverci pian piano fendendo di sbieco la corrente. È noto che, attraversando i fiumi rapidi, non bisogna guardare l'acqua perché subito gira la testa. Avevo dimenticato di avvertire di questo la principessina Mary.
Eravamo già nel mezzo, là dove la corrente era più rapida, quando a un tratto ella ha vacillato sulla sella.
«Mi sento male!», ha mormorato con un filo di voce... Mi sono chinato in fretta verso di lei cingendole col braccio la vita flessuosa.
«Guardate in alto», le ho mormorato. «Non è nulla, non abbiate paura, sono qui con voi».
Si è sentita meglio e avrebbe voluto liberarsi dal mio braccio, ma io ho stretto ancora più forte la sua vita delicata e morbida; la mia guancia quasi toccava la sua; ne sentivo il calore di fiamma.
«Che fate?... Mio Dio! ».
Non mi sono curato della sua agitazione e del suo turbamento e le mie labbra hanno sfiorato la sua piccola, tenera guancia; ella ha sussultato, ma non ha detto nulla; cavalcavamo dietro e così nessuno ci ha visto. Raggiunta la riva tutti si sono lanciati al trotto. La principessina invece ha trattenuto il cavallo e io sono rimasto accanto a lei; era evidente che il mio silenzio la inquietava, ma avevo giurato di non dire nemmeno una parola, per curiosità. Volevo vedere come si sarebbe tirata fuori da quella situazione imbarazzante.
«O mi disprezzate, o mi amate molto!», ha detto infine con una voce in cui tremavano le lacrime. «Forse volete farvi beffe di me, turbare la mia anima e poi lasciarmi... Ciò sarebbe così ignobile, così basso, che il solo supporlo... Oh, no! Non è vero», ha aggiunto con voce piena di tenera confidenza, «non è vero che in me non c'è nulla che giustifichi la mancanza di rispetto? La vostra audacia io devo... devo perdonarvela, perché ve l'ho consentita... Rispondete, parlate dunque: voglio sentire la vostra voce!...».
In queste ultime parole c'era una tale impazienza femminile che involontariamente ho sorriso. Fortunatamente stava facendosi buio. Non ho risposto nulla.
«Tacete?», ha continuato lei. «Forse volete che sia io per prima a dirvi che vi amo...».
Continuavo a tacere...
«È questo che volete?», ha continuato lei voltandosi di scatto verso di me. Nella decisione della sua voce e del suo sguardo c'era qualcosa di spaventoso...
«A che scopo?», ho risposto stringendomi nelle spalle.
Lei ha frustato il suo cavallo e si è lanciata al galoppo per la strada stretta e pericolosa; tutto ciò è accaduto così in fretta che a stento sono riuscito a raggiungerla soltanto quando si era ormai ricongiunta col resto della compagnia. Sin sulla porta di casa ha continuato a parlare e a ridere senza un attimo di pausa. Nei suoi movimenti c'era qualcosa di febbrile; non mi ha guardato nemmeno una volta. Tutti hanno notato quell'allegria inconsueta. Anche la principessa si è rallegrata dentro di sé guardando la figlia, la quale invece era semplicemente in preda a un attacco di nervi: passerà una notte insonne piangendo. Questo pensiero mi procura un piacere incommensurabile. Vi sono istanti in cui comprendo il Vampiro!... E pensare che passo per un bravo ragazzo e che faccio di tutto per meritarmi questa fama.
Smontate da cavallo, le signore sono salite dalla principessa; io ero emozionato e mi sono lanciato al galoppo verso i monti per dissipare i pensieri che facevano ressa nella mia testa. Il vento della sera carico di rugiada spirava una frescura inebriante. La luna stava sorgendo dietro le vette scure; ogni passo del mio cavallo non ferrato risuonava sordamente nel silenzio delle gole; alla cascata ho abbeverato il cavallo, ho inspirato un paio di volte avidamente la fresca aria della notte meridionale e sono ripartito al galoppo sulla via del ritorno. Sono passato per il sobborgo. Le luci alle finestre cominciavano a spegnersi; echeggiavano i richiami prolungati che si scambiavano le sentinelle sul bastione della fortezza e i cosacchi di ronda nei dintorni...
In una delle case del sobborgo, che sorgeva a strapiombo sul burrone, ho notato un'illuminazione fuori del comune; a tratti si sentivano risuonare il vocio confuso e le grida tipiche di un banchetto di militari. Sono disceso da cavallo e di soppiatto mi sono avvicinato a una finestra: non era chiusa bene e ciò mi ha consentito di distinguere quel che dicevano. Stavano parlando di me.
Il capitano dei dragoni, eccitato dal vino, batteva il pugno sul tavolo per richiamare l'attenzione.
«Signori», diceva. «È una cosa inaudita; bisogna dare una lezione a Peèorin! Questi bellimbusti pietroburghesi si danno un sacco di arie finché non prendono una bella botta sul naso! Pensa di esistere solo lui al mondo perché porta sempre guanti puliti e stivali lucidi!
«E che sorriso altezzoso! Credo invece che sia un vigliacco... sì, un vigliacco!".
«Lo credo anch'io», si è intromesso Grušnickij. «Gli piace cavarsela scherzando. Una volta gli ho detto cose tali che un altro mi avrebbe fatto a pezzi all'istante, Peèorin invece ha buttato tutto sul ridere. Io, si capisce, non l'ho sfidato, perché toccava a lui farlo; e poi non volevo impicciarmi con lui...».
«Grušnickij ha il dente avvelenato con Peèorin perché gli ha soffiato la principessina», ha detto qualcuno.
«Ma guarda che cosa vi siete inventati! Io, è vero, sono stato un po' dietro alla principessina, ma poi mi sono fatto da parte perché non ho intenzione di sposarmi, e compromettere una fanciulla è contrario ai miei principi».
«Sissignore, vi garantisco che è un vigliacco di prim'ordine, voglio dire Peèorin, non Grušnickij - Grušnickij è in gamba e poi è un vero amico!», ha ripreso il capitano dei dragoni. «Signori, nessuno qui lo difende? Nessuno!... tanto meglio; volete che mettiamo alla prova il suo coraggio? Ci divertiremo...».
«Sì, ma come?».
«Ecco, ascoltate: Grušnickij è particolarmente risentito con lui, tocca a lui farsi avanti! Prenderà a pretesto una sciocchezza qualsiasi e sfiderà a duello Peèorin... Aspettate, qui viene il bello... Dunque, lo sfida a duello, bene... Tutto quanto - la sfida, i preparativi, gli accordi, sarà quanto più possibile solenne e tale da incutere paura, me ne incarico io; sarò il tuo secondo, mio povero amico! Bene! Soltanto, ecco dove sta il trucco: nelle pistole non metteremo le pallottole. Vi garantisco che Peèorin si tirerà indietro: li metterò a sei passi, che il diavolo mi prenda! Siete d'accordo, signori?».
«Splendida trovata, siamo d'accordo, perché no?», echeggiò da ogni parte.
«E tu, Grušnickij?».
Aspettavo con trepidazione la risposta di Grušnickij: una fredda rabbia si era impadronita di me al pensiero che, non fosse stato per un caso, avrei potuto diventare lo zimbello di quegli imbecilli. Se Grušnickij non avesse acconsentito mi sarei precipitato ad abbracciarlo. Ma dopo un attimo di silenzio si è alzato in piedi, ha porto la mano al capitano e con grande solennità ha detto: «Va bene, sono d'accordo».
Difficile descrivere l'entusiasmo dell'intera onorevole brigata.
Sono ritornato a casa in preda a due diversi sentimenti. Il primo era la tristezza: «Perché tutti costoro mi odiano?», pensavo. «Perché? Ho forse offeso qualcuno? No. Appartengo forse a quella categoria di persone la cui sola vista suscita di per sé avversione?». E ho avvertito una rabbia velenosa riempire a poco a poco la mia anima. «State in guardia, signor Grušnickij», dicevo camminando avanti e indietro per la stanza. «Con me non si scherza a questo modo. Potreste pagar cara l'approvazione dei vostri stupidi compagni. Io non sono un giocattolo nelle vostre mani...».
Non ho chiuso occhio tutta la notte. L'indomani ero giallo come un limone.
Al mattino ho incontrato la principessina alla fonte.
«Siete malato?», mi ha domandato guardandomi fisso.
«Non ho dormito stanotte».
«Nemmeno io... me la prendevo con voi... forse ingiustificatamente... Ma confidatevi: posso perdonarvi qualsiasi cosa...».
«Davvero tutto?...».
«Tutto... purché diciate la verità... ma subito... Vedete, ho riflettuto molto nel tentativo di spiegare, di giustificare il vostro comportamento; forse temete l'opposizione dei miei parenti... ma questo non è nulla; quando sapranno... (la sua voce tremò) io li scongiurerò. Oppure la vostra posizione... ma sappiate che sono pronta a sacrificare tutto per la persona che amo... Oh, rispondetemi al più presto, abbiate compassione... Non mi disprezzate, non è vero?».
E mi ha afferrato la mano. La principessa camminava davanti a noi assieme al marito di Vera e non vedeva nulla, ma potevano vederci i malati che passeggiavano, i più accaniti pettegoli tra quanti ne esistano, e così ho liberato la mia mano dalla sua stretta appassionata.
«Vi dirò tutta la verità», ho risposto alla principessina. «Non cercherò di giustificarmi, né di spiegare il mio comportamento; io non vi amo...».
Le sue labbra sono lievemente impallidite...
«Lasciatemi!», ha profferito quasi impercettibilmente.
Mi sono stretto nelle spalle, mi sono voltato e me ne sono andato.

14 giugno
A volte mi disprezzo... è forse per questo che disprezzo anche gli altri?... Sono diventato incapace di nobili slanci; temo di apparire ridicolo a me stesso. Un altro al mio posto avrebbe offerto alla principessina son coeur et sa fortune!... ma su di me il termine sposarsi ha una sorta di potere magico: per quanto appassionatamente ami una donna, se lei mi fa soltanto sentire che dovrei sposarla, addio amore! Il mio cuore si trasforma in un sasso e nulla è in grado di riscaldarlo di nuovo. Sono pronto a qualsiasi sacrificio eccetto questo; venti volte punterò la mia vita e perfino il mio onore su una carta... ma non venderò la mia libertà. Perché mi è così cara? Cosa trovo in essa?... A cosa mi preparo? Cosa mi attendo dall'avvenire?... A dire il vero, proprio nulla. È una sorta di paura innata, un inspiegabile presentimento... Si sa che ci sono persone che istintivamente hanno paura dei ragni, degli scarafaggi, dei topi... Debbo confessarlo? Quando ero ancora bambino una vecchia predisse a mia madre che sarei morto a causa di una moglie cattiva, ciò allora mi colpì profondamente e nella mia anima nacque un'invincibile avversione per il matrimonio... Eppure qualcosa mi dice che la sua predizione si avvererà; mi sforzerò almeno di far sì che ciò avvenga il più tardi possibile.

15 giugno
Ieri è arrivato il prestigiatore Apfelbaum. Sulla porta del ristorante è apparso un manifesto lungo e stretto che avvisa lo spettabilissimo pubblico che il summenzionato straordinario prestigiatore, acrobata, chimico e ottico avrà l'onore di dare un grandioso spettacolo stasera alle nove nella sala dei circolo dei nobili (cioè al ristorante); prezzo dei biglietto due rubli e mezzo.
Tutti si apprestano ad andare a vedere lo «straordinario prestigiatore»; persino la principessa Ligovskàja, benché la figlia sia malata, ha preso un biglietto per sé.
Poco fa, dopo pranzo, sono passato davanti alle finestre di Vera; lei era seduta sul balcone, sola. Ai miei piedi è caduto un bigliettino:
«Vieni da me stasera alle dieci passando per la scala principale; mio marito è andato a Pjatigòrsk e tornerà soltanto domattina. In casa non ci saranno né domestici né cameriere: ho regalato a tutti i biglietti; così ho fatto con quelli della principessa. Ti aspetto. Vieni immancabilmente».
«A-hà!», ho pensato. «Finalmente le cose vanno a modo mio».
Alle otto sono andato a vedere il prestigiatore. Verso le nove gli spettatori erano ormai tutti ai loro posti e lo spettacolo è cominciato. Nelle ultime file di sedie ho riconosciuto i domestici e le cameriere di Vera e della principessa. C'erano tutti senza eccezione. Grušnickij era seduto in prima fila con l'occhialino. Il prestigiatore si rivolgeva a lui ogni volta che gli occorreva un fazzoletto, un orologio, un anello e via discorrendo.
Già da qualche tempo Grušnickij non mi saluta e stasera per un paio di volte mi ha guardato con aria abbastanza insolente. Tutto questo gli verrà messo in conto quando arriveremo al dunque.
Verso le dieci mi sono alzato e sono uscito.
Fuori era buio pesto. Nubi pesanti e fredde erano posate sulle vette delle montagne circostanti e solo di tanto in tanto un debole vento faceva stormire le sommità dei pioppi che circondavano il ristorante sotto le cui finestre faceva ressa la gente. Sono disceso dalla montagna e, dopo essere entrato nella porta della città, ho affrettato il passo. A un tratto mi è parso che qualcuno mi seguisse. Mi sono fermato e mi sono voltato indietro. Nell'oscurità non si riusciva a veder nulla, tuttavia, per prudenza, ho fatto il giro dell'edificio come se stessi passeggiando. Mentre passavo sotto le finestre della principessina ho sentito di nuovo dei passi dietro di me e un uomo avvolto in un mantello mi è passato accanto di corsa. Ciò mi ha messo in allarme. Ciononostante mi sono accostato furtivamente all'ingresso e sono salito di corsa per la scala buia. La porta si è aperta e una minuscola manina ha afferrato la mia...
«Nessuno ti ha visto?», mi ha sussurrato Vera stringendosi a me.
«Nessuno!».
«Adesso lo credi che ti amo?... Oh, a lungo ho esitato, a lungo mi sono tormentata ma tu fai di me quello che vuoi».
Il cuore le batteva forte e aveva le mani fredde come il ghiaccio. Sono cominciati i rimproveri della gelosia, le rimostranze... Esigeva che le confessassi tutto e affermava che avrebbe sopportato senza ribellarsi il mio tradimento perché desiderava unicamente la mia felicità. Io non le ho creduto del tutto, ma l'ho tranquillizzata con giuramenti, promesse ecc.
«Allora non sposi Mary? Non l'ami?... E invece lei crede... Lo sai che è innamorata di te alla follia?... Poveretta!...».
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Verso le due di notte ho aperto la finestra e, legati insieme due scialli, mi sono calato dal balcone su quello sottostante reggendomi a una colonna. Nella camera della principessina brillava ancora la luce. Qualcosa mi ha spinto verso quella finestra. Le tende non erano del tutto accostate e ho potuto gettare uno sguardo curioso all'interno della camera. Mary era seduta sul letto con le braccia incrociate sulle ginocchia; i suoi folti capelli erano raccolti nella cuffia da notte ornata di pizzi; un grande scialle scarlatto le copriva le piccole spalle bianche; i piedini minuscoli erano infilati in pantofole persiane variopinte. Sedeva immobile col capo chino sul petto; sul tavolino davanti a lei era aperto un libro, ma i suoi occhi, immobili e pieni di una indicibile tristezza, parevano percorrere per la centesima volta la stessa pagina, mentre i suoi pensieri vagavano lontano...
In quell'istante qualcuno si è mosso dietro a un cespuglio e io sono saltato dal balcone sul prato. Una mano invisibile mi ha afferrato per la spalla. «A-hà!», ha esclamato una voce villana. «T'abbiamo preso!... T'insegnerò io ad andar di notte dalle principessine!...».
«Tienilo forte!», ha gridato un altro sbucando fuori da dietro l'angolo.
Erano Grušnickij e il capitano dei dragoni.
Ho colpito quest'ultimo alla testa con un pugno, facendolo ruzzolare a terra, e mi sono lanciato tra i cespugli; conosco alla perfezione tutti i sentieri del giardino che copre il pendio davanti alle nostre case.
«Al ladro! Guardie!...», gridavano loro; è risuonato un colpo di fucile e lo stoppaccio fumante è caduto quasi ai miei piedi.
Un attimo dopo ero già nella mia camera, mi sono spogliato e mi sono messo a letto. Il mio domestico aveva appena fatto in tempo a chiudere la porta col catenaccio che Grušnickij e il capitano hanno cominciato a bussare.
«Peèorin! Dormite? Siete lì?...», gridava il capitano.
«Sto dormendo», ho risposto con voce irritata.
«Alzatevi, ci sono i ladri... i circassi...».
«Sono costipato», ho risposto. «Ho paura di prender freddo».
Se ne sono andati. Ho fatto male a rispondere: mi avrebbero cercato inutilmente ancora per un'ora nel giardino. Nel frattempo si è creato un gran subbuglio. Dalla fortezza è arrivato al galoppo un cosacco. Tutti erano in agitazione; si sono messi a cercare circassi in tutti i cespugli e, naturalmente, non hanno trovato nulla. In molti, tuttavia, è rimasta la ferma convinzione che, se la guarnigione avesse mostrato maggiore ardimento e solerzia, almeno una ventina di predoni sarebbe rimasta sul posto.

16 giugno
Poco fa alla sorgente non si parlava che dell'incursione notturna dei circassi. Dopo aver bevuto il prescritto numero di bicchieri di narzàn e aver percorso una decina di volte il lungo viale di tigli ho incontrato il marito di Vera appena ritornato da Pjatigòrsk. Mi ha preso sottobraccio e siamo andati al ristorante a far colazione; era terribilmente preoccupato per la moglie. «Come si è spaventata stanotte!», diceva. «Come a farlo apposta doveva accadere proprio quando non c'ero!». Ci siamo seduti a far colazione accanto alla porta che dà nella stanza d'angolo dove si trovavano una decina di giovani tra cui Grušnickij. Per la seconda volta il caso mi ha fornito l'occasione di ascoltare una conversazione che sarebbe stata decisiva per il suo destino. Lui non mi vedeva e di conseguenza non potevo sospettare che parlasse intenzionalmente, ma questo non faceva che ingrandire la sua colpa ai miei occhi.
«Ma erano poi veramente dei circassi?», diceva uno. «Qualcuno li ha visti?».
«Vi racconterò io tutta la storia», ha risposto Grušnickij, «solo vi prego di non tradirmi. Ecco come è andata: ieri una persona che non nominerò viene da me e mi racconta che verso le dieci di sera ha visto qualcuno entrare di soppiatto dalle Ligovskìe. Debbo farvi osservare che la principessa era qui, mentre la principessina era rimasta a casa. Così assieme a lui sono andato sotto le finestre per far la posta al fortunato».
Confesso di essermi spaventato: sebbene il mio interlocutore fosse intento a consumare la sua colazione avrebbe potuto sentire cose abbastanza spiacevoli per lui se, Dio non voglia, Grušnickij avesse indovinato la verità, ma questi, accecato dalla gelosia, non la sospettava nemmeno.
«Così», ha continuato Grušnickij, «ci siamo recati laggiù muniti di un fucile a salve, tanto per fargli paura. Abbiamo aspettato nel giardino fino alle due; finalmente eccolo comparire Dio sa da dove, solo non dalla finestra, che era rimasta chiusa; dev'essere invece uscito dalla porta a vetri dietro alla colonna... Finalmente, dico, vediamo qualcuno che si cala dal balcone... Che bel tipo la principessina, eh? Buone davvero queste signorine di Mosca! Dopo di ciò, a che cosa si può ancora credere? Volevamo acciuffarlo, ma lui si è divincolato come una lepre e si è lanciato tra i cespugli; a questo punto gli ho sparato».
Attorno a Grušnickij è risuonato un mormorio di incredulità.
«Non ci credete?», ha proseguito. «Vi do la mia parola d'onore, la mia parola di gentiluomo, che tutto ciò è la pura verità e a riprova magari vi rivelerò il nome di questo signore».
«Parla, parla, chi è?», si è sentito gridare da tutte le parti.
«Peèorin!», ha risposto Grušnickij.
In quell'istante ha alzato gli occhi: ero ritto sulla porta di fronte a lui. Egli è arrossito terribilmente. Mi sono avvicinato a lui e gli ho detto lentamente e scandendo le parole:
«Mi dispiace molto di essere entrato dopo che avete dato la vostra parola d'onore a sostegno della più infame delle calunnie. La mia presenza vi avrebbe trattenuto da un'inutile bassezza».
Grušnickij è balzato in piedi pronto a riscaldarsi.
«Vi prego», ho proseguito con lo stesso tono, «vi prego di ritrattare immediatamente le vostre parole: sapete bene che si tratta di un'invenzione. Non ritengo che l'indifferenza di una donna per le vostre brillanti qualità meriti una vendetta così terribile. Riflettete bene: mantenendo la vostra affermazione voi perdete il diritto al nome di gentiluomo e rischiate la vita».
Grušnickij era ritto dinnanzi a a me con gli occhi abbassati, in preda a una forte agitazione. Ma la lotta tra la coscienza e l'amor proprio non è durata a lungo. Il capitano dei dragoni, che era seduto accanto a lui, gli ha dato una gomitata; lui è trasalito e in fretta mi ha risposto senza sollevare gli occhi:
«Egregio signore, quando dico una cosa vuol dire che la penso e sono pronto a ripeterla... Non ho paura delle vostre minacce e sono disposto a tutto ».
«Questo lo avete già dimostrato», gli ho risposto freddamente e, preso sottobraccio il capitano dei dragoni, sono uscito dalla stanza.
«Cosa desiderate?», mi ha chiesto il capitano.
«Voi siete amico di Grušnickij e, verosimilmente, sarete il suo padrino, non è vero?».
Il capitano si inchinò con molta gravità.
«Avete indovinato», ha risposto, «e mi sento persino in obbligo di esserlo, in quanto l'offesa arrecatagli tocca anche me: io ero con lui ieri sera», ha aggiunto raddrizzando la figura leggermente curva.
«Ah, dunque, è voi che ho colpito alla testa tanto maldestramente!...».
È diventato giallo, violaceo; la rabbia che nascondeva dentro gli si è dipinta in viso.
«Avrò l'onore di inviare oggi stesso da voi il mio padrino», ho aggiunto inchinandomi assai cortesemente e fingendo di non accorgermi del suo furore.
Sul terrazzino d'ingresso del ristorante ho incontrato il marito di Vera. A quanto sembra mi stava aspettando.
Mi ha afferrato la mano con un trasporto che sconfinava nell'entusiasmo.
«Nobile giovane!», ha esclamato con le lacrime agli occhi. «Ho sentito tutto; che mascalzone! Che essere ignobile! Come si può riceverlo in una casa per bene dopo una cosa simile! Per fortuna io non ho figlie! Ma vi ricompenserà colei per cui rischiate la vita. Siate certo della mia discrezione finché sarà opportuno», ha continuato. «Anch'io sono stato giovane e ho prestato servizio nell'esercito, e so che in queste faccende non bisogna immischiarsi. Addio».
Poveraccio! Si rallegra di non avere figlie!...
Sono andato difilato da Werner, l'ho trovato in casa e gli ho raccontato tutto: i miei rapporti con Vera e con la principessina, la conversazione da me ascoltata di nascosto, dalla quale ero venuto a sapere dell'intenzione di quei tali di prendersi gioco di me costringendomi a sparare con una pistola caricata a salve. Ma adesso la faccenda aveva oltrepassato i limiti dello scherzo; probabilmente loro non si aspettavano una conclusione del genere.
Il dottore ha accettato di farmi da padrino e io gli ho dato alcune istruzioni sulle modalità del duello; lui avrebbe dovuto insistere perché la faccenda si svolgesse il più possibile in segreto poiché, sebbene fossi pronto in qualunque momento a morire, non ero tuttavia affatto disposto a rovinare per sempre il mio futuro in questo mondo.
Dopo di ciò sono andato a casa. Un'ora dopo il dottore è ritornato dalla sua missione.
«Contro di voi è stata ordita una vera congiura», mi ha detto. «Da Grušnickij ho trovato il capitano dei dragoni e un altro signore di cui non ricordo il nome; mi sono fermato un attimo nell'anticamera per togliermi le galosce; dalla stanza dove si trovavano si sentiva un frastuono e un vociare terribili... "Per nulla al mondo acconsentirò!", diceva Grušnickij. «Mi ha offeso pubblicamente, allora la faccenda era del tutto diversa...» «Che te ne importa?», ribatteva il capitano. «Mi prendo io la responsabilità di tutto. Sono stato padrino in cinque duelli e so bene come organizzare la cosa. Ho pensato a tutto. Soltanto ti prego di non ostacolarmi. Fargli prendere una bella paura non è male. Ma perché esporsi a un pericolo se se ne può fare a meno?...». A quel punto sono entrato. Loro di colpo si sono azzittiti. Le trattative si sono protratte abbastanza a lungo; finalmente ecco come ci siamo messi d'accordo: a cinque verste circa da qui c'è una gola disabitata. Loro si recheranno laggiù domani alle quattro del mattino e noi li raggiungeremo mezz'ora più tardi. Tirerete a sei passi di distanza, su questo è stato Grušnickij stesso a insistere. L'uccisione di uno di voi due sarà attribuita ai circassi. Ora vi dirò qual è il mio sospetto: credo che loro, i padrini, voglio dire, abbiano un po' modificato il loro piano precedente e che intendano caricare a palla soltanto la pistola di Grušnickij. La cosa assomiglia un po' a un assassinio, ma in tempo di guerra, soprattutto in una guerra asiatica, gli stratagemmi sono ammessi; soltanto che Grušnickij, a quanto pare, è più nobile dei suoi compagni. Cosa ne pensate: dobbiamo far loro capire che abbiamo scoperto l'inganno?».
«Per nulla al mondo, dottore. State tranquillo, non mi metteranno nel sacco!».
«Cosa avete intenzione di fare?».
«È un mio segreto».
«Badate di non lasciarci le penne... È a sei passi!».
«Dottore, vi aspetto domattina alle quattro; i cavalli saranno pronti... Addio».
Sono rimasto in casa tutto il giorno, chiuso nella mia camera. La sera è venuto un domestico a invitarmi dalla principessa: gli ho ordinato di dire che ero malato.
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Sono le due di notte. Non riesco ad addormentarmi. Invece dovrei dormire perché domani la mano non mi tremi. D'altronde a sei passi è difficile fallire il colpo. Ah, signor Grušnickij! Non riuscirete a imbrogliarmi... ci scambieremo le parti: sarò io tra poco a cercare sul vostro volto pallido i segni del segreto terrore. Perché avete stabilito voi stesso questi fatali sei passi? Credete che esporrò docilmente la mia fronte alla vostra pallottola... ma noi tireremo a sorte!... e allora... allora... cosa accadrà se la fortuna sarà dalla sua parte? se la mia stella infine mi tradirà?... Non ci sarebbe da stupirsene: essa ha servito così a lungo i miei capricci e in cielo la costanza non è più di casa che sulla terra.
E con questo? Se si deve morire, moriamo: la perdita per il mondo non sarà grande e io stesso ormai sono abbastanza stufo. Sono come una persona che sbadiglia a un ballo e che non se ne torna a casa soltanto perché la sua carrozza non è ancora arrivata. Ma appena la carrozza è pronta, addio!
Ripercorro nella memoria tutto il mio passato e involontariamente mi vien da domandarmi: perché sono vissuto? a che scopo sono nato?... Eppure, certamente, questo scopo esisteva e certamente mi era assegnata un'alta meta perché sento nella mia anima forze immense, ma io non ho saputo scoprire questa meta, mi sono lasciato attrarre dalle lusinghe di passioni vuote e ignobili. Dal crogiuolo di esse sono uscito duro e freddo come il ferro, ma ho perduto per sempre l'ardore dei nobili slanci, il fiore migliore della vita. E da allora, quante volte ho svolto la parte della scure nelle mani del destino! Come uno strumento del destino sono caduto sulla testa delle vittime predestinate, sovente senza rabbia, sempre senza compassione... Il mio amore non ha dato a nessuno felicità perché non ho sacrificato nulla per coloro che amavo; amavo per me stesso, per il mio proprio piacere; soddisfacevo soltanto uno strano bisogno del cuore, inghiottendo con avidità i loro sentimenti, la loro tenerezza, le loro gioie e dolori senza riuscire mai a saziarmi. Così chi è in preda alla fame si addormenta sfinito e vede davanti a sé cibi sontuosi e vini spumeggianti; egli divora estasiato gli aerei doni dell'immaginazione e gli sembra di star meglio... ma non appena si sveglia il sogno svanisce... e restano la fame raddoppiata e la disperazione!
E forse domani morrò! e non rimarrà sulla terra un solo essere che mi abbia compreso fino in fondo. Gli uni mi credono peggiore, gli altri migliore di quanto in realtà sia Gli uni diranno: era un bravo ragazzo, gli altri: era un mascalzone! L'una e l'altra cosa saranno false. Dopo di ciò, val la pena di vivere? Eppure continui a vivere, per curiosità; attendi qualcosa di nuovo... È una cosa ridicola e irritante!

È già un mese e mezzo che mi trovo nella fortezza di N.; Maksìm Maksimyè se n'è andato a caccia. Sono solo; sono seduto accanto alla finestra; nuvole grigie hanno coperto le montagne fino al piede; il sole attraverso la nebbia sembra una macchia giallastra. Fa freddo, il vento fischia e fa sbattere le imposte. Mi annoio. Continuerò il mio diario interrotto da tanti strani avvenimenti.
Rileggo l'ultima pagina: mi vien da ridere! Pensavo di morire, ma ciò era impossibile: non ho ancora vuotato il calice delle sofferenze e ora sento che vivrò ancora a lungo.
Come tutto il passato si è impresso chiaramente e nitidamente nella mia memoria! Neppure un tratto, neppure una sfumatura sono stati cancellati dal tempo.
Ricordo che la notte precedente il duello non dormii neppure un istante. Non riuscii a scrivere a lungo: una segreta inquietudine si impossessò di me. Per circa un'ora camminai per la stanza; poi mi sedetti e aprii il romanzo di Walter Scott I puritani di Scozia, che era posato sul mio tavolo. Sulle prime lessi con sforzo, poi mi dimenticai di tutto, preso dalla magica invenzione. Possibile che all'altro mondo il bardo scozzese non venga ricompensato per ogni istante di gioia che dona il suo libro?...
Finalmente albeggiò. I miei nervi si calmarono. Mi guardai allo specchio: un opaco pallore copriva il mio viso che serbava le tracce della tormentosa insonnia; ma gli occhi, sebbene cerchiati da un'ombra scura, brillavano fieri e implacabili. Rimasi contento di me stesso.
Dato ordine di sellare i cavalli mi vestii e corsi al bagno. Immergendomi nell'acqua fredda e ribollente della fonte Narzàn sentii tornarmi le forze fisiche e morali. Uscii dalla vasca fresco e alacre, come se mi stessi preparando per un ballo. Dopo di ciò, provate a sostenere che l'anima non dipende dal corpo!...
Tornato a casa vi trovai il dottore. Era in pantaloni da cavallerizzo grigi, archalùk e colbacco circasso. Scoppiai a ridere vedendo la sua minuscola figurina sotto quell'enorme colbacco irsuto. Il suo viso è tutt'altro che battagliero, ma quella volta era ancor più lungo del solito.
«Perché siete così triste, dottore?», gli domandai. «Non avete forse accompagnato cento volte degli uomini all'altro mondo con la massima indifferenza? Immaginate che io abbia una febbre biliare! Posso guarire e posso anche morire: l'una e l'altra eventualità sono nell'ordine delle cose. Sforzatevi di considerarmi un paziente che soffre di una malattia a voi sconosciuta, e allora la vostra curiosità si risveglierà al massimo grado: ora potete fare su di me alcune importanti osservazioni fisiologiche L'attesa di una morte violenta non è forse già un'autentica malattia?».
Questo pensiero colpì il dottore che si rasserenò.
Montammo in sella; Werner si aggrappò alle briglie con entrambe le mani e partimmo al galoppo. In un attimo passammo accanto alla fortezza, attraversammo il sobborgo ed entrammo nella gola sul fondo della quale si snodava la strada invasa dall'erba alta e intersecata ogni momento da fragorosi ruscelli che bisognava attraversare a guado con grande disperazione del dottore perché ogni volta il suo cavallo si fermava nell'acqua.
Non ricordo un mattino più azzurro e fresco! Il sole spuntava appena dietro alle verdi cime e il compenetrarsi del primo tepore dei suoi raggi con la morente frescura della notte infondeva in tutti i sensi una sorta di dolce languore. Nella gola non penetrava ancora la luce gioiosa del giovane giorno: essa indorava soltanto le sommità dei massi che da entrambi i lati incombevano su di noi; i folti cespugli che crescevano nelle profonde fessure di essi, al minimo soffio di vento ci cospargevano d'una pioggia d'argento. Ricordo di aver amato in quel momento la natura come mai prima. Con quanta curiosità fissavo ogni goccia di rugiada che tremolava sulle larghe foglie di vite riflettendo milioni di raggi iridati! Con quanta avidità il mio sguardo si sforzava di penetrare nella lontananza nebbiosa! Laggiù il passaggio si faceva sempre più stretto, i massi più scuri e sinistri fino a fondersi, sembrava, in una parete impenetrabile. Cavalcavamo in silenzio.
«Avete scritto il vostro testamento?», improvvisamente mi domandò Werner.
«No».
«E se rimarrete ucciso?...».
«Gli eredi si faranno vivi da soli».
«Possibile che non abbiate amici a cui vogliate inviare il vostro ultimo addio?...».
Scossi la testa.
«Possibile che non ci sia una donna al mondo a cui vogliate lasciare qualcosa per ricordo? ».
«Volete, dottore, che vi sveli la mia anima?...», gli risposi. «Vedete, sono sopravvissuto a quegli anni in cui si muore pronunciando il nome dell'amata e lasciando per ricordo all'amico una ciocca di capelli impomatati o non impomatati. Pensando alla morte imminente e possibile io penso soltanto a me stesso; altri non fanno neppure questo. Gli amici, che domani mi dimenticheranno, oppure, peggio, metteranno in giro sul mio conto Dio sa quali fandonie, le donne che, abbracciando un altro, rideranno di me per non destare in lui gelosia per l'estinto... che Dio li abbia in gloria! Dalla tempesta della vita ho tratto in salvo soltanto alcune idee e nessun sentimento. Da tanto tempo ormai vivo non col cuore, ma con la testa. Soppeso ed esamino le mie passioni e i miei atti con rigorosa curiosità, ma senza partecipazione. In me ci sono due uomini: uno che vive nel senso pieno della parola, l'altro che ragiona e lo giudica; il primo forse, tra un'ora si congederà da voi e dal mondo per sempre, l'altro... l'altro... Guardate, dottore: vedete quelle tre figure che si stagliano sulla roccia a destra? Sono, credo, i nostri avversari...».
Mettemmo i cavalli al trotto.
Ai piedi della roccia, tra i cespugli, erano legati tre cavalli; legammo i nostri nello stesso posto e per uno stretto sentiero salimmo sullo spiazzo dove ci attendevano Grušnickij, il capitano dei dragoni e l'altro suo padrino che si chiamava Ivàn Ignàt'eviè (il suo cognome non l'ho mai saputo).
«È un pezzo che vi stiamo aspettando», disse il capitano dei dragoni con un sorriso ironico.
Io tirai fuori l'orologio e glielo mostrai.
Lui si scusò dicendo che il suo andava avanti.
Per alcuni istanti si protrasse un silenzio imbarazzante; infine il dottore lo ruppe rivolgendosi a Grušnickij:
«Mi sembra», disse, «Che avendo entrambi dimostrato disponibilità a battervi e avendo con ciò pagato il dovuto tributo alle leggi dell'onore, potreste, signori, spiegarvi e concludere la cosa amichevolmente».
«Sono pronto», feci io.
Il capitano strizzò l'occhio a Grušnickij e questi, pensando che avessi paura, assunse un'aria fiera, sebbene fino a quel momento un opaco pallore avesse coperto le sue guance. Da quando eravamo arrivati, era la prima volta che sollevava gli occhi su di me, ma nel suo sguardo c'era una certa inquietudine che denunciava una lotta interiore.
«Esponete le vostre condizioni», disse, «e siate certo che, tutto quello che posso fare per voi io...».
«Ecco le mie condizioni: voi ora ritratterete pubblicamente la vostra calunnia e mi chiederete scusa...».
«Egregio signore, mi meraviglio che voi osiate chiedermi una cosa simile...».
«Cos'altro potrei proporvi, all'infuori di questo?...».
«Ci batteremo...».
Alzai le spalle.
«Come volete: pensate, però, che uno di noi due rimarrà ucciso».
«Io mi auguro che siate voi...».
«E io sono convinto del contrario...».
Egli si turbò, arrossì e poi scoppiò in una risata forzata.
Il capitano lo prese sottobraccio e lo tirò in disparte; bisbigliarono a lungo. Ero arrivato sul posto in uno stato d'animo abbastanza pacifico, ma tutto ciò cominciava a farmi infuriare.
Il dottore mi si avvicinò.
«Sentite», mi disse con palese inquietudine, «evidentemente vi siete dimenticato del loro complotto... Io non sono capace di caricare una pistola, ma in questo caso... Siete una persona strana! Dite loro che siete al corrente delle loro intenzioni ed essi non oseranno... Bel divertimento farsi impallinare come un tordo!...».
«Vi prego, dottore, non preoccupatevi e aspettate... Sistemerò ogni cosa in modo tale che non ne trarranno alcun vantaggio. Lasciateli bisbigliare...».
«Signori, la cosa diventa noiosa!», dissi loro ad alta voce. «Se dobbiamo batterci, battiamoci; avete avuto tutto il tempo ieri per parlare a sazietà...».
«Siamo pronti», rispose il capitano. «Signori, mettetevi in posizione!... Dottore, abbiate la compiacenza di misurare sei passi».
«Mettetevi in posizione!», ripeté con voce stridula Ivàn Ignat'iè.
«Permettete!», dissi io. «Ancora una condizione: dato che ci batteremo a morte, siamo tenuti a fare tutto il possibile perché la cosa rimanga segreta e i nostri padrini non possano essere ritenuti responsabili. Siete d'accordo?...».
«Completamente».
«Dunque, ecco cosa ho escogitato. Vedete in cima a quella roccia a strapiombo, sulla destra, quell'angusta piazzuola? Da lassù al fondo della gola coperto di rocce aguzze ci saranno trenta sažén', se non di più. Ciascuno di noi si metterà proprio sull'orlo della piazzuola di modo che anche una ferita leggera sarà mortale; ciò dovrebbe essere conforme ai vostri desideri, visto che siete stato voi a insistere per i sei passi. Chi verrà ferito volerà immancabilmente giù e si sfracellerà; il dottore estrarrà la pallottola e allora sarà assai facile far passare questa morte improvvisa per una disgrazia. Tireremo a sorte chi dovrà sparare per primo... Vi dichiaro, per concludere, che altrimenti non mi batterò».
«Come volete», replicò il capitano dopo aver lanciato un'occhiata significativa a Grušnickij che chinò il capo in segno di assenso. La sua espressione mutava ogni momento. L'avevo posto in una situazione imbarazzante. Se ci fossimo battuti in condizioni normali avrebbe potuto mirare a una gamba e ferirmi leggermente, soddisfacendo così il suo desiderio di vendetta senza caricarsi un peso troppo grosso sulla coscienza; ma ora era costretto a sparare in aria o a diventare un assassino, oppure, infine, a desistere dal suo ignobile disegno e a esporsi al mio stesso pericolo. Non avrei voluto essere al suo posto in quel momento. Egli tirò in disparte il capitano e prese a dirgli qualcosa con grande calore; notai che le labbra gli erano diventate azzurre e tremavano; ma il capitano si scostò da lui con un sorriso sprezzante. «Sei uno stupido», disse a Grušnickij a voce abbastanza alta. «Non capisci niente! Orsù, andiamo, signori!».
Uno stretto sentiero in mezzo ai cespugli conduceva su per il ripido pendio; frammenti di roccia componevano i malfermi gradini di quella scala naturale. Aggrappandoci ai cespugli cominciammo ad arrampicarci. Grušnickij saliva davanti seguito dai suoi padrini, poi venivamo io e il dottore.
«Mi meraviglio di voi», disse il dottore stringendomi forte il braccio. «Fatemi sentire il polso!... o-hò avete la febbre ma in viso non si nota nulla... soltanto gli occhi vi brillano più del solito».
Improvvisamente alcune piccole pietre rotolarono giù sotto i nostri piedi. Che stava accadendo? Grušnickij era inciampato, il ramoscello a cui si era aggrappato si era spezzato e sarebbe caduto all'indietro se i suoi padrini non lo avessero sorretto.
«Fate attenzione!», gli gridai. «Non cadete prima del tempo, è un brutto segno... Ricordatevi di Giulio Cesare!».
Arrivammo in cima alla roccia che emergeva al di sopra delle altre: la piazzuola era coperta di sabbia fine e sembrava fatta apposta per un duello.
Attorno, perdendosi nella nebbia dorata del mattino, si affollavano le vette delle montagne, simili a uno sterminato gregge, e l'El'borùs a mezzogiorno si ergeva con la sua massa bianca, chiudendo la catena di cime ghiacciate tra le quali già vagavano nubi sfilacciate provenienti da oriente. Mi avvicinai all'orlo della piazzuola e guardai in basso; per poco la testa non mi girò: sembrava che laggiù facesse buio e freddo come in una tomba; gli orli aguzzi coperti di muschio delle rocce, che la tempesta e il tempo avevano fatto precipitare, sembravano in attesa della loro preda.
La piazzuola sopra la quale dovevamo batterci aveva quasi la forma di un triangolo equilatero. Dall'angolo che sporgeva sull'abisso furono misurati sei passi e fu deciso che colui a cui sarebbe toccato di esporsi per primo al fuoco dell'avversario si sarebbe messo su quell'angolo con le spalle rivolte al vuoto. Se non fosse stato ucciso, gli avversari si sarebbero scambiati di posto.
Avevo deciso di lasciare tutti i vantaggi a Grušnickij; volevo metterlo alla prova: nella sua anima poteva risvegliarsi una scintilla di generosità e allora tutto si sarebbe aggiustato nel migliore dei modi; ma l'amor proprio e la debolezza di carattere erano destinati ad avere la meglio!... Volevo acquisire il pieno diritto di non avere pietà di lui se la sorte mi avesse risparmiato. Chi non ha concluso simili patti con la propria coscienza?
«Tirate a sorte, dottore», disse il capitano.
Il dottore estrasse dalla tasca una moneta d'argento e la sollevò.
«Testa!», gridò in fretta Grušnickij, come un uomo risvegliato all'improvviso dalla gomitata di un amico.
«Croce!», dissi io.
La moneta volteggiò e cadde tintinnando; tutti si precipitarono su di essa.
«Siete fortunato», dissi a Grušnickij. «Tocca a voi sparare per primo! Ma ricordate che se non mi ucciderete, io non mancherò il colpo! Ve ne do la mia parola d'onore!».
Egli arrossì; si vergognava di uccidere un uomo disarmato; io lo fissavo: per un attimo mi parve che si sarebbe gettato ai miei piedi implorando perdono, ma come confessare un così infame disegno?... Gli rimaneva una sola via d'uscita: sparare in aria; ero convinto che avrebbe sparato in aria! Una cosa soltanto avrebbe potuto impedirglielo: il pensiero che avrei preteso la ripetizione del duello.
«È ora», mi sussurrò il dottore tirandomi per la manica, «se non direte adesso che siamo a conoscenza dei loro propositi, tutto e perduto... Guardate, sta già caricando le pistole... se non direte nulla, lo farò io stesso...».
«Per nulla al mondo, dottore!», replicai trattenendolo per il braccio. «Guastereste tutto; mi avete dato la vostra parola d'onore che non vi sareste immischiato... Che ve ne importa? Forse voglio essere ucciso...».
Egli mi guardò con stupore.
«Oh! allora la cosa è diversa!... Soltanto non prendetevela poi con me all'altro mondo!».
Il capitano nel frattempo caricò le sue pistole e ne porse una a Grušnickij, sussurrandogli qualcosa sorridendo, e l'altra a me.
Presi posizione nell'angolo della piazzuola, ben piantato con il piede sinistro sopra la roccia e lievemente inclinato in avanti, in modo da non cadere all'indietro nel caso fossi stato ferito leggermente.
Grušnickij si sistemò di fronte a me e, al segnale convenuto, cominciò a sollevare la pistola. Le ginocchia gli tremavano. Mirò diritto alla mia fronte.
Un furore inesplicabile mi ribollì nel petto.
Improvvisamente egli abbassò la canna della pistola e, fattosi bianco come un cencio, si voltò verso il suo padrino:
«Non posso», disse con voce sorda.
«Vigliacco!», replicò il capitano.
Echeggiò il colpo. La pallottola mi graffiò il ginocchio. Istintivamente feci alcuni passi in avanti per allontanarmi al più presto dal precipizio.
«Be', fratello Grušnickij, mi spiace che tu abbia mancato il colpo», disse il capitano. «Adesso tocca a te, mettiti in posizione! Abbracciami prima: non ci rivedremo più!». Essi si abbracciarono; il capitano riusciva a stento a trattenere le risa: «Non aver paura», aggiunse guardando con aria astuta Grušnickij. «Tutto al mondo è una farsa!... La natura è una stupida, il destino è un tacchino e la vita non vale un centesimo!».
Dopo questa frase melodrammatica, pronunciata con la dovuta solennità, ritornò al proprio posto: Ivàn Ignat'iè abbracciò anche lui piangendo Grušnickij e questi rimase solo di fronte a me. Ancora adesso cerco di spiegarmi quale sentimento ribollisse nel mio petto: forse rabbia per l'amor proprio ferito, e disprezzo, e collera generata dal pensiero che quell'uomo che mi guardava con tanta tranquilla impudenza, due minuti prima, senza esporsi al minimo rischio, mi voleva uccidere come un cane, dato che, se fossi stato ferito alla gamba in maniera leggermente più grave, sarei sicuramente precipitato giù dalla roccia.
Per alcuni istanti lo guardai fissamente in viso sforzandomi di cogliere il benché minimo segno di pentimento, ma mi parve che continuasse a sorridere.
«Vi consiglio di pregare prima di morire», gli dissi allora.
«Non datevi pensiero della mia anima più che della vostra. Vi prego di una cosa soltanto: sparate al più presto».
«E voi non ritrattate la vostra calunnia? Non mi chiedete perdono? Pensateci bene: non vi suggerisce qualcosa la coscienza?».
«Signor Peèorin!», urlò il capitano dei dragoni. «Permettetemi di farvi notare che non siete qui per confessarlo... Finiamola al più presto, prima che qualcuno passi per la gola e ci veda».
«Bene. Dottore, avvicinatevi».
Il dottore si avvicinò a me. Povero dottore! Era più pallido di Grušnickij dieci minuti prima.
La parole successive le pronunciai di proposito scandendo le sillabe, a voce alta e chiaramente, come si pronuncia una sentenza di morte.
«Dottore, questi signori, probabilmente per la fretta, si sono dimenticati di mettere la pallottola nella mia pistola: vi prego di ricaricarla, e per bene!».
«Non può essere!», urlò il capitano. «Non può essere! Ho caricato io entrambe le pistole, a meno che la pallottola non sia scivolata fuori dalla vostra... Non è colpa mia! Voi però non avete il diritto di ricaricare... non ne avete alcun diritto è assolutamente contro le regole, non lo permetterò...».
«Va bene», dissi al capitano. «Se è così, ci batteremo noi due alle stesse condizioni...».
Egli esitò.
Grušnickij se ne stava ritto con la testa abbassata sul petto, confuso e cupo.
«Lasciali fare!», disse infine al capitano che voleva strappare la mia pistola dalle mani del dottore. «Sai bene che hanno ragione».
Invano il capitano gli faceva segni d'ogni sorta. Grušnickij non voleva nemmeno guardare.
Nel frattempo il dottore ricaricò la pistola e me la porse.
Vedendo ciò il capitano sputò per terra e batté il piede: «Sei un imbecille, fratellino», disse. «Un perfetto imbecille!... Visto che ti eri affidato a me, avresti dovuto obbedirmi in tutto... Peggio per te: crepa come una mosca!...». Si voltò e, mentre si faceva da parte, borbottò: «Tuttavia questo è assolutamente contro le regole».
«Grušnickij», dissi io, «sei ancora in tempo. Ritratta la tua calunnia e io ti perdonerò tutto; non sei riuscito a prenderti gioco di me e il mio orgoglio è soddisfatto. Ricordati che un tempo siamo stati amici».
Il volto gli avvampò, gli occhi gli sfavillarono.
«Sparate», replicò. «Disprezzo me stesso e vi odio. Se non mi ucciderete, vi scannerò di notte a un angolo di strada. Non c'è posto sulla terra per tutti e due...».
Sparai.
Quando il fumo si dissipò, Grušnickij sulla piazzuola non c'era più. Soltanto una leggera nuvola di polvere aleggiava ancora sull'orlo del burrone.
Tutti all'unisono lanciarono un grido.
«Finita la comedia!», dissi al dottore.
Egli non rispose e si voltò dall'altra parte con orrore.
Alzai le spalle e salutai i padrini di Grušnickij.
Scendendo giù per il sentiero notai tra le rocce il cadavere insanguinato di Grušnickij. Involontariamente chiusi gli occhi.
Slegai il cavallo e mi avviai al passo verso casa. Avevo un macigno sul cuore. Il sole mi sembrava appannato, i suoi raggi non mi riscaldavano.
Prima di arrivare al sobborgo svoltai a destra per una gola. La vista degli uomini mi sarebbe riuscita penosa: volevo stare da solo. Abbandonate le briglie cavalcai a lungo con la testa bassa, finché mi ritrovai in un luogo a me del tutto sconosciuto. Allora ritornai indietro e mi misi a cercare la strada; il sole stava ormai calando quando, sfinito, sul cavallo anch'esso sfinito, arrivai nei pressi di Kislovòdsk.
Il mio domestico mi disse che era passato Werner e mi diede due biglietti: uno da parte sua e l'altro... di Vera.
Dissuggellai il primo: era del seguente tenore.

«Tutto è stato sistemato nella maniera migliore: il cadavere era sfigurato, il proiettile è stato estratto dal petto. Tutti sono convinti che si sia trattato di una disgrazia; soltanto il comandante, che probabilmente era a conoscenza della vostra inimicizia, ha scosso la testa, ma non ha detto nulla. Prove contro di voi non ce ne sono e potete dormire tranquillo, se ci riuscite. Addio».

Esitai a lungo prima di aprire il secondo biglietto... Cosa mai mi poteva scrivere Vera? Un penoso presentimento turbava la mia anima.
Eccola questa lettera, ogni parola della quale si è impressa indelebilmente nella mia memoria:

«Ti scrivo nell'assoluta certezza che non ci rivedremo mai più. Alcuni anni orsono, separandomi da te, pensavo la stessa cosa, ma il Cielo ha voluto mettermi alla prova una seconda volta e io non ho saputo superare questa prova, il mio debole cuore ancora una volta si è sottomesso alla nota voce... tu non mi disprezzerai per questo, non è vero? Questa lettera sarà insieme un congedo e una confessione; è mio obbligo dirti tutto ciò che si è accumulato nel mio cuore da quando esso ti ama. Non riverserò su di te la colpa: ti sei comportato con me come si sarebbe comportato qualsiasi altro uomo; mi hai amato come una tua proprietà, come una fonte di gioie, di inquietudini e di dolori che si succedevano di continuo, senza le quali la vita è monotona e noiosa. Questo l'ho compreso fin dall'inizio... Ma tu eri infelice, e io ho sacrificato me stessa nella speranza che un giorno avresti apprezzato il mio sacrificio e avresti compreso la mia profonda, incondizionata tenerezza... È passato molto tempo da allora, io sono penetrata in tutti i più segreti recessi della tua anima... e mi sono convinta che la mia speranza era vana. Ho provato amarezza! Ma il mio amore era diventato una cosa sola con la mia anima; esso si è oscurato, ma non spento.
«Ora ci separiamo per sempre, tuttavia puoi star sicuro che non amerò mai nessun altro; la mia anima ha esaurito per te tutti i suoi tesori, le sue lacrime e le sue speranze. Chi ha amato te non può guardare senza un certo disprezzo tutti gli altri uomini, non perché tu sia migliore di loro, oh no! Ma nella tua natura c'è qualcosa di speciale, proprio a te solo, qualcosa di fiero e misterioso; nella tua voce, qualunque cosa tu dica, c'è un potere invincibile; nessuno sa così tenacemente voler essere amato; in nessuno il male è così attraente, nessuno ha uno sguardo che prometta tanta beatitudine, nessuno sa meglio trarre vantaggio dalla propria superiorità, e nessuno può essere così veramente infelice come te, perché nessuno si sforza tanto di convincere se stesso del contrario.
«Ora ti debbo spiegare il motivo della mia frettolosa partenza: esso ti parrà di poca importanza poiché riguarda soltanto me.
«Stamani mio marito è entrato in camera mia e mi ha raccontato il tuo diverbio con Grušnickji. Evidentemente la mia espressione dev'esser molto mutata perché mi ha fissato a lungo negli occhi. C'è mancato poco che cadessi priva di sensi al pensiero che tra poco ti saresti dovuto battere e che ero io la causa di ciò; mi sembrava di impazzire... Ma, adesso che riesco a ragionare, sono convinta che sopravviverai: è impossibile che tu muoia senza di me, è impossibile! Mio marito ha passeggiato a lungo per la stanza; non so cosa mi abbia detto né ricordo cosa io gli abbia risposto... probabilmente gli ho detto che ti amo... Ricordo soltanto che alla fine del nostro colloquio mi ha offeso con una parola terribile ed è uscito. Ho sentito che dava ordine di attaccare i cavalli alla carrozza... Sono già tre ore che sono seduta accanto alla finestra in attesa del tuo ritorno... Ma tu sei vivo, tu non puoi morire!... La carrozza è quasi pronta... Addio, addio... Io sono perduta, ma che importa?... Se potessi soltanto essere sicura non dico che mi amerai, ma che almeno mi ricorderai per sempre Addio: viene qualcuno... devo nascondere la lettera...
«Non è vero che non ami Mary? che non la sposerai? Ascolta, devi fare questo sacrificio per me: io per te ho perduto ogni cosa al mondo...».

Come un pazzo mi precipitai sul terrazzino d'ingresso, balzai sul mio Circasso che stavano conducendo attraverso il cortile e mi lanciai a briglia sciolta per la strada di Piatigòrsk. Spronavo senza pietà il cavallo sfinito che, ansimando e tutto coperto di spuma, mi trasportava velocemente lungo la strada pietrosa.
Il sole si era già nascosto dietro una nuvola nera posata sulla cresta dei monti occidentali; nella gola si era fatto buio e umido. Il Podkumok ruggiva sordamente e monotonamente aprendosi la strada in mezzo alle rocce. Galoppavo col fiato mozzo per l'impazienza. Il pensiero di non trovarla più a Pjatigòrsk mi batteva nel cuore come un martello! Vederla un istante, un solo istante ancora, congedarmi da lei, stringerle la mano... Pregavo, maledicevo, piangevo, ridevo... no, nulla può esprimere la mia inquietudine, la mia disperazione!...
Di fronte alla prospettiva di perderla per sempre, Vera era diventata per me più cara di ogni altra cosa al mondo, più cara della vita, dell'onore, della felicità. Dio sa quali strani, folli propositi si affollavano nella mia testa... E intanto continuavo a galoppare spronando senza pietà. A un tratto mi accorsi che il mio cavallo respirava pesantemente; aveva già inciampato due volte su un tratto di terreno non accidentato... Restavano cinque verste per arrivare a Esentukì, un villaggio cosacco dove avrei potuto cambiare cavallo.
Sarei stato salvo se al mio cavallo fossero bastate le forze ancora per dieci minuti! Ma all'improvviso, risalendo da un piccolo burrone, stramazzò a terra. Balzai prontamente di sella, cercai di farlo rialzare tirandolo per le briglie: invano; un gemito appena percettibile gli usciva dai denti serrati. Alcuni istanti dopo spirò e io rimasi solo nella steppa, perduta l'ultima speranza. Tentai di incamminarmi a piedi, ma le gambe mi si piegarono sotto; sfinito dalle emozioni della giornata e dalla mancanza di sonno caddi sull'erba umida e scoppiai a piangere come un bambino.
E giacqui a lungo immobile, piangendo amaramente, senza sforzarmi di trattenere le lacrime e i singhiozzi; pensavo che il petto mi si sarebbe lacerato; tutta la mia fermezza, tutto il mio sangue freddo si erano dileguati come fumo. L'animo era privo di forze, l'intelletto muto, e se qualcuno mi avesse visto in quell'istante avrebbe distolto lo sguardo con disprezzo.
Quando la rugiada notturna e il vento montano ebbero rinfrescato la mia testa ardente e i pensieri ebbero ripreso il loro corso abituale, compresi che inseguire la felicità perduta era inutile e insensato. Cos'altro volevo? Vederla? Perché? Non era forse tutto finito fra noi? Un solo amaro bacio d'addio non avrebbe arricchito i nostri ricordi e dopo di esso ci sarebbe soltanto riuscito più difficile separarci.
Mi faceva tuttavia piacere poter piangere! D'altronde, forse, la causa di ciò erano l'eccitazione nervosa, la notte insonne, i due minuti trascorsi davanti alla bocca della pistola e lo stomaco vuoto.
Tutto per il meglio! Questa nuova sofferenza operò in me, per usare il linguaggio militare, una riuscita diversione. Piangere fa bene alla salute e poi, verosimilmente, se non avessi cavalcato e poi non fossi stato costretto a percorrere a piedi ritornando indietro quindici verste, neppure quella notte sarei riuscito a chiudere occhio.
Fui di ritorno a Kislovòdsk alle cinque del mattino, mi gettai sul letto e mi addormentai del sonno di Napoleone dopo Waterloo.
Quando mi svegliai fuori faceva già buio. Mi sedetti presso la finestra aperta, sbottonai la giubba e il vento montano mi rinfrescò il petto ancora non acquetato dal pesante sonno della stanchezza. Lontano, oltre il fiume, attraverso le cime dei folti tigli che lo ombreggiavano, balenavano le luci della fortezza e del sobborgo. Nel cortile della nostra casa tutto era silenzioso; la casa della principessa non era illuminata.
Entrò il dottore. Aveva la fronte aggrottata e, contrariamente al solito, non mi tese la mano.
«Di dove venite, dottore?».
«Da casa della principessa Ligovskàja; sua figlia è malata: un attacco di nervi! Ma non è questo il punto, ecco di che si tratta: le autorità sospettano qualcosa e, sebbene non sia possibile dimostrare nulla di preciso, vi consiglio di essere prudente. La principessa mi ha detto testé di sapere che vi siete battuto per sua figlia. Le ha raccontato tutto quel vecchietto - come diavolo si chiama? - che è stato testimone del vostro diverbio con Grušnickij al ristorante. Sono venuto ad avvisarvi. Addio, forse non ci rivedremo più, sarete trasferito chissà dove...».
Sulla soglia si arrestò, avrebbe voluto stringermi la mano... e, se gliene avessi mostrato il minimo desiderio, mi si sarebbe gettato al collo; ma io rimasi freddo come un sasso ed egli uscì.
Ecco come sono fatti gli uomini! Sono tutti così: conoscono in anticipo tutti i lati brutti di un'azione, la favoriscono, la consigliano, l'approvano persino, vedendo l'impossibilità di un'altra soluzione, e poi se ne lavano le mani e con sdegno voltano le spalle a colui che ha avuto l'ardimento di prendere su di sé l'intero peso della responsabilità. Sono tutti così, anche i migliori, anche i più intelligenti!...
L'indomani mattina, ricevuto l'ordine dall'alto comando di partire per la fortezza di N., passai dalla principessa per congedarmi.
Ella rimase stupita quando, alla sua domanda se avessi qualcosa da dirle di particolarmente importante, le risposi che le auguravo felicità ecc.
«Invece io ho bisogno di parlare con voi molto seriamente».
Mi sedetti in silenzio.
Era chiaro che non sapeva da che parte cominciare; il viso le si era imporporato e le dita grassocce tamburellavano sul tavolo; finalmente cominciò con voce spezzata:
«Ascoltate, m'sjé Peèorin! Ritengo che voi siate un gentiluomo».
Mi inchinai.
«Ne sono addirittura convinta», proseguì, «sebbene il vostro comportamento sia alquanto dubbio; tuttavia potete avere dei motivi che non conosco e che ora mi dovete confidare. Voi avete difeso mia figlia da una calunnia, vi siete battuto in duello per lei e di conseguenza avete rischiato la vita...
Non rispondete, so che questo non lo ammettete perché Grušnickij è rimasto ucciso (ella si segnò). Che Dio lo perdoni e, spero, perdoni anche voi! Per quanto mi concerne, non ardisco giudicarvi perché mia figlia, pur essendo innocente, ne è stata la causa. Mi ha raccontato tutto... almeno credo: voi le avete dichiarato il vostro amore... lei vi ha dichiarato il suo! (qui la principessa sospirò profondamente). Ma lei è malata e sono convinta che non si tratti di una semplice malattia! Una segreta tristezza la uccide; lei non lo confessa, ma sono convinta che voi ne siate la causa... Ascoltate, voi, forse, pensate che vada in cerca di un'alta posizione sociale e di enormi ricchezze: dissuadetevene! Io voglio soltanto la felicità di mia figlia. La vostra situazione attuale non è invidiabile, ma può migliorare. Voi possedete un patrimonio, mia figlia vi ama ed è stata educata in modo tale da rendere felice un marito... io sono ricca e non ho che lei... Parlate, che cosa vi trattiene?...
Come vedete, non avrei dovuto dirvi tutto questo, ma faccio affidamento sul vostro cuore, sul vostro onore: ricordatevi che io ho lei sola... lei sola...».
Scoppiò a piangere.
«Principessa», replicai: «mi è impossibile rispondervi; permettetemi di parlare con vostra figlia, a tu per tu...».
«Mai!», esclamò lei alzandosi in piedi in preda a una forte agitazione.
«Come volete», risposi preparandomi ad andarmene.
Ella rifletté un istante, poi mi fece segno con la mano di aspettare e uscì.
Passarono circa cinque minuti; il mio cuore batteva forte, ma i miei pensieri erano calmi, la testa fredda; per quanto cercassi dentro di me almeno una scintilla di amore per la dolce Mary i miei sforzi furono vani.
A un tratto le porte si aprirono e lei entrò. Mio Dio, com'era cambiata dall'ultima volta che l'avevo vista! Ed era passato così poco tempo!
Arrivata al centro della stanza vacillò; balzato in piedi le porsi il braccio e l'accompagnai alla poltrona.
Restai in piedi davanti a lei; rimanemmo a lungo in silenzio. I suoi grandi occhi, colmi di un'inesprimibile malinconia, sembravano cercare nei miei qualcosa che assomigliasse a una speranza; le sue labbra pallide tentavano invano di sorridere; le sue tenere mani, intrecciate sulle ginocchia, erano così magre e trasparenti che provai compassione di lei.
«Principessina», dissi, «sapete che mi sono preso gioco di voi!... Dovete disprezzarmi».
Sulle sue guance apparve un rossore malato.
Proseguii: «Di conseguenza non potete amarmi...».
Ella si voltò dall'altra parte, appoggiò i gomiti sul tavolo e con la mano si coprì gli occhi in cui mi parve che brillassero delle lacrime.
«Mio Dio», profferì con voce appena percettibile.
La situazione si stava facendo insostenibile: ancora un istante e sarei caduto ai suoi piedi.
«Dunque, lo vedete da voi», ripresi con voce quanto più possibile ferma e con un riso forzato, «lo vedete da voi che non posso sposarvi; se anche adesso lo voleste, ve ne pentireste ben presto. Il mio colloquio con vostra madre mi ha costretto a spiegarmi con voi in maniera così indelicata; mi auguro che ella si sbagli: vi sarà facile dissuaderla. Come vedete io recito davanti a voi la parte più miserabile e ripugnante e sono persino pronto a riconoscerlo; ecco tutto quello che posso fare per voi. Per quanto cattiva sia l'opinione che vi siete fatta di me, a essa mi rassegno. Come vedete sono indegno di voi. Non è vero che, se pure mi avete amato, da questo istante mi disprezzate?...».
Ella si voltò verso di me pallida come il marmo. Soltanto i suoi occhi scintillavano meravigliosamente.
«Io vi odio...», disse.
Ringraziai, mi inchinai cortesemente e uscii.
Un'ora dopo volavo lontano da Kislovòdsk sulla trojka della posta.
Ad alcune verste da Esentukì riconobbi sul bordo della strada il cadavere del mio generoso cavallo; la sella era stata tolta, probabilmente da un cosacco di passaggio, e al posto di essa sulla groppa erano posati due corvi. Con un sospiro mi voltai dall'altra parte!
E ora sono qui, in questa noiosa fortezza, e spesso, riandando col pensiero al passato, mi chiedo perché non abbia voluto intraprendere quella via che il destino aveva aperto davanti a me, sulla quale mi attendevano placide gioie e la quiete spirituale... No! Non mi sarei adattato a quel destino! Io sono come un marinaio nato e cresciuto sulla coperta di un brigantino pirata; la sua anima si è assuefatta alle tempeste e alle battaglie e, gettato a riva, egli si annoia e langue, insensibile alla bellezza del boschetto ombroso e al pacifico splendore del sole. Egli cammina tutto il giorno solitario sulla sabbia della riva, ascoltando il monotono fragore delle onde accorrenti e appuntando lo sguardo nella nebbiosa lontananza, nella speranza di veder spuntare laggiù, sulla pallida linea che separa l'azzurro abisso dalle nuvole grigie, la sospirata vela che, dapprima simile a un'ala di gabbiano, poi via via stagliandosi sempre più distinta contro la spuma delle onde, con corsa regolare si avvicina al molo deserto...

III • Un fatalista

Mi accadde per caso una volta di trascorrere due settimane in un villaggio cosacco nel settore sinistro. Nello stesso villaggio era di stanza anche un battaglione di fanteria e gli ufficiali la sera si radunavano ora dall'uno ora dall'altro a turno per giocare a carte.
Una volta, dopo esserci annoiati di giocare a boston e aver gettato le carte sotto il tavolo, ci trattenemmo assai a lungo in casa dei maggiore S.; la conversazione, contrariamente al solito, era avvincente. Si discuteva sul fatto che la credenza musulmana che il destino dell'uomo sia scritto nei cieli trova anche tra noi cristiani molti adepti e ognuno raccontava svariati casi insoliti pro et contra.
«Tutto questo, signori, non dimostra nulla», disse il vecchio maggiore. «Infatti nessuno di voi è stato testimone degli strani avvenimenti che voi citate a sostegno delle vostre opinioni...».
«Nessuno, naturalmente!», esclamarono molti, «ma ci sono stati riferiti da persone degne di fede...».
«Sciocchezze!», disse qualcuno. «Dove sono queste persone degne di fede che hanno veduto il libro su cui è indicata l'ora della nostra morte?... E se davvero esiste la predestinazione, perché allora ci sono stati dati la volontà e la ragione? Perché siamo chiamati a render conto delle nostre azioni?...».
A questo punto un ufficiale che era seduto in un angolo della stanza si alzò e, avvicinatosi lentamente al tavolo, passò in rassegna tutti con uno sguardo tranquillo e solenne. Era di origine serba, come si capiva dal suo cognome.
L'aspetto del tenente Vuliè corrispondeva pienamente al suo carattere. L'alta statura e il colorito scuro del volto, i capelli neri, gli occhi neri e penetranti, il naso grande ma regolare - caratteristici della stirpe a cui apparteneva - il freddo e triste sorriso che errava eternamente sulle sue labbra, tutto questo sembrava concorrere a conferirgli l'aspetto di un essere fuori del comune, incapace di condividere i propri pensieri e le proprie passioni con coloro che il destino gli aveva dato come compagni.
Era valoroso, parlava poco ma in maniera incisiva; non confidava a nessuno i propri segreti spirituali e familiari, era quasi astemio e non corteggiava le giovani cosacche di cui è difficile comprendere il fascino non avendole viste. Si diceva, tuttavia, che la moglie del colonnello non fosse indifferente ai suoi occhi espressivi, ma egli si arrabbiava sul serio quando si faceva allusione a questo.
C'era una sola passione che non nascondeva: quella per il gioco. Al tavolo verde dimenticava tutto e solitamente perdeva, ma i costanti insuccessi non facevano che esasperare la sua ostinazione. Si raccontava che una volta, durante una spedizione, di notte, egli tenesse banco sopra un cuscino e avesse una fortuna straordinaria. A un tratto erano risuonati degli spari ed era stato dato l'allarme. Tutti erano balzati in piedi e si erano precipitati alle armi. «Gioca tutta la posta!», gridò Vuliè a uno dei più accaniti puntatori. «Uscirà il sette», replicò quello correndo via. Nonostante la confusione generale, Vuliè terminò la mano e scoprì la carta.
Quando prese posto nella catena era in corso una violenta sparatoria. Vuliè però non si curò né delle pallottole né delle sciabole dei ceceni e andò a cercare il suo fortunato avversario.
«È uscito il sette!», gli urlò scorgendolo infine in una catena di fucilieri che stavano stanando il nemico dal bosco e, avvicinatosi, tirò fuori il borsellino e il portafoglio e glieli porse nonostante le sue rimostranze sull'inopportunità del pagamento. Adempiuto così questo spiacevole dovere si lanciò in avanti trascinandosi dietro i soldati e fino alla fine del combattimento col massimo sangue freddo scambiò fucilate con i ceceni.
Quando il tenente Vuliè si avvicinò al tavolo tutti si azzittirono aspettandosi da lui qualche sortita originale.
«Signori», fece lui (la sua voce era tranquilla sebbene il tono fosse più basso del consueto), «signori, perché discutere inutilmente? Volete delle prove? Vi propongo di provare su voi stessi se l'uomo può disporre a proprio arbitrio della propria vita, oppure se l'istante fatale di ciascuno di noi è stato fissato in anticipo... Chi è disposto?».
«Io no, io no!», si sentì esclamare da tutte le parti. «Ma guarda che tipo! Che razza di idee gli vengono in testa!...».
«Propongo una scommessa», dissi scherzando.
«Quale?».
«Scommetto che non esiste la predestinazione», dissi versando sul tavolo un paio di decine di monete d'oro: tutto quello che avevo in tasca.
«Accetto», rispose Vuliè con voce sorda. «Maggiore, voi farete da testimone; ecco quindici monete d'oro, altre cinque me le dovete voi e mi farete la cortesia di aggiungerle a queste».
«Va bene», disse il maggiore, «per quanto davvero non capisca in che cosa consista la scommessa... e come deciderete la questione ».
Vuliè, in silenzio, entrò nella stanza da letto del maggiore. Noi lo seguimmo. Si avvicinò alla parete alla quale erano appese delle armi e staccò a caso dal chiodo una delle pistole di vario calibro. Ancora non capivamo cosa avesse in mente, ma quando alzò il cane e versò la polvere nello scodellino, molti istintivamente lanciarono un grido e lo afferrarono per le braccia.
«Cosa vuoi fare? Ascoltaci, è una pazzia!», gli gridarono.
«Signori», rispose lentamente liberando le braccia, «chi vuole puntare venti monete d'oro su di me?».
Tutti tacquero e si scostarono.
Vuliè ritornò nell'altra stanza e si sedette al tavolo. Tutti lo seguirono: con un cenno ci invitò a sederci attorno a lui. In silenzio gli obbedimmo: in quel momento egli aveva acquisito una sorta di misterioso potere su di noi. Lo guardai fisso negli occhi, ma lui rispose al mio sguardo indagatore fissandomi a sua volta con uno sguardo tranquillo e fermo e le sue labbra pallide sorrisero. Tuttavia, nonostante il suo sangue freddo, mi parve di scorgere il segno della morte sul suo pallido viso: avevo notato, e molti vecchi soldati avevano confermato la mia osservazione, che sovente, sul volto dell'uomo che di lì a poco deve morire, appare una sorta di strana impronta del suo ineluttabile destino, cosicché un occhio esperto difficilmente si sbaglia.
«Tra poco morirete», gli dissi. Egli si voltò in fretta verso di me, ma rispose lentamente e con calma:
«Forse sì, e forse no...».
Poi rivolto al maggiore gli chiese se la pistola era carica. Il maggiore smarrito non se lo ricordava esattamente.
«Basta, Vuliè!», gridò qualcuno. «Si capisce che è carica, visto che era appesa al capezzale... Hai proprio voglia di scherzare! ».
«È uno scherzo stupido», aggiunse un altro.
«Scommetto cinquanta rubli contro cinque che la pistola non è carica!», gridò un altro.
Si fecero nuove scommesse.
Quella lunga cerimonia mi era venuta a noia.
«Ascoltate», dissi, «sparatevi, oppure riappendete la pistola al suo posto e andiamo a dormire».
«Ma sì», esclamarono molti, «andiamo a dormire».
«Signori, vi prego di non muovervi», disse Vuliè appoggiandosi la bocca della pistola alla fronte. Tutti rimasero impietriti.
«Signor Peèorin», aggiunse, «prendete una carta e lanciatela in aria».
Io presi dalla tavola, me lo ricordo come fosse ora, l'asso di cuori e lo lanciai in aria: tutti trattennero il respiro, tutti gli occhi con un'espressione di paura mista a una vaga curiosità correvano dalla pistola al fatale asso che volteggiando nell'aria scendeva lentamente. Nell'istante in cui toccò la tavola Vuliè premette il grilletto... cilecca!
«Dio sia ringraziato», esclamarono molti. «Non era carica...».
«Vediamo, tuttavia», disse Vuliè. Egli alzò nuovamente il cane e mirò a un berretto che era appeso sopra la finestra: echeggiò uno sparo e il fumo riempì la stanza! Quando si fu diradato andarono a staccare il berretto: era forato proprio nel mezzo e la pallottola si era conficcata profondamente nella parete.
Per tre minuti nessuno fu in grado di pronunciare una parola. Vuliè con la massima calma versò nel suo borsellino le mie monete d'oro.
Si cominciò a discutere perché la pistola non avesse sparato la prima volta; alcuni sostenevano che probabilmente lo scodellino era sporco, altri dicevano bisbigliando che prima la polvere era umida e che successivamente Vuliè ne aveva versata di asciutta, ma io assicurai che quest'ultima supposizione era ingiusta perché non avevo staccato gli occhi un momento dalla pistola.
«Siete fortunato al gioco», dissi a Vuliè...
«Per la prima volta in vita mia», rispose sorridendo soddisfatto. «È meglio del banco e del faraone».
«In compenso è un po' più pericoloso».
«Dunque cominciate a credere alla predestinazione?».
«Sì... soltanto adesso non capisco come mai ho avuto l'impressione che voi doveste immancabilmente morire...».
Quella stessa persona che un istante prima si era puntata tranquillamente la pistola alla fronte, ora improvvisamente avvampò e si turbò.
«Adesso basta», replicò alzandosi. «La nostra scommessa è terminata e ora le vostre osservazioni mi appaiono fuor di luogo...». E, preso il colbacco, uscì. La cosa mi parve strana, e non a caso!...
Presto tutti si avviarono per ritornare a casa commentando in varia maniera le bizzarrie di Vuliè e, verosimilmente, dandomi all'unanimità dell'egoista perché avevo scommesso contro un uomo che voleva spararsi: come se senza di me non potesse trovare l'occasione adatta!...
Feci ritorno a casa per i vicoli deserti del villaggio; la luna, piena e rossa come il riflesso di un incendio, cominciava a spuntare dietro il profilo dentellato delle case; le stelle brillavano placidamente sulla volta azzurro-scura del cielo e mi venne da ridere al pensiero che un tempo erano esistite delle persone saggissime che credevano che gli astri celesti prendessero parte alle nostre miserabili contese per un fazzoletto di terra o per non so quali immaginari diritti!... Ebbene? Queste lucerne, accese secondo la loro opinione soltanto per illuminare le loro battaglie e i loro trionfi, brillano con l'originario splendore, mentre le loro passioni e le loro speranze si sono spente da un pezzo assieme a loro, come un focherello acceso al margine della foresta da un viandante sbadato. Ma in compenso quale forza di volontà dava loro la convinzione che il cielo intero con i suoi innumerevoli abitanti li guardasse con partecipazione sia pure silenziosa, ma immutabile!... Noi, invece, loro miseri discendenti, che vaghiamo per la terra senza convinzioni e senza orgoglio, senza godimento e senza paura, all'infuori dell'istintivo timore che ci stringe il cuore al pensiero dell'inevitabile fine, non siamo più capaci di grandi sacrifici per il bene dell'umanità e nemmeno per la nostra propria felicità, perché ne conosciamo l'impossibilità, e indifferenti passiamo da un dubbio all'altro come i nostri antenati passavano da un'illusione all'altra, senza avere, come loro, speranze e neppure quell'indefinibile, sebbene autentico, piacere che l'animo trova in ogni lotta contro gli uomini o il destino.
Molti altri analoghi pensieri mi passarono per la mente, ma io non cercai di trattenerli perché non mi piace soffermarmi sui concetti astratti. A che serve?... Nella mia prima gioventù ero un sognatore: amavo accarezzare le immagini di volta in volta tetre o luminose che andava disegnando la mia inquieta e avida immaginazione. Ma cosa me ne è rimasto? Soltanto stanchezza come dopo una battaglia notturna contro un fantasma, e un confuso ricordo pieno di rimpianti. In quella vana lotta ho esaurito sia l'ardore dell'animo che la tenacia della volontà indispensabili per la vita reale; ho fatto l'ingresso in questa vita dopo averla già vissuta nel pensiero e ho provato noia e nausea come chi legge una cattiva imitazione di un libro che conosce già da un pezzo.
L'avvenimento di quella sera aveva prodotto su di me un'impressione abbastanza profonda e mi aveva eccitato i nervi; non so con certezza se credo ora alla predestinazione, oppure no, ma quella sera ci credevo fermamente: la dimostrazione era stata troppo lampante e io, benché ridessi dei nostri antenati e della loro compiacente astrologia, ne seguivo involontariamente le orme. Tuttavia mi arrestai a tempo su questa strada pericolosa e, avendo scelto come regola di non negare nulla categoricamente e di non credere a nulla ciecamente, misi da parte la metafisica e cominciai a guardarmi sotto i piedi. Una simile precauzione risultò molto a proposito perché per poco non caddi inciampando in qualcosa di grosso e molle, ma evidentemente privo di vita. Mi chino - la luna illuminava già completamente la strada - e cosa vedo? Davanti a me giaceva un maiale tagliato in due da una sciabolata... Ero appena riuscito a raccapezzarmi che udii un rumore di passi: due cosacchi arrivavano di corsa da un vicolo; uno di loro mi si avvicinò e mi domandò se avessi visto un cosacco ubriaco che inseguiva un maiale. Gli risposi che non avevo visto il cosacco e gli indicai la sventurata vittima del suo folle valore.
«Che brigante!», esclamò il secondo cosacco. «Ogni volta che si ingozza di èichìr', comincia a fare a pezzi tutto quello che gli capita. Inseguiamolo, Eremeiè, bisogna legarlo, altrimenti...».
I due si allontanarono e io proseguii il mio cammino con maggior circospezione e, finalmente, arrivai felicemente al mio alloggio.
Abitavo in casa di un vecchio urjadnik che amavo per il suo buon carattere e soprattutto per la sua graziosa figliola, Nastja.
Ella di solito mi aspettava, avvolta nella pelliccia, accanto al cancelletto; la luna illuminava i suoi graziosi labbruzzi illividiti dal freddo notturno. Sorrise riconoscendomi, ma io avevo altro per la testa. «Addio Nastja», le dissi passandole accanto. Lei avrebbe voluto rispondere qualcosa, ma si limitò a sospirare.
Richiusi dietro di me la porta della mia camera, accesi la candela e mi gettai sul letto; questa volta, però, il sonno si fece attendere più del consueto. L'oriente cominciava già a impallidire quando mi addormentai, ma evidentemente nei cieli era scritto che quella notte non sarei riuscito a dormire a sazietà. Alle quattro del mattino due pugni si misero a battere alla mia finestra. Balzai in piedi: che succedeva?... «Alzati, vestiti!», mi gridarono alcune voci. Mi vestii in fretta e uscii. «Sai cos'è successo?», mi chiesero a una voce i tre ufficiali che erano venuti a svegliarmi. Erano pallidi come cadaveri.
«Cosa?».
«Vuliè è stato ucciso».
Rimasi pietrificato.
«Sì, ucciso», proseguirono. «Andiamo, presto».
«Ma dove?».
«Te lo diremo per la strada».
Ci avviammo. Mi raccontarono tutto ciò che era accaduto con l'aggiunta di svariati commenti sulla strana forma di predestinazione che lo aveva salvato da una morte inevitabile mezz'ora prima di morire. Vuliè se ne andava da solo per la strada buia quando era piombato su di lui il cosacco che aveva fatto a pezzi il maiale, il quale, forse, sarebbe passato oltre senza notarlo, se Vuliè a un tratto, fermandosi, non gli avesse domandato: «Chi cerchi, fratellino?». «Te!», aveva risposto il cosacco colpendolo con la sciabola che lo aveva spaccato in due dalla spalla fin quasi al cuore... I due cosacchi nei quali mi ero imbattuto mentre inseguivano l'assassino erano arrivati subito dopo e avevano soccorso il ferito, ma questi stava già per esalare l'ultimo respiro e aveva detto soltanto due parole: «Aveva ragione!». Soltanto io comprendevo l'oscuro significato di quelle parole: si riferivano a me che involontariamente avevo predetto a quello sventurato il suo destino. Il mio istinto non mi aveva ingannato: avevo colto con precisione sul suo volto mutato il segno della fine imminente.
L'assassino si era asserragliato in una chata disabitata in fondo al villaggio. Ci stavamo recando laggiù. Una folla di donne correva piangendo nella stessa direzione. A tratti un cosacco ritardatario balzava fuori nella strada e, allacciandosi in fretta la cintura col pugnale, ci sorpassava correndo. La confusione era indescrivibile.
Giungemmo infine sul posto: attorno alla chata, le cui porte e finestre erano chiuse dall'interno, si accalcava la folla. Ufficiali e cosacchi discutevano animatamente fra loro; le donne ululavano cantilenando e levando lamentazioni. Tra esse mi colpì il volto espressivo di una vecchia sul quale era dipinta una folle disperazione; era seduta su una grossa trave con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e si sorreggeva la testa con le mani; era la madre dell'assassino. Le sue labbra a tratti si muovevano: era una preghiera che recitavano, o una maledizione?
Bisognava prendere una decisione e catturare l'assassino. Tuttavia nessuno aveva il coraggio di lanciarsi avanti per primo. Mi accostai a una finestra e guardai dentro attraverso una fessura di un'imposta: lui giaceva sul pavimento, pallido, stringendo una pistola nella mano destra; la sciabola insanguinata era posata accanto. I suoi occhi espressivi lanciavano sguardi terribili; a tratti sussultava e si afferrava la testa con le mani come se gli ritornassero alla mente confusamente gli avvenimenti della vigilia. Tuttavia non lessi in quello sguardo inquieto una grande risolutezza e dissi al maggiore che faceva male a non ordinare ai cosacchi di sfondare la porta e di irrompere là dentro, perché era meglio farlo subito che più tardi quando il cosacco sarebbe ritornato completamente in sé.
Nel frattempo l'anziano esaùl si avvicinò alla porta e lo chiamò per nome; lui rispose.
«Hai peccato, fratello Efimiè», disse l'esaùl, «quindi non c'è nulla da fare: arrenditi».
«Non mi arrenderò», rispose il cosacco.
«Abbi timor di Dio, tu non sei un dannato ceceno, ma un onesto cristiano. Rassegnati: sei caduto nel peccato e non c'è nulla da fare, non sfuggirai alla tua sorte».
«Non mi arrenderò!», urlò minacciosamente il cosacco e si udì lo scatto del cane della pistola che si alzava.
«Ehi, zietta», disse l'esaùl alla vecchia, «parla tu con tuo figlio: chissà che non ti ascolti... Così, infatti, non fa che accrescere la collera di Dio. E poi guarda: sono due ore che i signori aspettano».
La vecchia lo fissò e scosse il capo.
«Vasilij Petroviè», disse l'esaùl al maggiore, «non si arrenderà: lo conosco. Ma se sfondiamo la porta parecchi di noi verranno massacrati. Non sarebbe meglio che deste l'ordine di sparargli? Nell'imposta c'è una fessura molto larga».
In quell'istante mi balenò per la mente una strana idea: mi venne il ghiribizzo di tentare la sorte come aveva fatto Vuliè.
«Aspettate», dissi al maggiore. «Lo prenderò vivo».
Dopo aver dato disposizione all'esaùl di attaccare discorso con lui e di fare appostare tre cosacchi vicino alla porta, pronti a sfondarla e a lanciarsi in mio soccorso al segnale convenuto, feci il giro della chata e mi accostai alla fatale finestra. Il cuore mi batteva forte.
«Ehi, tu, maledetto», gridava l'esaùl. «Che fai? Ti prendi gioco di noi? Oppure pensi che non riusciremo ad aver ragione di te?». E si mise a bussare alla porta con tutte le proprie forze: io, accostato l'occhio alla fessura, seguivo i movimenti del cosacco che non si aspettava un attacco da quella direzione, e a un tratto divelsi l'imposta e mi lanciai dentro a capofitto. Uno sparo mi rimbombò proprio sopra l'orecchio e la pallottola mi strappò una spallina. Ma il fumo che aveva riempito la chata impedì al mio avversario di trovare la sciabola appoggiata accanto a lui. Lo afferrai per le braccia, i cosacchi irruppero nella stanza e in un batter d'occhio l'assassino fu legato e portato via sotto buona scorta. La folla si disperse. Gli ufficiali si congratularono con me, e davvero ce n'era ben donde!
Come non diventare fatalista, sembrerebbe, dopo tutto questo? Ma chi sa con sicurezza se è convinto di qualcosa, oppure no?... e quanto spesso scambiamo per convinzione un inganno dei sentimenti o un errore della ragione!...
Io amo dubitare di tutto: questa disposizione della mente non è d'impaccio alla risolutezza del carattere, al contrario; per quanto mi concerne vado avanti più arditamente quando ignoro che cosa mi attende. Nulla, infatti, può accadere di peggiore della morte, e la morte non si può evitare!
Ritornato alla fortezza raccontai a Maksìm Maksimyè tutto quello che mi era successo e a cui avevo assistito, ed espressi il desiderio di conoscere la sua opinione sulla predestinazione. Dapprima egli non comprese questa parola, ma io gliela spiegai come potei e allora, scuotendo significativamente la testa, disse:
«Sissignore! Si capisce! È un caso piuttosto bizzarro! D'altronde queste pistole asiatiche si inceppano spesso se sono mal lubrificate o se non si preme abbastanza forte il grilletto; confesso che non mi piacciono neppure le carabine circasse; non sono adatte a noi: il calcio è piccolo e non ci vuol nulla a bruciarsi In compenso alle loro sciabole... tanto di cappello!...».
Poi, dopo aver un po' riflettuto, aggiunse:
«Mi spiace per quel poveretto... Dev'esser stato il diavolo a spingerlo ad attaccar discorso con un ubriaco di notte!... D'altronde si vede che era stato scritto così fin dalla sua nascita...».
Non riuscii a cavargli altro di bocca: in generale egli non ama le elucubrazioni metafisiche.

ALTRE PROSE

PANORAMA DI MOSCA


Chi non è mai salito sulla cima di Ivàn Velikij e non ha mai avuto occasione di abbracciare con un solo sguardo, da un'estremità all'altra, la nostra vecchia capitale, chi non ha contemplato nemmeno una volta questo grandioso, quasi sconfinato panorama, non ha un'idea di Mosca, poiché Mosca non è una qualsiasi grande città come ce n'è migliaia, Mosca non e un muto ammasso di fredde pietre disposte in ordine simmetrico... no! Essa ha una sua anima, una sua vita. Come in un antico cimitero romano, ogni sua pietra serba un'iscrizione tracciata dal tempo e dal destino, un'iscrizione incomprensibile per la folla, ma ricca, traboccante di pensieri, di sentimenti e di ispirazione per il dotto, per il patriota e per il poeta!... Come l'oceano essa ha un suo linguaggio, un linguaggio potente, sonoro, sacro, venerando!... Non appena si leva il giorno, da tutte le sue chiese dalle cupole d'oro echeggia un concorde coro di campane, simile a una meravigliosa, fantastica ouverture di Beethoven, in cui il ruggito denso del contrabbasso e il fragore dei timpani si uniscono al canto del violino e del flauto, componendo un grandioso, unico insieme, e si ha l'impressione che i suoni incorporei prendano forma visibile, che gli spiriti del cielo e dell'inferno intreccino sotto le nubi un unico multiforme, infinito girotondo che ruoti vorticosamente!...
Oh, quale beatitudine porgere l'orecchio a questa musica ultraterrena dopo essersi arrampicati sulla più alta galleria di Ivàn Velikij, affacciati a una stretta finestra coperta di muschio, alla quale vi ha condotto una consunta e scivolosa scala a chiocciola, e pensare che tutta questa orchestra rimbomba sotto i vostri piedi, e immaginare che tutto questo è per voi soli, che siete i sovrani di questo mondo immateriale, e divorare con gli occhi questo enorme formicaio, dove si affannano persone a voi estranee, dove ribollono passioni da voi per un istante dimenticate!... Quale beatitudine abbracciare in un colpo solo con l'anima tutta la futile vita, tutte le meschine preoccupazioni dell'umanità, guardare il mondo dall'alto!
A nord, dinnanzi a voi, lontanissima, al limite dell'azzurro orizzonte, un po' a destra della fortezza Petrovski, nereggia la romantica foresta di Mar'in, davanti alla quale si distingue una distesa di tetti variopinti, intersecati qua e là dalla verzura polverosa dei viali costruiti al posto degli antichi bastioni cittadini. Su una ripida altura, cosparsa di basse casupole, tra le quali soltanto di rado spunta l'ampia parete bianca di qualche palazzo aristocratico, si erge la quadrata, fantastica mole grigio-azzurra della torre Suchareva. Essa guarda fieramente ciò che la circonda, come se sapesse che reca il nome di Pietro tracciato sulla fronte muscosa! Il suo cupo aspetto, le sue dimensioni gigantesche, le sue forme decise, tutto reca l'impronta di un'altra epoca, l'impronta di quel minaccioso potere a cui nulla poteva opporsi.
Avvicinandosi al centro della città gli edifici assumono un aspetto più armonioso, più europeo; si intravedono ricchi colonnati, ampi cortili circondati da inferriate, innumerevoli cupole di chiese, guglie di campanili con croci arrugginite e cornicioni variopinti.
Ancor più vicino, su una vasta piazza, sorge il teatro Petrovskij, creazione dell'arte più recente, un enorme edificio costruito secondo tutte le regole del gusto, dal tetto piatto e con un maestoso portico sul quale si innalza un Apollo di alabastro, appoggiato con un piede solo sopra un cocchio d'alabastro, che guida immobile tre cavalli d'alabastro e guarda con dispetto le mura del Cremlino che gelosamente lo separano dagli antichi luoghi sacri della Russia!...
A oriente il quadro è ancor più ricco e vario: oltre la muraglia, che a destra discende dalla collina e termina con una torre angolare rotonda, coperta da tegole verdi simili a squame, appaiono le innumerevoli cupole della chiesa del Beato Basilio, le cui settanta cappelle suscitano l'ammirazione di tutti gli stranieri mentre ancora nessun russo si è preso la briga di farne una dettagliata descrizione.
Essa, come l'antica torre di Babele, è costituita da numerose sporgenze che terminano con un'enorme cupola dentellata di color iridato, straordinariamente somigliante (se mi si perdona il paragone) al tappo di cristallo sfaccettato di un'antica bottiglia. Tutt'attorno a essa, su tutte le sporgenze dei diversi ripiani, è disseminata una moltitudine di cupole secondarie, assolutamente diverse l'una dall'altra e disposte per tutto l'edificio senza simmetria e senza ordine, come le propaggini di un vecchio albero che spuntano dalle sue radici sporgenti dal terreno.
Pesanti colonne tortili sostengono tettoie di ferro sospese sopra le porte e le gallerie esterne, da cui occhieggiano piccole finestre buie, simili alle pupille di un mostro dalle cento teste. Migliaia di capricciose decorazioni somiglianti a geroglifici ornano tutt'attorno queste finestre, attraverso i cui vetri, protetti da inferriate, raramente emana la propria luce una fioca lampada, come di notte la pacifica lucciola brilla in mezzo all'edera che avviluppa una torre in rovina. Ogni cappella è dipinta all'esterno con un colore diverso, come se esse non fossero state costruite nella medesima epoca, ma ogni signore di Mosca nel corso di molti anni ne avesse aggiunta una in onore del proprio angelo.
Sono pochissimi gli abitanti di Mosca che si sono decisi a fare il giro di tutte le cappelle di questo tempio. Il suo cupo aspetto incute nell'animo una sorta di angoscia: sembra di vedere davanti a sé Ivàn il Terribile in persona, ma quale egli fu negli ultimi anni della sua vita!
Eppure, accanto a questo splendido e tetro edificio, proprio davanti alle sue porte, brulica una folla sudicia, scintillano file di botteghe, gridano i venditori ambulanti, i fornai si affannano ai piedi del monumento eretto a Minin, rumoreggiano le carrozze alla moda, cicalano le signore alla moda... tutto è rumoroso, vivo, irrequieto!...
A destra del Beato Basilio, ai piedi di un ripido pendio, scorre poco profonda, ampia, sudicia, la Moscova, sfinita sotto il carico di un'infinità di pesanti battelli, carichi di grano e di legna da ardere. I loro lunghi alberi, coronati da banderuole a strisce spuntano da dietro il ponte Moskvoreckij e le loro sartie cigolanti e oscillanti al vento nereggiano appena, simili a ragnatele, sullo sfondo azzurro del cielo. Sulla riva sinistra del fiume biancheggia, specchiandosi nelle sue acque tranquille, l'orfanotrofio, le cui ampie mura disadorne, le cui finestre disposte simmetricamente, i cui comignoli e, in generale, l'aspetto occidentale si distinguono nettamente dagli edifici vicini, ornati con sfarzo orientale o intrisi dello spirito del medioevo. Più oltre, verso oriente, su tre colline tra le quali serpeggia il fiume, sorgono ampie masse di case di ogni possibile forma e colore; lo sguardo affaticato riesce a stento a raggiungere l'orizzonte sul quale si stagliano i complessi di alcuni monasteri, tra i quali particolarmente degno di nota è quello di San Simone per la sua terrazza quasi sospesa tra il cielo e la terra, dalla quale i nostri antenati osservavano i movimenti dei tartari che si avvicinavano.
A sud, sotto la collina, lambendo le mura del Cremlino, di fronte alla porta Tajnickie, scorre il fiume e al di là di esso un'ampia vallata cosparsa di case e di chiese si stende fino ai piedi della collina Poklonnaja, da cui Napoleone gettò il primo sguardo sul fatale Cremlino, da dove per la prima volta vide la sua fiamma fatidica: quel faro minaccioso che illuminò il suo trionfo e la sua caduta!
A occidente, oltre un'alta torre nella quale vivono e possono vivere soltanto le rondini (poiché essa, essendo stata costruita dopo i francesi, non ha al suo interno né solai né scale, e le sue pareti sono tenute assieme da travi incrociate), si elevano gli archi del ponte Kàmennyj, che si protende da una riva all'altra; l'acqua, trattenuta da una piccola diga fragorosa e spumeggiante, irrompe sotto di esso formando sotto le sue volte delle piccole cascate che sovente, specie in primavera, attirano la curiosità dei perdigiorno moscoviti, e talvolta accolgono nel proprio grembo il corpo di qualche povero peccatore. Oltre il ponte, sulla riva destra del fiume, si stagliano contro l'orizzonte le sagome merlate del monastero di Sant'Alessio, mentre sulla riva sinistra, su una spianata tra tetti di case di mercanti, scintillano le guglie del monastero di Dmitrij Donskoj... Laggiù poi, al di là di esso, rivestite di nebbia azzurrina, si levano dalle onde gelate del fiume le colline Vorob'ëvy, coronate di fitte selve. Esse specchiano le ripide pendici nel fiume che scorre ai loro piedi contorcendosi come un serpente rivestito di squame argentee.
Quando il giorno volge alla fine, quando una rosea foschia avvolge le parti più lontane della città e le colline circostanti, soltanto allora è possibile vedere la nostra antica capitale in tutto il suo splendore, poiché, a somiglianza di una bella che solo a sera mostra i suoi ornamenti migliori, soltanto in quest'ora solenne essa può produrre sull'anima una forte, incancellabile impressione.
Cosa si può paragonare a questo Cremlino che, circondato da mura merlate, adorno delle cupole dorate dei templi, è posato su un alto colle come la regale corona sulla fronte di un minaccioso sovrano?...
Esso è l'altare della Russia, su di esso debbono essere compiuti e sono stati già compiuti molti sacrifici degni della patria... È molto tempo, forse, che, a somiglianza della favolosa fenice, è risorto dalle sue ceneri fumanti?
Cosa c'è di più maestoso di questi cupi templi strettamente addossati gli uni agli altri, di questo misterioso palazzo di Godunov, le cui fredde colonne da tanti anni non sentono il suono della voce umana, simile a un funebre mausoleo eretto in mezzo al deserto a ricordo dei grandi sovrani?...
No, né il Cremlino, né le sue mura merlate, né i suoi oscuri anditi, né i suoi sfarzosi palazzi possono essere descritti... Bisogna vedere, vedere... Bisogna sentire tutto ciò che essi dicono al cuore e all'immaginazione!...

AŠIK-KERIB

Fiaba turca


Molto tempo fa nella città di Tiflìs viveva un ricco turco; molto oro Allah gli aveva dato, ma più cara dell'oro gli era l'unica figlia Magul'-Megeri: belle sono le stelle nel cielo, ma oltre le stelle abitano gli angeli ed essi sono ancora più belli, così anche Magul'-Megeri era più bella di tutte le altre fanciulle di Tiflìs. Viveva anche a Tiflìs il povero Ašik-Kerib: il Profeta non gli aveva dato nulla, eccetto un cuore magnanimo e il dono del canto; suonando la saaz (la balalajka turca) e glorificando gli antichi cavalieri del Turkestan girava per le nozze a rallegrare i ricchi e i fortunati; a una di queste feste di nozze vide Magul'-Megeri ed essi si innamorarono l'uno dell'altra. Poche speranze aveva il povero Ašik-Kerib di ottenere la mano di lei ed egli si fece triste come il cielo invernale.
Una volta se ne stava sdraiato in un orto sotto una vite e infine si addormentò; in quel mentre passò di lì Magul'-Megeri con le sue compagne e una di queste, vedendo l'ašik (il suonatore di balalajka) addormentato lasciò andare avanti le altre e gli si avvicinò: «Che fai addormentato sotto la vite», cantò lei, «alzati, insensato, la tua gazzella ti sta passando accanto»; egli si svegliò e la fanciulla volò lontano come un uccellino; Magul'-Megeri udì la sua canzone e prese a rimproverarla. «Se tu sapessi», rispose quella, «a chi ho cantato questa canzone mi ringrazieresti: è il tuo Ašik-Kerib». «Conducimi da lui», disse Magul'-Megeri, ed esse ci andarono. Vedendo il suo viso triste, Magul'-Megeri prese a fargli domande e a consolarlo. «Come posso non essere triste», rispose Ašik-Kerib, «io ti amo e tu non sarai mai mia». «Chiedi la mia mano a mio padre», disse lei, «e mio padre farà le nozze a sue spese e mi donerà tanto che basterà per tutti e due». «Bene», rispose lui, «mettiamo che l'ajan-aga sia disposto a ogni sacrificio per sua figlia, ma chi mi dice che poi tu non mi rinfaccerai che non avevo nulla e che ti devo tutto? No, cara Magul'-Megeri, ho fatto un giuramento a me stesso: prometto di andare pellegrino sette anni per il mondo e di diventare ricco, oppure di perire nei lontani deserti; se tu sei disposta a ciò, trascorso questo termine sarai mia». Ella acconsentì, ma soggiunse che se lui non fosse ritornato il giorno stabilito sarebbe divenuta la moglie di Kuršud-bek, che da tanto tempo la chiedeva in isposa.
Ašik-Kerib si recò da sua madre e si fece benedire per il viaggio, baciò la sorellina, si mise in spalla la bisaccia, prese il bordone da pellegrino e uscì dalla città di Tiflìs. Ma ecco che lo raggiunge un cavaliere: era Kuršud-bek. «Buon viaggio», gli gridò il bek, «dovunque tu vada, o pellegrino, io sarò il tuo compagno»; Ašik non era contento di tale compagnia, ma non ci fu nulla da fare; a lungo camminarono insieme, finché scorsero davanti a loro un fiume. Non c'era ponte né guado. «Attraversa tu per primo», disse Kuršud-bek, «io ti seguirò». Ašik si tolse la veste e si gettò a nuoto; arrivato sull'altra sponda si voltò indietro e, oh sciagura! oh Allah onnipotente! Kuršud-bek, presa la sua veste, era partito al galoppo verso Tiflìs e si vedeva soltanto una nuvola di polvere, simile a una serpe, innalzarsi dietro di lui nella piatta pianura. Arrivato a Tiflìs il bek portò la veste di Ašik-Kerib alla vecchia madre di lui: «Tuo figlio è affogato in un fiume profondo», le dice, «ecco la sua veste»; con indicibile dolore si gettò la madre sulla veste dell'amato figlio irrorandola di calde lacrime; poi la prese e la portò alla promessa nuora, Magul'-Megeri. «Mio figlio è affogato», le disse, «Kuršud-bek mi ha portato la sua veste; sei libera». Magul'-Megeri sorridendo le rispose: «Non crederci, sono tutte invenzioni di Kuršud-bek; prima che siano trascorsi sette anni nessuno sarà mio marito». E presa dalla parete la sua saaz tranquillamente si mise a cantare la canzone preferita del povero Ašik-Kerib.
Nel frattempo il pellegrino era giunto nudo e scalzo in un villaggio; alcune anime buone lo vestirono e lo nutrirono ed egli in cambio cantò loro meravigliose canzoni; così andava di villaggio in villaggio, di città in città, e la sua fama si diffuse ovunque. Giunse infine ad Halaf; come al solito si recò alla casa del caffè, chiese una saaz e cominciò a cantare. In quel tempo risiedeva ad Halaf il pascià, il quale amava moltissimo i cantori: molti ne avevano condotti da lui, ma nessuno gli era piaciuto; i suoi èauši erano esausti a furia di correre per la città; a un tratto, passando accanto alla casa del caffè, sentono una voce meravigliosa; si precipitano dentro: «Vieni con noi dal gran pascià», gridarono, «o ci risponderai di ciò con la testa». «Io sono un uomo libero, un pellegrino proveniente dalla città di Tiflìs», gli fa Ašik-Kerib, «se ne ho voglia ci vado, altrimenti no; canto quando mi pare e il vostro pascià non è il mio padrone»; tuttavia lo presero e lo condussero dal pascià. «Canta», gli disse il pascià, ed egli si mise a cantare. In quella canzone cantò la sua cara Magul'-Megeri e quella canzone piacque tanto all'altero pascià che fece restare presso di sé il povero Ašik-Kerib. Fu ricoperto d'argento e d'oro, presero a scintillare su di lui ricche vesti e Ašik-Kerib cominciò a vivere allegramente e felicemente e divenne molto ricco; se avesse dimenticato o meno la sua Magul'-Megeri, non lo so, ma il termine si avvicinava, l'ultimo anno presto sarebbe finito, ed egli neppure si preparava a partire. La bellissima Magul'-Megeri cominciò a disperarsi; in quel mentre si accingeva a partire da Tiflìs un mercante con una carovana di quaranta cammelli e ottanta schiavi: ella chiama a casa sua il mercante e gli dà un piatto d'oro: «Prendi questo piatto», gli dice, «e in ogni città nella quale tu giunga, esponilo sopra il tuo banco e annuncia ovunque che colui che si riconoscerà padrone del mio piatto, e dimostrerà questo, lo avrà e in aggiunta il suo peso in oro». Si mise in viaggio il mercante e ovunque eseguiva l'incarico di Magul'-Megeri, ma nessuno si riconobbe padrone del piatto d'oro. Dopo aver venduto quasi tutte le sue merci egli giunse con quel che gli rimaneva ad Halaf e annunciò ovunque l'incarico avuto da Magul'-Megeri. Udendo ciò, Ašik-Kerib accorre al caravanserraglio e vede il piatto d'oro sopra il banco del mercante di Tiflìs. «È mio», disse afferrandolo con la mano. «È proprio tuo», disse il mercante, «io ti ho riconosciuto, Ašik-Kerib: va, dunque subito a Tiflìs, la tua Magul'-Megeri ha ordinato di dirti che il termine sta per scadere e che se, per il giorno stabilito, tu non sarai arrivato, ella sposerà un altro». Disperato Ašik-Kerib si afferrò la testa: mancavano soltanto tre giorni all'ora fatale. Tuttavia montò in sella, prese con sé una bisaccia piena di monete d'oro e parti al galoppo senza risparmiare il cavallo; infine il corsiero sfinito cadde senza vita sul monte Arzingan, che si trova tra Arzin'jan e Arzerum. Che poteva fare? Da Arzin'jan a Tiflìs ci sono due mesi di viaggio e restavano soltanto due giorni. «Allah onnipotente», esclamò, «se non mi aiuti, io non ho più nulla da fare sulla terra», e voleva gettarsi da un'alta rupe, ma a un tratto vede in basso un uomo sopra un cavallo bianco e ode una voce tonante: «Oglan, cosa vuoi fare?». «Voglio morire», rispose Ašik-Kerib. «Scendi giù, se è così, e io ti ucciderò». Ašik discese in qualche modo dalla rupe. «Vienimi dietro», disse minacciosamente il cavaliere. «Come posso seguirti», rispose Ašik, «il tuo cavallo vola come il vento e io sono appesantito dalla bisaccia». «È vero; appendi dunque la tua bisaccia alla mia sella e seguimi», ma, per quanto si sforzasse di correre, Ašik-Kerib rimase indietro: «Perché rimani indietro?», domandò il cavaliere. «Come faccio a seguirti? Il tuo cavallo è più veloce del pensiero e io sono già esausto». «È vero, monta in groppa dietro a me e dimmi tutta la verità: dove devi andare?». «Mi basterebbe arrivare almeno ad Arzerum», rispose Ašik. «Allora chiudi gli occhi». Egli li chiuse. «Adesso aprili». Ašik guarda: davanti a lui biancheggiavano le mura e scintillavano i minareti di Arzerum. «Perdonami, aga», disse Ašik, «mi sono sbagliato, volevo dire che mi occorre andare a Kars». «Bada», replicò il cavaliere, «ti avevo avvertito di dirmi la verità; chiudi di nuovo gli occhi, adesso riaprili». Ašik non voleva credere che quella fosse Kars: si gettò in ginocchio e disse: «Perdonami, aga, tre volte colpevole è il tuo servo Ašik-Kerib: ma tu stesso sai che se un uomo si è deciso a mentire dal mattino, deve mentire fino a che il giorno sia finito: in realtà devo andare a Tiflìs». «Come sei bugiardo!», esclamò incollerito il cavaliere, «ma non fa niente: ti perdono. Chiudi dunque gli occhi. Ora riaprili», aggiunse dopo un istante. Ašik lanciò un grido di gioia: erano alle porte di Tiflìs. Dopo avergli espresso la sua sincera gratitudine e aver preso la sua bisaccia dalla sella, Ašik-Kerib disse al cavaliere: «Aga, naturalmente il beneficio che mi hai fatto è grande, ma fa, ancor di più: se ora racconterò di essere arrivato in un giorno da Arzerum a Tiflìs, nessuno mi crederà; dammi qualche prova». «Chinati», rispose quello sorridendo, «prendi una zolla di terra dallo zoccolo del cavallo e riponila in seno, e se non crederanno alle tue parole, allora ordina che conducano da te la cieca che già da sette anni è in questo stato; spalmale gli occhi ed ella vedrà». Ašik prese una zolla di terra dallo zoccolo del cavallo bianco, ma appena rialzò la testa il cavaliere e il cavallo erano scomparsi; allora nel suo animo si convinse che il suo protettore non era altri che Chaderilijaz (San Giorgio).
Soltanto a tarda sera Ašik-Kerib giunse a casa sua: bussa alla porta con mano tremante e dice: «Ana, ana (madre), apri: sono un ospite mandato da Dio, ho freddo e sono affamato; ti prego, in nome del tuo figliolo errante, lasciami entrare». «Per ospitare i viandanti ci sono le case dei ricchi e dei potenti: ora in città si celebrano delle nozze: va, laggiù; là potrai trascorrere la notte nell'agio». «Ana», rispose lui, «io qui non conosco nessuno e perciò ti ripeto la mia preghiera: per amore del tuo figliolo errante lasciami entrare». Allora sua sorella dice alla madre: «Madre, mi alzerò e gli aprirò la porta». «Svergognata», replicò la vecchia, «tu sei lieta di accogliere i giovanotti e di far loro onore perché sono ormai sette anni che per le lacrime ho perso la vista». Ma la figlia, senza badare ai suoi rimbrotti, si alzò, aprì la porta e fece entrare Ašik-Kerib: dopo aver pronunciato il saluto d'uso, egli si sedette e con segreta trepidazione cominciò a guardarsi intorno e vide che alla parete era appesa in una polverosa custodia la sua dolcesonante saaz. E cominciò a domandare a sua madre: «Che cos'hai lì appeso alla parete?». «Sei curioso, ospite», replicò lei, «è fin troppo che ti diano un pezzo di pane e che domani ti mandino con Dio». «Ti ho già detto», ribatté lui, «che tu sei la mia madre carnale e che questa è mia sorella, e perciò ti prego di spiegarmi che cosa sta appeso alla parete». «È una saaz, una saaz», rispose la vecchia adirata non credendogli. «Cosa significa saaz?». «Saaz significa che su di essa si suona e si cantano delle canzoni». E Ašik-Kerib la prega di permettere alla sorella di staccare la saaz e di mostrargliela. «Non si può», rispose la vecchia. «È la saaz del mio sventurato figlio e sono già sette anni che sta appesa alla parete e nessuna mano di vivente l'ha mai toccata». Ma la sorella si alzò, staccò dalla parete la saaz e gliela diede. Allora egli alzò gli occhi al cielo e formulò questa preghiera: «Oh Allah onnipotente! Se debbo raggiungere il fine desiderato, la mia saaz dalle sette corde sarà altrettanto bene accordata che il giorno in cui ho suonato su di lei per l'ultima volta». Percosse le corde di rame ed esse risuonarono armoniosamente; ed egli cominciò a cantare: «Io sono un povero kerib (mendicante) e anche le mie parole sono povere, ma il grande Chaderilijaz mi ha aiutato a scendere dalla scoscesa rupe sebbene io sia povero e siano povere le mie parole. Riconoscimi, madre, sono il tuo pellegrino». Dopo di ciò sua madre scoppiò a piangere e gli domandò: «Come ti chiami?». «Rašid» (valoroso), rispose lui. «Una volta parla, un'altra volta ascolta, Rašid», disse lei. «Con le tue parole hai fatto a pezzi il mio cuore. Stanotte in sogno ho visto che i capelli sulla testa mi si sbiancavano e sono già sette anni che sono diventata cieca per le lacrime: dimmi, tu, che hai la sua voce, quando tornerà mio figlio?». E due volte piangendo gli ripeté la domanda. Invano egli disse che era suo figlio, ella non gli credette e, dopo un po', lui le chiede: «Permettimi, madre, di prendere la saaz e di andare, ho sentito che qui vicino c'è una festa di nozze: mia sorella mi accompagnerà, canterò e suonerò e tutto quello che riceverò lo porterò qui e lo dividerò con voi». «Non lo permetterò», rispose la vecchia; «da quando non c'è mio figlio la sua saaz non è uscita dalla casa». Ma egli giurò e spergiurò che non avrebbe danneggiato nemmeno una corda. «E se una corda si romperà», continuò Ašik, «ne risponderò con tutti i miei averi». La vecchia tastò le sue bisacce e, avvedendosi che erano piene di monete, lo lasciò uscire. Dopo averlo accompagnato fino alla ricca casa dove rumoreggiava il banchetto nuziale, la sorella rimase presso la porta ad ascoltare quel che sarebbe accaduto.
In quella casa viveva Magul'-Megeri che quella notte doveva diventare la sposa di Kuršud-bek. Kuršud-bek banchettava con i parenti e gli amici, mentre Magul'-Megeri, seduta dietro una ricca èapra (tenda) con le sue amiche, teneva in mano una tazza piena di veleno e nell'altra un acuminato pugnale: aveva giurato di morire prima di posare il suo capo sul talamo di Kuršud-bek. Ma da dietro la tenda ella sente che è giunto uno sconosciuto che dice: «Seljam alejkjum: qui voi fate festa e banchettate, permettete dunque a me, povero pellegrino, di sedere con voi e in cambio vi canterò una canzone». «Perché no?», replicò Kuršud-bek. «Qui devono essere fatti entrare i cantori e i danzatori, perché qui c'è una festa di nozze: canta dunque qualcosa, ašik, e io ti congederò con un'intera manciata d'oro».
Allora Kuršud-bek gli domandò: «Ma come ti chiami, viandante?». «Šndy-Gërursez (presto lo saprete)». «Che razza di nome è mai questo?», esclamò l'altro ridendo. «È la prima volta che sento un nome del genere!». «Quando mia madre era pregna di me e soffriva per le doglie, molti vicini venivano alla porta a domandare se Dio le avesse dato un figlio o una figlia e rispondevano loro: "šndy-gërursez (presto lo saprete)". Ecco perché quando sono nato mi hanno dato questo nome». Dopo di che prese la saaz e cominciò a cantare.
«Nella città di Chalaf bevevo vino di Misr, ma Dio mi ha dato le ali e sono volato fin qui in un giorno».
Il fratello di Kuršud-bek, uomo poco perspicace, estrasse il pugnale ed esclamò: «Sei un bugiardo: come si può arrivare fin qui da Chalaf in un giorno?».
«Perché mi vuoi uccidere?», disse Ašik. «Di solito si fanno venire i cantori da tutti e quattro gli angoli del mondo e io non vi domando nulla, credetemi oppure non credetemi».
«Lascia che continui», disse lo sposo e Ašik-Kerib ricominciò a cantare:
«Il namaz del mattino l'ho fatto nella valle di Arzin'jan, quello di mezzogiorno nella città di Arzrum; prima che calasse il sole ho fatto il namaz nella città di Kars e quello della sera a Tiflìs. Allah mi ha dato le ali ed io sono volato qui; Dio mi conceda di cadere vittima del cavallo bianco: esso galoppava veloce come un danzatore sulla corda, di monte in valle, di valle in monte: il Mauljam (il Creatore) ha dato ad Ašik le ali ed egli è volato alle nozze di Magul'-Megeri».
Allora Magul'-Megeri, riconoscendo la sua voce, gettò il veleno in un canto e il pugnale in un altro. «Allora hai mantenuto il tuo giuramento», dissero le sue amiche; «dunque stanotte diverrai la sposa di Kuršud-bek». «Voi non l'avete riconosciuta, ma io ho riconosciuto la voce a me cara», rispose Magul'-Megeri, e, afferrate le forbici, tagliò la èapra. Quando ebbe guardato ed ebbe riconosciuto il suo Ašik-Kerib, ella lanciò un grido, si precipitò ad abbracciarlo ed entrambi caddero svenuti. Il fratello di Kuršud-bek si scagliò su di loro col pugnale, intenzionato a trafiggere entrambi, ma Kuršud-bek lo fermò dicendo: «Acquetati e sappi che quel che è scritto in fronte all'uomo alla sua nascita non lo si può evitare».
Ritornata in sé, Magul'-Megeri arrossì di vergogna, si coprì il viso con la mano e si nascose dietro la èapra.
«Adesso si può vedere con sicurezza che tu sei Ašik-Kerib», disse lo sposo, «ma dicci come hai potuto in così poco tempo percorrere una così grande distanza». «A riprova della verità», rispose Ašik, «la mia scimitarra taglierà in due una pietra, se invece mento che il mio collo sia più sottile di un capello; ma meglio di tutto conducetemi la cieca che da sette anni non ha visto la luce di Dio e io le restituirò la vista». La sorella di Ašik-Kerib, che era ritta presso la porta, sentendo queste parole corse dalla madre. «Madre!», gridò. «È di certo mio fratello ed è di certo tuo figlio Ašik-Kerib», e presala sottobraccio, condusse la vecchia al banchetto nuziale. Allora Ašik tirò fuori la zolla di terra che serbava in seno, la ammorbidì con dell'acqua e la spalmò sugli occhi della madre dicendo: «Sappiate tutti quanto è potente e grande Chaderilijaz», e la madre lo vide. Dopo di ciò nessuno osò dubitare della verità delle sue parole e Kuršud-bek gli cedette senza discutere la bellissima Magul'-Megeri.
Allora in preda alla gioia Ašik-Kerib gli disse: «Ascolta, Kuršud-bek, io ti consolerò: mia sorella non è più brutta della tua precedente fidanzata, io sono ricco: ella avrà non meno oro e argento; dunque prendila e siate altrettanto felici che io con la mia cara Magul'-Megeri».

IL CAUCASIANO

Innanzitutto, che cos'è precisamente un caucasiano e quali tipi di caucasiani esistono?
Il caucasiano è un essere metà russo e metà asiatico; l'inclinazione ai costumi orientali prende in lui il sopravvento, ma se ne vergogna in presenza di estranei, ossia di persone che vengono dalla Russia. Per lo più ha tra i trenta e i quarantacinque anni, il suo viso è abbronzato e un po' butterato, e se non è capitano in seconda è certamente maggiore. I veri caucasiani li trovate sulla Linea; al di là delle montagne, in Georgia, essi hanno caratteristiche leggermente diverse; i caucasiani borghesi sono rari; essi per lo più sono una maldestra imitazione e se tra loro incontrate un caucasiano vero si tratta senz'altro di un medico di reggimento.
Il caucasiano vero è una persona straordinaria, degna di ogni rispetto e simpatia. Fino a diciott'anni è stato educato nel corpo dei cadetti divenendo un ottimo ufficiale; di nascosto, durante le lezioni, leggeva Il prigioniero del Caucaso infiammandosi di passione per il Caucaso. Con dieci compagni è stato mandato laggiù a spese dell'erario con grandi speranze e un piccolo bagaglio. Ancora a Pietroburgo si è fatto confezionare un achalùk e si è procurato un irsuto colbacco e un frustino circasso da carrettiere. Arrivato a Stavropol' ha acquistato a caro prezzo uno scadente pugnale e i primi giorni, finché non si è stancato, lo ha portato alla cintura giorno e notte. Infine si è presentato al suo reggimento acquartierato per l'inverno in qualche villaggio cosacco e qui si è innamorato, com'è di prammatica, di una cosacca fino all'inizio delle operazioni: tutto bellissimo! Quanta poesia! Poi sono partiti per una spedizione e il nostro giovane si precipitava ovunque sentisse fischiare una pallottola. Pensa di acciuffare con le sue mani un paio di decine di montanari, sogna spaventose battaglie e le spalline da generale. In sogno compie imprese eroiche, ma il sogno si è rivelato assurdo: il nemico non si vede, i combattimenti sono rari e, con suo grande rammarico, i montanari non resistono alle baionette, non si danno prigionieri e portano via i cadaveri dei loro caduti. Per contro d'estate fa un caldo estenuante e in autunno si gela e si sprofonda nel fango. Che noia! Sono volati via cinque o sei anni: sempre la stessa musica! Ha acquistato esperienza, è diventato freddamente coraggioso e ride dei novellini che si espongono al pericolo senza necessità.
Intanto, benché il suo petto sia coperto di decorazioni, le promozioni non arrivano. È diventato cupo e taciturno; se ne sta seduto a fumare una minuscola pipetta e nelle ore di libertà legge Marlinskij e dice che è un ottimo autore; non si presenta più volontario per le spedizioni: la vecchia ferita gli duole! Le cosacche non lo ammaliano più, un tempo ha sognato una piccola circassa prigioniera, ma adesso ha dimenticato anche questo sogno quasi irrealizzabile. In compenso in lui è nata una nuova passione e a questo punto è diventato un autentico caucasiano.
Ecco com'è sorta in lui questa passione: negli ultimi tempi ha fatto amicizia con un circasso pacifico e ha cominciato a recarsi a trovarlo al suo villaggio. Alieno dalle raffinatezze della vita mondana e cittadina, ha preso ad amare la vita semplice e selvaggia; lui che non conosce la storia della Russia e la politica europea, si è appassionato alle poetiche tradizioni di quel popolo guerriero. Ha compreso a fondo l'indole e i costumi dei montanari, ha imparato i nomi dei loro eroi e le genealogie delle loro principali famiglie. Sa quale principe è fidato e quale è un furfante, tra chi vi è amicizia e tra chi odio mortale. Capisce senza fatica il tartaro, si è procurato una sciabola, un'autentica gurdà, un pugnale, un antico bazalaj, una pistola cesellata dell'Oltre-Kubàn', un'eccellente carabina di Crimea che lubrifica lui stesso, un cavallo - un autentico šalloch - e un costume completo da circasso, che indossa solo nelle grandi occasioni e che gli è stato regalato da una principessa selvaggia. La sua passione per tutto ciò che è circasso in lui arriva fino all'inverosimile. È pronto a stare a discutere un giorno intero con un sudicio uzdén' di un vecchio ronzino o di una carabina arrugginita e gli piace molto iniziare gli altri ai misteri delle usanze asiatiche. Gli sono capitati svariati casi straordinari ed è pronto a parlarne per ore e ore. Quando un novellino acquista un'arma o un cavallo dal suo amico uzdén', egli si limita a sorridere sotto i baffi. Ecco come si esprime a proposito dei montanari: «È brava gente, solo che sono davvero degli asiatici! I ceceni, certo, sono canaglie, in compenso i kabardini sono proprio in gamba; anche tra gli sciapsughi c'è gente per bene, però non li si può confrontare con i kabardini: non sanno né vestirsi altrettanto bene né andare a cavallo... per quanto siano puliti, molto puliti!».
Bisogna avere i pregiudizi di un caucasiano per trovare qualcosa di pulito in una saklja circassa!
L'esperienza delle lunghe spedizioni non gli ha insegnato l'ingegnosità propria in generale agli ufficiali dell'esercito; egli fa sfoggio della propria incuria e dell'abitudine a sopportare i disagi della vita militare; porta con sé soltanto una teiera e raramente sul suo fuoco durante i bivacchi cuociono gli šèi. Sia nella calura che quando si gela porta sotto la giubba un achalùk imbottito di ovatta e in testa un colbacco di montone; ha una forte prevenzione contro i cappotti a favore della burka: la burka è la sua toga, nella quale si paluda; la pioggia gli cola dentro il colletto, il vento vi penetra - non fa niente! La burka immortalata da Puškin, da Marlinskij e dal ritratto di Ermolov non abbandona mai le sue spalle; egli dorme su di essa e con essa copre il suo cavallo; ricorre ad astuzie ed espedienti di ogni genere pur di procurarsi un'autentica burka di Andij, specialmente bianca col bordo nero in basso, dopo di che guarda gli altri con un certo disprezzo. A suo dire, il suo cavallo tiene il galoppo straordinariamente a lungo, perciò egli non accetterà di fare con voi una galoppata di quindici verste soltanto. Sebbene a volte il servizio militare gli riesca molto gravoso si è imposto come regola di esaltare la vita nel Caucaso, perciò dirà a chiunque che il servizio militare nel Caucaso è assai piacevole.
Ma gli anni passano in fretta; il caucasiano ha già quarant'anni e ha voglia di tornare a casa. Se non è stato ferito ecco come procede talvolta: durante una sparatoria mette la testa dietro a un masso ed espone le gambe per la pensione, questa espressione laggiù è ormai consacrata dall'uso. Una pallottola caritatevole lo colpisce a un piede e lui è felice. Il collocamento a riposo e la pensione seguono immancabilmente, lui compra un carretto, vi attacca un paio di rozze da sella e pian piano si mette in viaggio verso la patria, fermandosi sempre tuttavia alle stazioni di posta per scambiare quattro chiacchiere con i viaggiatori di passaggio. Incontrandolo indovinate subito che è un caucasiano vero: neppure nel governatorato di Voronež si toglie il pugnale o la sciabola per quanto gli siano di impaccio. Il maestro di posta lo ascolta con rispetto e soltanto a questo punto l'eroe in pensione si permette di fare un po' il gradasso e di inventare delle frottole. Nel Caucaso egli è modesto, ma, in effetti, in Russia chi gli dimostrerà che un cavallo non può galoppare d'un fiato per duecento verste e che nessun fucile può colpire nel segno a quattrocento sašén' di distanza? Ma, ahimè! per lo più egli lascia le sue ossa in terra di infedeli. Si sposa di rado, ma se il destino fa gravare sulle sue spalle il peso di una consorte, fa di tutto per farsi assegnare a una guarnigione e finisce i suoi giorni in qualche fortezza dove la moglie lo preserva dall'abitudine, fatale per il russo.
Ancora due parole, ora, per gli altri caucasiani, i falsi. Il caucasiano di Georgia si distingue da quello vero perché ama molto il vino di Kachetija e gli ampi šarovary di seta. Il caucasiano borghese si veste di rado in costume asiatico; egli è caucasiano più in spirito che nel corpo: si interessa alle scoperte archeologiche, discetta sull'utilità del commercio con i montanari e dei metodi per assoggettarli e incivilirli. Dopo aver prestato servizio laggiù alcuni anni solitamente ritorna in Russia con un grado e un naso rosso.

TOSS

1

In casa del conte V. si svolgeva una serata musicale. I migliori artisti della capitale pagavano con la loro arte l'onore di essere ricevuti in una dimora aristocratica; fra gli ospiti c'erano alcuni letterati e uomini di scienza, due o tre bellezze alla moda, alcune signorine e vecchiette e un ufficiale della guardia. Circa una decina di «leoni» locali faceva bella mostra di sé sulla porta del secondo salone e accanto al camino. Tutto procedeva nel modo abituale, non ci si annoiava né ci si divertiva.
Nel preciso istante in cui la cantante arrivata di recente in Russia si avvicinava al pianoforte e apriva lo spartito, una giovane donna sbadigliò, si alzò e si trasferì nella stanza accanto che in quel momento si era svuotata. Indossava un abito nero in occasione, credo, di un lutto di corte. Sulla spalla, appuntato a un nastro azzurro, scintillava un monogramma di brillanti. Era snella e di statura media, i suoi movimenti erano lenti e pigri, i lunghi meravigliosi capelli neri ombreggiavano il viso regolare, ancor giovane, ma pallido, sul quale brillava l'impronta del pensiero.
«Buona sera, m'sjè Lugin», disse la Minskaja a qualcuno. «Sono stanca... ditemi qualcosa», e si lasciò cadere su un ampio divano accanto al camino: colui a cui si era rivolta si sedette di fronte a lei senza rispondere. Nella stanza c'erano soltanto loro due e il freddo silenzio di Lugin dimostrava chiaramente che egli non apparteneva al novero dei suoi adoratori.
«Che noia!», esclamò la Minskaja e sbadigliò di nuovo. «Come vedete, con voi non faccio cerimonie!», aggiunse.
«Anch'io ho lo spleen!», rispose Lugin.
«Avete di nuovo voglia di recarvi in Italia!», disse lei dopo un attimo di silenzio. «Non è vero?».
Lugin non udì la domanda e, accavallando le gambe l'una sull'altra e appuntando gli occhi istintivamente sulle spalle bianche come marmo della sua interlocutrice, proseguì:
«Figuratevi che disgrazia mi capita, non ci può esser nulla di peggio per un uomo che, come me, si è consacrato alla pittura! Sono ormai due settimane che tutte le persone mi sembrano gialle, e soltanto le persone! Pazienza se fosse così per tutti gli oggetti, in tal caso ci sarebbe un'armonia generale di colori, mi parrebbe di camminare in una galleria di quadri della scuola spagnola. E invece no! Tutto il resto è come prima, soltanto le facce sono mutate; a volte mi pare che la gente sulle spalle al posto delle teste abbia dei limoni».
La Minskaja sorrise. «Chiamate il dottore», replicò.
«I dottori non mi sarebbero di alcun giovamento: è lo spleen!».
«Innamoratevi!». (Nello sguardo che accompagnò questa parola era espresso qualcosa che all'incirca significava: «Vorrei tormentarlo un po'!»).
«Di chi?».
«Di me, magari!».
«No! Voi vi annoiereste perfino a civettare con me, e poi, ve lo dico francamente, nessuna donna può amarmi».
«E quella contessa italiana - come si chiamava? - che da Napoli vi ha seguito fino a Milano?...».
«Ecco, vedete», rispose meditabondo Lugin, «io giudico gli altri in base a me stesso e sotto questo rispetto sono convinto di non sbagliarmi. È vero che mi è accaduto di suscitare in talune donne tutti i sintomi della passione, ma dato che so perfettamente che devo questo soltanto all'arte e all'abitudine di toccare al momento opportuno tutte le corde del cuore umano, non mi rallegro della mia felicità. Mi sono domandato se mi potrei innamorare di una donna brutta, la risposta è stata: no. Io sono brutto e, di conseguenza, una donna non può amarmi, è chiaro. Il sentimento artistico nelle donne è più sviluppato che in noi ed esse soggiaciono più sovente e più a lungo di noi alla prima impressione. Se sapevo far nascere in talune ciò che chiamano un capriccio, la cosa mi costava fatiche e sacrifici inenarrabili, ma poiché sapevo la falsità del sentimento da me ispirato e ringraziavo di esso soltanto me stesso, nemmeno io riuscivo ad abbandonarmi a un amore pieno e senza calcoli; alla mia passione si mescolava sempre un po' di malvagità: tutto ciò è triste, ma vero!...».
«Che sciocchezze!», esclamò la Minskaja, ma esaminandolo con una rapida occhiata involontariamente convenne con lui.
L'aspetto di Lugin era, in effetti, tutt'altro che attraente. Benché nella strana espressione dei suoi occhi ci fosse molto fuoco e molta intelligenza, in tutto il suo essere non avreste rilevato nemmeno una di quelle doti che rendono una persona gradevole in società: era di fattezze rozze e sgraziate, parlava in modo brusco e a scatti, i capelli radi e malati sulle tempie e il colorito disuguale del volto, sintomi di una perenne e segreta infermità, lo facevano apparire più vecchio di quanto non fosse in realtà. Era stato tre anni in Italia per curare la sua ipocondria e, sebbene non fosse guarito, per lo meno aveva trovato un modo per distrarsi con profitto: si era appassionato alla pittura. L'innato talento, in precedenza represso a causa dei doveri del servizio, aveva potuto svilupparsi ampiamente e liberamente sotto il benefico cielo meridionale al cospetto dei meravigliosi monumenti degli antichi maestri. Era ritornato autentico artista, sebbene soltanto gli amici avessero il privilegio di godere del suo splendido ingegno. Nei suoi quadri spirava sempre un certo sentimento confuso ma doloroso: c'era in essi il sigillo di quella amara poesia che il nostro povero secolo spremeva a volte dal cuore dei suoi primi profeti.
Erano ormai due mesi che Lugin era tornato a Pietroburgo. Aveva un patrimonio che lo rendeva indipendente, pochi parenti e alcune antiche conoscenze nell'alta società della capitale dove intendeva trascorrere l'inverno. Si recava spesso in casa della Minskaja: la sua bellezza, la rara intelligenza, l'originale modo di vedere le cose non potevano mancare di fare impressione su un uomo dotato di intelletto e di immaginazione. Ma di amore tra loro non se ne parlava nemmeno.
La conversazione per un po' si interruppe ed entrambi sembravano intenti ad ascoltare la musica. La cantante forestiera eseguiva Il re degli olmi, la ballata di Schubert su parole di Goethe. Quando ebbe finito, Lugin si alzò.
«Dove andate?», gli domandò la Minskaja.
«Addio».
«È ancora presto».
Egli si sedette di nuovo.
«Sapete», disse con una sorta di gravità, «che comincio a uscire di senno?».
«Davvero?».
«Scherzi a parte. Questo a voi lo posso dire, voi non riderete di me. Sono già alcuni giorni che odo una voce. Qualcuno mi ripete di continuo all'orecchio, dalla mattina alla sera... e sapete che cosa? Un indirizzo... Ecco, lo sento anche adesso: "Vicolo Stoljarnyj, presso il ponte Kokuškin, casa del consigliere titolare Štoss, appartamento numero 27". E così alla svelta, così alla svelta... come se avesse fretta... Una cosa insopportabile!».
Egli impallidì, ma la Minskaja non se ne accorse.
«E voi vedete chi parla?», domandò distrattamente.
«No. Ma è una voce squillante, tagliente, in falsetto».
«Quando è cominciato?».
«A dire il vero non sono in grado di dirlo con sicurezza... non saprei... è davvero una cosa assai buffa!», rispose con un sorriso forzato.
«Il sangue vi affluisce alla testa, vi ronzano le orecchie?».
«No, no. Mi insegnerete come liberarmene?».
«Il modo migliore», disse la Minskaja dopo aver riflettuto un istante, «è andare al ponte Kokuškin, cercare questa casa e, dato che, probabilmente, in essa vive qualche ciabattino o un orologiaio, per decenza ordinargli qualche lavoro. Poi, ritornato a casa, mettetevi a letto perché... in effetti siete malato!...», aggiunse dopo aver lanciato uno sguardo pieno di sollecitudine al suo viso sconvolto.
«Avete ragione», rispose cupamente Lugin. «Ci andrò immancabilmente».
E, alzatosi, prese il cappello e uscì.
Lei lo seguì con lo sguardo stupefatta.


2

Su Pietroburgo gravava un'umida mattinata di novembre. La neve bagnata cadeva a larghe falde, le case sembravano sporche e scure, i volti dei passanti erano verdastri, i vetturini ai posteggi sonnecchiavano sotto le pellicce rossicce delle loro slitte, il lungo pelame bagnato delle loro povere rozze si arricciava come astrachan, la nebbia dava agli oggetti lontani un colorito grigio-violaceo. Lungo i marciapiedi solo di tanto in tanto si udiva lo scalpiccio delle calosce di un impiegato e talvolta risuonavano rumori e risate provenienti da una birreria in un seminterrato quando ne cacciavano fuori qualche giovanotto ubriaco in cappotto di feltro verde e berretto di incerata. È ovvio che in scene del genere avreste potuto imbattervi soltanto nei quartieri periferici della città, come ad esempio... presso il ponte Kokuškin. Sopra questo ponte camminava un uomo di media statura, né grasso né magro, non ben fatto, ma dalle spalle larghe, col cappotto e, nell'insieme, vestito con gusto; si provava pena a vedere i suoi stivaletti di vernice imbrattati di neve e di fango, ma pareva che di ciò egli non si curasse affatto. Con le mani infilate nelle tasche, a capo basso, camminava con andatura ineguale, come se avesse paura di raggiungere la propria meta o non ne avesse alcuna. A metà del ponte si arrestò, sollevò la testa e si guardò attorno. Era Lugin. Sul suo viso sciupato erano visibili le tracce di una stanchezza spirituale e nei suoi occhi brillava una nascosta inquietudine.
«Dov'è il vicolo Stoljarnyj?», domandò con voce esitante a un vetturino senza clienti che in quell'istante gli passava accanto al passo, avviluppato fino al collo nella villosa pelliccia e fischiettando una kamàrinskaja.
Il vetturino lo guardò, toccò leggermente il cavallo con la punta della frusta e passò oltre.
La cosa gli parve strana. Esisteva poi questo vicolo Stoljarnyj? Egli scese dal ponte e rivolse la stessa domanda a un ragazzo che con un mezzo boccale in mano stava attraversando di corsa la strada.
«Stoljarnyj?», ripeté il ragazzo. «Andate diritto per la Màlaja Mešèànskaja e svoltate subito a destra: il primo vicolo che incontrate è lo Stoljarnyj».
Lugin si tranquillizzò. Arrivato all'angolo svoltò a destra e scorse un breve vicolo sporco, su ciascuno dei lati del quale non c'erano più di dieci alte case. Bussò alla porta della prima botteguccia di merceria e, chiamato il bottegaio, domandò:
«Dov'è la casa di Štoss?».
«Di Štoss? Non lo so, signore, qui non c'è; qui accanto c'è la casa del mercante Blìnnikov e più avanti ».
«Ma a me serve quella di Štoss...».
«Non saprei... Di Štoss...», disse il bottegaio grattandosi la nuca, e poi aggiunse: «No, mai sentito!».
Lugin si mise a guardare i nomi sulle porte; qualcosa gli diceva che avrebbe riconosciuto la casa al primo sguardo, sebbene non l'avesse mai vista. Arrivò così fin quasi in fondo al vicolo, ma nessuna scritta colpì la sua immaginazione, quando a un tratto gettò casualmente lo sguardo dall'altra parte della strada e scorse sopra un portone una targa di latta senza alcuna scritta.
Si accostò di corsa a quel portone e per quanto aguzzasse lo sguardo non riuscì a distinguere nulla che assomigliasse nemmeno alla traccia di un'iscrizione cancellata dal tempo; la targa era nuova di zecca.
Sotto il portone un custode con un lungo caffetano sbiadito, con una barba bianca di più giorni, senza colbacco e un grembiule sudicio alla vita, spazzava la neve.
«Ehi, custode», gridò Lugin.
Il custode borbottò qualcosa fra i denti.
«Di chi è questa casa?».
«Venduta!», rispose sgarbatamente l'altro.
«Ma di chi era prima?».
«Di chi era? Del mercante Kifejkin».
«Non può essere, era sicuramente di Štoss!», esclamò involontariamente Lugin.
«No, era di Kjfejkin e adesso è di Štoss!», replicò il custode senza sollevare la testa.
A Lugin caddero le braccia.
Il suo cuore si mise a palpitare come presentendo una disgrazia. Doveva continuare le sue ricerche? Non era forse meglio fermarsi finché era in tempo? Chi non si è mai trovato in una situazione simile, difficilmente lo capirà: si dice che la curiosità sia stata la rovina del genere umano, anche oggi essa è la prima e la principale delle nostre passioni, tanto che addirittura con essa si possono spiegare tutte le altre. Ma ci sono casi in cui la misteriosità dell'oggetto dà alla curiosità un potere straordinario: docili a essa, come una pietra scagliata da una montagna da un forte braccio, non possiamo fermarci, sebbene vediamo il precipizio che ci attende.
Lugin rimase a lungo immobile davanti al portone. Finalmente domandò al custode:
«Il nuovo proprietario abita qui?».
«No».
«E dove abita?».
«Lo sa il diavolo».
«Fai il custode qui da molto tempo?».
«Sì».
«Ci sono inquilini in questa casa?».
«Sì».
«Dimmi, per favore», disse Lugin dopo un attimo di silenzio, porgendo al portiere una moneta da un rublo, «chi abita al numero ventisette?».
Il custode appoggiò la scopa al portone, prese il rublo e guardò fisso Lugin.
«Al ventisette?... chi volete che ci abiti? Dio sa da quanto tempo è vuoto!».
«Dunque nessuno l'ha mai preso in affitto?».
«Come no, signore! L'hanno preso...».
«Come mai allora dici che nessuno ci abita!».
«Lo sa Dio! Non ci abitano. Lo prendono in affitto per un anno ma non ci vengono ad abitare».
«Chi è l'ultimo che l'ha preso in affitto?».
«Un colonnello del Genio, mi sembra!».
«E perché non ci ha abitato?».
«Ci era venuto ad abitare... ma poi, si dice, l'hanno trasferito a Vjatka e così l'appartamento è rimasto vuoto».
«E prima del colonnello?».
«Prima di lui l'aveva preso in affitto un certo barone tedesco, ma non ci è mai venuto ad abitare; dicono che sia morto».
«E prima del barone?».
«Lo aveva preso in affitto un mercante per una sua... ehm! Ma ha fatto fallimento e così la caparra è rimasta a noi...».
«Strano!», pensò Lugin.
«Si può vedere l'appartamento?».
Il custode lo guardò di nuovo fisso.
«Come no, certo!», replicò e oscillando di qua e di là andò a prendere le chiavi.
Dopo un attimo fu di ritorno e guidò Lugin al secondo piano su per una scala larga, ma abbastanza sporca. La chiave stridette nella serratura arrugginita e la porta si aprì. Un soffio umido spirò loro in viso. Entrarono. L'appartamento era costituito da quattro camere e da una cucina. Vecchi mobili polverosi, un tempo dorati, erano disposti regolarmente lungo le pareti coperte di parati sui quali, su uno sfondo verde, erano raffigurati dei pappagalli rossi e delle lire color oro; le stufe di maiolica presentavano qua e là delle fessure; il pavimento di pino, dipinto a parquet, qua e là scricchiolava in maniera sospetta; sulle pareti, fra le finestre e le porte, erano appesi degli specchi ovali con cornici rococò. In generale le stanze avevano un aspetto strano, d'altri tempi.
Chissà perché, a Lugin piacquero.
«Prendo io questo appartamento», disse. «Fa, lavare le finestre e spolverare i mobili... guarda quante ragnatele! E poi bisogna riscaldarlo per bene...». In quell'istante notò sulla parete dell'ultima stanza un ritratto a mezzo busto che rappresentava un uomo sulla quarantina con una vestaglia di Bucharà, dai tratti regolari e dai grandi occhi grigi; nella mano destra reggeva una tabacchiera d'oro di grandezza fuori del comune. Alle dita facevano bella mostra di sé una moltitudine di anelli di ogni genere. Sembrava che il ritratto fosse stato dipinto da una mano incerta, da allievo: l'abito, i capelli, la mano, gli anelli erano resi molto male; in compenso l'espressione del viso, specialmente delle labbra, dava una così strana impressione di vita che non si riusciva a staccarne gli occhi: nella linea della bocca c'era una sorta di impercettibile piega, inaccessibile all'arte e certo colta inconsapevolmente, che dava al viso un'aria irridente, triste, cattiva e tenera assieme. Non vi è mai accaduto di ravvisare, su un vetro ghiacciato, oppure nell'ombra frastagliata gettata su una parete da un oggetto qualunque, il profilo di un volto umano, a volte di inconcepibile bellezza, a volte incredibilmente ripugnante? Provate a trasferirli sulla carta! Non ci riuscirete; provate a disegnare con la matita sulla carta la silhouette che vi ha tanto colpito: tutto l'incanto svanirà. La mano dell'uomo non riuscirà mai a produrre intenzionalmente queste linee: uno scostamento matematicamente minimo - e l'espressione originaria è irrimediabilmente perduta. Nel volto del ritratto spirava precisamente quell'elemento inesplicabile che è accessibile soltanto al genio o al caso.
«Strano che io abbia notato questo ritratto soltanto nell'istante in cui ho detto che prendevo l'appartamento!», pensò Lugin.
Si sedette su una poltrona, appoggiò la testa sulla mano e si perse dietro ai propri pensieri.
Il custode rimase a lungo in piedi davanti a lui agitando le chiavi.
«Allora, signore?», profferì infine.
«Eh?».
«Cosa decidete? Se prendete l'appartamento, allora favorite la caparra».
Si accordarono sul prezzo. Lugin versò la caparra, mandò qualcuno a casa propria con l'ordine di traslocare immediatamente e dal canto suo rimase seduto davanti al ritratto fino a sera; alle nove le cose più necessarie erano state trasportate dall'albergo dove aveva abitato fino a quel momento.
«Sciocchezze che non sia possibile abitare in questo appartamento», pensò Lugin. «Si vede che non era destino che i miei predecessori vi si trasferissero. Naturalmente è strano, ma io ho preso le mie misure: ho traslocato immediatamente! Ebbene? Nulla!».
Fino a mezzanotte fu indaffarato assieme al vecchio cameriere Nikita a sistemare le proprie cose... Bisogna aggiungere che si scelse come camera da letto la stanza dove era appeso il ritratto.
Prima di coricarsi si accostò con una candela al ritratto, desiderando osservarlo ancora una volta per bene, e in basso, al posto del nome del pittore, lesse, scritto a lettere rosse la parola mercoledì.
«Che giorno è oggi?», domandò a Nikita.
«Lunedì, signore ».
«Dopodomani è mercoledì!» disse distrattamente Lugin.
«Proprio così, signore!...».
Dio sa perché Lugin si arrabbiò con lui.
«Vattene fuori!», gridò battendo il piede per terra.
Il vecchio Nikita scosse la testa e uscì.
Dopo di ciò Lugin si coricò e si addormentò.
Il giorno successivo portarono le altre sue cose e alcuni quadri da lui iniziati.


3

Tra i quadri non finiti, per lo più piccoli, ce n'era uno di dimensioni abbastanza notevoli; in mezzo alla tela abbozzata a carboncino e a pastello, sopra uno sfondo verde-bruno, lo schizzo di una testina femminile avrebbe attirato l'attenzione di un intenditore, ma, nonostante la grazia del disegno e la vivacità del colorito, essa colpiva sgradevolmente per qualcosa di indeterminato nell'espressione degli occhi e del sorriso. Era evidente che Lugin l'aveva ridipinta in vari modi senza arrivare mai a rimanerne soddisfatto, infatti in vari angoli della tela appariva la stessa testina cancellata col colore bruno. Non si trattava di un ritratto; forse, a somiglianza dei giovani poeti che sospirano per una bella inesistente, egli si sforzava di realizzare sulla tela il suo ideale di donna-angelo, capriccio comprensibile nella prima giovinezza, ma raro in un uomo che abbia fatto una qualche esperienza della vita. Tuttavia ci sono persone nelle quali l'esperienza dell'intelletto non agisce sul cuore, e Lugin apparteneva al novero di queste creature sventurate e poetiche. Il più raffinato furfante, la più consumata civetta, difficilmente avrebbero potuto ingannarlo, ma egli si ingannava da sé quotidianamente con l'ingenuità di un bambino. Da qualche tempo lo perseguitava un'idea fissa, tormentosa e insopportabile, tanto più che la cosa feriva il suo amor proprio: era tutt'altro che un bell'uomo, questo è vero, tuttavia in lui non c'era nulla di ripugnante e le persone che conoscevano la sua intelligenza, il suo talento e la sua bontà d'animo trovavano persino abbastanza gradevole l'espressione del suo viso; ciononostante egli si era fermamente convinto che la sua bruttezza fosse tale da escludere ogni possibilità di amore e aveva cominciato a guardare alle donne come alle sue naturali nemiche, sospettando motivi nascosti nelle loro occasionali attenzioni e spiegando in maniera volgare e positiva la loro più evidente benevolenza. Non starò a indagare fino a che punto egli avesse ragione, ma fatto sta che una tale disposizione di spirito giustifica sufficientemente l'amore fantastico per un ideale aereo, l'amore più innocente e al contempo più dannoso per un uomo fornito di immaginazione.
Quel giorno, cioè martedì, a Lugin non accadde nulla di particolare: rimase in casa fino a sera, benché avesse la necessità di recarsi in un certo posto. Un'inesplicabile pigrizia si era impadronita di tutti i suoi sentimenti: voleva dipingere - i pennelli gli cadevano di mano; provava a leggere - il suo sguardo scivolava sopra le righe senza vedere quel che vi era scritto; provava ora gran caldo, ora gran freddo, gli doleva la testa, gli tintinnavano le orecchie. Quando cominciò a scendere la sera, non ordinò di portargli la candela e si sedette accanto a una finestra che dava sul cortile; il cortile era buio; in casa dei vicini poveri le finestre erano fiocamente illuminate. Rimase seduto a lungo. Improvvisamente nel cortile si udì un organetto che suonava un vecchio valzer tedesco; Lugin ascoltava, ascoltava, preso da una spaventosa malinconia. Si mise a passeggiare per la stanza; una straordinaria inquietudine si impadronì di lui; aveva voglia di piangere, di ridere... si gettò sul letto e scoppiò in singhiozzi: gli si presentò alla mente tutto il suo passato, ricordò quanto sovente era stato ingannato, quanto sovente aveva fatto del male proprio a coloro che amava, quale selvaggia gioia a volte aveva inondato il suo cuore alla vista delle lacrime da lui provocate negli occhi che ora erano chiusi per sempre, e con terrore si rese conto di essere indegno di un amore sincero e senza calcoli, e fu oppresso da una tale tristezza, da una tale angoscia!
Verso mezzanotte si calmò; si sedette a tavolino, accese una candela, prese un foglio di carta e si mise a disegnare qualcosa; attorno a lui tutto taceva. La candela ardeva di una luce chiara e tranquilla; disegnò la testa di un vecchio e quando ebbe finito fu colpito dalla somiglianza di quella testa con qualcuno che conosceva! Sollevò gli occhi verso il ritratto appeso di fronte a lui: la somiglianza era sorprendente; involontariamente sussultò e si voltò indietro: gli era parso che la porta che dava sul salotto vuoto avesse cigolato; i suoi occhi non potevano staccarsi da essa.
«Chi è là?», gridò.
Dietro la porta si udì un fruscio, come di pantofole; un calcinaccio cadde dalla stufa sul pavimento.
«Chi è?», ripeté con voce fievole.
In quell'istante, pian piano, silenziosamente, entrambi i battenti della porta cominciarono ad aprirsi; una folata fredda penetrò nella stanza; la porta si era aperta da sola; l'altra stanza era buia come una cantina.
Quando la porta fu completamente aperta, nel vano di essa comparve una figura in vestaglia a righe e pantofole; era un vecchietto canuto e curvo che avanzava lentamente a gambe un po' piegate; il suo viso pallido e allungato era immobile, le labbra serrate, gli occhi grigi e offuscati, orlati di rosso, guardavano nel vuoto. Il vecchio si sedette al tavolo dirimpetto a Lugin, tirò fuori due mazzi di carte, ne depose uno davanti a Lugin e uno davanti a sé, e sorrise.
«In che posso servirvi?», domandò Lugin col coraggio della disperazione. I suoi pugni erano spasmodicamente serrati ed era pronto a scagliare il candeliere contro l'indesiderato ospite.
Sotto la vestaglia echeggiò un sospiro.
«È insopportabile!», esclamò Lugin con voce strozzata. La mente gli si confondeva.
Il vecchietto si agitò sulla sedia; tutta la sua figura mutava a ogni istante: ora si faceva più alto, ora più grasso, ora piccolissimo; infine riprese il suo aspetto primitivo.
«Bene», pensò Lugin, «se è un'apparizione non gliela darò vinta».
«Non vorreste che tenessi banco per una partita a faraone?», domandò il vecchietto.
Lugin prese il mazzo posato davanti a lui e rispose con tono ironico:
«E che cosa ci giochiamo? Vi avverto che non punterò la mia anima su una carta!» (Con questa frase pensava di mettere in imbarazzo l'apparizione). «Se volete», continuò, «scommetterò una moneta d'oro; non penso che nei vostri banchi ultraterreni si usino queste poste».
Il vecchietto non fu affatto sconcertato dallo scherzo.
«Ecco, il banco punta questo!», replicò facendo segno con la mano.
«Questo?», ripeté Lugin spaventato guardando a sinistra. «Che cos'è?». Accanto al vecchio ondeggiava qualcosa di bianco, indistinto e trasparente. Lugin distolse lo sguardo con ripugnanza.
«Date le carte», disse poi riprendendosi e, tirata fuori dalla tasca la moneta, la posò sulla carta. «Ho puntato, una nera».
Il vecchietto si inchinò, mescolò le carte, le tagliò e cominciò a distribuirle. Lugin scoprii un sette di quadri e la sua carta fu battuta subito; il vecchietto protese la mano e prese la moneta d'oro.
«Un'altra mano!», disse con rabbia Lugin.
L'altro scosse la testa.
«Che significa questo?».
«Mercoledì», replicò il vecchietto.
«Ah! Mercoledì!», esclamò fuori di sé Lugin. «Neanche per sogno! Mercoledì non voglio! Domani o mai più, mi senti?».
Gli occhi dello strano ospite ebbero un bagliore penetrante e di nuovo si agitò inquietamente.
«Bene», disse infine e, alzatosi, si inchinò e uscì camminando a gambe piegate. La porta, di nuovo si richiuse silenziosamente dietro di lui, di nuovo nella stanza accanto si udì un fruscio di pantofole... e a poco a poco tutto ritornò silenzioso. Lugin si sentiva pulsare il sangue nella testa come un martello; uno strano sentimento gli agitava e rodeva l'anima. Provava rabbia e umiliazione per aver perso!...
«Tuttavia non gliel'ho data vinta!», si diceva cercando di consolarsi. «Sono stato più testardo di lui. Mercoledì! Ci mancherebbe altro! Non sono pazzo! Bene, molto bene!
Con me costui non la passerà liscia.
«Però come assomiglia a questo ritratto!... è tremendamente, tremendamente somigliante! Ah! Adesso capisco!...".
Dopo queste parole si addormentò sulla poltrona. L'indomani non fece parola con nessuno di quanto gli era accaduto e rimase in casa tutto il giorno attendendo febbrilmente la sera.
«Tuttavia non ho guardato bene che cosa avesse messo come posta!», pensò. «Certamente qualcosa di inconsueto!».
Quando giunse la mezzanotte, Lugin si alzò dalla sua poltrona, uscì nella stanza accanto, chiuse a chiave la porta che dava nell'ingresso e ritornò nella sua camera. La sua attesa non durò molto: di nuovo si udirono il fruscio delle pantofole e la tosse del vecchio, e sulla porta apparve la sua figura morta. Dietro a lui se ne muoveva un'altra, ma così nebulosa che Lugin non riuscì a distinguerne la forma.
Il vecchietto si sedette, posò sul tavolo, come il giorno precedente, due mazzi di carte, ne tagliò uno e si accinse a distribuire, non attendendosi, evidentemente, alcuna resistenza da parte di Lugin. Negli occhi gli brillava una straordinaria sicurezza, come se leggesse il futuro. Lugin, come inebetito dal potere magnetico di quegli occhi grigi, stava già per gettare sul tavolo due mezzi imperiali, quando a un tratto ritornò in sé.
«Permettete», disse, coprendo con la mano il proprio mazzo.
Il vecchietto sedeva immobile.
«Cosa volevo dire? Permettete sì!». Lugin perse il filo.
Infine, facendo uno sforzo, profferì lentamente:
«Va bene giocherò con voi, accetto la sfida, non ho paura, ma a una condizione: voglio sapere con chi sto giocando! Qual è il vostro nome?».
Il vecchietto sorrise.
«Altrimenti non gioco», disse Lugin e intanto la sua mano tremante estraeva dal mazzo la carta.
«Cosa?», domandò lo sconosciuto sorridendo ironicamente.
«Štoss? Chi?». Lugin si sentì cadere le braccia, si era spaventato. In quell'istante avvertì accanto a sé l'alito fresco e profumato di qualcuno, un impercettibile fruscio, un involontario sospiro e un lieve, ardente contatto. Uno strano palpito, dolce e febbrile assieme, gli corse per le vene. Per un attimo girò la testa e subito puntò di nuovo lo sguardo sulle carte, ma bastò quello sguardo fugace per fargli perdere l'anima. Era una meravigliosa, divina visione: china sopra la sua spalla splendeva una testina di donna; le sue labbra imploravano, nei suoi occhi c'era una malinconia inesprimibile... Ella spiccava sopra le pareti buie della stanza come la stella del mattino sui vapori del cielo a oriente. Mai la vita aveva prodotto nulla di così etereo e celestiale, mai la morte aveva rapito al mondo nulla in cui la fiamma della vita bruciasse così ardente: non era un essere terreno, erano colori e luce al posto delle forme e del corpo, alito caldo al posto del sangue, pensiero al posto del senso; non si trattava neppure di un vano e ingannevole fantasma... perché dalle sue forme indistinte spiravano passione tempestosa e avida, desiderio, tristezza, amore, paura, speranza. Era una di quelle fanciulle meravigliose che ci dipinge l'immaginazione giovanile, dinanzi alle quali, agitati da sogni ardenti, ci inginocchiamo piangendo, pregando e rallegrandoci Dio sa di cosa; uno di quegli esseri divini creati dall'anima giovanile, quando, per l'esuberanza delle forze, plasma per sé una nuova natura, migliore e più completa di quella a cui essa è incatenata.
In quell'istante Lugin non avrebbe saputo spiegare che cosa gli accadesse, ma da quell'istante decise che avrebbe giocato fin che non avesse vinto; quello era diventato lo scopo della sua vita, e ne era felicissimo.
Il vecchietto cominciò a dare le carte: quella di Lugin venne battuta. La mano esangue di nuovo si allungò sulla tavola a prendere i due mezzi imperiali.
«A domani», disse Lugin.
Il vecchietto sospirò penosamente, ma accennò con la testa in segno di assenso e uscì come la vigilia.
Ogni notte per tutto un mese questa scena si ripeté e ogni notte Lugin perdette, ma non gli dispiaceva per il denaro, era convinto che alla fine almeno una volta avrebbe avuto la carta buona, e perciò raddoppiava sempre la puntata. Stava perdendo molto, ma in compenso ogni notte per un istante incontrava uno sguardo e un sorriso per i quali sarebbe stato pronto a dare ogni cosa al mondo. Era dimagrito e ingiallito terribilmente. Rimaneva in casa giornate intere chiuso nel suo studio; sovente non pranzava. Attendeva la sera come un amante un appuntamento, e ogni sera era ricompensato da uno sguardo più tenero, da un sorriso più amorevole; pareva che lei, non so come chiamarla, prendesse parte trepidando al giuoco e attendesse con impazienza l'istante in cui sarebbe stata liberata dal giogo dell'insopportabile vecchio; e ogni volta che la carta di Lugin veniva battuta e lui con sguardo triste si volgeva verso di lei, quegli occhi appassionati e profondi lo fissavano e pareva dicessero: «Coraggio, non perderti d'animo, aspetta, io sarò tua, a qualunque costo! Io ti amo...», e una crudele, silenziosa tristezza copriva le sue mutevoli sembianze. E ogni sera, quando si separavano, il cuore di Lugin si stringeva dolorosamente di disperazione e di rabbia. Era già costretto a vendere degli oggetti per poter continuare a giocare e capiva che non era lontano il momento in cui non avrebbe avuto più nulla da puntare sulla sua carta. Bisognava prendere una decisione, ed egli la prese.