LETTERA A MARIA

Betinho


Betinho (1935-1997), diminutivo di Herbert de Souza, fu un importante sociologo brasiliano e un militante politico negli anni ’60, si rifugiò nel Cile di Salvador
Allende in seguito al Colpo Militare del 1964.  Emofiliaco contrasse il virus HIV attraverso una trasfusione di sangue infetto. I suoi due fratelli, il vignettista satirico Henfil e il cantautore Chico Mário morirono nelle stesse circostanze qualche anno prima di lui. Betinho è stato il più eminente leader delle recenti campagne contro la fame e la miseria nel Brasile, anche noto come il “Don Chisciotte brasiliano”.  L’ultimo suo desiderio prima di morire fu un bicchiere di birra gelata, alla brasiliana.

Questa lettera, scritta alla moglie Maria pochi giorni prima della sua scomparsa, è stata resa nota un anno dopo la sua morte, durante una cerimonia nel Centro Culturale Banco do Brasil, a Rio de Janeiro:

Una lettera a Maria

Questo testo è per Maria affinché lo legga dopo la mia morte, cosa che, secondo i miei calcoli, non tarderà molto a venire. E’ una dichiarazione d’amore.

Non ho fretta di morire, come non ne ho di finire questa lettera. La riprenderò le volte che mi sarà possibile e lavorerò con attenzione e cura ad ogni sua parola. Una lettera a Maria richiede, infatti, ogni premura. Non ne voglio una triste, voglio renderla un frammento di vita attraverso il ricordo che è la nostra eternità.


Noi due ci conoscemmo alle riunioni dell’AP (Aliança Popular – il movimento della sinistra extraparlamentare brasiliana) nel 1970, in una fase di condiviso Maoismo. Regnava allora un’atmosfera di settarismo e di paura, per niente propizia all’amore. Prima di tentare l’approccio con lei ho fatto un po’ d’indagini, i segnali erano promettenti anche se misteriosi.

In qualche modo il nostro rapporto doveva iniziare. Fu sull’autobus Vila das Belezas, a San Paolo. Siamo scesi verso la fine della linea come chi cerca un inizio. Lì ci siamo dati il primo bacio, goffo, schiacciato, ma piacevole, un bacio pubblico. Il muro della nostra distanza era finalmente abbattuto per dare inizio ad un rapporto che ha già compiuto 26 anni!

Il Maoismo era in Cina, il nostro amore nel Viale São João. Era molto più forte di qualunque ideologia.


Era la vita dentro di noi, sacrificata da una clandestinità senza senso e senza futuro. Andammo a vivere in un minuscolo locale con cucina, relegato al fondo di una casa molto povera, vicino all’Igreja da Penha. C’era appena lo spazio per il nostro letto, un piccolo tavolo e per gli utensili della cucina, nient’altro. Ma come facemmo l’amore a quei tempi! È stato veramente incredibile. Non ci capitò mai più di provare tanto piacere.


Erano tempi di piombo, di paura, spavento e d’insicurezza. Allarme durante il giorno, amore durante la notte. E’ così che abbiamo vissuto per quasi un anno. Fino a quando tutto cominciò a vacillare, braccato dalla polizia politica. E poi prigioni, torture, poliziotti da tutte le parti, l’inferno dinanzi a noi. E’ allora che ci rifugiammo in Cile. Lì fui chiamato da Garcez a redigere dei testi, i quali ottennero poi il favore di Allende che li usò nei suoi discorsi ufficiali. È stata la prima volta che ho visto l’amore farsi discorso politico...


Successero molte cose prima del nostro ritorno. Prima che l’amnistia arrivasse e ci sorprendesse.

E ora, cosa farne del Brasile?

Fu un turbine di emozioni: il sogno è diventato realtà! Era vero, ora il Brasile era nostro un’altra volta! La prima cosa che abbiamo fatto è stata saziarci di tutto quello che non avevamo potuto mangiare in esilio: polenta! con pollo al sugo pardo, il quiabo con carne macinata, il chuchu con maxixe, la zucca, il cozido, la feijoada. Un festival di saudades culinarie, un ritrovarsi col Brasile attraverso la bocca.

Una delle più grandi emozioni della mia vita è stato vedere il nostro Henrique sorgere da dentro di te. Emozione senza fine e senza limite che mi ha fatto ritrovare l’infanzia. Dopo l’esilio, le nostre vite diventarono vite comuni. Lavoravamo, viaggiavamo durante le vacanze, facevamo visita agli amici, l’Ibase* funzionava e persino l’emofilia sembrava avermi dato una tregua. Henrique cresceva, Daniel a poco a poco si riavvicinava a me, come un figlio e un amico.


Ma, come una tragedia che avanza impercettibilmente per arrivare alla fine a spodestare le nostre vite, eravamo di fronte a qualcosa che mai avrei potuto immaginare. L’AIDS.

Nel 1985 comincia a diffondersi la notizia di un’epidemia che faceva le sue vittime tra omosessuali, drogati e emofiliaci. Il panico fu generale. Ed io, chiaramente, non avrei potuto non prenderne parte.

Non era stato sufficiente l’essere nato nel Minas Gerais, cattolico, emofiliaco, maoista e mezzo deficiente fisico. Era anche necessario partecipare al movimento mondiale, la piaga del secolo, micidiale, definitiva, incurabile. Ed è stato allora che tu, più che mai, mi hai rivelato che eri in grado di vincere la tragedia, soffrendo, ma affrontando tutto con gran tenerezza e sempre piena di attenzioni. L’AIDS suggellò un amore più forte, definitivo, perché capace di sfidare tutto; la paura, la tentazione dello sconforto, lo smarrimento di fronte al futuro. Capace di continuare nonostante tutto con i baci, le carezze, la sensualità.


Ho dichiarato pubblicamente la mia condizione di sieropositivo e tu mi hai accompagnato. Non hai mai aggiunto un “però” oppure un commento sulle precauzioni necessarie. Mi hai dato la mano e hai proseguito insieme a me come se fossi l’altra metà di me, inseparabile. E così è stato. Dai tempi della rabbia, della non-speranza, della scomparsa di Henfil e di Chico, passando crisi che hanno sfiorato la morte, fino al cocktail di farmaci che alimentò le speranze. Un periodo troppo breve per essere descritto e un’eternità per essere vissuta.


Uno dei problemi più gravi dell’AIDS è il sesso.

Avere rapporti con tutte le precauzioni o non averli per niente?

Le misure sono sufficienti o non si deve far correre mai nessun rischio alla donna amata?

Abbiamo attraversato tutte le fasi, dal sesso con uno o due preservativi fino a nessun tipo di rapporti sessuali, solo carezze. Ho preferito la sicurezza totale al benché minimo rischio. Ho smesso, abbiamo smesso, senza tragedie, carenti ma senza alcun dramma, come se fosse normale vivere contraddicendo tutto quello che avevamo imparato come uomo e come donna, vivendo solo la sensualità della musica, della buona cucina, della letteratura, dell’invenzione, dei piccoli piaceri e della pace.

Vivere è molto più che fare sesso. Ma nel mio caso per essere in grado di vivere così, era necessario che anche Maria lo pensasse e che fosse all’altezza di questa metamorfosi. E lei lo è stata.


Per parlare di una persona nella più totale libertà bisogna che questa sia morta e io so che presto sarà questo il mio caso. Andrò al mio funerale senza grandi sofferenze e soprattutto senza alcuno sforzo, trasportato dagli altri. Non sono curioso di sapere quando sarà, ma so che non tarderà molto. Voglio morire in pace, sul mio letto, senza dolore, con Maria accanto e senza tanti amici, perché la morte non è un’occasione per piangere, ma per celebrare una fine, una storia.


Mi dispiace per quelli che muoiono da soli o in cattiva compagnia, è un morire diverse volte in una sola. Morire senza l’altro è come partire da soli. Lo sguardo del compagno è ciò che ti permette di vivere e poi di riposare in pace. L’ideale sarebbe che potessi morire nel mio letto, senza alcun dolore, bevendo un sakè freddo, un buon vino portoghese o una birra gelata.


Ti amerò per sempre,


Betinho

Itatiaia, Gennaio 1997


* Ibase: Istituto di Studi Sociali da lui fondato a Rio per cercare soluzioni nuove ai vecchi problemi sociali e economici del Brasile.




L’ORIGINALE IN PORTOGHESE

Uma Carta Para Maria


Carta escrita por Herbert de Souza para sua mulher Maria e divulgada  um ano após
sua morte durante a cerimônia no Centro Cultural Banco do Brasil, no Rio de Janeiro.


Este texto é para Maria ler depois da minha morte que, segundo meus
cálculos, não deve demorar muito. É uma declaração de amor.
Não tenho pressa em morrer, assim como não tenho pressa em terminar esta
carta. Vou voltar a ela quantas vezes puder e trabalhar com carinho e
cuidado cada palavra. Uma carta para Maria tem que ter todos os cuidados.
Não quero triste, quero fazer dela também um pedaço de vida pela via de
lembrança que é a nossa eternidade.

Nos conhecemos nas reuniões de AP (Ação Popular), em 1970, em pleno Maoísmo.
Havia uma clima de sectarismo e medo nada propício para o amor.
Antes de me aventurar andei fazendo umas sondagens e os sinais eram
animadores, apesar de misteriosos. Mas tínhamos que começar o namoro de
alguma forma. Foi no ônibus da Vila das Belezas, em São Paulo. Saímos em
direção ao fim da linha como quem busca um começo. E aí veio o primeiro
beijo, sem jeito, espremido, mas gostoso, um beijo público. A barreira da
distância estava rompida para dar começo a uma relação que já completou 26
anos!

O Maoísmo estava na China, nosso amor na São João. Era muito mais forte que
qualquer ideologia.

Era a vida em nós, tão sacrificada na clandestinidade sem sentido e sem
futuro. Fomos viver em um quarto e cozinha, minúsculos, nos fundos de uma
casa pobre, perto da Igreja da Penha. No lugar cabia nossa cama, uma
mesinha, coisas de cozinha e nada mais. Mas como fizemos amor naquele tempo!
Foi incrível e seguramente nunca tivemos tanto prazer.

Tempos de chumbo, de medo, de susto e insegurança. Medo de dia, amor de
noite. Assim vivemos por quase um ano. Até que tudo começou a "cair".
Prisões, torturas, polícia por toda a parte, o inferno na nossa frente.
Fomos para o Chile. E ali, chamado por Garcez para elaborar textos, acabei
no agrado de Allende, que os usou em seus discursos oficiais. Foi a primeira
vez que eu vi amor virar discurso politico...

Depois passamos por muita coisa até voltar. Até que a anistia chegou e nos
surpreendeu. E agora, o que fazer com o Brasil? Foi um turbilhão de emoções:
o sonho virou realidade! Era verdade, o Brasil era nosso de novo.

A primeira coisa foi comer tudo que não havíamos comido no exílio: angu! com
galinha ao molho pardo, quiabo com carne moída, chuchu com maxixe, abóbora,
cozido, feijoada. Um festival de saudades culinárias, um reencontro com o
Brasil pela boca.

Uma das maiores emoções da minha vida foi ver o Henrique surgindo de dentro
de você. Emoção sem fim e sem limite que me fez reencontrar a infância.
Depois do exílio, nossas vidas pareciam bem normais. Trabalhávamos;
viajávamos nas férias, visitávamos os amigos, o Ibase funcionava, até a
hemofilia parecia que havia dado uma trégua. Henrique crescia, Daniel aos
poucos se reaproximava de mim, já como filho e amigo.

Mas como uma tragédia que vem às cegas e entra pelas nossas vidas, estávamos
diante do que nunca esperei. A Aids. Em 1985, surge a notícia da epidemia
que atingia homossexuais, drogados e hemofílicos. O pânico foi geral. Eu, é
claro, havia entrado nessa. Não bastava ter nascido mineiro, católico,
hemofílico, maoísta e meio deficiente físico.

Era necessário entrar na onda mundial, na praga do século, mortal,
definitiva, sem cura, sem futuro e fatal. E foi aí que você, mais do que
nunca, revelou que é capaz de superar a tragédia, sofrendo, mas enfrentando
tudo e com um grande carinho e cuidado. A Aids selou um amor mais forte e
mais definitivo porque desafia tudo, o medo, a tentação do desespero, o
desânimo diante do futuro. Continuar tudo apesar de tudo, o beijo, o carinho
e a sensualidade.

Assumi publicamente minha condição de soropositivo e você me acompanhou.
Nunca pôs um "senão" ou um comentário sobre cuidados necessários. Deu a mão
e seguiu junto como se fosse metade de mim, inseparável. E foi.
Desde os tempos do cólera, da não esperança, da morte do Henfil e Chico,
passando pelas crises que beiravam a morte até o coquetel que reabria as
esperanças. Tempo curto para descrever, mas uma eternidade para se viver.
Um dos maiores problemas da Aids é o sexo. Ter relações com todos os
cuidados ou não ter? Todos os cuidados são suficientes ou não se deve correr
riscos com a pessoa amada? Passamos por todas as fases, desde o sexo com uma
ou duas camisinhas até sexo nenhum, só carinho. Preferi a segurança total ao
mínimo risco. Parei, paramos e sem dramas, com carências, mas sem dramas,
como se fosse normal viver contrariando tudo que aprendemos como homem e
mulher, vivendo a sensualidade da música, da boa comida, da literatura, da
invenção, dos pequenos prazeres e da paz.

Viver é muito mais que fazer sexo. Mas para se viver isso, é necessário que
Maria também sinta assim e seja capaz dessa metamorfose como foi.
Para se falar de uma pessoa com total liberdade é necessário que uma esteja
morta e eu sei que este será o meu caso. Irei ao meu enterro sem grandes
penas e principalmente sem trabalho, carregado. Não tenho curiosidade para
saber quando, mas sei que não demora muito. Quero morrer em paz, na cama,
sem dor, com Maria do meu lado e sem muitos amigos, porque a morte não é
ocasião para se chorar, mas para celebrar um fim, uma história.

Tenho muita pena das pessoas que morrem sozinhas ou mal acompanhadas, é
morrer muitas vezes em uma só. Morrer sem o outro é partir sozinho. O olhar
do outro é que te faz viver e descansar em paz.
O ideal é que pudesse morrer na minha cama e sem dor, tomando um saquê
gelado, um bom vinho português ou uma cerveja gelada.

Te amo para sempre,
Betinho,

Itatiaia, janeiro de 1997


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